Giacomo Leopardi

Vita

Nacque a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo Leopardi e da Adelaide dei marchesi Antici. Come annota il padre in un registro familiare memoria dei principali eventi della famiglia attraverso i secoli: “A dì 29 giugno 1798. Nacque alle ore 19 il mio primo figlio, maschio, partorito da mia moglie Adelaide felicemente, sebbene dopo tre giorni interi di doglie………A dì 30 fu battezzato il dopo pranzo nella nostra parrocchia di Monte Morello, dal padre Luigi Leopardi filippino, mio zio, e lo levarono al sacro fonte li allora Cittadini Filippo Antici mio suocero, e Virginia Mosca Leopardi mia madre.”

Primo di sette, questo figlio dimostrò fino dai primi anni una straordinaria intelligenza ed un particolare desiderio di conoscere, pur non tralasciando i giuochi dell’infanzia e godendo della gioiosa compagnia dei fratelli. Con essi, di lui poco più giovani, studiò sotto la guida del padre coadiuvato dal precettore Don Sebastiano Sanchini.

In età precoce iniziò con una applicazione da lui stesso poi definita “matta e disperatissima” ad ampliare da solo le sue conoscenze nelle più svariate materie. Rimangono di questi anni giovanili numerose composizioni in prosa e poesia, su argomenti storici, filosofici ed anche scientifici, sia in italiano che in latino. Da solo si impadronì in quel tempo delle lingue greca ed ebraica, con l’aiuto di una Bibbia poliglotta presente in biblioteca e ciò gli permise di addentrarsi sempre più nello studio dei classici.

Negli anni immediatamente successivi si manifesta in lui il desiderio di tradurre in poesia le sue emozioni: nascono così i primi Canti “Le rimembranze” ed “Il primo amore”, quest’ultimo ispirato da un sentimento nuovo, l’amore, che sarà per lui nel tempo fonte di passione e di continua sofferenza.

Le prime opere e lo Zibaldone

Nel 1817 nasce l’amicizia, inizialmente solo epistolare, di Giacomo con il letterato Pietro Giordani, che per primo riconobbe nel giovine il futuro genio. Molte sono le opere di Giacomo in questi anni, sia in prosa che in poesia: ricordiamo solo due canzoni patriottiche, “All’Italia” e “Per il monumento di Dante”. Sempre nel 1817 inizia un’opera in prosa la cui stesura occuperà gran parte della sua vita. Questo lavoro, cui diede titolo di “Zibaldone”, costituisce la più alta espressione del vastissimo pensiero leopardiano, un acuto studio di sentimenti umani, un esame approfondito dei più vari argomenti. Ignorato per lunghi anni, lo “Zibaldone” fu pubblicato per la prima volta dal Carducci nel 1898.

Idilli e primi Idilli

Nel 1819 videro la luce gli idilli “Alla luna” e “L’infinito”: quest’ ultimo si può considerare la più alta espressione del genio poetico leopardiano.
Desideroso di più ampi orizzonti e sperando di trovare fuori di Recanati ambienti più stimolanti e culturalmente più aperti, sogna di lasciare la casa paterna.
A tale scopo chiede ed ottiene il passaporto (allora necessario) per recarsi a Milano, ma contrastato nel suo progetto dal padre, si rassegna poi a rinunciare alla partenza.


Tentativo di fuga: Roma

La delusione non influisce sulla sua produzione letteraria, anzi in quel periodo compose numerosi idilli e canzoni, citiamo “Ad Angelo Mai”, “La sera del dì di festa”, “La vita solitaria”, “Il sogno”, “Nelle nozze della sorella Paolina”, “Ad un vincitore del pallone”, “Alla primavera”, “Ultimo canto di Saffo”. Sono di quel tempo anche le sue prime operette satiriche.

Nel 1822 poté finalmente recarsi a Roma, dove si fermò qualche mese ospite dello zio Antici. La capitale però lo deluse non solo per la sua vastità dispersiva, ma anche e soprattutto per il modesto livello culturale della sua società, con l’eccezione di alcuni personaggi, come l’ambasciatore di Prussia Niebhur ed il suo successore Bunsen: questi rivestiranno un ruolo importante nella vita futura del poeta.

Tornando volentieri a Recanati, scrisse nel 1823 “Alla sua donna”. Nel 1824 compose la maggior parte delle “Operette morali”, opera di alto contenuto filosofico, celato talora sotto una veste leggera e satirica. Nonostante l’avvenuta pubblicazione di alcuni suoi lavori, il poeta era allora sconosciuto dalla maggior parte degli Italiani. Nel 1825 si recò a Bologna dove fu bene accolto dalla società letteraria, poi proseguì per Milano e qui ebbe modo di instaurare un rapporto di lavoro con l’editore Stella.

Prose e poesie: Bologna, Firenze, Pisa

Tornato a Bologna strinse alcune amicizie, fra l’altro con il conte Carlo Pepoli, cui dedicò una “Epistola” in versi. Passò l’inverno seguente a Recanati, continuando a lavorare per lo Stella, poi si recò a Firenze. La sua frequentazione del Gabinetto Vieusseux, circolo letterario dove si incontravano i più notevoli esponenti della cultura contemporanea, gli permise di conoscere fra gli altri Alessandro Manzoni e l’esule napoletano Antonio Ranieri con il quale in seguito strinse una forte amicizia. Desideroso però di trascorrere l’inverno in un clima più mite, il poeta si trasferisce a Pisa dove rimarrà poco meno di un anno, finalmente rasserenato perché entusiasta della città e ancor più dell’accoglienza a lui riservata dai pisani. Nei mesi qui trascorsi vedono la luce opere importanti, fra cui lo “Scherzo”,“Il risorgimento” e “A Silvia”. Da qui torna a Firenze e vi si ferma qualche mese, in cattive condizioni di salute ed amareggiato dall’inutile ricerca di un impiego; malvolentieri ritorna a Recanati.


Recanati: i grandi Idilli

I mesi che seguono sono fecondi di opere: egli compone “Il passero solitario”, “Le ricordanze”, “La quiete dopo la tempesta”, il “Canto notturno” ed “Il sabato del villaggio”. Sperando di conquistare una certa indipendenza finanziaria, aveva già concorso con le sue “Operette morali” ad un premio letterario dell’Accademia della Crusca, ma al suo lavoro era stato di gran lunga preferito quello del Botta, “Storia d’Italia”. Fu così costretto ad accettare l’offerta fattagli, attraverso il Generale Colletta, da alcuni amici toscani; essi gli garantivano un prestito annuale da restituire con la pubblicazione di future opere.

