IL FIGLIO DELL’ALTRA

ll figlio dell’altra (Le Fils de l’autre) è un film del 2012 diretto da Lorraine Lévy.

Uscito in Francia il 4 aprile 2012, è stato distribuito in Italia da Teodora Film, il 14 marzo 2013.

Joseph Silberg è un ragazzo palestinese di origine -senza saperlo-che vive a Tel Aviv con suo padre, colonnello dell’aeronautica israeliana e sua madre, medico per un ospedale della città. Durante la visita militare si scopre che il gruppo sanguigno di Joseph non è compatibile con quello dei suoi genitori.

L’analisi del DNA prova definitivamente che il giovane è stato scambiato, alla nascita, con Yacine Al Bezaaz, che vive in Palestina nei territori occupati della Cisgiordania.

Joseph e Yacine sono quindi sconvolti e confusi per tale scoperta, che getta nel panico le due famiglie, culturalmente molto distanti, che proveranno ad avvicinarsi ma le “questioni politiche” superano la buona volontà, e i due padri finiscono per scontrarsi per la guerra che divide entrambi i loro popoli.

I due ragazzi si incontrano e si chiedono come cambierà, per lo scambio d’identità, il loro destino. Dopo un primo periodo, i loro incontri si fanno più frequenti e i due giovani iniziano a conoscere l’uno la famiglia dell’altro, incominciando a superare le loro differenze.

***

Sorella del celebre scrittore Marc Lévy (di cui ha portato sullo schermo il romanzo Mes amis, mes amours), Lorraine Lévy inizia la sua carriera come regista e autrice per il teatro.

Dopo la fondazione della Compagnie de l’Entracte nel 1985, scrive e dirige “Finie la comedie” (1988), “Zelda” (Prix Beaumarchais nel 1991) e “Le Partage” (1993, presentato al festival d’Avignon). All’inizio degli anni 2000, comincia a lavorare per la televisione come sceneggiatrice, firmando più di 30 copioni per le maggiori reti nazionali, incluse France Television, Canal+ e TF1. Il suo primo film per il grande schermo, La premiere fois que j’ai eu 20 ans, -La prima volta che ebbi vent’anni-, è del 2005, anche se il successo arriva con Mes amis, mes amours (2008), -Amici miei, amori miei-  una commedia brillante con un cast che comprende Vincent Lindon, Pascal Elbe e Virginie Ledoyen.

Nel 2010 firma come regista, oltre che come sceneggiatrice, Un divorce de chien!, -Un divorzio da cani-sempre per la tv. Il figlio dell’altra è il suo ultimo film per il cinema.

La regista Lorraine Lévy, è francese ed ebrea di nascita, alla sua terza regia con questo film particolare, che racconta la scoperta di uno scambio in culla avvenuto ad Haifa, 18 anni prima, tra un ragazzo ebreo e un arabo palestinese, le cui famiglie vivono divise dal muro che separa le due popolazioni. Allo shock per la situazione sono proprio i ragazzi e le madri i più veloci ad adattarsi.

Lorraine Lévy venne intervistata e le chiesero se fossero loro, i ragazzi, la speranza di un futuro di pace: “Sì, la speranza è nei giovani, perché là ho trovato, da una parte e dall’altra del muro che li separa, una gioventù, israeliana e palestinese, bella, ardente e con tanta voglia di libertà, come tutti i giovani del mondo,” disse la regista.

Credo davvero che sarà questa gioventù a cambiare le cose. Poi ci sono le madri, più che le donne, perché quando le madri si alleano, diventano una vera e propria forza politica. Quando succede questa storia, i padri hanno la sensazione di aver perso un figlio, mentre per le madri c’è un figlio in più, non un figlio in meno. Gli uomini sono molto più legati alla tradizione, a quello che i padri hanno loro trasmesso e che sentono di dover, a loro volta, trasmettere al proprio figlio, mentre le madri sono visceralmente attaccate alla vita e ai figli”.

Ho trovato più interessante, nel mio film, restare dentro un’altra realtà, che non fosse sempre quella dello scontro di civiltà, una realtà più interiore. Infatti ho voluto terminare il film sulla stessa immagine dell’inizio, ma rovesciata, perché i due ragazzi sono, anche visivamente, l’uno il rovescio della medaglia dell’altro. Perciò ho trovato questo finale più aperto, più leggero, più arioso. Non mi interessava affatto fare un film pesante, duro, serio, volevo che si potesse anche sorridere e ridere, che fosse come la vita”.

