TUTTO ERA SCRITTO!

Profezie sul Cristo

1.«Abramo, in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12:1-3)

2.«Giacobbe morente dice: Lo scettro non sarà rimosso da Giuda, né sarà allontanato il bastone del comando dai suoi piedi, finché venga colui al quale esso appartiene e a cui ubbidiranno i popoli.» (Genesi 49:10)

3.«Ecco, verranno giorni – dice il Signore -nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora; questo sarà il nome con cui lo chiameranno: Signore-nostra-giustizia.» (Geremia 23,5-6)

4.«Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele e alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia; egli eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla. Così sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.» (Geremia 33,14-16)

La famiglia di Re Davide apparteneva alla tribù di Giuda. Gesù discende dal Re Davide.

«E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: / La pietra che i costruttori hanno scartata / è diventata testata d’angolo; (cfr. Salmo 118:22) / dal Signore è stato fatto questo / ed è mirabile agli occhi nostri? /Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare. Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà».» (Mt 21,42-44)

Profezie sul Messia Luce e salvezza per tutte le nazioni. Da qui deriva l’idea di cattolicesimo, che significa universalità delle nazioni, chiamate alla salvezza.

1. «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia / e ti ho preso per mano; / ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo/ e luce delle nazioni» (Isaia 42,6)

2.«Restaurerò le tribù di Giacobbe / e ricondurrò i superstiti di Israele. / Ma io ti renderò luce delle nazioni / perché porti la mia salvezza / fino all’estremità della terra»./ Dice il Signore, il redentore di Israele, il suo Santo, / a colui la cui vita è disprezzata, al reietto delle nazioni, /al servo dei potenti:/ «I re vedranno e si alzeranno in piedi, /i principi vedranno e si prostreranno, /a causa del Signore che è fedele, /a causa del Santo di Israele che ti ha scelto»./ Dice il Signore: /«Al tempo della misericordia ti ho ascoltato, /nel giorno della salvezza ti ho aiutato./Ti ho formato e posto /come alleanza per il popolo, /per far risorgere il paese,/ per farti rioccupare l’eredità devastata» (Isaia 49,6-8)

3.«Oracolo del Signore Dio/ che raduna i dispersi di Israele: / «Io ancora radunerò i suoi prigionieri, /oltre quelli già radunati».» (Isaia 56,8)

4.«[ Simeone dice] Luce da illuminar le genti e gloria del tuo popolo Israele» (Luca 2,32)

Profezia della nascita di Gesù dalla Vergine Maria (Isaia 7:14)

«Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele.» Is 7,14-17

«Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele.»  Matteo 1:23

Profezia della Fuga dall’Egitto

1.«Quando Israele era giovinetto,/ io l’ho amato / e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. /”Ma più li chiamavo, / più si allontanavano da me; / immolavano vittime ai Baal, /”agli idoli bruciavano incensi» Osea 11,1-2

2.«Donne di Giudea che piangono i loro figli uccisi durante la deportazione di Babilonia. Così dice il Signore: «Una voce si ode da Rama,/ lamento e pianto amaro: / Rachele piange i suoi figli, / rifiuta d’essere consolata perché non sono più». / Dice il Signore: / «Trattieni la voce dal pianto, / i tuoi occhi dal versare lacrime, / perché c’è un compenso per le tue pene; / essi torneranno dal paese nemico. / C’è una speranza per la tua discendenza: / i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini.» Geremia 31,15-17

Realizzazione della Profezia:

1«Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo. La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici.» Mt 1,15-18

2.«Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo». Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, 15 dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio.» Mt 2,14-15

Profezia sulla nascita di Gesù a Betlemme:

1.«E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti.» Michea 5, 1-4

2.«Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode.» Matteo 2:1

Profezia sulla funzione del Messia:

«Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri.»

Realizzazione della Profezia

1.«Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore». Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi.» Luca 4:17-21

2.«Farò un nuovo patto con la casa d’Israele e con la casa di Giuda… metterò la mia legge nell’intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo.» Geremia 31:31-34

3.«E questa è l’alleanza che io stipulerò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.» Ebrei 8:10

Ingresso di Gesù a Gerusalemme

Profezia

1.«Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina.» Zaccaria 9:9:

2.«O Signore, nostro Dio, / quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: / sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. / Con la bocca dei bimbi e dei lattanti / affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, / per ridurre al silenzio nemici e ribelli.» (Salmo 28, 2-3)

Realizzazione

1.«Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: “Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina.» Giovanni 12:12-15 cfr Zaccaria 9:9

2.«I sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: «Osanna al figlio di Davide», si sdegnarono e gli dissero: «Non senti quello che dicono?»./ Gesù rispose loro: «Sì, non avete mai letto: /Dalla bocca dei bambini e dei lattanti / ti sei procurata una lode?». / E, lasciatili, uscì fuori dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte.» (Mt 21, 15-17) cfr. Zaccaria 9 e Salmo 28

Profezie sulle sofferenze del Cristo

1.«Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… per le sue piaghe noi siamo stati guariti.» Isaia 53:4-5

2.«Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: «Si è affidato al Signore, lui lo scampi; lo liberi, se è suo amico».» Salmo 22:8-9

3.«Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa. Essi stanno a guardare e mi osservano: si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte.» Salmo 22:17-19

4.«Una folla di malfattori m’ha attorniato; m’hanno forato le mani e i piedi.» Salmo 22:16

5.«Egli preserva tutte le sue ossa; non se ne spezza neanche uno.» Salmo 34:20

6.«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Salmo 22:1

Realizzazione

1.«Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce…dalle sue piaghe siete stati guariti.» 1 Pietro 2:24-25

2«E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!». Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: sono Figlio di Dio!».» Matteo 27:39-43

3. «I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte. E i soldati fecero proprio così.» Giovanni 19:23-24

4.«Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso.» Matteo 27:26

5.«Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».» Matteo 27:46

6«Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso.» Giovanni 19:36

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CHI E’ IL MESSIA?

