CHI ERANO LE SS

Le SS [Schutzstaffeln, Squadre di protezione] furono fondate nel 1923 nell’ambito delle SA [Sturmabteilungen, Squadre d’assalto] e nel 1925 furono riorganizzate dopo un’interruzione per fornire protezione agli oratori di partito dalla violenza che caratterizzava i comizi nazisti. Quando Heinrich Himmler fu nominato capo supremo delle SS nel 1929, l’organizzazione era composta da 280 uomini. Quando i nazisti salirono al potere, meno di quattro anni dopo, ne contava 50.000. Durante questi anni, mentre il partito acquisiva sempre maggior consenso e il numero degli iscritti si moltiplicava, si verificò un sorprendente sviluppo delle SS, dovuto soprattutto al talento di Himmler, assai abile nell’ottenere l’assegnazione dei più svariati compiti per la sua organizzazione. Una delle misure che favorirono questa crescita fu la creazione nel 1931 di un Servizio di sicurezza interno denominato Sicherheitsdienst, o SD, il cui compito era raccogliere informazioni sui nemici sia appartenenti al partito che esterni. Quando costituì l’SD, Himmler arruolò un giovane ufficiale da poco entrato a far parte delle SS, dopo essere stato espulso dalla Marina per condotta riprovevole. Si trattava dell’allora ventottenne Reinhard Heydrich. 

Le SS erano un organo del partito e, almeno teoricamente, l’ascesa al potere dei nazisti non avrebbe dovuto modificare la situazione. I cittadini hanno infatti il dovere di prestare obbedienza allo stato e al suo governo, ma non a un partito politico, anche se questo si trova al potere. Mentre un governo può imporre la sua politica e costringere i cittadini a rispettare le leggi, un partito ha facoltà di prescrivere le proprie disposizioni solo a coloro che vi aderiscono volontariamente. Allo stesso modo, i quadri dirigenti del Partito nazista potevano usare il terrorismo politico per far valere le loro idee, ma se volevano agire in nome dello stato, dovevano ottenere una legittimazione ufficiale che andasse oltre quella del partito. Il primo marzo 1933 Himmler ricevette la carica, di livello relativamente basso, di capo della Polizia di Monaco e nominò Heydrich capo della Polizia politica locale. 

Himmler e Heydrich consolidarono e ampliarono il loro potere per mezzo di una serie di intrighi. Per prima cosa istituirono delle unità di Polizia politica indipendenti dalla normale Polizia. Il 15 marzo 1933 Himmler fu nominato capo della Polizia politica della Baviera, una carica fino ad allora inesistente, che andò ad aggiungersi a quella di capo della Polizia di Monaco. Il ruolo di Heydrich consisteva nell’organizzare un corpo efficiente che contribuisse ad affermare gli interessi dei nazisti dall’interno della Polizia politica di Monaco. Parallelamente Göring creò in Prussia un ufficio centrale per un corpo di Polizia politica indipendente dalle normali forze dell’ordine: la Direzione della Polizia segreta di stato [Geheime Staatspolizeiamt ], o Gestapa (è importante notare che non si tratta della Gestapo). Questo organismo, sviluppato gradualmente fino al 16 aprile 1933, aveva sede al numero 6 della Prinz Albrechstrasse, nello stesso edificio che ospitava il quartier generale della Polizia di sicurezza. A capo dell’organizzazione fu posto Rudolf Diels, un funzionario del ministero degli Interni, già responsabile per la sorveglianza del Partito comunista ancora prima dell’avvento al potere dei nazisti. 

In un secondo tempo, Himmler e Heydrich assunsero il controllo delle forze di Polizia politica in tutte le altre aree tedesche, fatta eccezione per la Prussia, sistemando i loro uomini in posizioni chiave in tutto il paese. Werner Best ricordava che Himmler era pronto ad assumere atteggiamenti di spudorata piaggeria verso i presidenti dei Länder pur di ottenere le nomine a cui aspirava; è molto probabile che in questa circostanza Hitler avesse espresso chiaramente il suo appoggio a Himmler. Il 20 aprile 1934 Göring lo nominò suo vice nella Polizia politica della Prussia. Da questo momento, per la prima volta nella storia della Germania, furono eliminate le barriere che impedivano l’azione coordinata di tutte le forze di Polizia politica del paese. Dal punto di vista giuridico gli organi di polizia dei singoli Länder erano indipendenti, ma in pratica Himmler ne era l’unico comandante. 

La terza fase fu attuata solo nel 1936. Il 17 giugno di quell’anno Hitler firmò una disposizione con cui Himmler veniva nominato capo della Polizia tedesca nell’ambito del ministero degli Interni. Questa nomina era doppiamente significativa. In primo luogo, tutte le unità di Polizia della Germania formavano ora una forza centrale. In secondo luogo, fatto ancora più importante, la Polizia veniva unita alle SS. “In questo modo era cominciato un processo di iniziale diminuzione e poi graduale cancellazione del potere del governo sulla Polizia: si trattava della progressiva integrazione della Polizia nella sfera di dominio del capo supremo delle SS [Reichsführer-SS ]”. Tutte le forze di Polizia tedesche erano ora accorpate sotto un’unica autorità di comando. Il capo della Polizia nazionale era anche il comandante delle SS, che a sua volta era sotto il diretto controllo del Führer. In pratica, da questo momento la Polizia tedesca agiva secondo la volontà di Hitler, senza essere controllata da un apparato civile. In altri termini, se a partire dal 1933 le SS si erano sempre più avvicinate alla Polizia e ne avevano intaccato le prerogative, da questo momento in poi fu la Polizia ad avvicinarsi alle SS e ad assumerne sempre più le caratteristiche e i ruoli. Si trattava di una pietra miliare, dell’inizio di una nuova era. 

Circa una settimana dopo il suo grande successo e la nomina a capo della Polizia tedesca, Himmler emise una direttiva di riorganizzazione strutturale con cui istituiva la Polizia d’ordine [Ordnungspolizei ], o Orpo, ponendone a capo Kurt Daluege, e la Polizia di sicurezza [Sicherheitspolizei ] o Sipo, che era suddivisa in due branche: la Polizia criminale [Kriminalpolizei ] o Kripo e la Polizia segreta di stato [Geheime Staatspolizei ] o Gestapo (Polizia politica). Heydrich era a capo della Polizia di sicurezza. È significativo che i due nuovi corpi, Orpo e Sipo, fossero denominati “uffici centrali” [Hauptämter ], termine che esisteva solo all’interno delle SS, ma non nel sistema di pubblica amministrazione. In questo modo Himmler rese del tutto evidente l’integrazione della Polizia all’interno delle SS e, allo stesso tempo, separò la Polizia politica (Gestapo) dal resto delle forze dell’ordine, unendola alla Polizia criminale. Avvicinò quindi la Polizia alle SS, ma allontanò da queste le unità più connotate ideologicamente, applicando così strategie contrapposte per raggiungere i suoi obiettivi. 

Himmler, Kurt Daluege e Heydrich erano ora a capo della gerarchia della nuova Polizia nazionale e si trovavano inoltre ai vertici delle SS. Questa duplicazione dei ruoli lasciava largo spazio a manovre di copertura e a sotterfugi burocratici. Impartivano ordini e attuavano iniziative in virtù di cariche differenti, lasciando sempre indefinite le loro posizioni all’interno della gerarchia. Un esempio concreto è rappresentato dal caso di Himmler, che come capo della Polizia era subordinato al ministro degli Interni Wilhelm Frick, ma come capo delle SS era sotto l’autorità del solo Hitler. Questa indeterminatezza dei confini tra stato e partito non era evidente solo nella catena di comando ma anche nel modo di operare della Polizia. Un caso in cui emerge chiaramente è costituito dalla istituzione della “custodia protettiva” [Schutzhaft ]. Originariamente la custodia protettiva era finalizzata a proteggere il detenuto da pericoli che minacciassero la sua incolumità. Ma già al tempo della Prima guerra mondiale si affermò una concezione completamente diversa del termine – l’arresto doveva proteggere lo Stato da un eventuale crimine futuro nei suoi confronti. Per tentare di conciliare le esigenze di sicurezza dello Stato e i diritti dell’arrestato, si stabilì che la polizia aveva l’obbligo di ottenere l’approvazione giudiziaria e il detenuto aveva il diritto di ricorrere in appello. Anche in questo modo, tuttavia, il governo veniva a trovarsi in una posizione problematica e nel 1932 la polizia perse la facoltà di imporre questa forma di detenzione preventiva. Un impiego limitato del carcere cautelativo fu reintrodotto poco tempo dopo, durante gli ultimi turbinosi giorni della Repubblica di Weimar. La vera svolta, tuttavia, si verificò con la dichiarazione dello stato di emergenza che ebbe luogo il giorno dopo l’incendio del Reichstag . Sebbene la custodia protettiva non fosse menzionata nella proclamazione dello stato di emergenza, la sospensione del diritto fondamentale alla libertà personale significava in pratica che la Polizia poteva chiudere in carcere una persona per un periodo indeterminato senza alcuna verifica esterna delle ragioni dell’arresto. Tale libertà di azione non aveva precedenti in Germania e la Polizia di sicurezza ne avrebbe fatto ampio uso. 

Già prima dell’avvento al potere del nazismo alcuni funzionari avevano considerato l’idea di riportare in vigore su ampia scala la detenzione preventiva. Ciò richiedeva ovviamente la costruzione di nuove strutture carcerarie. Prima che fosse stata presa una decisione definitiva, e naturalmente prima della sua attuazione, cambiò il governo. I nazisti si affrettarono a realizzare il programma. I primi lager vennero creati principalmente da unità delle SA, il cui operato era svincolato da responsabilità nei confronti delle autorità ufficiali al punto che in Prussia le forze di Polizia furono costrette a negoziare e a scendere a compromessi per ottenere il controllo dei campi. Himmler conseguì maggior successo in Baviera dove riuscì a istituire un sistema triplice nel quale egli stesso era a capo delle SS e della Polizia e Heydrich guidava la Polizia politica come organo di stato, mentre i campi di prigionia (Dachau, per primo) erano gestiti dalle SS (la controparte di Heydrich era Theodor Eicke, comandante di Dachau). In questo modo Himmler ripeté il modello introdotto da Hitler, che era solito suddividere i compiti tra organizzazioni rivali, rafforzando così la sua posizione di unico arbitro tra esse. Eicke non faceva parte della Polizia e non aveva il diritto di effettuare arresti o imporre la detenzione preventiva; d’altra parte Heydrich non aveva alcun luogo in cui sistemare i detenuti se non nei lager. Il solo Himmler controllava l’intero sistema in virtù della doppia carica di comandante delle SS e della Polizia. Questo modello che prevedeva la separazione tra Polizia e campi di concentramento fu conservato nelle sue caratteristiche generali fino al 1945. 

Himmler non faceva mistero delle proprie intenzioni. In una raccolta di articoli redatti in occasione del sessantesimo compleanno del ministro dell’Interno Frick, nel marzo 1937, espresse quali fossero le sue aspettative riguardo alla Polizia del Terzo Reich. “I compiti della dirigenza [del Reich] consistono nella conservazione e sviluppo di tutte le forze della nazione. Il benessere della persona verrà messo da parte in favore di questi obiettivi, perché l’importanza dell’individuo e il significato della sua esistenza sono da ricercarsi all’interno del popolo, non nel singolo. La Polizia nazionalsocialista realizza la volontà della dirigenza per garantire la sicurezza del popolo e dello stato, non attraverso leggi specifiche, ma grazie alla realtà della leadership del regime nazionalsocialista e attraverso l’adempimento dei compiti assegnati [alla Polizia] dalla direzione. Per questo non sarà ostacolata da vincoli formali [legali], che finirebbero per limitare la stessa dirigenza statale”. In parole povere, la Polizia eseguirà gli ordini del leader senza limitazioni giuridiche e senza tener conto dei bisogni del singolo, poiché il vertice sa cosa è davvero necessario per il bene della nazione. Heydrich operò una simile distinzione tra una Polizia “difensiva” e una “offensiva”. Tradizionalmente, affermava Heydrich, la Polizia tutela l’ordine esistente, ma la Polizia nazionalsocialista doveva avere un ruolo offensivo e agire a sostegno della creazione di una società e di un regime nazionalsocialisti. Sapevano tutti esattamente quanto fosse diversa la loro Polizia da ogni forma di Polizia tradizionale. 