Il film è molto critico anche verso l’uso strumentale della religione. Lorraine Lévy ci dice in proposito: “Trovo che possedere la fede sia un regalo della vita, perché è una forza eccezionale. Io non ho la fortuna di averla e mi dispiace molto, perché quando vedo la gente che ha la fede, mi rendo conto che ha una grande forza. Però sono molto più critica con l’utilizzo che alcuni fanno della fede, con quello che gli uomini fanno dell’idea di Dio. Molto spesso questa idea, che dovrebbe unire gli uomini, li separa, ed è quello il problema”.

La regista ha girato il film a Israele con un cast e una troupe, composta “da ebrei israeliani, arabi israeliani e arabi palestinesi”, che hanno aiutato a dare una forma più realistica alla sceneggiatura coi loro consigli.
Tel Aviv è un luogo in cui la gioventù è libera, i ragazzi vivono sulla spiaggia, ci dormono, ci mangiano, c’è una tale libertà che non ci si immagina nemmeno che il paese possa essere in guerra. Poi, quando si va a Gerusalemme, si trova una città incredibilmente ispirata, dove coesistono tutte queste diverse religioni e c’è questa coabitazione, a volte felice e a volte no, tra israeliani e palestinesi. Amos Oz, uno scrittore israeliano, che la regista ha amato molto e che l’ha ispirata per questo film, in uno dei suoi libri dice che tutte le persone che camminano per le strade di Gerusalemme, per lui non sono delle silhouette, ma dei punti interrogativi. Dice la Lévy che l’immagine di tutti questi punti interrogativi che si incrociano in questo modo è molto bella e vera.

Mettersi nei panni degli altri…provare a evitare sempre di criticare…conoscere bene le persone…prima di dire qualcosa …questo è ciò che ci insegna questo bellissimo film, che a mio modesto avviso, andrebbe fatto conoscere a tanta gente che giudica, giudica senza sapere.

La vera ignoranza è quella del cuore.

Pubblicato in ARTICOLI, EBRAISMO, ISRAELE, palestina, PREGIUDIZI, Storia, TERRORISMO | Lascia un commento

Gli anni del terrorismo

Un sano realismo aiuta a superare le contrapposizioni

Io sono nata in un periodo successivo alla seconda guerra mondiale, negli anni settanta. Erano anni di terrorismo rosso e nero. Mio nonno era un militare e in casa mia si parlava di guerra. Non solo quella da lui vissuta, mai dimenticata, ma di guerra quotidiana che appariva nei telegiornali e nelle conversazioni della gente.

Mi ricordo che a circa nove o dieci anni già sapevo cosa fossero le Brigate Rosse.

Quando uscivo con le amiche per il Corso Vittorio Emanuele, quello della città di provincia in cui vivevo, avevo a distanza la scorta: infatti mio nonno lavorava ancora e aveva a che fare con il carcere di massima sicurezza della Sardegna del nord.

Ricordo che quando Aldo Moro venne ucciso a Roma, dinanzi alla casa lessi una frase che diceva qualcosa del genere: “Lotta dura senza paura”… non mi stupii perché era quotidiana conversazione a casa.

Quando venni a Roma mi feci portare dinanzi alla casa di Aldo Moro.

A dieci anni mio zio mi fece leggere un libro che parlava delle brigatiste rosse.

Non ero spensierata come le altre bambine. Perché capivo già che l’odio di classe e il terrorismo erano un ostacolo alla felicità della gente. Capivo che molti lottavano per l’equità ma lottavano male.

A diciott’anni andai con mio nonno in un grande hotel per una riunione politica. Erano le mie prime elezioni, ossia quelle in cui avrei votato.

C’erano tanti uomini. Io ero una ragazzina di diciott’anni dinanzi a nonni! Eppure parlai dinanzi a loro perché mio nonno voleva che dicessi la mia.

Non dico di che partito fossero lui e loro, ma ricordo che non volli essere nella lista.

Votai ma non votai per loro.