מָשִׁיחַMašíakh: Messia

Il Messia è una figura che salverà l’Umanità e il Mondo, alla fine dei tempi.

Il concetto esiste nelle religioni monoteistiche: ebraismo, cristianesimo e islam, ma anche in altre.

Per l’ebraismo il Messia deve ancora arrivare e governerà e unirà il popolo di Israele, conducendolo verso l’era di pace globale e universale.

Non è previsto che abbia natura divina, ma unicamente umana, per via del monoteismo stretto degli ebrei.

Nel cristianesimo la figura del Messia coincide con quella di Gesù Cristo, dove la parola Cristo è una parola greca che significa Messia, ossia traduce l’ebraico מָשִׁיחַmašíakh: Messia; quindi, di fatto, per i cristiani il Messia è già comparso e se ne aspetta la seconda venuta. La sua natura è divina, in quanto Gesù è Figlio di Dio e umana, in quanto Maria, sua madre è una persona umana.

Per diverse correnti dell’islam il Messia (Mahdi) deve ancora arrivare.

Sciismo e sunnismo concordano sul fatto che debba ancora arrivare, ma non con il suo stato di divinità.

Quindi Islam ed Ebraismo seguono un monoteismo stretto, mentre il cristianesimo vede in Gesù, Vero Dio e Vero Uomo, il Messia voluto dal Padre.

Per il Cristianesimo si parla di Trinità, quando si parla delle Tre persone Divine: il Padre Creatore Dio (JHWH per gli ebrei, Allah per i musulmani, per i cristiani Padre); Gesù Figlio di Dio, della stessa natura divina del Padre e dello Spirito Santo; lo Spirito Santo, in ebraico Rua’h, ossia soffio vitale, forza di Dio.

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Gli Ebrei Italiani

La comunità degli Ebrei è la più antica d’Europa, fin dalla metà del II secolo a.C.

La maggioranza degli ebrei italiani non appartiene ai due gruppi rituali maggiori, presenti nell’ebraismo: quello sefardita-spagnolo e quello askenazita-tedesco, ma sono di rito italiano che è uno dei riti ebraici più antichi.

Il rito italiano attuale può essere suddiviso inoltre in due sottocategorie: il rito italiano degli ebrei del centro e del nord Italia, più vicino al rito romano originario e simile al rito askenazita-tedesco, e, invece, il rito romano degli attuali ebrei romani, più simile al rito sefardita a causa delle influenze conseguenti all’immigrazione a Roma degli ebrei sefarditi dopo la cacciata dalla Spagna (1492).

Ci furono i primi contrasti militari tra Roma e la Giudea sotto Pompeo, che dà inizio a una vera e propria occupazione del territorio.

Tito annientò la resistenza giudaica (66-135 d.C), con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme (70 d.C), raffigurata sull’Arco di Trionfo al Palatino.

I romani deportarono migliaia di prigionieri come schiavi, insieme a un bottino enorme.

La demolizione del Tempio determinò l’inizio della diaspora e il secondo esilio dopo quello babilonese.

Dal 325 d.C, i matrimoni misti furono proibiti e agli ebrei venne negata la possibilità di avere schiavi cristiani e pagani. Si aggiunse l’interdizione alle funzioni pubbliche e all’Esercito, mentre si diffondeva l’idea che gli ebrei appartenessero ad una “setta” nefanda.

In Oriente e in Occidente vennero distrutte o confiscate sinagoghe.

La posizione ufficiale della Chiesa segue la visione di Sant’Agostino, per il quale la Sinagoga deve essere subordinata alla Chiesa, ma non distrutta, in quanto testimone della fede dalla quale ha preso origine il Cristianesimo – situazione destinata a cessare alla fine dei tempi, con la riunificazione alla Chiesa e la redenzione degli ebrei. Da quel momento in poi, la permanenza degli ebrei a Roma fu possibile solo grazie a una continua negoziazione della loro posizione in seno a una società, in generale molto violenta, trovando occasionalmente interlocutori disponibili anche fra le autorità ecclesiastiche.

Durante il Medioevo, la presenza ebraica a Roma si concentrò anche sulla riva opposta del Tevere, davanti all’Isola Tiberina: il Ponte degli Ebrei.

Il 14 luglio del 1555, Paolo IV emana la bolla “Cum Nimis Absurdum” – uno sconvolgimento, che cambia il destino degli ebrei. Costretti a svendere i loro beni e rinchiusi. A Roma, in una sola strada. Luoghi angusti, malsani, nei quali poteva esserci una sola sinagoga. Proibita l’assunzione di nutrici o domestici cristiani, persino la conversazione con i cristiani.

E anche ogni commercio, a eccezione di quello degli stracci: solo nel tempo riuscirono a ottenere concessioni in ambito economico e finanziario.