Il 25 gennaio 1938 Frick emise una direttiva che autorizzava la Gestapo ad applicare la custodia protettiva ad ogni individuo che rappresentasse un pericolo per il popolo, lo stato o la sicurezza. Questa direttiva, rimasta in vigore fino al crollo del Terzo Reich, vietava inoltre l’uso della carcerazione cautelare come misura punitiva, ma questo probabilmente faceva sorridere Himmler e Heydrich: quando si poteva arrestare qualcuno affermando che era pericoloso, che bisogno v’era di disporre di misure punitive? Molti degli uomini sotto il loro comando amavano questo genere di argomentazioni. George C. Browder li chiamò “esecutori radicali”, persone che non prestavano attenzione alle sottigliezze legali. Volevano portare a termine il loro lavoro, che consisteva nel proteggere la società. Considerazioni umanitarie e requisiti giuridici erano ritenuti solamente ostacoli. Browder nota che molti di questi poliziotti in Germania provenivano da ambienti della destra anticomunista, ma non necessariamente nazionalsocialista. Fra essi il più illustre era Heinrich Müller, capo della Gestapo durante la guerra, ma non si trattava di un caso insolito. La maggior parte degli uomini della Gestapo aveva lavorato nella Polizia prima dell’ascesa al potere dei nazisti. Solo alcuni di essi contavano legami con i nazisti o le SS prima del 1933, e si trattava degli ultimi reclutati. La mancanza di rapporti precedenti con le SS, tuttavia, non significava fossero indifferenti ai loro obiettivi. “Sarebbe errato affermare che questi uomini rimasero “professionisti apolitici” come presumibilmente erano stati in precedenza. Molti di loro avevano, o quanto meno svilupparono, posizioni politiche definite e consideravano il nuovo potere della Polizia sui sospettati di gran lunga preferibile a quello molto più limitato che si esercitava nell’ambito della Repubblica di Weimar. Determinati quanto i loro superiori a “ripulire il paese”, non necessitavano certo di tante incitazioni per agire con violenza e brutalità contro il numero sempre crescente di persone dichiarate avversari o criminali”. “Quando si trattava di imporre politiche razziali finalizzate a isolare gli ebrei, è evidente che la Gestapo manifestava una rabbia senza limiti, non rispettando neppure in apparenza i procedimenti legali”. 

Per comprendere il contesto organizzativo della Polizia di sicurezza durante gli anni della guerra è necessario analizzare un altro importante stadio della sua evoluzione. La Polizia politica prebellica era soprattutto un corpo professionale con un certo grado di identificazione ideologica o, quantomeno, con una volontà professionale di dare pieno appoggio a una linea ideologica finalizzata all’eliminazione dei mali della società. Nel percorso che condusse alla creazione della Polizia di sicurezza nazista dell’epoca bellica, essa venne fusa con la sua immagine speculare, un’organizzazione ideologica che col passare del tempo acquisì abilità professionali: l’SD. 

L’SD venne fondato nel 1931 come organizzazione dei servizi segreti delle SS e Heydrich ne fu nominato capo nel 1932. Nell’estate del 1934, quando Himmler e Heydrich salirono al vertice della Polizia di sicurezza di tutto il Reich, Heydrich riuscì anche a rafforzare la posizione dell’SD. Il 9 giugno 1934 un ordine del delegato del Führer Rudolf Hess stabilì che l’SD doveva essere l’unica organizzazione di servizi segreti nell’ambito del partito. Un’altra ordinanza del 4 luglio 1934, immediatamente successiva all’eliminazione dei capi delle SA nella “Notte dei lunghi coltelli”, stabilì la suddivisione dei compiti tra l’SD e la Polizia di sicurezza: quest’ultima avrebbe combattuto i nemici dello stato nazionalsocialista, mentre al servizio di sicurezza sarebbe spettata la lotta contro gli oppositori dell’idea nazionalsocialista. In base a ciò, la Polizia avrebbe eseguito operazioni proibite all’SD, che si sarebbe invece concentrato sulla raccolta di informazioni e sul loro trasferimento alla Polizia politica quando si fosse resa necessaria l’azione operativa; l’SD e le stazioni di Polizia dovevano lavorare in stretto coordinamento. Questa suddivisione dei compiti seguiva una logica duplice: quando si trattava di svolgere funzioni operative – ossia di effettuare degli arresti – agiva la Polizia politica, poiché l’SD, in quanto semplice organizzazione di partito, non era autorizzato a procedere alle incarcerazioni. Nei casi invece in cui le prove penali non erano sufficienti a giustificare l’intervento della Polizia, in particolare quando si trattava di nemici ideologici le cui azioni erano definite riprovevoli non di per sé, ma in base all’interpretazione che ne davano i nazisti, entrava in azione l’SD, trattandosi di un ambito al di fuori della legge, nel quale la Polizia non poteva intervenire. 

Il lavoro dell’SD era ripartito fra tre uffici (chiamati Ømter). L’ufficio I [Amt I ] curava l’amministrazione, l’Amt II raccoglieva le informazioni provenienti dal Reich e l’ Amt III quelle esterne. All’interno dell’Amt II, i reparti II 1 e II 3 erano addetti ai “nemici della visione del mondo” [Weltanschauliche Gegner ], il sottoreparto II 11 si occupava di nemici quali la Chiesa o il giudaismo e, in base alla suddivisione interna dei sottoreparti, il II 112 gestiva gli ebrei. Il sistema di numerazione proseguiva fino ai livelli inferiori: alla fine degli anni Trenta Eichmann era responsabile delle informazioni sui sionisti per il reparto II 1123. A capo dell’ufficio equivalente nell’ambito della Polizia di sicurezza, l’Ufficio per le questioni ebraiche, stava il dottor Karl Haselbacher, avvocato per formazione. Dal 1934 al 1937 questa sezione si occupò degli aspetti giuridici riguardanti la limitazione della libertà degli ebrei. Quando nel 1938 la politica mutò e l’attenzione si spostò sull’emigrazione forzata di massa, l’ufficio fu posto in secondo piano e Haselbacher fu trasferito a un’altra carica a Vienna. Venne ucciso in Francia nel 1940 e probabilmente si salvò così dall’eterno disonore che avrebbe colpito successivamente i suoi colleghi in conseguenza delle loro azioni. Mentre l’Ufficio per le questioni ebraiche della Gestapo perseguiva coloro che avevano violato le leggi antiebraiche, come ad esempio quella sulla purezza razziale, la sezione II 112 era impegnata nell’indagine della struttura e delle attività del “giudaismo mondiale”. Tutto ciò era in linea con l’ordine di Himmler del primo luglio 1936, secondo cui tale ufficio era responsabile di tutte le questioni ebraiche che non rientravano sotto la diretta competenza della Polizia di sicurezza.

Nel settembre 1939, all’inizio della guerra, Himmler riorganizzò la Polizia e istituì l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich [Reichsicherheithauptamt ] o RSHA. Quest’ultimo era composto da due organismi preesistenti, la Sipo (Sicherheitspolizei, Polizia di sicurezza) e l’SD (Sicherheitsdienst, Servizio di sicurezza). La Sipo era suddivisa in due branche: la Kripo (Kriminalpolizei, Polizia criminale) e la Polizia politica, nella versione nazista, denominata Gestapo [Geheime Staatpolizei, Polizia segreta di stato]. Heydrich fu il primo capo dell’RSHA, che può essere considerato il “ministero per gli Affari di Polizia” del Terzo Reich (sebbene la Polizia d’ordine non facesse parte del suo portafoglio). Himmler svolgeva il ruolo di ministro, Heydrich quello di direttore generale; il capo della Gestapo era Heinrich Müller, quello della Polizia criminale (Kripo) Arthur Nebe, mentre Otto Ohlendorf e i restanti dirigenti degli uffici erano vice direttori generali, e i capi dei reparti costituivano il livello intermedio tra essi e i Referenten

L’RSHA era strettamente legato alle Einsatzgruppen, le “unità d’azione”, che occuparono la scena ripetutamente durante tutta la breve storia del Terzo Reich. Le più famose Einsatzgruppen, tuttavia, furono quelle create nella primavera del 1941, nell’ambito dei preparativi per l’Operazione Barbarossa, il piano di invasione dell’Unione Sovietica. Si trattava di quattro unità che vennero agganciate alla Wehrmacht dall’estremo nord del fronte (Einsatzgruppe A) verso sud (Einsatzgruppen B e C) fino alla Crimea (Einsatzgruppe D). Esistono diversi ottimi studi circostanziati sulle funzioni delle Einsatzgruppen , ma la loro principale attività, per dirlo in forma telegrafica, era penetrare nei territori appena conquistati insieme alle unità d’invasione della Wehrmacht o immediatamente dopo di esse, effettuare retate di tutti gli ebrei che riuscivano a identificare in breve tempo e fucilarli all’istante. Inizialmente si concentrarono sull’uccisione degli uomini, ma dopo quattro-sei settimane cominciarono a uccidere ogni ebreo che trovavano, indiscriminatamente. Gli uomini delle Einsatzgruppen erano stati reclutati dalle diverse sezioni delle SS. I comandanti provenivano dagli uffici dei vari reparti dell’RSHA a Berlino, ai quali la maggior parte di essi ritornò alcuni mesi più tardi. Da abili burocrati quali erano, provvedevano a inviare rapporti quotidiani sulla loro attività a Heydrich, nella sede di Berlino, dove questi venivano conglobati in un rapporto centrale e diffusi in decine di copie. Alcuni di tali resoconti esistono ancora e leggendoli si possono ripercorrere gli elenchi delle persone uccise ogni giorno, spesso enumerate secondo precise categorie: ebrei uomini, donne, bambini e non ebrei .

Come era accaduto in Baviera nel 1933, durante tutto il corso della guerra i lager non furono gestiti dall’RSHA e dalla Gestapo, ma da una branca separata delle SS che nel 1942 fu riorganizzata come Ufficio centrale economico e amministrativo delle SS [Wirtschaft und Verwaltungshauptamt ], o WVHA, con a capo Oswald Pohl. La denominazione WVHA sembrerebbe indicare che il sistema dei campi di concentramento si occupasse essenzialmente di questioni economiche e che lo scopo fosse quello di utilizzare i lager e gli internati a fini industriali e in definitiva per ottenere profitti. Recentemente è stato però condotto un importante studio nel quale si dimostra che, mentre i dirigenti delle SS, naturalmente Himmler compreso, si proponevano quegli scopi, la realtà si dimostrò ben diversa. Proprio come l’RSHA affermava di occuparsi della sicurezza e i suoi reparti si definivano “di Polizia” quando si trattava invece di feroci carnefici, così il WVHA dichiarava di occuparsi di attività industriali mentre in realtà la spinta alla persecuzione dei prigionieri sopraffaceva qualsiasi proposito razionale. 

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LA SHOAH DEI BAMBINI

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CHI ERA Adolf Hitler

FONTE: ENCICLOPEDIA TRECCANI

Hitler, Adolf. – Uomo politico (Braunau am Inn, Austria Superiore, 20 aprile 1889 –  Berlino 30 aprile 1945). Fondatore e Führer del nazionalsocialismo, per dodici anni cancelliere del III Reich, è annoverato tra i distruttori più efferati dell’umanità: il suo nome e la sua politica hanno lasciato segni indelebili nella storia del 20º secolo, per la totalitaria e sanguinosa sopraffazione dei Paesi occupati prima e durante la seconda guerra mondiale e per la politica razziale, in nome di una presunta razza ariana, che ebbe programmaticamente come primo e principale obiettivo la “soluzione finale”, il genocidio del popolo ebreo (Shoah), con l’eliminazione nei campi di sterminio di circa sei milioni di Ebrei europei. Il suo terribile programma è concentrato nel Mein Kampf  (La mia battaglia, 2 voll., 1925 e 1927).