Votai per un ideale di libertà.

Poi la vita mi ha portato nel campo accademico, ma mi sono sempre trovata in mezzo a rossi e neri. Credo che anche se i tempi sono cambiati, in fondo, in Italia, ci sono sempre schieramenti.

Sempre ho voluto tenere alta la bandiera della libertà e della democrazia e non delle parti.

Poi la chiamata di Dio è venuta sul solco di questo desiderio di equità e di giustizia.

Non solo sociale, ma anche e soprattutto umana.

Per me la buona politica è la ricerca della felicità personale e sociale e questi aspetti non si scindono.

Certamente però ho imparato molto dagli anni Sessanta e Settanta. Ho imparato a non dare per scontata la lotta e la possibilità di un confronto per una politica realista.

Pubblicato in anni sessanta e settanta, ARTICOLI, democrazia, Italia, La seconda guerra mondiale, periodo post-bellico, Politica, TERRORISMO | Lascia un commento

Un appunto di una cittadina

Avete stancato, tutti voi che volete una società permissivista, con la scusa della libertà. Perché nemmeno sapete il significato di libertà, che non è fare a capriccio ciò che passa per il cervello a scapito altrui, ma è saper scegliere bene tra le tante possibilità della vita.
Avete stancato, voi tutti che con la scusa di una cattiva tolleranza, accettate tutto e il suo contrario, senza criterio e discernimento.
La società vera è quella di persone normali, che fanno ogni giorno il loro dovere e prestano il loro servizio agli altri. Gente che si alza presto al mattino, che pensa ai propri figli e al loro futuro, gente che risparmia per arrivare degnamente a fine mese…
Preoccupiamoci molto per la nostra salvezza, per la nostra vita e quella dei nostri cari.
Una donna deve poter uscire e stare serena, deve poter vivere con la persona che ama e da cui è amata, senza temere.
Un uomo deve proteggere la sua famiglia, la sua sposa, pensando che ogni donna è la memoria vivente di sua madre, di sua sorella, di sua figlia.

E voi che state sempre a polemizzare per quanto non fanno gli altri, rimboccatevi le maniche e imparate a fare bene ciò che vi compete e se non vi compete non entrate in merito.

Una cittadina italiana

Pubblicato in ARTICOLI, polemica, società, Violenza, VIOLENZA DONNA | Lascia un commento

CRITICA AL PENSIERO DEBOLE

IL PENSIERO FORTE CONTRO IL PENSIERO

Badiamo bene che la vita non ci sfugga di mano senza averla amata, vissuta, trasmessa e portata alle nuove generazioni. Credo che la riflessione personale ci possa portare -o perlomeno a me porta- a non ingoiare tutto quello che ci viene proposto come buono e accettabile. Perciò qui metto la mia personale critica al pensiero debole del filosofo Gianni Vattimo (Torino, 4 gennaio 1936 – Rivoli, 19 settembre 2023).

L’espressione pensiero forte proviene da due saggi di Giovanni Cantoni, entrambi intitolati Dottrina Sociale della Chiesa, e si contrappone alle filosofie del pensiero debole, come il pensiero di Gianni Vattimo.

Il pensiero forte vuole offrire certezze, in un’epoca che considera segnata dal tramonto della metafisica e dal diffondersi del relativismo, soprattutto del relativismo etico.

ll pensiero debole, invece, si presenta come una forma particolare di nichilismo, di nulla presente e passato e futuro. Insomma una mancanza di senso assoluto. Poi con il tempo, di fronte alle critiche che gli erano pervenute, Vattimo attenuò questa sua posizione, ma rimangono sempre le scorie e le derive presenti nella nostra società lassista e permissiva, soprattutto senza grandi ideali…

In altri termini, l’era moderna occidentale si sviluppò attraverso la tradizione del pensiero greco e della visione del mondo, giudaico-cristiana, caratterizzate, a seconda di pensatori e correnti, dai seguenti punti:

1.presenza di un ruolo forte del soggetto, sia sul piano dell’etica, sia sul piano della conoscenza; 2.binomio essere-verità, ossia il fondamento forte di tutto ciò che è e la verità come sua manifestazione ed auto-evidenza; 3. ottimismo o realismo di fondo circa la governabilità, la logicità e il fine ultimo della vita; 4. distinzione, in ambito scientifico, fra la spiegazione razionale (propria delle scienze naturali) e l’interpretazione basata sul coinvolgimento comunicativo, sull’interesse rispetto all’oggetto di cui si occupa ( le scienze dello spirito come la filologia).