Appena fuori dai cancelli del Ghetto vi sono chiese in ogni direzione e, dopo qualche anno, entrò in uso la pratica delle prediche coatte, alle quali gli ebrei dovevano assistere ogni sabato per prendere coscienza dei propri errori e convertirsi.

Dall’istituzione del Ghetto derivò inoltre una speculazione immobiliare da parte di istituti religiosi e famiglie nobili, in seguito mitigata dall’introduzione dello jus gazagà (una sorta di equo canone). Il Ghetto durerà fino al 1870.

L’elezione di Pio IX nel 1846 coincide con la grande ondata liberale che stava attraversando tutta l’Europa. Il Papa nominò una commissione che esaminava i reclami degli ebrei e permetteva loro di vivere anche in altri quartieri della città.

Pio IX deliberò l’abbattimento delle porte del Ghetto il 16 aprile 1848. Gli ebrei potevano avere degli esercizi commerciali, circolare anche di notte e persino entrare nella Guardia civica. Nel 1849, nel breve arco della Repubblica Romana che aboliva la segregazione e apriva alla libertà di culto, alcuni dei loro esponenti parteciparono al Governo civico.

Quasi tutti i progressi si dissolsero nel 1850, con la caduta della Repubblica e il ritorno dall’esilio di Pio IX, che ne annulla molti atti e ripristina la pena di morte e l’isolamento degli ebrei, pur mantenendo aperto giorno e notte un Ghetto ormai senza portoni.

Nonostante precarietà e miseria, la popolazione degli ebrei romani sale a circa 5.000 persone.

Le condizioni del Ghetto apparivano però sempre più inaccettabili, tanto da generare un dibattito nazionale. Per Pio IX, riconoscere i diritti civili agli ebrei significava accreditarsi come Pontefice riformatore e progressista, davanti a un’opinione pubblica europea che, con la rivoluzione borghese, aveva fatto degli enormi passi avanti. Dalla prospettiva dei Padri risorgimentali invece, nel periodo che corre tra la Rivoluzione francese e il liberalismo italiano, la soluzione della questione israelitica non era soltanto uno degli obiettivi programmatici, ma anche uno degli elementi di verifica della portata del progresso civile del Paese che stava nascendo.

La partecipazione degli ebrei sia al Risorgimento, sia alla Grande Guerra del secolo entrante fu considerevole. Con Giuseppe Mazzini ci fu un vero e proprio scambio di valori, ma anche con Massimo d’Azeglio.

Il 20 settembre 1870 segnava finalmente l’unione di Roma al Regno d’Italia, del quale diventava Capitale, portandosi dietro la completa equiparazione degli ebrei agli altri cittadini: un momento e un ricordo di esultanza per i Benè Romì, che in questa data celebrarono la liberazione dai muri fisici e non. Il Generale Cadorna venne accolto con gioia da gran parte dei romani.

L’ottobre 1870, una deputazione di cittadini romani presentava al Re Vittorio Emanuele II i risultati del plebiscito che univa Roma e il Lazio al Regno d’Italia. Tra i membri c’è Samuel Alatri. Due giorni dopo, il decreto di completa equiparazione degli ebrei romani agli altri cittadini venne pubblicato e, a novembre, Alatri e Settimio Piperno entrarono in Campidoglio come consiglieri comunali. A soli due mesi dalla Breccia, nove ebrei vennero eletti al Parlamento dell’Italia Unita e, nel 1874, i deputati furono undici. Consapevoli delle passate sofferenze ma anche fieri di averle superate, per l’ultima volta gli ebrei di Roma si dichiararono tali: d’ora in poi, avrebbero ricordato questa distinzione solo nei Templi – perché i “figli di Roma”, prima di tutto, si sentivano italiani e romani. L’uguaglianza li portò anche nel Corpo della Guardia nazionale, dove raggiunsero degli alti gradi.

Qualche decennio più tardi, la partecipazione ebraica anche alla Prima guerra mondiale fu considerevole: nel momento in cui la Patria aveva bisogno di essere difesa, gli ebrei risposero in massa, riportando un numero notevole di onorificenze.

Purtroppo, il pregiudizio antiebraico non muore con il Risorgimento ma si trasforma in antisemitismo. Nel 1938, sarà Vittorio Emanuele III, il Re che aveva inaugurato il Tempio Maggiore nel 1904, a siglare le infami Leggi razziali.

Nel Trattato del Laterano dell’11 febbraio 1929, il Concordato fra Stato italiano e Santa Sede, fu stabilita la disuguaglianza dei culti, e la religione cattolica fu definita “Religione dello Stato”. Successivamente, in base ai poteri conferiti al Re dal Concordato del 1929, fu emanato il Regio decreto del 30 ottobre 1930 ed il Regolamento del 19 novembre 1931, che prevedeva la prima regolamentazione delle Comunità ebraiche sul piano nazionale.

Nel periodo tra l’ottobre del 1943 ed il giugno del 1944, l’invasione nazista e le deportazioni segnarono profondamente la collettività ebraica (durante la retata del 16 ottobre 1943, furono deportati 1022 ebrei, dei quali sopravvissero 15 uomini ed 1 donna; su 40.000 ebrei italiani ne furono deportati più di 7.000, circa il 20% e ne ritornarono circa 800).

Con la proclamazione della Repubblica ebbe inizio il processo di normalizzazione e di riconfigurazione della Comunità che lentamente assunse l’assetto attuale.