Figlio di un impiegato bavarese della dogana austriaca di origini illegittime, H. non volle mai soffermarsi sulle confuse provenienze familiari, anche per il dubbio sopravvenuto che si potessero ritrovare ascendenze ebraiche. Frequentò a Linz la scuola tecnica fino alla morte del padre avvenuta nel 1903 e, dopo la morte anche della madre, si trasferì nel 1907 a Vienna, dove, caduta ogni illusione di poter seguire gli studi di arte e di architettura, si dovette rivolgere, per vivere, al mestiere di decoratore e di pittore. Negli anni viennesi si avvicinò ossessivamente alla musica, incarnando in Richard Wagner la concezione romantica del genio. Sempre a Vienna l’antisemitismo di K. Lueger e le ideologie nazionaliste e pangermaniste ebbero una grande influenza su H., cresciuto in un ambiente impregnato di antigiudaismo cattolico; soprattutto il pangermanismo dottrinale e razzista che dalla proclamazione dell’ineguaglianza delle razze giungeva a esaltare una unica razza, pura e perfetta, quella nordica in cui si veniva a identificare l’elemento germanico. Erano le teorie risalenti a J.-A. de Gobineau (amato anche da Wagner) e a H. S. Chamberlain, rilette da H. attraverso D. Eckart, che furono la base delle sue idee naziste iniziali e che via via si sarebbero ancor più drammaticamente ‘affinate’ con la teorizzazione sistematica di A. Rosenberg. H. maturava così un atteggiamento ostile sia nei confronti della forte comunità ebraica viennese, sia dell’internazionalismo dei socialisti. Trasferitosi a Monaco di Bavieranel 1912, vi lavorò come operaio edile; e, allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914, si arruolò come volontario nelle file bavaresi: ferito nella battaglia della Somme(1916), la fine della guerra lo trovò ricoverato in un ospedale in Pomerania per una malattia agli occhi causatagli dai gas asfissianti inglesi, lanciati durante la battaglia di Ypres. Sotto choc per la sconfitta tedesca, H. si convinse che la catastrofe militare si doveva attribuire al tradimento interno alimentato dal marxismo e dal giudaismo. Ebbe inizio con determinazione nel primo dopoguerra la sua partecipazione alla vita politica, con il fine di riedificare la Grande Germania, contro gli intenti “distruttivi” delle decisioni di Versailles, sostenuti dai “traditori” interni della Repubblica di Weimar (1919-33) costituita dopo l’abbattimento della monarchia. Entrato nel settembre 1919 nel Deutsche Arbeiterpartei, il Partito tedesco dei lavoratori fondato da A. Dexler, trasformato nel 1920 in National-sozialistische deutsche Arbeiterpartei (NSDAP, Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori), nel luglio 1921 H. ne divenne il capo, affiancato da politici che esercitavano una profonda influenza sulla base degli iscritti. L’abbandono da parte del governo della politica di “resistenza passiva”, già opposta all’occupazione francese della Ruhr, lo spinse, alleandosi con E. Ludendorff, a organizzare il putsch di Monaco (8-9 novembre 1923) per abbattere la ormai consolidata Repubblica di Weimar. Fallito il tentativo, H. fu condannato a cinque anni di fortezza, nella prigione di Landsberg. Fu proprio durante la prigionia che H. abbozzò l’opera programmatica del nazismo Mein Kampf (1a parte, 1925; 2a, 1927): un pot pourri di teorie sociali superficialmente elaborate attraverso il mito della superiorità ariana. Qui per la prima volta H. assunse per iscritto come autentici i Protocolli dei Savi anziani di Sion, il falso costruito dalla sezione francese dell’Ochrana zarista alla fine dell’Ottocento e simbolo dell’antisemitismo moderno, per colpire a largo raggio il mondo ebraico con l’accusa di avere ordito, insieme alla massoneria, una ramificata cospirazione mondiale. Nel dicembre 1924 H. veniva rilasciato, grazie a un’amnistia, e riprendendo il programma politico, economico e sociale esposto nei cosiddetti “25 punti” del 1920, si volse nel 1925 a ricostituire il partito, facendone lo strumento fedele ed efficace della sua volontà attraverso le organizzazioni militari, i “reparti d’assalto” SA (Sturmabteilungen) e le “squadre di protezione” SS (Schutz-Staffeln): esse furono le forze militarizzate del partito per la battaglia politica interna. La crisi economica e finanziaria e la crescente disoccupazione agevolarono il convogliamento verso il nazionalsocialismo del malcontento di vasti strati della popolazione. Il primo grande successo per il suo movimento H. lo colse nelle elezioni per il Reichstag del settembre 1930, in cui ottenne oltre sei milioni di voti. Scatenò, dopo essersi accordato con i Tedeschi nazionali e i gruppi politici reazionari del Fronte di Harzburg, una battaglia (sino al 1933) per impadronirsi del potere. Dichiarava da un lato di voler rispettare la legalità nelle modifiche costituzionali, dall’altro impegnava il partito in un’azione violenta di squadrismo terroristico. Nel luglio 1932 conseguì la vittoria politica risolutiva alle elezioni per il Reichstag, mentre in aprile era stato sconfitto alle presidenziali da P. L. von Hindenburg. Cancelliere del Reich dal 30 gennaio 1933, costituì un ministero di coalizione; ma, ottenuti già nel marzo seguente i pieni poteri, attraverso la soppressione delle libertà democratiche impose al paese una ferrea dittatura di partito. Già in questa prima fase H. propose l’inserimento nella legislazione del pubblico impiego di norme discriminatorie nei confronti degli Ebrei, più di due anni prima della promulgazione delle Leggi di Norimberga (settembre 1935) che sancivano l’abolizione dei diritti per i non ariani. Con la “notte dei lunghi coltelli” tra il 30 giugno e il 1º luglio 1934, H., con l’accordo di H. Göring e H. Himmler, diede l’ordine di effettuare la sanguinosa epurazione degli elementi più radicali del partito, E. Röhm e i fautori della cosiddetta “seconda rivoluzione”; arginava nello stesso tempo l’opposizione di destra, rappresentata da F. von Papen. Il 2agosto del 1934, per effetto di una legge deliberata dal Consiglio dei ministri, le cariche di presidente del Reich e di cancelliere furono unificate e i poteri del presidente attribuiti a H. (ufficialmente denominato Führer und Reichskanzler). Amante del nuovo mezzo cinematografico e affascinato dal carattere teatrale, scenografico delle manifestazioni di massa cui aveva assistito nel dopoguerra a Vienna, sin da allora H. aveva iniziato ad acquisire consapevolezza degli effetti psicologici della messa in scena sulle grandi masse. Per affermare la grandiosità del suo disegno politico e della sua persona, H. giunto al potere utilizzò tutte le forme moderne della comunicazione; ne saranno esempi emblematici i film di propaganda, veri capolavori della regista nazista L. Riefenstahl, che mostrano l’agghiacciante creazione del consenso e del culto della personalità (Triumph des Willens, Il trionfo della volontà, 1935), oltre alla fredda celebrazione del mito della razza ariana (Olympia, 1938). Impadronitosi del vertice dello Stato, dopo il plebiscito del 19 agosto 1934, H. fondò il suo potere personale su un difficile equilibrio tra le forze rappresentate dal partito e dall’esercito. Da quel momento in poi la biografia di H. e la storia tedesca vanno a coincidere. Con l’ascesa di H. al potere in Germania, si consolidò l’affermazione del fascismo in Europa e nel mondo: attraverso il succedersi incalzante degli atti di una politica indirizzata a distruggere le clausole del trattato di Versailles, H. pose le basi per lo scoppio della seconda guerra mondiale. Nel 1936: militarizzazione della Renania; aiuti contro il governo repubblicano nella guerra di Spagna; costituzione dell’asse Roma-Berlino; patto Antikomintern. Nel 1938: annessione dell’Austria alla Germania (Anschluss); primo campo di concentramento e sterminio di Mauthausen; cessione dei Sudeti da parte della Cecoslovacchia decisa alla conferenza di Monaco; “notte dei cristalli” contro gli Ebrei in Germania. Nel 1939: occupazione di Boemia e Moravia; patto d’acciaio tra Italia e Germania; patto di non aggressione tra Germania e Russia. Il 1º settembre 1939 la Germania di H. invase la Polonia: fu lo scoppio delle seconda guerra mondiale. H. era convinto che questo fosse il solo mezzo per realizzare il “nuovo ordine” germanico; si autonominò nel 1941 comandante in capo dell’esercito, trascinando il nazionalsocialismo e il popolo tedesco a una comune rovina. Dalle file della Wehrmacht dopo le sconfitte di el-Alamein e soprattutto di Stalingrado sul fronte russo (gennaio 1943) nacquero gli sfortunati tentativi di sopprimere il dittatore: così con l’attentato compiuto il 23 marzo 1943 da F. von Schlabrendorff e con quello, del 20 luglio 1944, che determinò invece l’eccidio dei suoi promotori (fra i militari, l’esecutore materiale colonnello C. Stauffenberg, l’amm. H. Canaris, il mar. Witzleben, il gen. L. Beck, il gen. E. Hoeppner; fra i diplomatici, F. D. von Schulenburg). Con le ultime battute della guerra, davanti alla dilagante avanzata nemica H. si ritirò a Berlino dove, nel bunker del palazzo della Cancelleria, morì suicida con la compagna Eva Braun il 30 aprile 1945. La seconda guerra mondiale scatenata da H. è costata più di cinquanta milioni di vite umane, tra le morti in battaglia, l’eliminazione delle comunità ebraiche europee, degli zingari e dei deportati politici nei campi di sterminio, oltre agli eccidi dei combattenti della resistenza e delle popolazioni civili nei paesi occupati.

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Il ruolo di Hitler nell’Olocausto

Le primissime e le ultime affermazioni politiche documentate di Adolf Hitler riguardano la “questione ebraica”. In una lettera scritta già nel settembre 1919, in cui compariva quella terminologia biologica che tanto frequentemente avrebbe impiegato in seguito, Hitler parlava delle attività degli ebrei sostenendo che producessero “una tubercolosi razziale tra le nazioni”. Affermava con enfasi che gli ebrei erano una razza, non una religione. L’antisemitismo come movimento politico, dichiarava, doveva basarsi sulla “ragione”, non sulle emozioni, e doveva condurre alla cancellazione sistematica dei diritti degli ebrei. Tuttavia, l’“obiettivo finale”, che poteva essere raggiunto solo da un “governo di forte unità nazionale”, doveva essere la “rimozione degli ebrei nella loro totalità” . Nel suo testamento politico, dettato alla vigilia del suicidio, con l’Armata Rossa ormai alle porte, Hitler dichiarava: “Non ho lasciato sussistere dubbi sul fatto che, se le nazioni d’Europa saranno trattate di nuovo come pacchetti d’azioni da questi cospiratori del denaro e delle finanze internazionali, sarà chiamata a risponderne anche la razza che è la vera colpevole di questa micidiale lotta: gli ebrei! Non ho poi fatto mistero che questa volta milioni di figli dei popoli ariani europei non avrebbero patito la fame, milioni di uomini adulti non sarebbero rimasti uccisi e centinaia di migliaia di donne e bambini non sarebbero bruciati nelle città e periti nei bombardamenti, senza che il vero colpevole, sia pure con mezzi più umani, espiasse la sua colpa” . Quasi ventisei fatidici anni separano le due affermazioni. Ma non si trattava di stratagemmi propagandistici: non v’è alcun dubbio che quelli di Hitler fossero profondi convincimenti sostenuti con fervore. Alla base vi era il legame, presente nella sua mente dall’inizio alla fine della sua “carriera” politica, tra la guerra e gli ebrei. In un terribile passaggio di Mein Kampf, Hitler espresse il convincimento che “il sacrificio di milioni di persone al fronte non sarebbe stato necessario se dodici o quindicimila di questi ebrei corruttori del popolo fossero stati sottoposti a gas tossico” . Non era un ordine per azioni future; ma questa idea non lo abbandonò mai. 

Gli scritti e i discorsi di Hitler illustrano la straordinaria continuità di un limitato numero di idee di fondo immutabili, che gli fornivano la spinta interiore. Quali che fossero le bizzarrie degli opportunismi politici e i necessari aggiustamenti dell’attività propagandistica nel corso degli anni, queste convinzioni rimasero una costante dal momento del suo ingresso in politica fino alla morte nel bunker. È raro che un politico rimanga attaccato con tale tenacia a un nucleo centrale di idee per un periodo di tempo così lungo. Per quanto ripugnanti e basate su presupposti irrazionali, queste convinzioni formavano una base di argomenti che si radicava attorno a un nucleo di fondo e non lasciava spazio alla critica razionale: una sorta di concezione che possiamo legittimamente definire una Weltanschauung o ideologia . Questa visione si era già completamente consolidata non più tardi del 1925. Di fatto era costituita da non più di tre elementi base, ciascuno dei quali era più un obiettivo a lungo termine che un fine politico pragmatico a medio termine ed era fondato sulla premessa che l’esistenza umana fosse una lotta di razze: 1) l’affermazione dell’egemonia della Germania in Europa; 2) il conseguimento dello “spazio vitale” [Lebensraum ] per garantire le basi materiali del futuro della Germania a lungo termine; 3) la distruzione degli ebrei. Si trattava di una visione di salvezza per la Germania, un glorioso futuro che poteva essere raggiunto, come Hitler affermò più di una volta, solo attraverso una guida eroica. Dal 1924 egli era giunto a identificare quella guida in se stesso. I tre elementi della sua visione potevano inoltre essere conseguiti in un solo colpo con la distruzione dell’Unione Sovietica e lo sradicamento del “bolscevismo ebraico”. La guerra sul fronte orientale, che sarebbe infine iniziata nel giugno del 1941, era pertanto parte integrante di questa visione. 