Da tempo si parla di ” pensiero debole “, cioè di un tipo particolare di sapere caratterizzato dal profondo ripensamento di tutte le nozioni che erano servite da fondamento alla civiltà occidentale in ogni campo della cultura. Secondo questa prospettiva i valori tradizionali sarebbero diventati tali solo a causa di precise condizioni storiche che oggi non sussistono più; per questo motivo deve essere messa in crisi la loro pretesa di verità …

A fondamento del pensiero debole c’è l’idea che il pensiero non è in grado di conoscere l’essere e quindi non può neppure individuare valori oggettivi e validi per tutti gli uomini.

Il maggiore interprete di questa problematica in Italia è Vattimo. Secondo il pensatore torinese, il compito attuale della filosofia non è d’interrogarsi sulla verità, ma di portare alle estreme conseguenze la crisi epocale che si è espressa attraverso il processo di secolarizzazione.

Vattimo teorizza l’avvento di un’età nuova, regolata da un “pensiero debole”, volto alla realizzazione di un soggetto non unitario né subordinato all’autocoscienza logica, ma molteplice e poliedrico.

Ovviamente viene invalidata l’idea della storia come rinnovamento continuo e percorso dotato di senso; anzi, la dissoluzione post-modernistica della categoria del nuovo viene salutata come “fine della storia”. Per Vattimo il pensiero è arrivato alla fine della sua avventura metafisica. Ormai non è più proponibile una filosofia che esiga certezze e fondamenti unici per le teorie sull’uomo, su Dio, sulla storia, sui valori. La crisi dei fondamenti ha fatto vacillare ormai l’idea stessa di verità: le evidenze una volta chiare e distinte si sono offuscate.

Alla luce di questi presupposti, con Vattimo si dissolvono: 1) i fondamenti certi; 2) l’idea di una conoscenza totale del mondo; 3) l’idea di una verità certa di cui noi saremmo capaci.

Pensiero debole in poche parole significa che si sono dissolti i fondamenti ultimi, le idee chiare e distinte, i valori assoluti, le evidenze originarie e le leggi ineluttabili della storia.

In conclusione con il pensiero debole si inizia con una perdita ed una rinuncia: rinuncia a fondamenti certi e destini ultimi.

L’idea-forza della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Il grido di Nietzsche “Dio è morto” va inteso da Vattimo nel senso della fine di ogni discorso metafisico che pretende darci verità ultime e definitive. 

La tesi di Vattimo è che nel nostro relativo caos risiedono le nostre “speranze di emancipazione” (quali, mi chiedo io, se sarebbero scardinati i capisaldi e l’idea corretta di diversità e di realtà?) … Con la modernità viene dichiarata chiusa un’epoca di fiducia nel progresso continuo dell’umanità, che aveva, a sua volta, ripreso laicizzandola, l’idea cristiana della salvezza (anche qui Vattimo non aveva nemmeno idea di cosa fosse la Salvezza cristiana).

E’ la fine di ogni filosofia della storia, cioè di ogni visione unitaria e compatta della storia, come se fosse dotata di senso.

Come potrebbe essere tollerato un pensiero che, in nome della relatività, distrugge i capisaldi positivi delle nostre esistenze?…Sarebbe la fine, molto materialistica e inutile, per la nostra vita e soprattutto l’assoluta mancanza di senso nel viverla.

Lascio ai posteri l’ardua sentenza (Manzoni, Cinque Maggio, v.31)

Pubblicato in FILOSOFIA, PENSIERO DEBOLE, PENSIERO FORTE, VATTIMO | Lascia un commento

AUTORI: UN GRANDE SITO

DA ANNI IN COLLABORAZIONE CON

Autori – Punti di Luce

VEDI IN PARTICOLARE I MIEI SITI:

Didattica – Autori

Pubblicato in ARTICOLI, AUTORI, https://www.autori.net/ | Lascia un commento

Riflessione sul senso della vita.