Napoli col Ranieri: gli Ultimi Canti

La tranquillità economica gli permise di ritornare a Firenze dove ebbe modo di conoscere e frequentare la bella Fanny Targioni Tozzetti che sarà l’ispiratrice del “Ciclo di Aspasia”, costituito da i canti “Il pensiero dominante”, “Amore e morte”, “Consalvo” , “A se stesso”,” Aspasia”. In questo soggiorno fiorentino Leopardi incontra nuovamente Antonio Ranieri e di comune accordo essi decidono di unire le poche risorse economiche di cui dispongono per trasferirsi insieme a Napoli. Questa città attrae Giacomo per il clima più favorevole alla sua precaria salute e per la vivacità culturale che la distingue. A Napoli Leopardi compone in poesia alcune opere satiriche, fra cui la “Palinodia al marchese Gino Capponi” ed i “Paralipomeni della Batracomiomachia”, mentre vengono nuovamente pubblicati i “Canti” e le “Operette morali”.
Nel 1836 per sfuggire all’epidemia del colera il Ranieri si trasferisce con Giacomo a Torre del Greco nella villa di un parente ed ivi forse il poeta scrive “La ginestra” ed “Il tramonto della luna”.

Morte

Tornato a Napoli stanco e sofferente, non può realizzare il nuovo desiderio di un ritorno a casa perché le sue condizioni di salute peggiorano. Assistito dal Ranieri e dalla sorella di questi Paolina, Giacomo Leopardi si spegne a Napoli il 14 giugno del 1837.

Nel libro di casa che è stato citato all’inizio con le parole del padre Monaldo riguardanti la sua nascita, si legge a firma della sorella Paolina: “Adì 14 giugno 1837 morì nella città di Napoli questo mio diletto fratello divenuto uno dei primi letterati d’Europa: fu tumulato nella chiesa di San Vitale sulla via di Pozzuoli. Addio caro Giacomo: quando ci rivedremo in Paradiso?

Anni dopo, la tomba di Giacomo Leopardi venne traslata accanto a quella di Virgilio sempre a Napoli.

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Ultime lettere di Jacopo Ortis

Introduzione

Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis il giovane patriota Jacopo invia una fondamentale lettera (datata 4 dicembre 1798), in cui descrive l’incontro avvenuto a Milano con Giuseppe Parini. Il capitolo è molto importante perché permette a Foscolo, attraverso il confronto tra il suo protagonista e l’autore de Il Giorno, di tratteggiare la figura dell’eroe romantico e di sviluppare una cupa e disillusa analisi del periodo napoleonico in Italia.

Riassunto

La scena dell’incontro con Parini si apre su un paesaggio serale, in un boschetto di tigli 1 che ospita il dialogo tra l’anziano poeta (che nella realtà morirà di lì a pochi mesi, nell’agosto 1799) e il giovane ed impetuoso Jacopo, in pellegrinaggio per l’Italia dopo l’allontamento dai Colli Euganei e dall’amore impossibile per Teresa. La descrizione che Jacopo fa di Parini è funzionale alla polemica sulla situazione politica italiana ed è fortemente venata di tratti alfieriani (basti pensare ad opere come Della tirannide o Del principe e delle lettere):

Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore2 a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per le antichi tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite, tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione […]. A quelle parole io m’infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando: – Ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore 3.

Il pensiero del poeta, qui descritto come un “vecchio venerando”, non ricalca in modo rigoroso quello del personaggio storico, maè una proiezione di Foscolo stesso: la riflessione sulla situazione della patria porta alla drastica conclusione che non vi sia gran differenza tra le antichi tirannidi sulla Penisola (quella spagnola e poi quella austriaca) e la presente “nuova licenza”, con cui l’autore sarcasticamente allude al dominio napoleonico in Italia che, iniziato sotto grandi auspici, ha poi portato alla fima del Trattato di Campoformio con gli austriaci (17 ottobre 1797) e che si chiuderà con l’arrivo delle truppe austro-russe a Milano nel 1799. Lo sfogo sulla situazione politica italiana è radicale: Napoleone Bonaparte, al pari degli antichi tiranni, ha sottomesso il Paese, tradendo gli ideali della Rivoluzione di cui si faceva portatore. Il disprezzo di Jacopo, che si fa interprete della disillusione profonda dell’intellettuale Foscolo, per i sostenitori del potere costituito è netto e incontrovertibile: essi sono per lui “ladroncelli, tremanti, saccenti” che non meritano nemmeno la sua considerazione. Il furore a mala pena trattenuto di Jacopo trova un elemento di bilanciamento nelle parole del saggio Parini, che lo invita alla calma e alla riflessione, dato che non si intravede nel futuro prossimo un qualche “barlume di libertà”. Il problema per Jacopo è che egli non può volgere altrove – come gli consiglia l’anziano poeta – il suo tormento interiore. Difatti, anche la vita privata e l’amore per Teresa sono stati finora solo motivi di sofferenza e sconforto. Lo spiega il protagonista stesso, dando di sé il ritratto dell’eroe romantico in lotta titanica contro il mondo:

Allora io guardai nel passato – allora io mi voltava avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur mai stringere nulla 4, e conobbi tutta la disperazione del mio stato. Narrai a quel generoso Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que’ genj celesti i quali par che discendano a illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto, il vecchio petoso più volte sospirò dal cuore profondo: – No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro.

La sconfitta sul piano storico e su quello personale non può che condurre Jacopo a pensieri di suicidio e di morte, che poi metterà in pratica. Per ora, con effetto di pathos, lo trattiene solo l’amore per la “madre affettuosa e benefica”. Resta dunque solo l’impegno, senza speranza di successo, per la “libertà della patria”, cui Jacopo vuole dedicare tutto se stesso. A questo punto, Parini – o meglio, Foscolo attraverso questa controfigura letteraria – sviluppa una breve e incisiva riflessione sulla natura della politica e del potere. Sulle orme del realismo politico del Principe di Machiavelli (1469-1527) e di Thomas Hobbes(1588-1679), Parini presenta un quadro fosco e pessimistico sulle possibilità d’azione di chi è spinto da nobili ideali, poiché “quando dovere e virtù stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù”. Anche la fama degli eroi – e qui si avverte la reazione foscoliana agli eccessi del regime del Terrore in Francia- non è immune da critiche aspre: essa infatti è il risultato dell’audacia dei singoli, ma anche dei loro delitti e dell’influsso della sorte. In particolare, dice Parini, è illusorio e dannoso riporre fiducia nello straniero, da cui “non si dee aspettare libertà”. Anche chi vuol conservarsi puro e nobile è comunque destinato alla sconfitta quando entra in contatto con la corruzione del potere e della violenza:

Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d’ingegno quale sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro.

Anche chi, per un caso fortuito, riuscisse a conquistare il potere, sarà costretto a macchiarsi di sangue se stesso e i propri ideali e verrà giudicato, a seconda dei casi, un “demagogo” o un “tiranno”. Secondo l’analisi di Parini, il potere di per sé corrompe l’uomo e non c’è spazio d’azione per chi è animato da alti ideali. La chiusura dell’episodio riporta allora alla suggestione del suicidio; se per il credente Parini c’è ancora la fiducia in un altro mondo, per Jacopo questa diventerà a poco a poco una soluzione sempre più concreta per reagire al suo dramma storico e personale:

Tacque – ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva 5! tu almeno sapevi morire incontaminato. – Il vecchio mi guardò: – Se tu né speri né temi fuori di questo mondo – e mi stringeva la mano – ma io! – Alzò gli occhi al Cielo, e quella severa sua fisonomia si raddolciva di soave conforto come s’ei lassù contemplasse tutte le sue speranze.