La Weltanschauung, tuttavia, era essa stessa la razionalizzazione di un sentimento più profondo e radicato in Hitler: una bruciante sete di vendetta contro chi aveva distrutto tutto quello che egli riteneva giusto. La guerra del 1914-18, la cui immensa carneficina Hitler aveva vissuto da convinto e valente soldato, fanatico sostenitore della causa tedesca, gli aveva fornito un obiettivo per la prima volta nella sua vita. Nel 1915, in una delle poche lettere che scrisse dal fronte, parlava dell’immenso sacrificio di vite umane che sarebbe valso a produrre, dopo la guerra, una patria “più pura e ripulita dalla influenza straniera” . Egli considerava quindi quell’enorme massacro non in termini di sofferenza umana, ma come finalizzato alla costituzione di una Germania migliore. Questo è il motivo per cui la notizia, inattesa per lui come per molti altri, della capitolazione della Germania nel novembre 1918, che lo raggiunse mentre era ricoverato a Pasewalk in Pomerania per ristabilirsi da una intossicazione da iprite, fu così profondamente traumatizzante. Hitler aveva identificato il proprio destino personale con quello del Reich tedesco e un acuto senso di umiliazione nazionale si fondeva ora con la sua infelicità personale. La bruciante amarezza e un odio viscerale, provati con rara intensità, riflettevano questa identificazione ed erano diretti ora verso quei nemici che egli aveva già cominciato a individuare anni prima come capri espiatori, responsabili inizialmente dei mali suoi e ora di quelli della nazione. Non poteva accettare il fallimento dell’esercito in cui egli stesso aveva combattuto: ne dovevano essere responsabili oscure forze di sedizione in patria. Benché non fosse nella posizione di realizzarlo, il desiderio di vendetta lo teneva avvinto con la forza di un’ossessione. Coloro che avevano minato il prestigio nazionale della Germania, riducendola a una tale vergogna, avrebbero dovuto pagare: questo era il fuoco che ardeva in lui e che non si estinse mai. 

In piena coerenza con il suo modo di pensare, sin dall’inizio della sua “carriera” nel 1919, Hitler perseguì fanaticamente due scopi connessi: restaurare la grandezza della Germania e, così facendo, vendicare e restituire il disonore della capitolazione del 1918, punendo i responsabili della rivoluzione che ne era seguita e dell’umiliazione nazionale che si era manifestata pienamente nel Trattato di Versailles del 1919. Egli affermava ripetutamente che gli obiettivi potevano essere raggiunti solo “con la spada”, cioè con la guerra. Ai suoi occhi gli ebrei erano infatti responsabili dei crimini più orribili di tutti i tempi: ossia la “pugnalata alle spalle” del 1918, la capitolazione, la rivoluzione, le sventure della Germania. Nella sua percezione distorta gli ebrei erano i principali sostenitori del capitalismo a Wall Street e nella City di Londra, come del bolscevismo a Mosca; secondo la sua fede nella leggenda del “complotto ebraico mondiale”, essi avrebbero sempre ostacolato il suo cammino e costituito il nemico più pericoloso per i suoi piani: la logica conseguenza era, quindi, che la guerra doveva essere combattuta contro gli ebrei. Inoltre nella mente di Hitler era ugualmente logico che, quando quella guerra fosse stata riconosciuta come irrimediabilmente perduta, l’atto di sfida finale, doveroso da parte della Germania, l’ultimo atto di sacrificio necessario per espiare la vergogna e l’infamia inflitte dagli ebrei nel 1918, avrebbe dovuto essere la continuazione della lotta fino alla loro distruzione, con l’esortazione alle generazioni future a continuare la battaglia contro il popolo ebraico. La tenacia con cui rimase fedele alla convinzione dogmatica che fossero stati gli ebrei a causare la Prima guerra mondiale e che, nel caso il mondo fosse ripiombato in un’altra guerra a causa loro, sarebbero periti tutti, è veramente impressionante. Ripeteva questo sentimento continuamente in pubblico e in privato. Vedeva se stesso come il fautore della salvezza nazionale della Germania e quella salvezza sarebbe giunta solo con la distruzione del potere degli ebrei. 

La pervicacia di Hitler nel suo obiettivo di “rimuovere” gli ebrei e il fatto che, durante gli anni della sua dittatura, gli ebrei furono effettivamente “rimossi”, venendo sradicati prima dalla Germania poi da tutta la parte dell’Europa occupata dai tedeschi attraverso una spietata persecuzione e da ultimo l’annientamento fisico, sembra offrire una risposta precisa alla questione del ruolo di Hitler nella “Soluzione finale”. Questo ruolo, tuttavia, è meno ovvio di quanto possa parere a prima vista. Mentre il suo costante odio personale verso gli ebrei può essere chiaramente dimostrato, il modo in cui si tradusse nelle politiche di persecuzione e poi di sterminio non è sempre facile da discernere. Lo stesso Hitler, in uno dei suoi monologhi in tempo di guerra, osservò: “Anche rispetto agli ebrei, sono dovuto rimanere a lungo inattivo”. Ciò era avvenuto per ragioni tattiche, naturalmente . Tuttavia anche senza lo stretto coinvolgimento di Hitler nella sua direzione, di fatto la politica antiebraica conobbe una continua radicalizzazione. Come ha evidenziato molto tempo fa uno studio di grande rilievo, “la figura di Adolf Hitler ha un profilo indistinto” . Questo fatto in sé ha dato origine a diverse interpretazioni tra gli storici. Da tempo, giustamente, vi è disaccordo rispetto al ruolo diretto di Hitler nella conduzione politica e circa l’interrogativo se la “Soluzione finale” seguì un piano di annientamento a lungo termine mosso da motivazioni ideologiche, o rappresentò piuttosto la conclusione di un processo di “radicalizzazione cumulativa” derivante da misure improvvisate ad hoc, non pianificate, e da barbare iniziative locali volte ad affrontare i problemi logistici causati proprio dalla politica antiebraica dei nazisti. La natura e la datazione di ogni ordine del Führer, e persino capire se un certo ordine fosse effettivamente necessario, sono stati e rimangono punti centrali del dibattito. 

Il ruolo di Hitler secondo gli storici . Con poche eccezioni, tra cui in particolare lo studio pionieristico di Gerald Reitlinger  e l’opera monumentale di Raul Hilberg , ricerche circostanziate sulle decisioni e le politiche di genocidio furono avviate solo negli anni Settanta e aumentarono progressivamente nei decenni successivi, soprattutto dopo l’apertura degli archivi nell’ex blocco orientale. Solo alla luce di queste ricerche è stato possibile valutare con maggiore precisione il ruolo svolto da Hitler nell’emergere della “Soluzione finale”: ancora oggi, dopo un’analisi esaustiva, molte cose rimangono peraltro oscure e controverse. I problemi di interpretazione sorgono dalla complessità e dalle lacune della documentazione frammentaria pervenuta, che riflette in misura considerevole sia il linguaggio offuscante delle alte gerarchie naziste, sia l’assai poco burocratico stile di governo di Hitler. Questi, infatti, soprattutto a guerra iniziata, dava grande importanza alla segretezza e all’occultamento, tanto che gli ordini riguardanti questioni delicate di solito erano impartiti verbalmente e solo quando fosse strettamente necessario. 

Fino agli anni Settanta si riteneva generalmente che un singolo ordine diretto di Hitler avesse dato inizio alla “Soluzione finale”. Tale presupposto derivava da un approccio al Terzo Reich incentrato sulla figura di Hitler, che poneva forte enfasi sulla volontà, le intenzioni e le direttive politiche del dittatore. Questa tesi si accompagnava talvolta all’affermazione – sostenuta nell’influente lavoro di Lucy Dawidowicz – che Hitler avesse seguito un “grande disegno” o un “programma di annientamento”, riconducibile alla sua personale esperienza traumatica di fronte all’esito della Prima guerra mondiale, e la cui attuazione, nonostante gli occasionali e necessari aggiustamenti tattici, aveva atteso solo il momento opportuno, giunto nel 1941. Gerald Fleming, uno dei primi storici ad analizzare sistematicamente le prove del coinvolgimento di Hitler nell’attuazione della “Soluzione finale”, avanzò l’idea di un “piano strategico” per la realizzazione dell’obiettivo di Hitler risalente alla sua esperienza nella rivoluzione tedesca del 1918. I primi biografi di Hitler seguirono una linea simile. Un’ipotesi “psicostorica” circa questo obiettivo patologico fu proposta da Rudolph Binion, che interpretò l’ingresso in politica di Hitler come finalizzato a uccidere gli ebrei per vendicarsi della sconfitta della Germania, che egli inconsciamente associava alla morte della madre nel 1907, in cura presso un medico ebreo.

Una reazione a questa marcata centralità della figura di Hitler guadagnò terreno negli anni Settanta, dando vita a un approccio generale alternativo all’interpretazione del Terzo Reich, che prese il nome di “strutturalista” o talora “funzionalista”, in opposizione alla tesi “intenzionalista”. L’accento venne spostato dalla gestione personale della politica da parte di Hitler, alla frammentazione delle scelte politiche in un sistema di governo “policratico”, dai metodi amministrativi confusi e caotici, guidato da un “dittatore debole”, preoccupato soprattutto della propaganda e del mantenimento del proprio prestigio. Anche per quanto riguarda la politica antiebraica, gli approcci “strutturalisti” assegnavano minore importanza al ruolo dell’individuo – senza, naturalmente, mettere in dubbio l’antisemitismo paranoide di Hitler (indispensabile per la barbara persecuzione che portò al genocidio) o la sua responsabilità morale – per attribuirla invece alle “strutture” di governo del Terzo Reich e alle “funzioni” degli organismi rivali che compivano ogni sforzo per attuare “direttive di azione” odiose, ma espresse in modo impreciso. In un articolo fondamentale pubblicato nel 1977, dal quale prese avvio un dibattito che continua ancora oggi, Martin Broszat affermò che Hitler non aveva in nessun caso impartito un “ordine generale di sterminio totale”. Erano stati piuttosto i problemi sorti nell’intraprendere i piani di deportazione, a seguito dell’inatteso fallimento del tentativo di sconfiggere rapidamente l’Unione Sovietica durante l’estate e l’autunno del 1941, a spingere i satrapi nazisti nei territori orientali occupati a prendere l’iniziativa di uccidere gli ebrei nelle loro regioni. Dapprima, le uccisioni vennero approvate retroattivamente e solo gradualmente; dal 1942, si trasformarono in un programma complessivo di sterminio. Mancava, pertanto, un disegno a lungo termine per l’annientamento fisico degli ebrei d’Europa e non v’era stato alcun ordine specifico di Hitler.

In un importante saggio pubblicato nel 1983, Hans Mommsen presentò un’efficace argomentazione che rafforzava ulteriormente queste tesi. Mommsen ammetteva senza obiezioni la conoscenza e l’approvazione da parte di Hitler di ciò che stava avvenendo, ma considerava un ordine diretto di Hitler incompatibile con gli sforzi del dittatore nel prendere le distanze da una responsabilità personale diretta e sottolineava la sua riluttanza a parlare della “Soluzione finale”, perfino all’interno del suo ristretto entourage, se non in termini indiretti o in affermazioni propagandistiche. Secondo Mommsen il punto centrale dell’emergere della “Soluzione finale” non era da ricercarsi nell’attuazione della volontà di Hitler di sterminare gli ebrei, ma in iniziative burocratiche estemporanee la cui dinamica aveva dato il via a un processo di “radicalizzazione cumulativa” all’interno delle strutture parcellizzate dei processi decisionali del Terzo Reich. 