La corsa.

Molto spesso mi ritrovo a riflettere sul fatto che, ogni giorno e probabilmente per molti, ogni notte, ci si svegli e ci si affatichi dietro persone e situazioni.

Già quando iniziamo a intendere e ad avere piccole responsabilità, si ha un’occupazione.

Tutto ciò è giusto: ci mettono al mondo i nostri genitori, siamo gettati presto nella mischia. La scuola, la società, il lavoro e per chi è impegnato nel mondo, la famiglia.

Ma perché sempre dobbiamo correre?

Perché la giornata inizia presto e finisce tardi?

Siamo molto spesso pieni di impegni in tal modo che non abbiamo nemmeno un attimo per riposare.

Requiem aeternam dona eis Domine, diciamo dinanzi a chi muore, forse perché il defunto possa finalmente “riposare”… in pace e in Dio!…

Uscendo fuori dal gioco, la riflessione sulla nostra vita e sul senso della nostra vita è doverosa.

Perché tanto accapigliarsi? Per i beni? Per il nostro soddisfacimento primario? Per i rapporti?

Per cosa ci accapigliamo?

Lessi una volta un pensiero di uno su un social che diceva più o meno così:

“Nasciamo senza volerlo, nudi.

Ci devono aiutare altri a mangiare, bere, lavarci.

Cresciamo e ci dicono cosa fare.

Non abbiamo portato al mondo nulla, nemmeno una valigia.

Poi crescendo ci carichiamo di cose e di maschere.

Se siamo sinceri ci insultano, se siamo ipocriti ci disprezzano.

Poi corriamo e dobbiamo trovare l’anima gemella oppure decidere che ci bastiamo.

Per vivere o sopravvivere dobbiamo lavorare e quando siamo in pensione siamo talmente stanchi che nemmeno ci godiamo la vita….

Poi arriviamo che dobbiamo lasciare tutti e tutto. Nemmeno una valigia ci portiamo via.

Ci danno da mangiare e da bene e ci vestono come quando eravamo bambini.

Dopo tre giorni ci dimenticano.

Dopo una settimana celebrano forse una messa e dopo un anno nemmeno più si ricordano il nome.”

In estrema sintesi… perché tanto annaspare? La Gloria umana? La soddisfazione? I principi?

Tutto passa.

Ma se uno ha dignità e se sa che il suo valore non è esterno, ma interiore, tutto cambia.

Allora si che non ti importa nulla: vai sicuro per la tua strada e alla fine trovi anche il senso della tua vita.

Perché ognuno ha una strada e quella strada è a senso unico!

Pubblicato in ARTICOLI, direzione, senso della vita | Lascia un commento

IL FOGLIO di Giuliano Ferrara

Quotidiano di approfondimento politico fondato nel 1996 da G. Ferrara (n. 1952).

CHI è Giuliano Ferrara

Giornalista e uomo politico italiano (n. Roma 1952). Dopo aver partecipato tra gli anni Sessanta e Settanta al movimento studentesco, ha svolto attività politica nelle file del PCI e si è dedicato contemporaneamente al giornalismo, collaborando dal 1982 al Corriere della sera con la rubrica Bretelle rosse. Passato in seguito al PSI, è stato deputato al Parlamento europeo per il gruppo socialista (1989-1994), quindi è entrato a far parte del movimento politico Forza Italia, ed è stato ministro per i rapporti con il Parlamento nel governo Berlusconi (1994-95). È tornato alla politica attiva nel 2007, riaprendo il dibattito sul tema dell’aborto e proponendo una moratoria internazionale. Alle elezioni politiche del 2008 si è presentato alla Camera dei deputati con la lista da lui fondata nello stesso anno, Associazione difesa della vita. Aborto? No grazie, che non ha superato la soglia di sbarramento. Ferrara ha inoltre conquistato una vasta popolarità come commentatore e conduttore televisivo, portando in TV un giornalismo d’inchiesta spettacolare e provocatorio (Linea rovente, 1987; Il testimone, 1988; Il gatto, 1989; L’istruttoria, 1991; Diario di guerra (e pace), 2001; 8 e mezzo, 2002-08; Qui Radio Londra, 2011).