Commento

L’analisi storica di Foscolo nel celebre incontro tra Jacopo Ortis e Giuseppe Parini è impostata secondo un fosco pessimismo, per cui nel divenire storico non c’è spazio per eroismo o ideali: l’autore registra dal suo punto di vista la crisi dei valori dell’Illuminismo dopo la Rivoluzione francese e l’impossibilità per il giovane intellettuale amante della libertà di integrarsi nella nuova società, di cui è invece rappresentante Odoardo, il rivale in amore del protagonista. Per sviluppare questo discorso, alla fine del quale si riscontra che tutti gli uomini sono “naturalmente schiavi” o “naturalmente tiranni”, Foscolo caratterizza in senso romantico ed alfieriano la figura di Parini, mantenendo della figura del poeta lombardo la coerenza morale e l’impegno civile che caratterizza le sue Odi. Quella di Parini diventa così la figura di un maestro, che si dimostra funzionale alla presa di coscienza di Jacopo dell’impossibilità della libertà politica e della felicità personale, che culminerà nella famosa esclamazione della “lettera da Ventimiglia” (19-20 febbraio 1799), che è il punto d’approdo del pessimismo e del nichilismo delle Ultime lettere:

I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i figli tuoi? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce?

Il tema della vanità dell’azione e l’analisi della natura violenta del potere su cui si incentra il colloquio con Parini sono poi sostenuti dal ricorso ad altri due modelli letterario-filosofici: Niccolò Machiavelli e il Leviatano di Thomas Hobbes. Da questi due trattatisti politici Foscolo recupera l’idea che in politica non ci sia spazio per chi è puro e incontaminato di cuore e quella, più profonda, che la scalata al potere corrompe anche chi è animato dai migliori propositi, come il triennio giacobino in Italia aveva ampiamente dimostrato. Ne risulta arricchito il profilo dell’intellettuale romantico, caratterizzato dall’animo nobile e dagli ideali letterari di libertà e indipendenza, pronto a grandi gesti che prevedano anche il proprio sacrifico personale e sostanzialmente nato nell’epoca sbagliata 6.

Lo stile di tutta la lettera è retoricamente elevato, in accordo con il contenuto del testo: il dialogo tra i due personaggi è ricco di ripetizioni ed anafore, arricchito da interrogative retoriche e da iperbati che spezzano l’andamento normale della frase.

1 La circostanza viene ripresa anche ne I sepolcri, ai vv. 62-69: “o bella Musa, ove sei tu? Non sento | spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume, | fra queste piante ov’io siedo e sospiro | il mio tetto materno. E tu venivi | e sorridevi a lui sotto quel tiglio | ch’or con dimesse frondi va fremendo | perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio, | cui già di calma era cortese e d’ombre”. Nel carme, trattando il tema del valore civile del “sepolcro”, Foscolo lamenta il fatto che un poeta e intellettuale del calibro di Giuseppe Parini sia stato sepolto in una semplicissima tomba al cimitero comunale di Porta Comasina, che all’epoca si trovava poco oltre l’attuale Porta Garibaldi.

2 un profondo, generoso, meditato dolore: Foscolo qui allude alla zoppia del poeta, causata da una malattia agli arti. La circostanza è ricordata da Parini stesso nell’ode La caduta.

3 L’enfasi e la passionalità retorica di Jacopo si nutre di citazioni classiche: la profezia per cui dal sangue dei caduti per la libertà sorgerà un “vendicatore” ricorda da vicino quella di Didone suicida che, nel quarto libro dell’Eneide di Virgilio, promette eterno odio per Enea e i romani: “Tùm vos, ò Tyriì, stirp(em) èt genus òmne futùrum | èxercèt(e) odiìs, cinerìqu(e) haec mìttite nòstro | mùnera. Nùllus amòr populìs nec foèdera sùnto”. Traduzione: “Allora voi, o Tirii, tormentate con l’odio la sua stirpe e tutta | la razza futura, e mandate questi doni alle nostre | ceneri. Non ci sia né amore né patto tra i popoli”.

4 le mie braccia tornavano deluse senza pur mai stringere nulla: anche questa immagine è di stampo letterario; si trova infatti nel sesto libro dell’Eneide, quando Enea cerca inutilmente di abbracciare l’ombra di suo padre Anchise nell’Ade (Eneide, VI, vv. 700-702: “Ter conatus ibi collo dare brachia circum | ter frustra comprensa manus effugit imago, | par levibus ventis volucrique simillima somno”. Traduzione: “Per tre volte tentò di mettergli le braccia intorno al collo, | per tre volte inutilmente l’immagine afferrata svanì tra le mani; | come un sogno con le ali, simile ai venti più leggeri”. Si tratta di un topos letterario, che torna anche in Dante nell’incontro con Casella nel secondo canto del Purgatorio (vv. 79-81).

5 Cocceo Nerva: Marco Cocceio Nerva era un nobile romano, nonno dell’omonimo imperatore Nerva (30-68 d.C.), che, secondo il racconto di Tacito negli Annali, nel 33 d.C. si sarebbe suicidato lasciandosi morire di fame disgustato dalla corruzione dello Stato.

6 Parini stesso definisce Jacopo “giovine degno di patria più grata”.

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Struttura de I Sepolcri

Una prima sequenza (vv. 1-22), i versi incipitari in cui Foscolo si interroga sulla morte e sull’importanza del sepolcro. Questa sequenza si chiude con l’apostrofe a Ippolito Pindemonte. Una seconda sequenza, può essere ritrovata dai versi 23 a 50. In questa il poeta sembra violare la sua concezione materialistica, sostenendo che in qualche modo e seppure in maniera illusoria l’estinto sopravvive nei superstiti, attraverso una “corrispondenza di amorosi sensi”. Il morto può essere ricordato dai vivi proprio grazie alla sepoltura, e coloro che sono in vita potranno ricordare e compiangere i defunti. Questo è visto come unico possibile superamento del vincolo della morte. In questi versi viene commemorato Giuseppe Parini, il poeta, che era stato seppellito senza esequie solenni e tumulato in una fossa comune.Dal verso 91 a 150 c’è un forte salto logico: dall’attualità, Foscolo passa a parlare dell’origine dei riti funebri e quindi all’età antica. Per il poeta il culto dei morti e la sepoltura è il primo segno della civiltà umana, vengono quindi passati in rassegna i diversi modi di tumulare i defunti nel corso della storia fino a giungere nuovamente all’età contemporanea, cioè all’epoca napoleonica. Dal verso 151 Foscolo considera le tombe dei grandi uomini del passato, partendo da un’esperienza biografica: la visita a Santa Croce a Firenze. Questa chiesa ospita le tombe di uomini eccellenti come Machiavelli, Michelangelo e Galileo (vv. 154-167). Il poeta esprime le sensazioni che prova di fronte a tali tombe, e alla fine di questa lunga sequenza crea un nuovo salto logico, collegando i suoi sentimenti con l’immagine della battaglia di Maratona tra greci e persiani. Negli ultimi versi, dal 213 al 295,vengono ricordate le sepolture di vari eroi classiciAiaceElettra ed eroi troiani, Cassandra, Erittonio e Ilio. Foscolo fa parlare direttamente Cassandra, che evoca Omero e la sua poesia come mezzo per ricordare gli antichi eroi. In questi ultimi versi viene rilevata la funzione e l’importanza della poesia.