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando furono pubblicati i saggi programmatici di Broszat e Mommsen, la ricerca circostanziata sulle decisioni che diedero avvio alla “Soluzione finale” era ancora poco sviluppata. Nel frattempo, naturalmente, erano stati pubblicati importanti lavori, oltre a quello di Hilberg: tutti screditavano, senza possibilità di recupero, l’idea di un “grande disegno” di sterminio, ovvero di un progetto risalente al 1918. Yehuda Bauer, uno dei maggiori esperti israeliani dell’Olocausto, produsse una sintesi della revisione generale, indicando una serie di stadi di sviluppo nella politica antiebraica, tutti incentrati sull’idea immutata di eliminare gli ebrei dalla Germania, benché non basati su alcun programma di sterminio a lungo termine. Questo giudizio seguì alle due approfondite analisi della politica antiebraica di Karl Schleunes e Uwe Dietrich Adam, che indagavano le oscillazioni e le battute di arresto della persecuzione nazista, escludendo l’idea di una semplice strategia di attuazione di un piano di sterminio a lungo termine voluto da Hitler. Lungi dall’essere un percorso rettilineo, la strada per Auschwitz, secondo Schleunes, era stata alquanto “tortuosa”. 

Direttamente stimolato dalle ipotesi di Broszat, agli inizi di una carriera che lo avrebbe consacrato uno dei maggiori esperti mondiali sull’Olocausto, Christopher Browning fu tra i primi storici a esplorare gli ostici e complessi documenti originali sui mesi cruciali del 1941 che videro l’affermarsi della “Soluzione finale” (con cui non si intende solo l’uccisione di massa degli ebrei in Unione Sovietica alla vigilia dell’Operazione Barbarossa, ma un programma per sterminare tutti gli ebrei d’Europa nelle aree occupate dai nazisti). Browning pose l’accento su una direzione centrale dello sterminio, respingendo l’enfasi posta da Broszat sulle iniziative locali confluite solo gradualmente in un programma, e ritornò a dare importanza a una decisione di Hitler che, come Hilberg e altri, egli collocava nell’estate del 1941. Vedeva un riflesso cruciale di questa decisione nel mandato consegnato da Göring a Heydrich il 31 luglio 1941, che gli ordinava di mettere a punto una “soluzione totale alla questione ebraica”. La novità dell’interpretazione di Browning, tuttavia, fu l’idea che Hitler avesse commissionato a Göring l’elaborazione di un piano per la “Soluzione finale” che avrebbe dovuto trovare conferma in seguito, ossia che da parte di Hitler si trattasse della prima parte di un ordine da eseguirsi in due tempi. Nei mesi successivi si assistette a una radicalizzazione a vari livelli e a un forte incremento nelle uccisioni degli ebrei. Vi era confusione, a tratti contraddizione, e parecchia improvvisazione. Ma nulla di tutto ciò era incompatibile, secondo Browning, con un mandato che ordinava di adoperarsi per lo sterminio degli ebrei e che risaliva al luglio precedente. Browning concludeva che nel tardo ottobre o nel novembre 1941, con la crisi dell’offensiva contro l’Unione Sovietica, Hitler approvò il “piano di sterminio che aveva commissionato l’estate precedente”. Nei numerosi e interessanti studi dettagliati che sono stati pubblicati su questo argomento dopo questo primo saggio, Browning non ha mai rivisto sostanzialmente questa interpretazione. 

La datazione, così come la natura, di ogni decisione del Führer riguardo alla “Soluzione finale” era diventata ormai un problema interpretativo cruciale e fu dibattuta ampiamente in una importante conferenza a Stoccarda nel 1984. La maggior parte degli esperti che vi parteciparono, sebbene non tutti, ammise il fatto che ci dovesse essere stato un ordine del Führer, ma le interpretazioni sulla data di tale ordine (che tutti erano d’accordo nel collocare in un qualche momento del 1941) variavano considerevolmente. L’opinione dominante era che la decisione cruciale, vista principalmente come legata al mandato di Göring di estendere all’intera Europa la distruzione fisica degli ebrei che già infuriava in Unione Sovietica, fosse avvenuta in estate, quando la fine della guerra sembrava imminente. Alcuni, tuttavia, collocavano la decisione di Hitler non nella fase “euforica” dell’estate, ma nell’autunno, quando fu chiaro che la guerra in Unione Sovietica si sarebbe prolungata e quando la possibilità, precedentemente considerata, di deportare gli ebrei nel territorio sovietico era sfumata. Il problema della collocazione temporale delle decisioni di Hitler aveva acquisito un significato più vasto. Secondo l’interpretazione della fase di “euforia”, il Führer avrebbe progettato la distruzione degli ebrei da una posizione di forza, quando sembrava che avesse in pugno il trionfo finale. Si tendeva quindi a sostenere l’idea di una intenzione ferma di uccidere gli ebrei quando se ne fosse profilata l’opportunità. L’interpretazione alternativa sosteneva invece che si trattasse di una decisione presa per effettiva debolezza, quando le prospettive di vittoria erano diminuite e i problemi di una guerra protratta e dura stavano aumentando. Veniva pertanto suggerita l’idea di una reazione alle circostanze poi sfuggita al controllo, di una risposta all’incapacità di attuare la desiderata soluzione territoriale della “questione ebraica” deportando gli ebrei nelle desolate regioni artiche dell’Unione Sovietica e di una determinazione vendicativa a voler trionfare nella “guerra contro gli ebrei” persino se la vittoria finale nella guerra militare si fosse rivelata impossibile da conseguire. 

L’idea che una decisione di Hitler dovesse essere collocata non nell’euforia delle attese di vittoria imminente di piena estate, ma circa due mesi dopo, quando la lunga guerra a est stava cominciando a rendere pessimista il dittatore, fu avanzata in modo assai convincente da Philippe Burrin verso la fine degli anni Ottanta. Contrariamente a Browning e ad altri, Burrin affermava – opinione nel frattempo condivisa anche da altri – che sarebbe stato un errore vedere nel mandato di Göring del 31 luglio 1941 il riflesso di un ordine fondamentale di Hitler per la “Soluzione finale”, ossia l’ordine di estendere il genocidio, che stava già avendo luogo in Unione Sovietica, a un programma di sterminio fisico di tutto l’ebraismo europeo. Piuttosto, secondo Burrin, il mandato di Göring ricadeva ancora nell’insieme di misure prese allo scopo di realizzare un insediamento territoriale a est, una volta che la guerra fosse finita. Tale mandato, stilato nell’ufficio di Heydrich per sottoporlo alla firma di Göring, era finalizzato a stabilire, in un contesto dove molte erano le istanze concorrenti, l’autorità del capo dell’Ufficio centrale per la Sicurezza del Reich sulla gestione di tutti i problemi che concernevano la soluzione della “questione ebraica”. La mancanza di chiarezza che evidentemente prevaleva ancora tra le autorità naziste nella tarda estate e nel primo autunno del 1941 significava, secondo Burrin, che nessuna decisione per la “Soluzione finale” era stata ancora presa. Egli affermava che un tale ordine, nel settembre del 1941, era sinonimo della decisione di deportare gli ebrei a est, presa irrevocabilmente da Hitler in un momento di pessimismo riguardo alla lenta avanzata in Unione Sovietica e alle crescenti prospettive di un lungo conflitto. Poco dopo la pubblicazione dello studio di Burrin, gli archivi dell’ex blocco orientale cominciarono a rivelare i loro segreti. Come previsto, non fu trovato alcun ordine scritto di Hitler riguardo alla “Soluzione finale”. La maggior parte degli storici aveva da tempo abbandonato la supposizione che fosse stato impartito un singolo ordine esplicito scritto; e anche ora non v’erano elementi a sostegno di quell’ipotesi. In realtà, da Mosca o da altri archivi dell’Europa dell’est erano arrivati pochi elementi a gettare nuova luce direttamente sul ruolo di Hitler nella “Soluzione finale”. Indirettamente, tuttavia, nuove prospettive sull’affermazione di un programma di genocidio fornirono rinnovate intuizioni sul ruolo dello stesso Hitler. 

A trarre profitto dalle nuove opportunità di ricerca fu il notevole studio pubblicato da Götz Aly nel 1995 sulla connessione tra i piani nazisti di reinsediamento di centinaia di migliaia di oriundi tedeschi nei territori occupati della Polonia e i cambi di direzione della politica di deportazione degli ebrei. In una ricostruzione dettagliata delle decisioni di politica razziale nei territori orientali tra il 1939 e l’inizio del 1942, Aly riuscì a dimostrare che misure antiebraiche sempre più radicali furono il risultato della congestione prodotta dai brutali e irrealistici piani di reinsediamento delle autorità naziste. Aly concluse che non vi fu una singola decisione specifica di sterminare gli ebrei d’Europa. Piuttosto, similmente al concetto di Mommsen di un sistema di “radicalizzazione cumulativa”, ipotizzò un “lungo e complesso processo decisionale”, con alcuni notevoli picchi in marzo, luglio e ottobre 1941, e proseguito ancora in forma di una serie di “esperimenti” fino al maggio 1942. Hitler, secondo questa interpretazione, era confinato al ruolo di arbitro tra gerarchi nazisti rivali, i cui progetti per affrontare la “questione ebraica” avevano creato problemi insolubili. La tesi di Aly, secondo cui non sarebbe possibile collocare in un momento preciso la decisione di Hitler sulla “Soluzione finale”, ha ottenuto il sostegno di un certo numero di circostanziati studi di carattere locale sull’origine del genocidio nei territori occupati. Tra i risultati ottenuti vi è stata una maggiore comprensione di come, nei mesi critici dell’autunno del 1941, le autorità naziste regionali fossero ricorse sempre più radicalmente alle proprie forze e a iniziative locali per liberare dagli ebrei le aree di loro competenza. Mentre da Berlino provenivano segnali evidenti che indicavano l’avvicinarsi di una “soluzione” complessiva alla “questione ebraica” e spingevano le autorità naziste in loco ad adottare misure drastiche per risolvere le proprie difficoltà, le interpretazioni contrastanti degli obiettivi della politica antiebraica in questa fase sembrano implicare che una decisione fondamentale non era ancora stata presa. Furono avviati alcuni programmi di sterminio locale messi in moto da zelanti funzionari nazisti in stretto coordinamento con Berlino. Nel novembre 1941 iniziò la costruzione di un piccolo campo di sterminio a Bełżec, nel Distretto di Lublino del Governatorato generale, istigata dal capo delle SS dell’area, Odilo Globocnik, con lo scopo di liquidare gli ebrei di quella zona non idonei al lavoro. Nel Warthegau, la parte annessa della Polonia Occidentale, il capo della polizia regionale, Wilhelm Koppe e il Gauleiter [capo responsabile del distretto, N.d.T.] Arthur Greiser, fecero da intermediari con Berlino per installare dei furgoni a gas a Chelmno. Queste operazioni cominciarono all’inizio di dicembre con lo scopo di uccidere gli ebrei del sovraffollato ghetto di Lódź e di altre parti della regione, nell’ambito di un’attività di compensazione per l’afflusso di numerosi altri ebrei mandati a est con la prima ondata di deportazioni dal Reich. Ma le “soluzioni” locali, compresa la fucilazione degli ebrei appena arrivati dalla Germania nelle regioni baltiche durante l’autunno del 1941, non facevano ancora parte di un programma completamente formulato e complessivo. Una “Soluzione finale” stava ancora evolvendo, era ancora in fase “sperimentale”. 

La ricerca aveva poi in qualche modo abbandonato le varie ipotesi intorno alla data della decisione di Hitler sulla “Soluzione finale”, suggerendo o affermando esplicitamente che tale decisione non era stata presa. Per una via diversa e sulla base di scoperte scientifiche più approfondite, si stava ritornando all’idea generale delle ipotesi programmatiche “strutturaliste” di Broszat e Mommsen dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta. Le loro conclusioni, tuttavia, erano lontane dall’essere universalmente accettate. L’enfasi posta sulle iniziative locali, le misure improvvisate, i “processi” non programmati che si sarebbero sviluppati fino a trasformarsi in un progetto di sterminio “senza autore” non convincevano molti storici. Alcuni studiosi, tra i quali spicca Christopher Browning, ritenevano che, nonostante gli indubbi progressi dovuti ai circostanziati studi di carattere regionale sull’origine del genocidio, il ruolo della direzione centrale della politica era stato sottovalutato. Anche il ruolo di Hitler sembrava comparire appena nelle nuove interpretazioni. Era possibile, o almeno plausibile che il più radicale degli antisemiti radicali non avesse avuto alcuna parte diretta nel plasmare le politiche finalizzate alla distruzione di quello che percepiva come il suo principale nemico? Come hanno dimostrato David Bankier e poi, in una magistrale ricerca, Saul Friedländer, anche negli anni Trenta Hitler si era occupato più attivamente e fino al più piccolo dettaglio di politica antiebraica, a differenza di quanto non emergesse soprattutto dal precedente lavoro di Karl Schleunes. Non era facile, tuttavia, ammettere che fosse rimasto al di fuori del processo decisionale proprio nel momento in cui l’obiettivo a lungo dichiarato di “rimuovere” gli ebrei stava trasformandosi in una realtà concreta. In una serie di importanti pubblicazioni Browning continuò anche a sostenere l’importanza di un ordine del Führer e a collocarlo (come aveva sempre sostenuto) nell’estate del 1941, il periodo dell’“euforia”. Non gli fecero mutare opinione le obiezioni rivolte a questa datazione, sebbene lo storico sottolineasse che non stava cercando di individuare una singola decisione, ma stava valutando “il momento in cui Hitler inaugurò il processo decisionale”: la prima mossa negli sviluppi che si sarebbero protratti nei mesi successivi. 