Nel 1982 la Comunità di Roma fu segnata da un attentato terroristico palestinese effettuato all’uscita del Tempio, in cui morì un bambino e furono ferite circa 40 persone.

Il 27 febbraio 1987 venne stipulata l’intesa tra lo Stato italiano e l’Unione delle Comunità israelitiche italiane, che nell’occasione mutò il nome in “Unione delle Comunità ebraiche Italiane”, mentre la Comunità Israelitica di Roma assunse la denominazione di “Comunità Ebraica di Roma”.

Nel 1986 Papa Giovanni Paolo II fu il primo a visitare la Sinagoga maggiore, nel 2010 Papa Benedetto XVI fu il secondo, nel 2016 Papa Francesco I fu il terzo.

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L’inverno più lungo

Andrea Riccardi, professore di storia contemporanea, forse più noto per la sua attività nella Comunità di Sant’Egidio, a Roma, di cui è il fondatore, cattolico e soprattutto un bravo scrittore e giornalista, anni fa scrisse un capolavoro sul tema della seconda guerra mondiale, in particolare sulle vicende relative ai nove mesi dopo la caduta del Fascismo, dall’8 settembre 1943 al 5 giugno 1944.

Il testo al quale mi riferisco è L’inverno più lungo,1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza, 2008, uno dei più bei libri letti sul tema e dedicato a ricostruire le vicende della gente di Roma, con l’arrivo dei Nazisti.

Questo libro è una storia di persone concrete, di salvatori e di salvati. Gli ebrei salvati a Roma furono più di diecimila, la maggior parte dei quali salvati dai cristiani, da donne e uomini di buona volontà, da frati e suore.

Molto si è detto (e male!), sulla Chiesa. Ma la gente di Chiesa, quella vera, quella santa, c’è stata ed ha agito.

In silenzio. Perchè non si poteva dire. Non bisognava dire! La carità si fa in silenzio.

Di fronte a questa situazione di partenza, Riccardi vuole dimostrare che a Roma tutta la gente aiutava: la gente comune e il vertice vaticano, con il Papa e i suoi servi e serve di Dio.

Riccardi non vuole però concentrarsi troppo sulla figura di papa Pacelli, bensì dimostrare che «il mondo religioso di Roma, con i suoi limiti e con la mentalità di quel tempo, fu una riserva di umanità in un tempo tanto buio» (p. XII).

La ricostruzione dei fatti mette al centro delle memorie i protagonisti.

Riccardi mette in evidenza un intero mondo legato all’assistenza cattolica (accanto all’aiuto prestato da parte delle organizzazioni di assistenza ebraiche ed ai singoli individui, nei quartieri e nelle case private ); era un’ospitalità cattolico-religiosa che si esprimeva spontaneamente (anche il 16 ottobre) e prevalentemente al femminile: i conventi di Suore.

L’azione ospitale nei confronti dei perseguitati esponeva molto di più al rischio i parroci o le suore rispetto a chi aiutava persone di rilievo ad entrare e nascondersi dentro i complessi extraterritoriali del Laterano (Seminario Romano) o del Vaticano, i quali si rivelarono luoghi protetti, anche perché i nazisti non toccarono l’extraterritorialità vaticana, pur sapendo della resistenza in convento.

Il salvataggio a Roma non fu però un’eccezione: troviamo quasi lo stesso tasso dei salvati per l’intera Italia.

C’erano italiani che aiutarono e salvarono gli ebrei, come c’erano anche italiani che li consegnarono ai nazisti.

Ma questa è un’altra storia…

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25 LUGLIO 1943-25 LUGLIO 2023

Sono passati esattamente ottant’anni da quel fatidico giorno d’estate in cui, il Gran Consiglio del Fascismo rimuoveva il Suo Padre Fondatore, Benito Mussolini.

Dopo il ventennio fascista, Dino Grandi, gerarca fascista in connivenza con il Re Vittorio Emanuele III, dichiarò decaduto Mussolini.

Ma l’inizio della fine era già avvenuto, quando Mussolini si era alleato con Hitler e aveva pensato che la onnipotenza dell’alleato potesse riflettersi, in qualche modo, anche sulla nostra Italia.

Finché gli italiani avevano avuto un Re, un Papa e un Duce, poteva andare bene.

In fondo all’Italia dei Comuni, così tanto diversa da regione a regione, andava bene, dopo l’Unità del 1861, avere una parvenza di uniformità.

Andava anche bene avere un piccolo spazio di deserto in Africa, come i grandi europei avevano già fatto precedentemente…andava bene poter avere mille lire al mese e una certa fama di Paese del Sole…ma da qui ad allearsi con un barbaro, questo non era certo desiderato né voluto!

Noi italiani siamo sempre stati divisi. La Storia parla chiaro.

Il Paese della Bellezza, della Cultura, della Musica, dell’Arte, ma non della Politica.

Facile approfittarsi di gente che non aveva nemmeno la licenza elementare o che, per un lavoro, avrebbe votato eternamente per il Fascio!

Però in fondo noi italiani non siamo così stupidi, se si tratta di metterci in braccio a gente che ci disprezza.

Così erano Hitler e tutti i suoi compatrioti.

E poi quando mai si sarebbe pensato che sarebbero scesi dal nord della loro fredda terra, verso il Paese del Sole?