Nella seconda sequenza (vv. 23-50) Foscolo viola il suo orizzonte materialista perché per quanto sia un’illusione, chiama questa illusione “Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani”, ossia il fatto che l’estinto riesca a vivere nei superstiti e quindi in questo modo a superare attraverso il ricordo e la sua capacità di ispirazione quello che è il normale vincolo della morte. È interessante l’uso dell’aggettivo “celeste” perché fa riferimento alla sfera divina e Foscolo che non è religioso in senso spiritualista, ed è anche difficile definirlo religioso in senso metafisico, usando questo aggettivo forza moltissimo il limite del suo sistema di idee e in questo ci dice quanto nella poesia attribuisca importanza alla funzione che hanno i morti per i vivi. Dice, concludendo questa sequenza, “Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna”, cioè solo chi in vita non si è fatto amare riesce a ricevere gioie dall’urna ed è interessante questo trasferire i sentimenti che si suscitano non tanto su chi rimane, ma su chi è defunto; del resto, proprio per questioni naturali, il defunto non prova emozioni. Al verso 51 viene introdotto lo spunto occasionale del carme, cioè l’editto di Saint Cloud che andava a modificare le regole di sepoltura rendendo obbligatorio il posizionamento delle tombe al di fuori dei nuclei abitativi e in forma anonima: “Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi”, quindi lontano dagli sguardi pietosi, “e il nome a’ morti contende”, cioè sfida i morti togliendoli il nome proprio perché le lapide dovevano assenti o privi di segni di riconoscimento.

Qui introduce il primo morto illustre significativo, il Parini. Sebbene morto prima dell’editto, era stato infatti sepolto senza esequie solenni e tumulato in una tomba comune, quindi non all’altezza della sua fama, della sua capacità letteraria che era già grande in vita. Foscolo dice: “E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia”, cioè per introdurre il concetto si rivolge alla musa della poesia dicendo che il suo sacerdote, il Parini stesso, giace senza tomba. Anche qui l’introduzione non è logica, ma è legata all’immagine della musa. Non solo dice che il Parini giace sepolto in modo del tutto anonimo (questa è l’ipotiposi che abbiamo visto nella seconda lezione), ma giace probabilmente insieme al cane randagio e all’upupa, l’uccello notturno, che sono lì vicino verso le tombe dei ladri; in sostanza, giace vicino alle tombe dei criminali pur essendo un uomo illustre.

Dal verso 91 al verso 150 c’è forse uno dei salti logici più significativi perché Foscolo, con una concezione vichiana del tempo quindi di un cammino progressivo della civiltà attraverso cui l’uomo passa diverse ere, va da Parini agli albori della civiltà umana, ossia quando nacque il culto religioso: “Dal di che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui”; qui interessante è l’aggettivo “pietoso”, una concezione classica perché l’eroe virgiliano Enea è l’eroe della pietas, pertanto per Foscolo, l’uomo valoroso e civile deve per forza avere la dote della pietas. In questo passaggio, Foscolo dice in sostanza che quando cominciavano a essere celebrate le nozze e quando si sottrasse l’evento naturale e i morti cominciarono a essere tumulati e quindi pianti, l’uomo fu sottratto alla conduzione dell’umana belva, alla ferinità; di conseguenza il culto dei morti e la sepoltura, una concezione che riprende da Vico, rappresentano il primo segno della civiltà umana. In questa lunghissima sequenza passa in rassegna quelli che sono stati nel corso delle epoche i vari modi di tumulare e celebrare i morti, il rapporto che avevano dai domestici lari ai grandi uomini valorosi, eroici dei popoli fino ad arrivare all’epoca napoleonica, quindi all’epoca sua contemporanea e a far notare: “Ma ove dorme il furor d’inclite gesta e sien ministri al vivere civile l’opulenza e il tremore”, cioè dove il vivere civile è governato dall’opulenza, dall’avidità, dalla ricerca di benessere e dal tremore, quindi la paura “inutil pompa e inaugurate immagini dell’Orco sorgon cippi e marmorei monumenti” ossia, traducendo a senso: è inutile lo sfarzo con cui si celebrano i morti perché in realtà questi non servono a celebrare il valore delle gesta, ma è uno sfarzo fine a se stesso. La funzione civile viene quindi derubricata a una semplice ricerca di tombe eleganti e belle svuotate di significato. 

Introducendo la seconda apostrofe a Pindemonte, Foscolo passa al tema delle tombe dei grandi uomini (“A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti, o Pindemonte”) con l’uso di antonomasie e perifrasi, partendo dall’esempio autobiografico cioè dalla sua visita a Santa Croce a Firenze, dove vede le tombe di uomini che hanno fatto grande l’Italia: dal verso 154 al verso 167 abbiamo una serie di uomini illustri che non vengono mai nominati, ma allusi dai versi, cioè MachiavelliMichelangelo e Galileo. Attraverso quello che lui ha provato, dice quanto è importante e quanto è forte l’effetto che hanno sull’animo questi uomini tanto che, ed è un altro salto logico interessante, chiude questa lunghissima sequenza collegando quello che prova: “Ah si! Da quella religïosa pace un Nume parla”. Cioè io sento parlare in me un lume da quella contemplazione così ammirata, “e nutria contro a’ Persi in Maratona ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi, la virtù greca e l’ira”, cioè la visione, il pensiero, l’ammirazione e il desiderio di emulazione suscitano quello che è l’immagine della battaglia di Maratona cui Foscolo associa un’altra lunghissima ipotiposi, cioè il legame di tempo vastissimo viene colmato e giustificato proprio grazie al valore di quegli uomini di cui è testimone Foscolo tramite la visita in Santa Croce. Quest’ultima parte è il preludio a un salto verso le figure di eroi classiciAiace, che prenderà le insegne di Achille e quindi continuerà la memoria tramite quell’oggetto, ed Elettra. Interessanti sono anche le tombe degli eroi troiani perché in questo caso Foscolo fa parlare direttamente Cassandra, la profetessa maledetta da Apollo perché era stato rifiutato dalla donna, e le cui profezie non erano mai credute, secondo la leggenda. Tramite questa figura, Cassandra ci parla dei morti sepolti: “Ma i Penati di Troia avranno stanza in queste tombe; ché de’ Numi è dono servar nelle miserie altero nome.”, cioè prevede che anche nella sventura sarà conservato il nome dei valorosi. Questo è un riferimento alla funzione della poesia, ossia di Omero, che canterà il valore degli eroi troiani, Ettore in primo luogo; permetterà la poesia di farsi ispirare dalle tombe degli uomini celebri e quindi di far arrivare oltre confini imposti dal tempo e dalla caducità delle cose la memoria di quei valorosi che sopravviveranno alla stessa infausta sorte che conoscerà Troia. 