Altri storici, anch’essi con l’intenzione di enfatizzare il ruolo diretto di Hitler nel guidare la politica verso una “Soluzione finale” voluta e pianificata, sono giunti a conclusioni diverse riguardo alla datazione di un ordine del Führer. Secondo Richard Breitman, “una decisione fondamentale di sterminare gli ebrei” da parte del dittatore risaliva già al gennaio 1941, ma aggiungeva che “se lo scopo e le politiche di base erano ora chiare, non lo erano i piani specifici”, che seguirono solo qualche tempo dopo con le prime decisioni operative in luglio. In altre parole, Breitman non ipotizzava una politica decisionale incisiva, piuttosto una dichiarazione di intenti. Tuttavia Hitler aveva a lungo sostenuto l’idea che un’altra guerra avrebbe causato la distruzione degli ebrei e, a questo punto, all’inizio del 1941, nel contesto di pianificazione dell’Operazione Barbarossa, la deportazione degli ebrei nei territori artici dell’Unione Sovietica, dove col passare del tempo si prevedeva sarebbero morti, si stava aprendo come una prospettiva realistica. È difficile sostenere che la decisione di Hitler nel gennaio 1941 andasse oltre l’idea definitiva, sebbene ancora vaga, della soluzione territoriale. Anche se implicitamente si trattava già di genocidio, le oscillazioni della politica dei mesi successivi vanno contro l’ipotesi che il gennaio del 1941 sia la data in cui Hitler prese la decisione della “Soluzione finale”. 

Tovias Jersak avanzò invece una proposta completamente diversa riguardo alla data di un eventuale ordine di Hitler. Secondo Jersak, la firma della Carta Atlantica da parte di Roosevelt e di Churchill il 15 agosto 1941 (che significava la prossima entrata in guerra della Germania contro gli USA) costituì lo stimolo che spinse Hitler, in quel momento afflitto da un esaurimento nervoso e particolarmente insicuro per il fallimento della sua strategia per sconfiggere l’Unione Sovietica, a prendere la decisione fondamentale di distruggere fisicamente gli ebrei d’Europa. Jersak però probabilmente esagerava l’importanza della firma della Carta Atlantica: non è affatto certo che la Carta in sé sia stata sufficiente a fornire a Hitler la spinta per una decisione così importante presa, secondo l’interpretazione di Jersak, rapidamente e senza consultare nessuno. A Jersak rimangono, in realtà, solo speculazioni a sostegno della sua affermazione secondo cui Hitler aveva già preso la decisione quando incontrò Goebbels il 19 agosto e acconsentì alla proposta avanzata dal ministro per la Propaganda di costringere gli ebrei di Germania a indossare la stella di Davide cucita sugli abiti. 

Un’altra interpretazione che ipotizza una decisione fondamentale da parte di Hitler di dare avvio alla “Soluzione finale” fu proposta da Christian Gerlach, secondo cui le differenze nel mettere in pratica le misure antiebraiche escludevano un ordine centrale specifico di Hitler nell’estate e all’inizio dell’autunno. Nonostante l’evidente aumento di azioni genocide, mancava ancora chiarezza sul trattamento da riservare agli ebrei del Reich deportati e le varie misure di liquidazione locali non erano ancora coordinate. Gerlach sosteneva che proprio il bisogno di ottenere chiarezza e coordinamento fosse alla base dell’invito che Heydrich rivolse agli organismi coinvolti nella Conferenza di Wannsee il 9 dicembre 1941 perché fornissero cifre significative. Poi ci furono i fatti di Pearl Harbour e l’incontro fu rimandato. Secondo l’interpretazione di Gerlach quando l’incontro infine ebbe luogo, il 20 gennaio 1942, Hitler aveva già preso la “decisione fondamentale” di uccidere tutti gli ebrei d’Europa. Nel contesto di una guerra che ora era divenuta globale, Gerlach considerava un discorso, tenuto il 12 dicembre da Hitler, a Reichsleiter [membri della dirigenza nazionale del partito, N.d.T.] e Gauleiter [i responsabili di distretto, N.d.T.], accompagnato da una serie di incontri privati con gerarchi nazisti nei giorni seguenti, equivalente alla “decisione fondamentale” di Hitler riguardo alla “Soluzione finale”. Indubbiamente gli argomenti che Gerlach offriva per un’ulteriore radicalizzazione della politica di sterminio nel dicembre del 1941 sono più che validi, ma è difficile immaginare che Hitler, il quale non parlava volentieri dello sterminio degli ebrei se non in termini molto generici anche con il suo più stretto entourage, avesse infine scelto di annunciare la “decisione fondamentale” di dare avvio alla “Soluzione finale” nel corso di una riunione con una cinquantina di gerarchi nazisti. Nessuno dei presenti fece riferimento in seguito a questo incontro come a qualcosa di particolarmente importante rispetto alla “Soluzione finale”. Anche Goebbels, il cui diario costituisce la fonte che documenta i commenti di Hitler, sintetizzò le affermazioni sugli ebrei in poche righe all’interno di un’estesa annotazione senza attribuire loro particolare importanza. 

Una recente e meticolosa analisi delle complesse documentazioni relative ai processi decisionali sulla politica antiebraica tra il 1939 e il 1942 offre un’ulteriore variante. Florent Brayard colloca la data in cui Hitler ordinò di avviare la “Soluzione finale” come programma complessivo in un momento successivo rispetto a tutti gli altri storici, ovvero nel giugno 1942, subito dopo l’assassinio di Reinhard Heydrich a Praga. Al funerale di Heydrich, il 9 giugno, Himmler annunciò ai dirigenti delle SS che avrebbero completato l’“emigrazione” [Völkerwanderung ] degli ebrei entro un anno. Questo è l’elemento, deduce Brayard, che lega i commenti di Himmler alle documentate affermazioni draconiane di Hitler riguardo agli ebrei, relative più o meno a quel periodo, secondo cui la “Soluzione finale”, ossia il programma per lo sradicamento rapido e totale di tutti gli ebrei d’Europa, era stata avviata. Sembra forse più plausibile, tuttavia, considerare questo come l’ultimo di una serie di eventi che determinò un programma di sterminio di portata europea. L’autorevole studio di Peter Longerich sulle “politiche di annientamento”, in effetti, aveva già stabilito – un fatto, questo, ormai ampiamente accettato anche da Brayard – che un programma complessivo di sterminio degli ebrei d’Europa si fosse sviluppato in forma di processo incrementale, con una serie di spinte acceleratrici tra l’estate del 1941 e quella del 1942. Già nel marzo e nell’aprile del 1942, dimostrò Longerich, erano in corso di elaborazione dei piani per deportare gli ebrei dall’Europa occidentale verso est e per estendere gli eccidi in Polonia e nell’Europa centrale. L’assassinio di Heydrich probabilmente fornì l’impulso che diede una decisiva accelerazione a questo processo. 

Sembra chiaro che, data la frammentarietà e l’incompletezza dei documenti, tutti i tentativi di stabilire il momento preciso in cui Hitler decise di mettere in atto la “Soluzione finale” saranno suscettibili di obiezioni. Molto dipende anche da cosa si intende come ordine del Führer: si tratta di una direttiva chiara e precisa, o soltanto di un “via libera” o di un “cenno del capo”? L’interpretazione muta anche a seconda che si consideri il processo decisionale relativo alla “Soluzione finale” come un continuum, con aggiustamenti e fasi di accelerazione nel corso di circa un anno, o che s’intenda identificare un momento in cui possa essere isolato un preciso salto in avanti che abbia determinato la decisione. 

Peraltro, anche i resoconti strutturalisti o funzionalisti, in cui il ruolo di Hitler è minimizzato o marginalizzato, sembrano ugualmente insoddisfacenti. L’enfasi posta da Aly, per esempio, sul legame tra la congestione prodotta dai piani nazisti di trasferimento della popolazione e di reinsediamento degli oriundi tedeschi e la radicalizzazione della politica antiebraica, per quanto giustificata, non spiega perché il fallimento dei piani di deportazione portò al genocidio unicamente nel caso degli ebrei. Si ritorna allora a considerare direttamente il ruolo dell’ideologia, spesso minimizzato nelle ricostruzioni strutturaliste. Data la lunga tradizione antisemita, gli ebrei occupavano una posizione molto particolare nella demonologia nazista e nei piani di “pulizia etnica”. Gli ebrei erano stati i principali nemici ideologici dei nazisti sin dall’inizio e il loro sterminio nel 1941 era stato preceduto non solo da anni di crescente persecuzione, ma anche da ripetute affermazioni, da parte dei dirigenti nazisti e in particolare di Hitler stesso, che ne invocavano la “rimozione”. Si ritorna così a considerare Hitler e la sua influenza sul modus operandi del sistema di governo nazista. Sembra impossibile isolare un singolo ordine specifico del Führer riguardo alla “Soluzione finale”, nel quadro di una politica di sterminio che assunse la sua piena forma nel corso di un processo di radicalizzazione durato per un periodo di circa un anno. Al tempo stesso, molti fatti indicano che il programma di sterminio si sviluppò con il ruolo fondamentale e decisivo di Hitler. Per conciliare queste due affermazioni è necessario ricercare sia una serie di autorizzazioni segrete a provvedimenti radicali particolari (che possono essere dedotte solo da documentazioni indirette o secondarie), sia un certo numero di segnali pubblici o di “via libera” all’azione. Bisogna anche riconoscere che Hitler era il portavoce supremo e radicale di un imperativo ideologico che nel 1941 era diventato una priorità per l’intera classe dirigente del regime. In questo contesto dobbiamo ora considerare come Hitler aprì la strada verso il genocidio. 

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L’OPINIONE DI David Bankier SULLA CONOSCENZA DEGLI STERMINI

La mancanza di una dichiarata opposizione alla persecuzione degli ebrei spiega largamente perché così tanti cercarono deliberatamente rifugio dalla consapevolezza del genocidio e tentarono di rimanerne il più possibile all’oscuro, giacché ciò salvava la loro coscienza. Conoscere i fatti generava senso di colpa in quanto chiamava in causa la responsabilità, e molti credevano di poter conservare la loro dignità rifuggendo l’orribile verità. Questa deliberata fuga nella sfera privata e nell’ignoranza non salvaguardò l’opinione pubblica dall’essere consapevole dei crimini del Terzo Reich. Le notizie sulle fucilazioni di massa e sulle gassazioni trapelavano nel Reich, accrescendo la preoccupazione circa le conseguenze degli atti criminali dei nazisti. 

Quel che afferma Bankier, in altre parole, non è tanto il fatto che i tedeschi potevano essere all’oscuro degli stermini, quanto semmai che non volevano sapere. La tendenza a evitare o reprimere notizie fastidiose rappresenta indiscutibilmente un fenomeno molto comune ed è, logicamente, applicabile all’atteggiamento della maggior parte dei tedeschi in relazione al destino degli ebrei. Si tratta di un’interpretazione non facilmente dimostrabile o confutabile. Le notizie erano sì palesemente disponibili, ma come dimostrare che i tanti tedeschi posti di fronte a esse capissero la loro importanza o negassero la loro credibilità, le reprimessero o le ritenessero una possibilità e non, tuttavia, una certezza? 