E invece non fu così. L’inizio della fine era stato il 1938, con le Leggi Razziali, con quelle infami Leggi che discriminavano gente che era italiana come altri. Ma c’era il Papa: il Papa non avrebbe mai permesso che si facesse del male agli Ebrei.

In fondo erano in Italia già prima dei cristiani stessi. Schiavi, affamati, maltrattati, vilipesi, ritenuti nulla, ma sempre più uniti degli Italiani stessi, che per secoli si arroccavano nelle loro case e facevano i partitari.

Così quel 25 luglio del 1943 risultò essere molto caldo. Non solo per il solleone e la canicola delle 14,30 di quel giorno, in cui, appunto, Grandi depose l’Ultimo Duce.

Ma già da tempo il Duce si era deposto da solo: malato, depresso, vinto.

Da quel 1943 iniziò per gli Italiani la risalita.

In tutto: la ribellione ai Barbari, ai vili alleati che ci chiamavano “bastardi italiani” e poi la nascita della propria coscienza di donne e uomini, che non volevano più delegare la propria vita alla decisione altrui.

La democrazia non fu una parola: fu una rivoluzione. Ora speriamo non sia solo una parola da dizionario.

Ottant’anni. L’età di un nonno e di una nonna.

Noi, forse più giovani abbiamo solo sentito parlare della Guerra, del Duce, dei Tedeschi, degli Ebrei.

O forse ancora viviamo in quel ricordo…

Ma il miglior modo per ricordare quel 25 aprile 1943 sarebbe essere più attenti a non cedere mai la nostra personale scelta di libertà, pagata cara da gente innocente.

C’è sempre un modo per rinascere dalle proprie ceneri: lottare contro ogni forma di oppressione.

Il Re non fece onore all’Italia, nemmeno le lotte intestine fecero onore all’Italia.

Non insegniamo ai ragazzi a disconoscere i valori, ma a viverli anche nel ricordo.

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ANNA ACHMATOVA

“Ho scritto parole che per tanto tempo

non ho osato pronunciare”

Anna Achmatova nacque nel giugno 1889 vicino a Odessa, in Ucraina, da genitori russi.

Si chiamava in realtà Anna Andreevna Gorenko. A un anno fu portata a Carsoe Selo. A cinque anni parlava perfettamente il francese, a undici scrisse la sua prima poesia. Il padre, ingegnere navale, quando iniziò a pubblicare le prime poesie, le suggerì di scegliersi uno pseudonimo. Lei lo prese da una sua bisnonna: Achmatova.


Era una bella donna alta, magra, con lunghe gambe, lunghe braccia sottili, un viso illuminato da occhi sensibili e acuti, un naso aquilino che affascinò i suoi ritrattisti, da Modigliani ad Al’tam, era l’immagine della femminilità, affascinante, dominante, misteriosa…

Si faceva chiamare “Poeta”, al maschile, perché non amava essere chiamata poetessa: le sembrava che limitasse il campo dei sensi e di sapere che la ispiravano.


Nel 1905 i genitori divorziano e lei segue la madre a Evpatorija dove termina il liceo, e poi a Kiev dove si iscrive alla facoltà di giurisprudenza.

Cinque anni dopo, cioè nel 1910 decide di sposare Nikolaj Stepanovic Gumilëv, affermato poeta.

Vanno in viaggio di nozze a Parigi.

Tra gli altri personaggi di spicco, conosce Amedeo Modigliani. Probabilmente molte delle silhouette che il pittore dipinse presero spunto da lei.
Dopo la luna di miele gli sposi si stabiliscono a S.Pietroburgo, dove frequenta dei corsi storico letterari.

Lo stesso anno torna a Parigi e la sua amicizia con Modigliani si consolida: passano lunghe ore sulle panchine del Lussemburgo, a leggere e a recitare a due voci i poeti francesi.
Nel 1911 Gumilëv fonda la Corporazione dei poeti da cui ebbe origine il movimento acmeista, dal greco akmé, che significa vertice. Il movimento si propone di reagire all’oscurità e all’evanescenza del simbolismo imperante, favorendo un’arte chiara e intensa che raggiunge, appunto, l’acme dell’espressione poetica.

Al nuovo movimento aderiscono subito l’Achmatova e l’amico Osip Mandel’stam. L’anno dopo Anna Andreevna pubblica il suo primo libro di poesie: La sera.

Anna è nella attesa di un figlio quando compie col marito un viaggio in Italia: Genova, Padova, Venezia, Bologna, Pisa, Firenze.

Gumilëv visita da solo Roma e Napoli perché la moglie non si stancasse troppo.

Il figlio, Lev Nikolaievic, nasce il 1° ottobre 1912. 

Due anni dopo l’Achmatova dà alle stampe il suo secondo libro: Rosario.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il marito Nikolaj Stepanovic parte per il fronte e Anna si ammala di tubercolosi. 


Alla guerra si aggiunge la rivoluzione, vivere diventa sempre più difficile.

Anna vive quel tempo tra Carskoe Selo, S.Pietrogrado, Slepnevo scrivendo dolorose poesie d’amore che sono il controcanto ai tragici avvenimenti di quegli anni: nel 1917 pubblica Lo stormo bianco.

Intanto Gumilëv combatte, è decorato due volte per atti di valore, invia ai giornali corrispondenze di guerra.

Tornato in patria si butterà a capofitto nella lotta contro rivoluzionaria proclamandosi cristiano e monarchico.
Il rapporto tra i due coniugi ormai irrimediabilmente compromesso culmina nel divorzio ratificato nel 1918.