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Figure retoriche de I Sepolcri

Nei versi 78-86 c’è un primo esempio della figura retorica dell’ipotiposi, o abbozzo. Questi versi sono un omaggio esplicito all’ultima parte del Giorno di Parini, la Notte e presentano unadescrizione di uno scenario notturno in un cimitero di campagna. Il periodo inizia con il verbo “sentire”, rimandando a una sensazione di udito, utilizza poi una serie di infiniti con apocope(caduta della vocale finale) “raspar”, “uscir”, “svolazzar” e “accusar”, che risaltano foneticamente nel testo. Il passo presenta una ricca mescolanza di elementi visivi e uditivi, concentrati in otto versi.
Nei versi 202-212 viene usato un procedimento simile, con la descrizione della battaglia di Maratona dal punto di vista di un navigante che passa dall’Eubea, isola di fronte alla piana di Maratona dove i greci e i persiani combatterono. L‘uso dell’apocope è evidente in questo passo e riguarda non solo verbi, ma anche sostantivi. Forte è l‘uso di participi e del polisindeto, cioè la ripetizioni di congiunzioni che collegano e coordinano il periodo. In questo caso si nota un continuo saltare da uno stimolo sensoriale a un altro e un continuo alternarsi di suono e silenzio. Vengono, quindi, addensati dal poeta gli stimoli che servono a sollecitare l’immaginazione del lettore. Un’altra figura retorica importante e significativa del carme è l’apostrofe, cioè quando il poeta si rivolge direttamente a un uditore ideale e diverso da quello reale. Nei Sepolcri ci sono tre apostrofi a Ippolito Pindemonte con intensità crescente (vv. 15-22; 151-154; 213-214).

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Analisi de I Sepolcri

 Dei Sepolcri è un carme composto nel 1806 e pubblicato nel 1807. Due sono gli spunti che portano Foscolo alla composizione del carme: l’editto di Saint-Cloud del 1806 e una conversazione nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi con Ippolito Pindemonte. L’editto di Saint-Cloud, imponeva la sepoltura dei morti fuori dalle mura delle città e stabiliva che le lapidi dovessero essere tutte uguali e prive di decorazioni magniloquenti. Un editto che risentiva di riflessioni egualitarie della rivoluzione francese, ma anche stabilito perquestioni igienico-sanitarie. La conversazione con Ippolito Pindemonte porta Foscolo a riflettere sul rapporto tra vivi e morti e tra presente e passato, e quindi sul senso di continuità tra presente e gloria del passato, che è ciò che ispira e infiamma gli uomini. La struttura del carme, costituito da endecasillabi sciolti, presenta una costruzione simile a quella dei sonetti di Foscolo, cioè di trattare gli argomenti attraverso una successione di immagini, secondo i dettami dell’ars poetica, ritenendo che la pittura e la scrittura si equivalgano. Grazie alla struttura del componimento, più libera rispetto a quella del sonetto, il poeta può usare periodi di varia lunghezza e dare massima elasticità ai versi e al ritmo. Il passaggio da un’immagine all’altra, che avviene senza spiegazioni e analisi, rende spesso il carme oscuro. Foscolo spiegherà poi in una lettera a Monsieur Guillon e nelle sue lezioni di eloquenza a Pavia che per lui le idee attraverso la poesia si devono dipingere come immagini nell’animo dell’uomo attraverso la sua capacità di sentire e vedere tramite le sensazioni. Nei Sepolcri è forte l’uso della figura retorica dell‘ipotiposi, cioè una descrizione incompleta che deve essere completata dall’immaginazione di chi ascolta o legge.

Costruito con endecasillabi sciolti, il carme presenta un tratto stilistico già visto nei sonetti, nelle poesie di Foscolo, cioè un certo modo di dipingere quelle parole, cioè di trattare gli argomenti attraverso la successione e la variazione di immagini. Non avendo un rigido metro del sonetto e quindi la misura stretta delle quartine e delle terzine, è libero di debordare, usare periodi di varia lunghezza e dare massima elasticità ai versi e al ritmo. Foscolo applica così il principio dell’ut pictura poesis, sancita nell’Ars poetica, ossia il principio secondo cui la pittura e la poesia si equivalgono, cioè attraverso le parole il poeta deve portare all’attenzione gli elementi, ora mostrando ora nascondendo, grazie alla capacità, alla sapienza stilistica dell’occultare e del mostrare. Foscolo infatti nel carme tende a transitare da immagini molto elaborate, molto ricche ad altre immagini, senza rivelare l’aspetto argomentativo e ideologico; in sostanza, mostra, fa immaginare, ma non descrive e non analizza. È talmente bravo in questo che presso i contemporanei il carme risultò abbastanza oscuro, come si evince da una lettera che Foscolo scrisse a Monsieur Guillon, un francese che, complice anche la scarsa padronanza della lingua, scrisse una stroncatura del carme. In questa lettera spiega che il punto che lui deve far vedere è la tessitura completa e non tanto il singolo ordito e i vari ricami e fa vedere anche che è la capacità combinatoria degli elementi e quindi il disegno complessivo a denotare la capacità poetica. Lontano dalla pratica poetica, ma in sede di esposizione teorica, ribadirà questo concetto nelle lezioni che terrà a Pavia nel 1809 per la cattedra di Eloquenza e stile; cito dalla lezione Della morale letteraria

L’eloquenza insomma, qualunque argomento maneggi, e sotto qualunque forma, in prosa od in versi, deve ottenere che il cuore senta, che l’immaginazione s’infiammi, che le idee si dipingano vive, calde e presenti dinanzi la mente, e che queste fortissime sensazioni ed idee risveglino ed invigoriscano l’attività della nostra ragione, e ci facciano non tanto calcolare la verità quanto sentirla e vederla.

Questa pratica per Foscolo prescinde dalla divisione in versi o in prosa perché dice “sotto qualunque forma, in prosa od in versi; è la capacità che ha quasi innata e che si concretizza nella parola che deve avere il poeta e soprattutto l’idea che debba trasmettere facendo immaginare le sensazioni, quindi deve calare l’idea e l’emozione nella forma. Oltre dell’idea classica, risente anche delle teorie settecentesche sul genio e in particolare, visto che è un intellettuale che Foscolo conosceva, dell’opera Dei Geni di Bettinelli che parla del genio trasfuso, cioè del genio che riesce a infondere nella propria opera la sua capacità di sentire e di vedere attraverso le sensazioni.