Nel 1996 ha fondato il quotidiano Il Foglio, di cui da allora al 2015 è stato direttore (nello stesso 1996 assunse anche la direzione del settimanale Panorama, che però tenne solo per circa un anno). Ha pubblicato vari saggi, tra cui: Ai comunisti: lettere da un traditore (1991); Informazione e politica (1994); Non dubitare. Contro la religione laicista (2005); Il Royal baby. Matteo Renzi e l’Italia che vorrà (2015).

Cos’è Il Foglio

Il quotidiano, steso il più delle volte su un unico foglio (da cui la sua denominazione), affronta argomenti di carattere politico, economico, culturale. Nel 2005 ha avuto una tiratura di ca. 20.000 copie. Nel 2015 è subentrato a Ferrara nella direzione C. Cerasa.

Di orientamento conservatore-moderato, equilibra bene le esigenze di informazione con validi approfondimenti di ogni tipo. Si trova in cartaceo e on line.

Il suo direttore Ferrara, prima di estrema sinistra, poi socialista e poi di centro, ora è su posizioni conservatrici e moderate e questo aiuta a capire l’evoluzione di un uomo e di un giornalista tra i più preparati in Italia.

Una lettura che proporrei a chi non conosce tale visione della vita politica e sociale, italiana ed europea.

Pubblicato in ARTICOLI, CAMBIAMENTO, CONSERVATORI, GIORNALI, IL FOGLIO | Lascia un commento

GIAMPAOLO PANSA, UN GIORNALISTA E SCRITTORE CONTROVERSO

Giornalista e saggista (Casale Monferrato 1935 – Roma 2020). Ha iniziato l’attività giornalistica nel 1961, collaborando con vari quotidiani italiani. Vicedirettore della Repubblica dal 1978 al 1991, nel 1991 è divenuto condirettore del settimanale L’Espresso. Ha poi scritto per Il RiformistaLibero La Verità. Autore di saggi e romanzi sulle vicende storiche del periodo della guerra di liberazione (Viva l’Italia libera, 1963; Guerra partigiana tra Genova e il Po, 1967; L’esercito di Salò, 1969; Ma l’amore no, 1994; Il sangue dei vinti, 2003, Sconosciuto 1945, 2005; La grande bugia, 2006; I vinti non dimenticano, 2010), ha dedicato numerose pubblicazioni ad alcuni dei fenomeni più significativi delle vicende politiche italiane degli ultimi decenni. Tra le sue opere più recenti: il romanzo Natale a Is Arenas (2010); Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri (2011); Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa e La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti, entrambi del 2012; nel 2013, La Repubblica di Barbapapà. Storia irriverente di un partito invisibile e Sangue, sesso, soldi;  Bella ciao. Controstoria della Resistenza e Eia eia alalà. Controstoria del fascismo (2014); La destra siamo noi. Una controstoria italiana da Scelba a Salvini L’Italiaccia senza pace. Misteri, amori e delitti del dopoguerra (2015); nel 2016, Il rompiscatole. L’Italia raccontata da un ragazzo del ’35 e Vecchi, folli e ribelli; nel 2017, L’ Italia non c’è più. Come eravamo, come siamo e Il mio viaggio tra i vinti. Neri, bianchi e rossi; entrambi nel 2018, Uccidete il comandante bianco. Un mistero nella Resistenza e La «Repubblichina»; nel 2019, Quel fascista di Pansa e Il dittatore. Postumi, sono stati pubblicati nel 2020 L’Italia si è rotta e Il sangue degli italiani. 1943-1946 una storia per immagini della guerra civile.

Cfr. TRECCANI

Mi sembra che, tra tutti i giornalisti che abbiano trattato sulla seconda guerra mondiale, sulla Resistenza e sugli anni del dopoguerra, fino alla prima Repubblica, Pansa sia uno dei giornalisti e scrittori più onesti a livello intellettuale.

Infatti, pur essendo, nei suoi primi anni della giovinezza e maturità, di sinistra, abbia voluto essere “politicamente scorretto”, andando a studiare e a leggere, ma soprattutto a parlare con la controparte, ossia quelli che la Storia oggi definisce i vinti, ossia la destra del tempo, i fascisti e i repubblichini.