Il figlio Lev è affidato alla nonna materna a Slepnevo: Anna lascia definitivamente la casa di Carsoe Selo e si trasferisce a Mosca col famoso orientalista Silejko, che diventerà il suo secondo marito.


Nel 1921 Gumilëv accusato di aver sobillato, con un complotto, la rivolta dei marinai a Kronstad è condannato a morte e fucilato per ordine di Lenin.
Nello stesso anno Anna Achmatova pubblica Piantaggine.
Dalla seconda metà degli anni Venti fino al 1940 il Partito cerca di murarla viva nella sua casa di Leningrado, un minuscolo appartamento. Non ha il coraggio di imprigionarla e di deportarla, ma la tiene d’occhio continuamente, creandole il vuoto intorno e sottoponendola a continui ricatti, colpendola negli affetti più cari.

Imprigionano, il suo secondo marito, che morirà in un campo di concentramento. Per vivere deve impiegarsi come bibliotecaria presso l’istituto di Agronomia, cosa che le da diritto ad un po’ di legna da bruciare.
Anna Achmatova passa molti mesi a correre da un carcere all’altro, in fila con molte altre madri e spose che attendono pazientemente di poter consegnare un pacco di viveri o di indumenti ai propri congiunti incarcerati.

Logorata dall’ansia per la sorte del figlio, condannato a morte, Lev vedrà commutata la pena nell’esilio, e lei scriverà Requiem, che non verrà pubblicato, troppo evidenti sono i riferimenti al terrore staliniano: è il più grande atto di accusa di un popolo contro la tirannia. Il poeta dei dolci amori sfortunati era diventato il poeta di una grande tragedia nazionale.


Ci fu un momento in cui l’Achmatova scrisse parole disperate:
Bisogna uccidere fino in fondo la memoria
bisogna che l’anima si purifichi
bisogna di nuovo imparare a vivere.

Ma il Poema senza eroe che cominciò a scrivere nel 1940 è proprio la dimostrazione che il poeta non aveva ucciso la memoria, che la sua anima non si era impietrita in conseguenza delle tragiche violenze vissute.


Continuò a salire il suo calvario. Condannata dal Comitato Centrale del Partito come poeta decadente, ignorata dalle riviste e dalle case editrici, colpita negli affetti più cari, Anna era “civilmente” morta.

Fu riportata in vita allo scoppio della seconda guerra mondiale, quando Stalin decise, per rafforzare il regime, di ricorrere a tutti i valori nazionali e patriottici: tra questi vi era ancora l’Achmatova: i suoi versi non erano stati dimenticati, le sue poesie passavano da una mano all’altra in copie manoscritte. 

Le fu chiesto di dare il suo contributo alla grande guerra patriottica e lei scrisse versi dignitosi ed eleganti; parlò da radio Leningrado, mentre la città era stretta d’assedio durante quei tragici 999 giorni, e lanciò un messaggio alle donne.


Nel 1941 il regime la mise in salvo, così come metteva in salvo i capolavori dell’Ermitage e i libri rari delle biblioteche.

Fu portata in aereo a Mosca e poi a Taskent: nessuno le aveva comunicato che il figlio si era offerto volontario ed era stato mandato al fronte.
Nel 1944 Anna Achmatova torna a Mosca, ma durante il breve soggiorno è invitata a prender parte a una serata di poesia, riportando un enorme successo personale che risulterà sgradito al dittatore.

Si incontrerà con un diplomatico Ishaia Berlin, addetto culturale all’ambasciata inglese. Cadde di nuovo in disgrazia, pensata come traditrice.

Il povero Lev venne di nuovo imprigionato, le riviste su cui Anna aveva potuto pubblicare qualche poesia furono soppresse.


I primi cenni del disgelo cominciarono a verificarsi soltanto negli anni Cinquanta: Anna venne riabilitata, poesie sue cominciarono a comparire su alcune riviste.

Nel ‘56, tre anni dopo la morte di Stalin, Lev Nikolaevic venne finalmente scarcerato

Più tardi Anna ebbe il permesso di tornare in Italia: Roma, Taormina, Catania; qui ebbe il premio Etna-Taormina.

Si recò anche in Inghilterra a ricevere la laurea honoris causa all’Università di Oxford.

Furono anni tranquilli. Nel ‘66 fu ricoverata nell’ospedale Botkin di Mosca.

Si spense a Domodedovo, presso Mosca, il 5 marzo 1966.

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MARINA CVETAEVA

Marina Ivanovna Cvetaeva nacque a Mosca l’8 ottobre 1892, da Ivan Vladimirovic Cvetaev (1847-1913, filologo e storico dell’arte, creatore e direttore del Museo Pushkin) e della sua seconda moglie, Marija Mejn, pianista di talento, polacca.

A soli sei anni cominciò a scrivere poesie.

Marina ebbe dapprima una istitutrice, poi fu iscritta al ginnasio, quindi frequentò degli istituti privati in Svizzera e Germania (1903-1905) per tornare, infine, dopo il 1906, in un ginnasio moscovita.

Nel 1909 si trasferì da sola a Parigi per frequentare lezioni di letteratura francese alla Sorbona.

Il suo primo libro, “Album serale“, pubblicato nel 1910, conteneva le poesie scritte tra i quindici e i diciassette anni.