L’idea è visibile in ciò che il poeta mostra nonché per accumulo e varietà di immagini. In sintesi, qual è questa idea ne Dei SepolcriL’idea che il rapporto con la morte non sia tanto una questione filosofica o emotiva, ma abbia – e il Foscolo lo espliciterà nella già citata lettera a Guillon – un valore politico, cioè a quanto in termini di valore del passato l’uomo della civiltà presente riesce a far vivere per spirito di emulazione e perché attraverso l’ispirazione e la forza d’animo mossi da questi grandi esempi, è spinto anche lui a fare grandi cose e quindi anche l’amore per la gloria e la bellezza. Molto forte è la capacità di far visualizzare; come vedremo meglio nelle prossime lezioni, in retorica questo corrisponde a una figura retorica che descrive questo principio: l’ipotiposi. Deriva dal greco e significa “abbozzo”; è un disegno incompleto perché è l’idea che il disegno tracciato con le parole debba essere completato dall’immaginazione di chi legge o ascolta. Quintiliano nella Institutio oratoria la definisce come una rappresentazione delle cose attraverso le parole, tali che sembra di vederle. L’ipotiposi ha una sua teatralità: il poeta non ci descrive indirettamente, ma ci fa comparire attraverso le deissi, cioè le collocazioni spazio-temporali, le cose nel momento in cui accadono o attraverso le parole cerca di evocarle in maniera immediata e repentina. Tenete presente che è sempre qualcosa legato all’immaginazione e alla capacità dell’autore di far immaginare; non è una figura retorica facilmente individuabile perché non ha dei connotati linguistici propri. È qualcosa che si riesce a capire attraverso la lettura e l’analisi perché c’è una maggiore densità di verbi, per esempio legati alle sensazioni, o di altre parole e forme linguistiche che esprimono sensazioni.

Già nell’incipit c’è questa idea anche se non molto forte: 

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? […]

Per introdurci il fatto che i morti quando riposano non sentono, Foscolo non si limita a utilizzare l’interrogativa drammatizzando, puntando l’attenzione sul destinatario della poesia perché l’interrogativa si rivolge a qualcuno. Usa al contempo l’immagine del cipresso di giorno e quindi dell’ombra che il cipresso proietta; ci fa capire che c’è qualcuno che sta piangendo questi morti quindi abbiamo sensazioni visive e uditive. Qui non abbiamo un’ipotiposi vera, bensì un addensarsi di stimoli sensoriali perché non sappiamo come sia fatta la tomba, che tipo di tomba sia e non sappiamo chi stia piangendo, ma siamo subito calati in una dimensione attraverso il linguaggio; in esso prestiamo attenzione non tanto a quello che il poeta dice, ma agli stimoli, alle impressioni visive e sensoriali che ci trasmette attraverso la parola. 