Senza andare a rimescolare le carte della realtà da manuale, mi piace vedere come, per amore di verità, Pansa abbia intervistato persone che vissero in prima persona le vicende dell’epoca e soprattutto abbia voluto ricostruire, senza paura, i misfatti degli uni e degli altri.

La lettura dei suoi libri è imprescindibile per chi voglia conoscere davvero le vicende del Ventennio Fascista e della cosiddetta Resistenza.

Personalmente metterei Pansa tra le citazioni da manuale, nei libri di storia, per le scuole medie e per i licei.

La Storia infatti non è solo un coacervo di date, ma insegna a capire il passato e a considerare come l’Uomo non sia cambiato nel tempo. Cambiano le epoche, ma l’animo umano non cambia.

E’ banale dire che la Storia insegna. In realtà non ha insegnato nulla a chi non ha saputo vedere.

Adesso molti giovani vivono come se nulla fosse. Pochi sono quelli che considerano la Verità, la ricerca, come qualcosa di veramente buono.

In questo la responsabilità è dei padri. Infatti i ragazzi, solitamente ben guidati, sono ricettivi. Gli adulti, invece, presi da mille cose, dimenticano l’essenziale.

Giampaolo Pansa venne criticato dai suoi stessi compagni di partito, ma in realtà è stato un vero e proprio Maestro di etica: ha capito che è riduttivo dire: Vincitori e vinti…e spesso i vinti, agli occhi dei vincitori, sono da disprezzare.

In realtà i vincitori hanno fatto le stesse cose, se non peggio, dinanzi ad un’Italia da ricostruire dalle fondamenta.

Pubblicato in ARTICOLI, Controversie, Destra, La seconda guerra mondiale, Pansa, periodo post-bellico, Sinistra, Storia, Verità | Lascia un commento

Quel che resta…

Paragono la vita ad una escursione in montagna.

Quando si è piccoli, si vive sospesi, in un gioco fuori dal tempo.

Altri fanno le regole, tu le vivi -volente o nolente-.

Quando passi i dodici anni, inizi a ragionare e a confrontarti, con il mondo e con le ansie e le gioie, che i grandi ti mettono davanti.

Nell’età dell’adolescenza, inizi a starti stretta, stretto.

Vedi che la corda che ti teneva legata/o ai tuoi, in qualche modo si sta allentando.

Nell’età della prima giovinezza, inizi a pensare a come stare al mondo, in modo autonomo.

Le peggiori liti in casa sono per questo.

La scuola è il campo in cui ti metti in discussione. La vita fuori è il desiderio. Fai le prime stupidaggini. Chi non le ha fatte?

Non sei ancora te stessa/ te stesso. Vorresti essere tu l’artefice del tuo destino e ancora non sai che lo sarai solo in parte.

La gente intorno è come a teatro. Ti guarda a volte distratta a volte attenta. Tu puoi essere il protagonista o lo spettatore della tua stessa messinscena…

Se sei protagonista, aspettati grandi voli e grandi cadute; se sei brava/o, aspettati invidia e solitudine oppure lotta e dolore.

Arriva il salto nel mondo accademico o nel lavoro: qui hai, in un piatto d’argento, due possibilità: o riesci bene o ti parcheggi a spese altrui.

O vivi o sopravvivi.

La vita è la giungla in cui puoi dimostrare di essere o un capo-branco oppure un gregario.

Nel mondo non c’è un quieto vivere. Quello lo lasciamo ai trapassati.

Poi sali la montagna. La metafora va bene…Il desiderio di guardare il panorama, respirare l’aria fresca, camminare libera/o da vincoli.

Hai la pienezza della vita davanti.

Ti senti forte, giovane, capace, audace. Magari riesci bene con gli altri…riesci bene con te stessa/o e non ti fermi molto a riflettere. Dici che c’è tempo, tutto il tempo davanti.

Poi sali e sali. Ti guardi allo specchio. Dove è andata quella bambina, quel bambino che eri? Si vede già dalla pelle… le prime rughe, le prime preoccupazioni, le stanchezze. Ma che voglia di restare a dormire, la mattina, invece del solito tramestio.

Gli altri aspettano da te il massimo: non li puoi deludere! E perché tutto questo daffare?

Ma tu? Dove stai? Sei presente a te stessa/ te stesso? Vuoi fare una escursione in cui non si senta la fatica?