Malgrado le diverse possibilità, la risposta più plausibile a questa questione ancora aperta mi pare essere la seguente: in primo luogo, le notizie erano ampiamente disponibili, come mostrato dalle testimonianze riferite. In secondo luogo, le notizie non venivano ignorate per parecchie ragioni. Come abbiamo visto, la popolazione discuteva in proposito, e se le discussioni avvenivano a Minden, avevano luogo in molte parti del Reich. In terzo luogo, una serie di eventi noti alla maggioranza dei tedeschi non potevano non condurre a conclusioni obbligate sul destino degli ebrei: nell’estate del 1941, le spietate uccisioni dei malati di mente erano già diventate di dominio pubblico; gli ebrei erano attaccati senza tregua dalla propaganda di stato e di partito come i supremi nemici che manipolavano il bolscevismo e la plutocrazia nella loro lotta sempre più cruenta contro il Reich. Nell’autunno di quell’anno, le pubbliche diatribe antiebraiche di Hitler e Goebbels si fecero sempre più stridenti e le loro minacce di vendetta più virulente di quanto mai fosse avvenuto in precedenza. La deportazione di ebrei dal Reich verso l’Est avveniva alla luce del sole e poteva essere vista da tutti; costanti voci sulle uccisioni di massa di ebrei insieme a una cospicua quantità di dettagliati rapporti personali pervenivano nel territorio del Reich, all’interno del contesto complessivo appena menzionato. In simili circostanze, rimanere all’oscuro di questi indizi convergenti e delle informazioni connesse relative agli eccidi di massa era difficile. 

Come già abbiamo avuto modo di constatare, le reazioni contemplavano varie forme, dall’esplicita compassione per gli ebrei, alla paura di esprimere proprie opinioni, alla riluttanza a turbare l’ordine in tempo di guerra, a varie forme di razionalizzazione fino anche all’aperto sostegno dei crimini antiebraici e, in misura prevalente, all’indifferenza. Sottolineo ancora una volta esplicita compassione, benché limitata a casi sporadici, perché nello scenario sempre più fosco rivelato dalla ricerca storica non possiamo lasciarla cadere nell’oblio. A Minden, esauriti i commenti sulla deportazione degli ebrei della città, alcuni degli abitanti citati nel rapporto del Servizio di Sicurezza espressero il proprio dissenso, dichiarando che anche gli ebrei erano “figli di Dio”. Eppure, fu l’indifferenza al destino degli ebrei a prevalere, quell’indifferenza che per sua stessa natura non veniva registrata dai diaristi. 

Consideriamo il secondo opuscolo clandestino distribuito all’inizio di luglio del 1942 dal gruppo di resistenza Rosa Bianca, nel quale è ricordato l’assassinio di circa 300.000 ebrei in Polonia. Questi studenti di Monaco aggiunsero subito una presa di distanza: qualcuno potrà dire che gli ebrei “meritano il loro destino”, ma allora cosa pensare del fatto che “l’intera gioventù aristocratica polacca è stata sterminata”?. In altre parole, questi militanti nemici del regime erano ben consapevoli che l’uccisione di massa degli ebrei non avrebbe sconcertato tutti i lettori del volantino e che i crimini commessi contro i cattolici polacchi non potevano essere taciuti, soprattutto in Baviera. Non possiamo generalizzare sulla base di questo esempio, ma solo suggerire che per molti tedeschi lo sterminio di massa degli ebrei non costituiva motivo di reale turbamento. 

L’essere a conoscenza di enormi massacri è altra cosa dall’essere consapevoli dell’annientamento totale, ma la differenza tra queste due posizioni è così radicale come molti storici sembrano suggerire? La conoscenza di Auschwitz costituisce davvero la questione decisiva? In termini di protesta contro la criminalità di massa o della sua accettazione, non possiamo, mi pare, tracciare una linea di separazione invalicabile tra la consapevolezza dell’eccidio di centinaia di migliaia di vittime, tra cui i propri vicini, e quella del totale sterminio di un intero popolo. Giova ricordare a questo punto che le informazioni relative ai centri di sterminio erano probabilmente più precise di quanto non si sia pensato fino a poco tempo fa. Sybille Steinbacher ha recentemente dimostrato che ogni estate centinaia di donne si recavano in visita dai loro mariti che lavoravano come guardie del campo ad Auschwitz e vi rimanevano per lunghi periodi di tempo. Inoltre, la popolazione tedesca del Reich insediata ad Auschwitz si lamentava dell’odore prodotto dai crematori sovraccarichi. 

La diffusa indifferenza della popolazione tedesca non sollecita interpretazioni inconsuete, come quella dell’“antisemitismo eliminazionista” di Daniel Goldhagen per esempio (un’interpretazione che, a mio parere, è troppo monocausale, astorica e priva di sfumature). La disparità di fondo riscontrabile in termini di trattamento nei confronti dei membri della comunità tedesca, la Volksgemeinschaft, e degli “altri” è di per sé sufficientemente illuminante. I costanti rigurgiti della propaganda antiebraica e il perdurare di varie forme di tradizionale antisemitismo alimentarono senza dubbio questa percezione profondamente radicata degli ebrei come esseri appartenenti a una categoria umana quintessenzialmente diversa dai tedeschi. Tutti gli studi sull’antisemitismo tedesco, nelle sue diverse forme, e sull’antisemitismo in generale, sono fondati su questa distinzione di fondo e, in tal senso, i primissimi segni di una percezione negativa e ostile di una diversità ebraica nata all’interno del cristianesimo non potevano non gettare le necessarie (ma non sufficienti) premesse per l’emergere dei più vili stereotipi nazisti. Anche quando tentarono di difendere gli ebrei convertiti, i cosiddetti “giudeo-cristiani”, come venivano chiamati durante il Terzo Reich, le Chiese protestanti tedesche sentirono il bisogno di sottolineare le caratteristiche aliene dei convertiti. “La Chiesa attende tuttavia” – queste le parole che si leggono in un memorandum emesso dalla Chiesa protestante della regione del Baden in difesa degli ebrei convertiti – “che i nostri fratelli e sorelle cristiani di razza aliena compiano seri sforzi per abbandonare quelle caratteristiche ereditate dai loro padri che sono aliene ai tedeschi e per integrarsi nella nostra Volkstum tedesca. Nella vita pubblica sono tenuti a mostrare una saggia riservatezza, in modo che nessun ostacolo possa frapporsi all’esercizio dell’amore fraterno”. Per la stragrande maggioranza dei tedeschi, gli ebrei erano alieni nella migliore delle ipotesi. Per molti, finirono con l’essere visti come nemici che andavano estirpati. In tal senso, l’interrogativo posto da Otto Dov Kulka per scoprire se il comportamento della maggioranza sia interpretabile come indifferenza o piuttosto come supporto alle politiche del regime, deve essere sollevato, sebbene non possa che rimanere aperto.

In aggiunta a ciò, un fenomeno particolare deve essere preso in esame. Mobili, tappeti, vestiti, articoli domestici e perfino le case che appartenevano agli ebrei deportati si resero disponibili per i Volkgenossen meritevoli (quelli che erano destinati, nel gergo nazista, a divenire i membri della comunità razziale tedesca, N.d.A.). Inoltre, gli effetti personali potevano essere acquistati per pochi soldi negli Judenmärkte, i mercati ebrei, delle principali città, oppure venivano distribuiti dalla Winterhilfe (il soccorso invernale) spesso sprovvisti delle etichette originali che erano state rimosse. I benefici materiali accrescevano i vantaggi del silenzio di fronte agli eccidi di massa. Se si possa parlare in circostanze simili di una “normalità” della vita quotidiana sotto il Nazionalsocialismo è una questione controversa. Detto altrimenti, la complicità quotidiana della popolazione con il regime era nettamente più marcata di quanto sia stato a lungo creduto, per effetto della diffusissima consapevolezza e passiva accettazione dei crimini, come pure dei lauti profitti da essi derivanti. Una enorme repressione delle conoscenze, se esistette, ebbe luogo dopo il 1945 – e probabilmente in misura minore prima di allora. 

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David Bankier

David Bankier (nato il 19 gennaio 1947 a Zeckendorf , Germania; morto il 26 febbraio 2010) era uno storico dell’Olocausto e capo dell’Istituto Internazionale per la Ricerca sull’Olocausto a Yad Vashem . David Bankier è nato il 19 gennaio 1947 (27 Tevet, 5707), nel campo di Zeckendorf DP nel distretto di Bamberg, Oberfranken, Germania, nell’allora zona di occupazione americana. I suoi genitori erano sopravvissuti all’Olocausto dall’Ucraina e dalla Polonia. Da lì la sua famiglia emigrò prima in Israele e poi in Argentina (raggiunta l’età adulta, David emigrò in Israele; la famiglia emigrò negli Stati Uniti; negli anni ’80 i suoi genitori tornarono in Israele). Bankier è cresciuto in Argentina; ha studiato in una scuola pubblica e in una scuola ebraica dove ha consolidato la sua conoscenza della lingua ebraica. In gioventù partecipò all’attività sionista e nel 1967 emigrò in Israele. Iniziò a studiare storia ebraica all’università ebraica e nel 1983 completò la sua tesi di dottorato, “Società tedesca e antisemitismo nazionalsocialista, 1933-1938”. Il lavoro più influente di Bankier riguardava il ruolo dell’opinione pubblica nella Germania nazista, in particolare l’opinione relativa all’antisemitismo nazista e all’olocausto nazista.  Il suo lavoro su questo argomento ha coinvolto ampie ricerche originali sui rapporti di Sopade e la documentazione interna del Sicherheitsdienst (SD) sull’opinione pubblica tedesca. 

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LA GENTE VEDEVA E SAPEVA

L’uccisione di adulti e bambini ebrei avveniva pubblicamente. Durante una testimonianza resa in tribunale alla fine della guerra, un ufficiale cadetto che era stato stazionato a Bjelaja Zerkov all’epoca degli eventi, dopo aver descritto in macabri dettagli l’esecuzione di un gruppo comprendente circa 150-160 ebrei adulti, formulò i seguenti commenti: 

I soldati sapevano di queste esecuzioni e ricordo uno dei miei uomini dire che aveva ricevuto il permesso di prendervi parte. […] Tutti i soldati che erano a Bjelaja Zerkov erano al corrente di quanto stava accadendo. Ogni sera, per tutto il tempo in cui rimasi là, si udivano gli spari dei fucili, malgrado il nemico non fosse nelle vicinanze. 

Eventi analoghi avevano luogo lungo tutto il fronte orientale. Ai soldati regolari della Wehrmacht veniva spesso impartito l’ordine di assistere gli Einsatzkommando nello svolgimento dei loro compiti oppure erano i soldati stessi che si offrivano volontariamente. La volonterosa partecipazione delle truppe regolari alla campagna di sterminio, per esempio, durante l’avanzata della Sesta Armata nelle aree polacche un tempo sotto l’occupazione sovietica – in particolare a Leopoli e a Tarnopol – e successivamente in territorio sovietico, trova ampie conferme. In alcune aree, i comandanti delle divisioni si assunsero l’incarico, senza alcuna sollecitazione, di rimpiazzare i Sonderkommando o i battaglioni di polizia quando queste unità non erano immediatamente disponibili. Così nel Commissariato Generale della Bielorussia, il comandante della Divisione di fanteria 707 decise nei primi giorni di ottobre del 1941 di agire di propria iniziativa. La divisione uccise in maniera rapida ed efficace e i suoi uomini fucilarono 19.000 ebrei, in prevalenza nei villaggi e nelle piccole città. Nelle città di maggiori dimensioni, il compito fu suddiviso tra il Battaglione di polizia di riserva 11, con l’ausilio delle milizie lituane, e le unità del SD di Minsk. 

I comandanti militari non si preoccuparono di spiegare le uccisioni di donne e bambini alle loro truppe. E neppure il feldmaresciallo von Reichenau a giudicare dal suo famigerato ordine del giorno del 10 ottobre 1941: “I soldati devono manifestare piena comprensione per la necessità della dura ma giusta espiazione della subumanità ebraica” Hitler elogiò l’ordine del giorno e ne sollecitò la diffusione a tutte le unità impegnate in prima linea nell’Est. Nell’arco di poche settimane, il proclama di Reichenau fu imitato dal comandante della Undicesima Armata, von Manstein, e dal comandante della Settima Armata, Hoth. 