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Parafrasi de I Sepolcri

  1. Forse il sonno eterno della morte è meno doloroso
  2. qualora l’estinto riposi all’ombra dei cipressi
  3. e dentro le urne confortate dal pianto di chi è rimasto? Quando
  4. davanti ai miei occhi il Sole non feconderà più sulla terra per questa
  5. bella popolazione di piante e di animali,
  6. e quando davanti a me non danzeranno più le ore
  7. future prodighe di promesse
  8. né sentirò più da te, dolce amico, la tua poesia
  9. e l’armonia malinconica che la contraddistingue,
  10. e non parleranno più al mio cuore lo spirito
  11. delle vergini muse della poesia e dell’Amore,
  12. unico conforto per la mia vita di esule,
  13. quale consolazione sarà per i miei giorni perduti una tomba
  14. che distingua le mie ossa dalle infinite ossa che
  15. la morte sparge per terra e per mare?
  16. È ben vero, Pindemonte! Anche la speranza, 
  17. ultima dea, abbandona i sepolcri; e l’oblio avvolge
  18. tutte le cose nella sua eterna notte;
  19. e una forza operosa le trasforma
  20. in continuazione; e il tempo travolge
  21. l’uomo, i suoi sepolcri, gli ultimi resti mortali dell’uomo
  22. e ciò che resta di terra e cielo.
  23. Ma perché l’uomo dovrebbe privarsi prima del tempo
  24. dell’illusione che, una volta morto, tuttavia gli fa credere
  25. di essere ancora fermo sulla soglia di Dite?
  26. Forse non continua a vivere anche dopo la morte, quando 
  27. non gli trasmetterà più nulla l’armonia del giorno,
  28. se può destare tale armonia nella mente dei suoi
  29. con un dolce moto di pietà? Divina è 
  30. questa corrispondenza di sentimenti,
  31. è dono divino per gli uomini; e spesso
  32. grazie ad esso si continua a vivere in compagnia dell’amico defunto
  33. e il defunto con noi, se la pietosa terra
  34. che lo accolse neonato e che lo ha nutrito,
  35. porgendo l’estremo asilo nel suo grembo materno,
  36. renda inviolabili quelle reliquie dall’oltraggio
  37. degli agenti atmosferici e dal piede profanatore
  38. del volgo, e una lapide ne conservi il nome,
  39. un albero amico e profumato di fiori consoli
  40. le ceneri con le sue carezzevoli ombre. 
  41. Solamente chi non lascia eredità di affetti
  42. ha poca gioia nella tomba; e se solo immagina
  43. la propria sepoltura, vede la propria anima
  44. in mezzo al dolore dei luoghi infernali
  45. oppure vede la sua anima rifugiarsi sotto le grandi ali
  46. del perdono di Dio: ma affida le sue ceneri
  47. alle ortiche di una terra abbandonata
  48. dove non prega nessuna donna innamorata,
  49. né alcun passeggero solitario ode il sospiro
  50. che la Natura infonde a noi dalla tomba.
  51. Tuttavia una nuova legge oggi prescrive
  52. che i sepocri siano fuori dagli sguardi pietosi e non concede
  53. ai morti il nome [sulla lapide]. E giace senza tomba
  54. il tuo Sacerdote, o Talia, che poetando per te
  55. coltivò con lungo amore un alloro
  56. nella sua povera casa, e vi appese corone;
  57. e tu, abbellendolo col tuo sorriso, ispiravi il suo canto
  58. che satireggiava contro il giovin lombardo vizioso,
  59. al quale piacque soltanto il muggito
  60. dei suoi buoi che, situati nelle valli nei pressi dell’Adda
  61. e del Ticino, gli consentono una vita di ozi e lussi
  62. O bella Musa, dove sei? Tra queste piante dove io siedo
  63. e rammento sospiroso la casa materna
  64. non sento spirare l’ambrosia, indizio della tua
  65. presenza divina. Eppure tu venivi
  66. e a lui sorridevi sotto quel tiglio
  67. che ora con le sue fronde dimesse emette un fremito,
  68. perché, o Dea, non copre [con la sua ombra] l’urna del vecchio,
  69. verso il quale in passato era prodigo di serenità e di ombre.
  70. Forse tu vagando tra i cimiteri destinati alla plebe vai 
  71. cercando dove riposi il sacro capo
  72. del tuo Parini? La città piena di vizi, che attrae
  73. cantanti castrati, non pose in suo onore alberi
  74. tra le sue mura, né lapidi, 
  75. né iscrizioni; e forse il ladro che
  76. solo sul patibolo abbandonò una vita di delitti
  77. insanguina le sue ossa con la sua testa mozzata.
  78. Senti raspare tra le macerie e le sterpi
  79. la cagna abbandonata che vaga
  80. sulle fosse e che ulula per la fame;
  81. E l’upupa uscire dal teschio, dove fuggiva la luna,
  82. e svolazzare attorno alle croci
  83. sparse per il cimitero
  84. e l’uccello immondo rimproverare con il suo grido
  85. funereo i raggi che le stelle pietose
  86. donano alle dimenticate sepolture. Inutilmente,
  87. o dea, preghi che sul tuo poeta sgorghino rugiade
  88. dalla notte cupa. Ahi! Non sorge alcun fiore
  89. sugli estinti, qualora non sia onorato delle 
  90. lodi umane e di pianto affettuoso.
  91. Dal giorno in cui nozze, tribunali e religione
  92. fecero nascere negli uomini primitivi, che
  93. [ancora] vivevano come bestie, la compassione
  94. di se stessi e degli altri, i vivi sottraevano
  95. alla corruzione degli agenti atmosferici e all’assalto
  96. delle fiere i miseri resti che Natura destina,
  97. con la sua eterna trasformazione, ad altra vita.
  98. Le tombe erano la testimonianza delle glorie passate,
  99. altari per i figli; e da essi uscivano i responsi
  100. dei numi tutelari della casa, e il giuramento
  101. sulla polvere degli antenati fu rispettato:
  102. culto che le virtù civili e la pietà per i congiunti
  103. tramandarono per secoli con forme rituali differenti.
  104. Non sempre le lapidi sepolcrali
  105. fecero da pavimento alle chiese; né il lezzo dei cadaveri frammisto
  106. all’odore dell’incenso contaminò i fedeli;
  107. né le città furono rattristate
  108. da immagini di scheletri: le madri
  109. si svegliano durante i loro sonni terrorizzate e tendono
  110. le loro braccia nude sull’amato capo
  111. del loro caro neonato, cosicché non lo svegli
  112. il gemito prolungato della persona morta
  113. che chiede dal santuario agli eredi
  114. le messe a pagamento. Ma cipressi e cedri,
  115. impregnando l’aria di purissimi profumi,
  116. protendendevano sulle tombe il verde perenne,
  117. per un’eterna memoria, e vasi preziosi
  118. raccoglievano le lacrime offerte in voto. 
  119. Gli amici rapivano una scintilla al Sole
  120. per illuminare l’oscurità notturna del sepolcro
  121. perché gli occhi dell’uomo che sta morendo
  122. cercano il sole; e i loro petti, tutti,
  123. rivolgono l’ultimo sospiro alla luce che si allontana.
  124. Versando acque purificatrici, le fontane nutrivano
  125. amaranti e viole sul tumulo;
  126. e chi sedeva lì, a versare latte o 
  127. a raccontare le proprie sofferenze
  128. ai cari estinti, poteva sentire un profumo intorno a sé
  129. come quello che esala l’atmosfera dei beati Campi Elisi.
  130. Pietosa follia che rende cari
  131. alle giovani inglesi i giardini dei cimiteri
  132. suburbani, presso i quali le conduce
  133. l’amore per la madre morta, dove pregarono
  134. i clementi numi tutelari della patria, perché facessero ritornare
  135. il prode che troncò l’albero maestro
  136. della nave vinta, e con quello si preparò la propria bara.
  137. Ma dove la brama di imprese gloriose è spenta
  138. e la ricchezza e la paura sono alla base
  139. del vivere civile, cippi e monumenti
  140. marmorei sono inutile ostentazione e
  141. malaugurate immagini di Morte.
  142. Il popolo dotto, ricco e nobile, decoro e guida
  143. del bel regno Italico, ha già da vivo la sua sepoltura, nelle regge
  144. che risuonano di adulazioni e non ha altro riconoscimento di lode
  145. se non gli stemmi familiari. A noi la morte
  146. prepari una dimora di quiete,
  147. dove finalmente la sorte cessi
  148. di perseguitarmi, e gli amici raccolgano
  149. non un’eredità di tesori, ma di nobili sentimenti e l’esempio
  150. di un canto poetico ispiratore di libertà.
  151. Le tombe dei magnanimi spingono gli animi
  152. nobili a grandi imprese, o Pindemonte;
  153. e rendono agli occhi del forestiero bella e santa
  154. la terra che le accoglie. Io quando vidi la tomba
  155. dove riposa il corpo di quel grande
  156. che, insegnando ai principi il buon governo,
  157. lo priva delle sue parvenze di gloria, e svela alle genti
  158. come esso si fondi sulle lacrime e sul sangue;
  159. la tomba di colui che a Roma innalzò 
  160. un nuovo Olimpo per gli dei; e quella di colui che
  161. vide sotto la volta celeste ruotare
  162. diversi pianeti, e il Sole illuminarli rimanendo immobile,
  163. cosicché sgombrò per primo le vie del cielo
  164. all’inglese che così largamente vi spaziò col suo ingegno.
  165. Te beata, esclamai, per le arie rasserenanti
  166. piene di vita, per le acque
  167. che dai suoi gioghi l’Appenino fa scendere a te!
  168. La luna, rallegrata dalla tua aria tersa
  169. riveste di una luce limpida i tuoi colli,
  170. festosi durante la vendemmia, e le valli circostanti
  171. popolate di case e di uliveti
  172. mandano al cielo mille profumi di fiori.
  173. E tu per prima, Firenze, hai udito il carme che
  174. confortò lo sdegno del ghibellino esule,
  175. e tu hai dato i genitori e la lingua a quel dolce
  176. labbro di Calliope [Petrarca], che spiritualizzando
  177. con un velo candidissimo l’Amore, che
  178. tanto in Grecia quanto a Roma era cantato il modo sensuale,
  179. lo restituì nel grembo di Venere celeste;
  180. ma più beata ancora, perché adunate in un solo tempio
  181. conservi le glorie italiane, le uniche forse
  182. da quando le Alpi mal difese e il procedere alterno
  183. della Storia delle sorti umane, volute dal destino,
  184. ti privavano di armi, ricchezze, altari,
  185. patria, di tutto fuorché la memoria.
  186. Perché se un giorno una speranza di gloria
  187. splenderà per gli Italiani più coraggiosi e per l’Italia,
  188. noi da questi sepolcri trarremo l’ispirazione ad agire.
  189. E a queste tombe venne spesso a cercare l’ispirazione Vittorio Alfieri,
  190. adirato con i numi tutelari della patria; andava in silenzio
  191. dove l’Arno è più solitario, contemplando 
  192. smanioso i campi e il cielo; ma poiché
  193. nessun essere vivente placava il suo tormento,
  194. qui quell’uomo austero trovava riposo; e sul volto aveva al contempo
  195. il pallor della morte e la speranza.
  196. Con questi grandi abita in eterno: e i suoi resti
  197. fremono di amor di patria. Ah, sì! Da quella religiosa
  198. pace si sente provenire la voce di un nume: 
  199. alimentò la virtù e il furore guerriero dei Greci
  200. a Maratona contro i persiani, dove Atene
  201. consacrò le tombe ai suoi eroi coraggiosi. Il navigante
  202. che attraversò quel mare, costeggiando l’isola di Eubea, 
  203. vedeva attraverso l’immensa oscurità un balenio
  204. d’elmi e di spade cozzanti, vedeva i roghi funebri
  205. mandar fuori fuoco e vapore, vedeva
  206. scintillanti armi di ferro e fantasmi di guerrieri
  207. cercare la battaglia; e fra l’orrore della notte silenziosa
  208. si diffondeva nei campi il tumulto
  209. delle schiere combattenti, il suono delle trombe
  210. e l’incalzare dei cavalli che accorrevano
  211. scalpitanti sugli elmi dei moribondi,
  212. il loro pianto, e i canti dei vincitori, e quello delle Parche.
  213. Felice te, Ippolito, che nella tua giovinezza
  214. percorrevi il mar Egeo, regno libero dei venti!
  215. E se il timoniere diresse la nave
  216. oltre le isole egee, di certo sentisti 
  217. risuonare i lidi dell’Ellesponto
  218. di antiche storie e rimbombare la marea portando
  219. le armi di Achille al promontorio Reteo
  220. sopra la tomba di Aiace: per i magnanimi
  221. la morte è giusta dispensiera di glorie:
  222. né l’astuta intelligenza, né il favore dei re
  223. conservavano ad Ulisse, sovrano di Itaca, le
  224. spoglie difficili [da ottenere], perché l’onda
  225. incitata dagli dei infernali le strappò alla nave fuggiasca.
  226. E me, che la malignità dei tempi e il desiderio di gloria
  227. costringono a una vita di esule, tra gente straniera,
  228. me le muse, suscitatrici del pensiero umano, 
  229. chiamano a evocare gli eroi.
  230. Le muse Pimplee siedono a tutela dei sepolcri,
  231. e quando il tempo, con le sue fredde ali, 
  232. vi distrugge persino le rovine, loro allietano
  233. i deserti con il loro canto, e l’armonia supera
  234. il silenzio di mille secoli. 
  235. E oggi nella Troade desolata risplende
  236. ai viaggiatori un luogo eterno, reso tale 
  237. grazie alla ninfa [Elettra] che ebbe in sposo Giove
  238. e che a Giove diede Dardano come figlio,
  239. dal quale derivano Troia, Assaraco e i cinquanta
  240. letti nunziali e il regno della popolazione da cui discende Iulo.
  241. Eterno per il fatto che, quando Elettra udì la Parca
  242. che la richiamava dalle vitali brezze del giorno
  243. alle danze dell’Eliso, rivolse un’estrema
  244. preghiera a Giove: “E – diceva – se ti furono gradite
  245. le mie chiome, il mio viso e le dolci
  246. notti trascorse insieme, e la volontà dei fati
  247. non mi assegna premio migliore,
  248. almeno proteggi dal cielo l’amante morta,
  249. cosicché resti viva la fama della tua Elettra”.
  250. Così pregando, moriva. E se ne doleva
  251. Giove; e facendo un cenno col suo capo immortale
  252. fece piovere dai suoi capelli ambrosia sulla ninfa
  253. e rese sacro quel corpo e la sua tomba.
  254. Qui fu sepolto Erittonio, e riposano 
  255. i resti del giusto Ilo; qui le donne troiane 
  256. scioglievano le chiome inutilmente, ahi! cercando 
  257. di scongiurare l’imminente fato dei loro mariti;
  258. Qui venne Cassandra, quando il Nume (di Apollo), 
  259. le fece predire la fine di Troia,
  260. e ai defunti cantava un canto pieno d’amore, 
  261. e lì vi guidava i nipoti, e insegnava quel 
  262. lamento amoroso ai giovinetti.
  263. E sospirando diceva: “Oh se mai
  264. il destino vi consentirà di tornare dalla Grecia,
  265. dove nutrirete i cavalli del figlio di Tideo e del figlio di Laerte,
  266. invano tornerete a cercare la vostra patria!
  267. Le mura, opera di Apollo,
  268. bruceranno sotto i loro stessi resti;
  269. ma gli dei della patria avranno dimora 
  270. in queste tombe; perché è dono che possiedono gli dei
  271. conservare una fama gloriosa pur nelle miserie.
  272. E voi, palme e cipressi che piantano 
  273. le nuore di Priamo, crescerete, ahimè, rapidamente
  274. bagnati dalle lacrime delle vedove.
  275. Proteggete i miei padri: e colui che, pietosamente,
  276. si asterrà dal colpire con la scure le vostre fronde consacrate,
  277. si addolorerà meno per la perdita di persone care
  278. con mano pura potrà toccare gli altari divini.
  279. Proteggete i miei padri. Un giorno vedrete
  280. un mendicante cieco vagare
  281. sotto le vostre antichissime ombre, ed entrare nei loculi
  282. brancolante, abbracciare le urne,
  283. e interrogarle. I loro antri segreti gemeranno,
  284. le tombe narreranno di Ilio rasa al suolo
  285. due volte e due volte risorta
  286. splendidamente sulle vie che erano divenute mute,
  287. per rendere più bella la vittoria finale
  288. ai figli di Peleo, destinati dal fato [a distruggerla]. Il sacro poeta,
  289. consolando col suo canto quelle anime afflitte,
  290. renderà eterna, per tutte le terre che abbraccia il gran padre
  291. Oceano, la fama dei principi achei.
  292. E anche tu Ettore avrai onore di pianti,
  293. dovunque sarà considerato santo e degno di commozione
  294. il sangue versato per la patria, e finché il sole 
  295. illuminerà le esistenze sciagurate degli uomini.
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I Sepolcri