Impossibile.

Poi arrivi presto alla fine dell’Università. Le prime soddisfazioni e il primo impiego.

Forse già la scelta: la carriera, l’amore, la famiglia o la missione.

Tutti hanno un itinerario.

A trent’anni sei già al primo impiego.

Lo specchio è sempre lì al mattino. Ti guardi, ma non ti vedi. Ti trucchi magari o ti avvii i capelli per sembrare migliore di quel che sei.

La notte poi non dormi più le tue ore di fila. Dovunque tu sia, in qualsiasi ambiente, hai da fare i conti con i compromessi della vita. E perché sempre i compromessi? Magari esiste un’isola sconosciuta in cui vorresti andare…come un naufrago che trova la sua vera terra accogliente.

La metafora della montagna ritorna a galla. E arrivi presto alla cima: la gloria, gli onori, i riconoscimenti… insieme ai fallimenti e alle delusioni. La gente non è come te l’aspettavi da ragazza/o.

Anche il carattere ne risente. Ti fai più pensosa/ o. Hai l’età- dicono-!

Ma poi, quando stai sulla cima e ti guardi vedi che quella/ o che eri, a dodici anni, reclama di essere ascoltato e amato. Reclama la sua parte di verità.

La notte ti svegli e dici: “Ho raggiunto la cima e gli obiettivi. Ora che mi resta?”

….

Ti resta di affrontare ancora una strada interiore, in cui non sono più gli altri i protagonisti e i manipolatori, ma sei tu: con ciò che hai conquistato e con le tue fatiche.

Questo discendere dalla montagna e dentro di te, è il momento più vero.

E ciò che resta da fare è la parte migliore!

Pubblicato in ARTICOLI, PSICOANALISI, Retrospettiva | Lascia un commento

L’importanza della Memoria

(seconda parte)

Sinceramente ricordo poco l’età della scuola media. Forse solo qualche volto: l’insegnante di italiano, quella di matematica, il professore di arte, sempre vestito in nero, perchè diceva che così non lo avremmo giudicato, cambiando di abito e colore…l’insegnante di tecnica.

Ero reduce da un incidente automobilistico con lo zio, che mi aveva fatto terminare la mini-carriera sportiva, ossia la corsa ad ostacoli…infatti rimasi tutta la prima media immobile ed ingessata, a letto. A giugno feci un esame di tutte le materie: i professori vennero ad esaminarmi a casa. Portai le stampelle fino alla terza media. Mio nonno ogni mattino mi accompagnava a scuola. Scendevamo per una discesa molto ripida: lui portava i miei libri ed io ovviamente solo le stampelle.

Fu un periodo duro. Rinunciai per sempre alle gare di corsa ad ostacoli e alla palla a volo. Rinunciai a tante cose. Però ancora una volta i libri erano lì. Mio nonno mi regalò a Natale della seconda media, un pianoforte da muro. Poi, un’agenda in pelle e una penna stilografica Mont Blanc. Erano cose costose. Io ricordo che per molto tempo andava sempre con lo stesso cappotto…evidentemente la sua pensione l’aveva spesa per me.

A scuola dovevo stare ferma in aula. Le ricreazioni, le pause…tutte le mie ore libere erano state prese dall’immobilità.

Forse fu lì che iniziai a scrivere. Diari su diari, relazioni di letture, rielaborazioni di materiale per le lezioni…insomma un lavoro da scrivano…però fu quello più bello, perchè la scrittura ferma la Storia, e l’immortala.

Le scuole medie sono state un periodo di stallo e di maturazione. Non ho molti ricordi di persone, se non una: la mia vecchia maestra che, allora ottantenne, passava per quella via. Mi vide, mi chiamò e mi disse: “Ho saputo del tuo incidente. Non ti preoccupare. Studia. Troverai conforto nei libri.”

La maestra Ermelinda, quella severa delle bacchettate sulle braccia e sulle mani, la maestra fascista che ci menava…quella che amavo e odiavo, mi aveva forgiato al duro lavoro.

Ancor oggi la maestra Ermelinda sta nei miei sogni di ragazzina. Odi et amo…

Pubblicato in ARTICOLI, MEMORIA | Lascia un commento