Il numero di ebrei caduti vittime della partecipazione della Wehrmacht agli eccidi è difficile da quantificare e una stima del numero di soldati e ufficiali coinvolti nei massacri risulta impossibile. Non meno difficile è valutare le reazioni dei membri della Wehrmacht che erano presenti alle uccisioni, ma sappiamo, dalle fonti più diverse, che un folto numero di soldati e ufficiali assistettero e spesso fotografarono interamente i massacri. “Il motivo per cui questi ebrei venissero percossi a morte”, così testimoniò un appuntato della Compagnia panificatori 562 sui massacri di Kovno (l’odierna Kaunas), “non fui in grado di scoprirlo […] quanto agli spettatori erano quasi esclusivamente soldati tedeschi che per curiosità assistevano a quel crudele spettacolo […]”  Alcune lettere di soldati mostrano quanto fossero stati assimilati gli stereotipi antisemiti nazisti e le affermazioni ideologiche sugli ebrei. Molti di questi soldati erano troppo giovani per poter essere stati educati sotto il nuovo regime e aver militato qualche tempo nelle file della gioventù hitleriana, la cui brutalità antiebraica era stata dimostrata apertamente durante gli anni precedenti alla guerra. Già durante la campagna polacca le truppe della Wehrmacht avevano manifestato la loro violenza antiebraica, ma questa è stata spesso trascurata dagli storici per via delle ben note proteste espresse dal generale Johannes von Blaskowitz e da qualche altro ufficiale altolocato contro le atrocità delle SS.

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MASSACRI di bambini

Nei primi giorni di agosto del 1941, circa sei settimane dopo l’attacco tedesco contro l’URSS, l’eccidio degli ebrei in territorio sovietico si allargò dall’uccisione di uomini allo sterminio di intere comunità. Nella cittadina di Bjelaja Zerkov (l’odierna Bialacerkiev), a sud di Kiev, occupata dalla 295a Divisione di fanteria del Gruppo Sud, il comandante di zona della Wehrmacht, il colonnello Riedl, dispose la registrazione di tutti gli abitanti di origine ebraica e incaricò il Sonderkommando 4° delle SS, una sottounità dell’Einsatzgruppe C, di ucciderli. 

L’8 agosto, una sezione del Sonderkommando, guidata dall’Obersturmführer August Häfner, giunse in città. Tra l’8 e il 9 agosto, una compagnia delle Waffen-SS (battaglione incarichi speciali) aggregata al Kommando fucilò tutti gli ebrei locali, stimati intorno a 800-900 persone, tranne un gruppo di bambini di età inferiore ai 5 anni. Gli eventi seguiti al massacro sono stati spesso documentati, purtuttavia se esaminati attentamente, possono offrire nuovi spunti di comprensione. 

In primo luogo, mi soffermerò sugli eventi di Bjelaja Zerkov e, a corollario, richiamerò l’attenzione sulla capillare presenza di membri della Wehrmacht nei luoghi dei massacri, come anche sulla partecipazione di molti di loro all’uccisione di massa di ebrei nel territorio sovietico occupato. Tali constatazioni inducono a riconsiderare il grado di consapevolezza di questi stermini da parte del popolo tedesco e la posizione assunta nei loro confronti. Infine, la descrizione dell’orrore, dell’agonia dei bambini di Bjelaja Zerkov, pone lo storico di fronte a una sfida singolare che trascende le problematiche concrete trattate nella presentazione e che sarà presa in esame a conclusione del saggio.  Bjelaja Zerkov, 19-22 agosto 1941, e la partecipazione della Wehrmacht allo sterminio degli ebrei . Come ricordato, un gruppo di bambini ebrei non fu subito ucciso. Furono abbandonati senza cibo o acqua in un edificio alla periferia della città vicino alle caserme della Wehrmacht. Il 19 agosto, molti di questi bambini vennero portati via stipati in tre camion e fucilati in un vicino poligono di tiro; novanta di loro rimasero nell’edificio sorvegliati da alcuni ucraini.

Presto, le grida di questi novanta bambini divennero così intollerabili che i soldati fecero intervenire due cappellani del campo, un protestante e un cattolico, per attuare un’“azione di rimedio”. I cappellani trovarono i bambini seminudi, coperti di mosche, che giacevano in mezzo ai loro stessi escrementi. Alcuni dei bambini più grandicelli grattavano l’intonaco della parete per mangiarlo e quelli più piccoli versavano per lo più in stato comatoso. I cappellani della divisione furono avvertiti e, dopo un’ispezione, riferirono i fatti al primo ufficiale di stato maggiore della divisione, il tenente colonnello Helmuth Groscurth. 

Groscurth si recò di persona a ispezionare l’edificio, dove incontrò l’Oberscharführer Jäger, il comandante dell’unità Waffen-SS, che aveva fatto uccidere tutti gli altri ebrei della città; Jäger lo informò che tutti i bambini rimasti in vita dovevano essere “eliminati”. Il colonnello Riedl, il feldcomandante, confermò l’informazione e aggiunse che la questione era nelle mani del SD [Servizio di sicurezza], e che l’Einsatzkommando aveva ricevuto i suoi ordini dalle più alte autorità. 

A questo punto, Groscurth si incaricò di ordinare il rinvio delle uccisioni di un giorno, nonostante la minaccia di Häfner di presentare una protesta. Groscurth giunse perfino a predisporre uno sbarramento di soldati armati intorno a un camion già carico di bambini, impedendone la partenza, e ne diede comunicazione all’ufficiale di Stato Maggiore del Gruppo d’Armate Sud. Il fatto fu riferito alla Sesta Armata, probabilmente perché l’Einsatzkommando 4a operava nel suo settore di competenza. La sera stessa, il comandante della Sesta Armata, il feldmaresciallo Walter von Reichenau, decise di propria iniziativa che “l’operazione… doveva essere completata in maniera appropriata”. 

L’indomani, il 21 agosto, Groscurth fu convocato a una riunione presso il locale quartier generale in presenza del colonnello Riedl, del capitano Luley, ufficiale del servizio segreto che aveva ragguagliato von Reichenau sul corso degli eventi, dell’ObersturmführerHäfner e del capo dell’Einsatzkommando 4a, l’ex architetto SS Standartenführer Paul Blobel. Luley dichiarò che, pur essendo protestante, riteneva fosse meglio che “i cappellani si limitassero alla cura spirituale dei soldati”, e col pieno appoggio del feldcomandante accusò i cappellani di “creare confusione”. 

In base al rapporto di Groscurth, Riedl allora “tentò di orientare la discussione verso l’ambito ideologico…: lo sterminio delle donne e dei bambini ebrei”, disse, “appariva urgente e necessario, in qualsiasi forma esso avvenisse”. Riedl insisté sul fatto che in seguito alle disposizioni date dalla divisione, l’esecuzione era stata ritardata di ventiquattr’ore. A quel punto, come Groscurth raccontò più tardi, Blobel, che era rimasto in silenzio fino ad allora, intervenne: si dichiarò dello stesso parere di Riedl e “aggiunse che la cosa migliore era che a fucilare fosse proprio la truppa che ficcava il naso in giro; quanto ai comandanti che avevano arrestato l’operazione avrebbero dovuto essi stessi comandare questa truppa”. “In tono calmo respinsi queste pretese”, scrisse Groscurth, “senza però esprimere la mia opinione perché volevo evitare qualsiasi scontro personale”. Alla fine, Groscurth commentò il comportamento di Reichenau: “Durante la discussione sulle ulteriori misure da adottare, lo Standartenführer dichiarò che il Comandante-in-Capo [Reichenau] riconosceva la necessità di eliminare i bambini e voleva essere informato una volta che il piano fosse stato attuato”. 

Il 22 agosto i bambini furono giustiziati. Il giorno successivo, il capitano Luley riferì al quartier generale della Sesta Armata che la missione era stata compiuta e fu segnalato per una promozione.

Si noti con quale agghiacciante freddezza si compivano degli infanticidi.

Possono esseri come quelli dirsi uomini?

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Studi storici sulla shoah

Saggio di Saul Friedländer

Massacri e società tedesca nel Terzo Reich: interpretazioni e dilemmi

In questo contributo Friedländer riprende uno degli episodi più strazianti della Seconda guerra mondiale: l’uccisione di 90 bambini ebrei da parte di membri del Sonderkommando delle SS 4a con la partecipazione attiva di appartenenti alla Wehrmacht, perpetrata nell’agosto 1941 nella piccola cittadina ucraina di Bjelaja Zerkow a sud di Kiev. Il saggio, pur limitandosi all’analisi di un caso circoscritto, rappresenta una specie di summa delle problematiche trattate nel volume: i carnefici e il loro universo mentale, l’Europa orientale come “luogo” dello sterminio, gli spettatori e la “zona grigia”, per riproporre, infine, con la descrizione dell’uccisione dei bambini da parte dell’ufficiale delle SS August Häfner, incaricato del massacro, gli interrogativi iniziali sulle sfide che tali accadimenti pongono alla comune capacità di comprensione. 

Al processo Häfner descrisse nei termini seguenti il massacro dei bambini: 

Uscii dal bosco da solo. La Wehrmacht aveva già scavato una fossa. I bambini erano stati portati lì con un trattore. Gli ucraini stavano in piedi attorno alla fossa e tremavano. I bambini furono fatti scendere dal trattore. Furono messi in fila lungo il ciglio della fossa e centrati dai colpi di fucile in modo che vi cadessero dentro. Gli ucraini non miravano ad una parte specifica del corpo… Le urla erano indescrivibili… Ricordo in particolare una piccola bambina con i capelli biondi che mi prese la mano. Più tardi anche lei fu uccisa… 

Per Saul Friedländer la totale mancanza di umanità con cui August Häfner ricorda quest’ultimo straziante particolare apre uno squarcio sulla realtà terrificante del nazionalsocialismo permettendoci di intravedere, almeno per un momento, il nucleo di “quegli eventi che noi chiamiamo l’Olocausto, lo sterminio degli ebrei europei”. 

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L’autoritratto del Foscolo

Sonetto

  1. Solcata ho fronte, occhi incavati intenti ,
  2. crin fulvo, emunte  guance, ardito aspetto,
  3. labbro tumido  acceso, e tersi denti,
  4. capo chino, bel collo, e largo petto;
  5. giuste membra; vestir semplice eletto;
  6. ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti ;
  7. sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
  8. avverso al mondo, avversi a me gli eventi :
  9. talor di lingua, e spesso di man prode;
  10. mesto i più giorni e solo, ognor pensoso ,
  11. pronto, iracondo, inquieto, tenace:
  12. di vizi ricco e di virtù, do lode
  13. alla ragion, ma corro ove al cor piace:
  14. morte sol mi darà fama e riposo.

Struttura

Metro: sonetto con schema ABAB BABA CDE CED.

Parafrasi

  1. Ho la fronte segnata dalle rughe, gli occhi scavati e intensi,
  2. capelli di colore rosso, guance pallide, aspetto indomito,
  3. labbra rosse e pronunciate, denti bianchi,
  4. capo chino, un bel collo e un ampio torace;
  5. membra ben proporzionate, modo di vestire semplice, ma decoroso;
  6. passi rapidi, e così i pensieri, i gesti, il modo di parlare;
  7. sono sobrio, umano, leale, prodigo e schietto;
  8. io contro il mondo, il mondo contro di me;
  9. talvolta sono ardimentoso a parole, spesso nelle azioni;
  10. la maggior parte dei miei giorni me ne sto triste e solo,
  11. sempre pensieroso, irascibile, inquieto, testardo:
  12. ricco tanto di vizi quanto di virtù, elogio
  13. la ragione, ma poi, di fatto, inseguo il sentimento:
  14. soltanto la morte mi darà fama e riposo.

Commento

Composto a imitazione di un altro celebre autoritratto, quello dell’Alfieri (Sublime specchio di veraci detti), con questo sonetto Foscolo fa proprio il culto romantico per l’individuo eccezionale, con sfumature narcisistiche e titaniche, che è proprio di tanta produzione romantica. Al componimento alfieriano si rifece con ogni probabilità anche Manzoni (col suo Capel bruno, alta la fronte, occhio loquace), anche se risulta problematico ricostruire il rapporto di questo testo con quello foscoliano.

Pubblicato per la prima volta nel 1802 a Pisa, nel «Nuovo Giornale dei letterati», conobbe in seguito altre redazioni, le cui numerose varianti attestano il mutamento dell’immagine che il poeta offre di se stesso e dei suoi stati d’animo nei vari momenti della sua vicenda esistenziale. Foscolo non disconosce i suoi difetti (si dice anzi “di vizi ricco e di virtù”), sebbene anche il lato più ardimentoso, impulsivo e violento del suo carattere sia riconducibile all’esaltazione narcisistica del proprio ego.

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