Un ruolo determinante nella sua vita lo ebbe Sergej Efron, un apprendista letterato che la Cvetaeva incontrò a Koktebel’ durante la sua prima visita.

Di lì a poco comparve la sua seconda raccolta di liriche, “Lanterna magica“, e nel 1913 “Da due libri“.

Intanto, il 5 settembre 1912, era nata la prima figlia, Ariadna.

Durante la rivoluzione di Febbraio del 1917 la Cvetaeva si trovava a Mosca e fu dunque testimone della sanguinosa rivoluzione bolscevica di ottobre. La seconda figlia, Irina, nacque in aprile. A causa della guerra civile si trovò separata dal marito, che si unì, da ufficiale, ai bianchi.

Bloccata a Mosca, non lo vide dal 1917 al 1922.

A venticinque anni, dunque, era rimasta sola con due figlie in una Mosca in preda ad una carestia così terribile quale mai si era vista. Durante l’inverno 1919-20 si trovò costretta a lasciare la figlia più piccola, Irina, in un orfanotrofio, e la bambina vi morì nel febbraio per denutrizione. Quando la guerra civile ebbe fine, la Cvetaeva riuscì nuovamente a entrare in contatto con Sergej Erfron e acconsentì a raggiungerlo all’Ovest.

Nel maggio del 1922 emigrò e si recò a Praga passando per Berlino.

La vita letteraria a Berlino era allora molto vivace , consentendo in questo modo ampie possibilità di lavoro. Nonostante la propria fuga dall’Unione Sovietica, la sua più famosa raccolta di versi, “Versti I” (1922) fu pubblicato in patria.

A Praga Marina Cvetaeva visse felicemente con Efron dal 1922 al 1925.

Nel febbraio 1923 nacque il terzo figlio, Mur, ma in autunno partì per Parigi, dove trascorse con la famiglia i successivi quattordici anni.

Efron aveva cominciato a collaborare con la GPU, ossia la Polizia Segreta del Regime sovietico.

Il marito prese parte al pedinamento e all’organizzazione dell’uccisione del figlio di Trotskij, Andrej Sedov, e di Ignatij Rejs, un agente della CEKA. Efron si andò così a nascondere nella Spagna repubblicana in piena guerra civile, da dove partì per la Russia.

Marina non sapeva nulla di questa attività del marito, soprattutto lei non era mai stata comunista e nemmeno lui!

Credette forse che lo avesse fatto per necessità economiche e non per convinzione.

Sempre più immersa nella miseria, si decise, anche sotto la pressione dei figli desiderosi di rivedere la patria, a tornare in Russia.

Marina capì in fretta che per lei in Russia non c’era posto nè vi erano possibilità di pubblicazione. Le furono procurati dei lavori di traduzione, ma dove abitare e cosa mangiare restavano un problema. Gli altri la sfuggivano.

Agli occhi dei russi dell’epoca lei era una ex emigrata, una traditrice del partito, una che aveva vissuto all’Ovest: tutto questo in un clima in cui milioni di persone erano state sterminate senza che avessero commesso alcunché, tanto meno presunti “delitti” come quelli che gravavano sul conto della Cvetaeva. L’emarginazione, dunque, si poteva tutto sommato considerare il minore dei mali.

Nell’agosto del 1939, però, sua figlia venne arrestata e deportata nei gulag.

Ancora prima era stata presa la sorella. Quindi venne arrestato e fucilato Efron. La scrittrice cercò aiuto tra i letterati. Quando si rivolse a Fadeev, l’onnipotente capo dell’Unione degli scrittori, egli disse alla “compagna Cvetaeva” che a Mosca non c’era posto per lei, e la spedì a Golicyno.

Quando l’estate successiva cominciò l’invasione tedesca, la Cvetaeva venne evacuata ad Elabuga, nella repubblica autonoma di Tataria, dove visse momenti di disperazione e di desolazione inimmaginabili: si sentiva completamente abbandonata.

Si recò nella città vicina di Cistopol’, dove vivevano altri letterati; una volta lì, chiese ad alcuni scrittori famosi come Fedin e Aseev di aiutarla a trovare lavoro e a trasferirsi da Elabuga. Non avendo ricevuto da loro alcun aiuto, tornò a Elabuga disperata. Mur si lamentava della vita che conducevano, pretendeva un abito nuovo ma il denaro che avevano bastava appena per due pagnotte. La domenica 31 agosto del 1941, rimasta da sola a casa, la Cvetaeva salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto dove fu sepolta.

Ma Marina fu solo una donna sfortunata. Solo questo. Infatti, a distanza, e in Occidente, ebbe una grande fama. Un’anima sofferente, ma intelligente, capace di amare senza pregiudizi e sinceramente russa.

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POESIE A LARA

Dedicato a R.

Chi non ha letto o visto il film Il Dottor Zivago? Non è solo un capolavoro ma un monumento alla Russia pre-comunista, quella Russia bellissima e ricchissima di Storia e Letteratura, terra di nostalgia di un tempo perduto.

Esisteva un grande scrittore e un grande interprete del vero spirito russo ed era appunto l’autore del romanzo succitato, ossia Boris Leonidovič Pasternak, nato a Mosca nel 1890 e morto a Predellino, vicino Mosca nel 1960.

Un unico romanzo per una vita e un premio Nobel per la Letteratura nel 1958. Per questo romanzo fu perseguitato, soprattutto perchè Pasternak aveva rifiutato il socialismo russo, nato e imposto dal regime comunista. La sua colpa fu aver descritto e amato descrivere la Madre Russia così com’era, e di aver fatto intendere che un popolo si uccideva per un ideale destinato a fallire.

Dietro un romanzo c’è la storia di un grande amore. La donna che lui amò di più, Ol’ga Ivinskaja, e che si nasconde nelle vesti della protagonista Lara.

Nel romanzo, la protagonista è appunto Larisa Fëdorovna Antipova (Laročka, Laruša, Raisa Komarova): nata Guichard, a diciassette anni viene sedotta da Komarovskij. Lara sposa Pavel Pavlovič Antipov, i due hanno una figlia: Katen’ka. scomparirà misteriosamente, probabilmente vittima degli arresti staliniani di massa, degli anni Trenta.

Nel libro di Pasternak c’è una parte dedicata alle poesie scritte dal protagonista, il dottore Jurij Andreevič Živago.

In questo personaggio troviamo l’alias di Pasternak.

Lara rappresenta la donna forte e fiera, innamorata di Jurij, ma come lui, non libera, perchè sposata e infelice di esserlo. Avranno una figlia di nome Tanja.

Poi alla fine Lara scomparirà certamente internata in qualche gulag della Siberia, così come Ol’ga Ivinskaja.

Le poesie per Lara (Ol’ga), sono un capolavoro di scrittura: la scrittura del cuore.

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L’amore con cui ti ho amato…

Lettera di Dio ad ognuno di noi.

Figlio/Figlia

ancor prima che i tuoi genitori umani ti dessero un corpo, Tu eri nella mia mente e nella mia volontà di amore.

Sei con me da quando decisi che avrei creato l’Umanità.
Sei stato concepito/a quando ancora non esisteva il cosmo e quando ancora non esistevano piante ed animali.
Tu eri dentro il mio Cuore di Padre-Madre, tu eri Figlio/a.

Con il soffio del mio Alito vitale diedi origine alle Galassie, ai Pianeti e alle Stelle; gli Angeli mi servivano e onoravano. L’ armonia celeste era stupenda, ma mancavi Tu.

I millenni in cui la Terra rimase senza di te, erano per crearti un luogo dove collocarti.
Sarebbe stata una discesa, la tua, per poi ritornare a me, per l’Eternitá.

L’ Amore con il quale ti ho amato è talmente grande che supera lo stesso zelo con il quale creai l’Universo.

L’ Amore che ho impiegato per crearti si chiama Gloria.

La mia Gloria sei tu stesso/tu stessa. Tu sei la mia amata creatura.

Tu sei per sempre MIO FIGLIO, MIA FIGLIA.

Il Tuo Dio

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SETTE CONSIGLI UTILI CONTRO L’ANSIA E LA RABBIA

L’ansia è una continua agitazione interiore ed esteriore e la rabbia è un’emozione forte e incontrollabile che nasce da qualche situazione irrisolta.

Esistono delle procedure che possono aiutarci:

  1. Non è necessario compiacere gli altri, perché questo porta apprensione e frustrazione quando non veniamo capiti e poi anche risentimento, qualora gli altri non riconoscano la nostra persona e le nostre azioni positive. Di fronte a questo circolo vizioso del dare per avere, è necessario interrompere la procedura, consolidando se stessi senza compiacere gli altri per partito preso.
  2. L’ansia deriva dal volere tutti e tutto sotto controllo. Invece non è vero questo, perché nessuno di noi, per quanto bravo, può gestire tutti e tutto. Spesso non riusciamo a gestire nemmeno noi stessi… Allora bisogna lasciar andare ciò che non si può controllare e che soprattutto NON dipende da noi.
  3. Essere troppo preoccupati dalla ricerca di stima altrui. Accade infatti che, se non veniamo riconosciuti o compresi, sale in noi la rabbia e da lì l’ansia di non essere amati o considerati. Ma se non ci amiamo bene noi stessi, come possiamo pretendere che gli altri lo facciano? Prima amiamoci come siamo e così non avremo l’ansia di cercare fuori.
  4. Ritenersi dei falliti se non si riesce ad essere secondo le nostre migliori aspettative o quelle altrui, porta alla rabbia e all’ansia. Pensare invece che nessuno è e sarà perfetto, perché la perfezione nel nostro mondo NON esiste. Questo è un attributo divino, non umano. Riconoscere quindi che si è creature, aiuta ad abbassare le attese e l’ansia e quindi a tranquillizzarci.
  5. Attenzione allo stress. Nella giornata troviamo spazi personali di riflessione e di svago dove facciamo ciò che ci piace e non sempre ciò che si deve. Questo aiuterà a riequilibrare le emozioni forti come la rabbia.
  6. Evitare di sentirsi sempre inadeguati, ossia non a posto, perché nessuno è stato, è e sarà “adeguato”. Piuttosto sforzarsi di fare il meglio possibile per stare centrati. Già è tanto!
  7. Abbassare il livello di autocritica e di critica. Non significa non vedere le cose negative, che in ogni caso vanno corrette, ma significa evitare di essere polemici laddove non serve.
    Alla fine aiuta molto avere una sana autostima e un pensiero proiettivo, ossia che mira a guardare bene al futuro, sapendo inoltre che la salute può migliorare perché il fisico risente molto di quanto avviene nel nostro interiore.

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