Scritti da Ugo Foscolo nel 1806 e pubblicati nella primavera del 1807dalla tipografia di Niccolò Bettoni, a Brescia, i Sepolcri furono composti a seguito di una conversazione avuta con Ippolito Pindemonte nel salotto veneziano di Isabella Teotochi Albrizzi, intorno al problema, allora molto sentito, della sepoltura dei morti. Il Pindemonte, che stava componendo un poema su I cimiteri, aveva difeso da un punto di vista affettivo-religioso l’istituzione delle sepolture, sostenendo che la moderna filosofia, dalla quale traeva spunto la recente legislazione in materia, inducesse a ignorare il culto dei defunti. L’editto di Saint Cloud (1804) – che imponeva che le tumulazioni avvenissero fuori dal centro abitato e (soprattutto) che le lapidi dei “cittadini” fossero tutte identiche – era stato infatti esteso all’Italia, allora sotto il dominio napoleonico: un provvedimento che aveva dato avvio ad accesi dibattiti tra gli intellettuali del tempo. Foscolo aveva fatto valere, almeno inzialmente, una concezione materialistica dell’esistenza (la stessa che sembra dare forma alle riflessioni sulla morte del sonetto Alla sera), della quale – come dichiarato in una lettera all’Albrizzi – non mancò di pentirsi: “Io ho fatto quel giorno il filosofo indifferente; e me ne sono pentito”.

Sepolcri si presentano pertanto come una ripresa puntuale di quella discussione (ravvisabile fin dall’incipit in medias res, e dalla dedica a Pindemonte). In realtà la ritrattazione è solo parziale, e concentra un complesso di idee che da tempo andavano maturando nell’animo del Foscolo. Parecchi spunti e motivi già visti nell’Ortis e nei sonetti (si pensi al tema del sepolcro nelle poesie A Zacinto e In morte del fratello Giovanni), ritonano qui, sviluppati, rifomulati e arricchiti. Alla base della teorizzazione del poeta, vi è l’idea che nel mondo in continuo divenire, soltanto il sentimento, la “corrispondenza d’amorosi sensi” (v. 30), sia in grado di garantire all’uomo l’immortalità, attraverso il ricordo dei suoi simili. Al nulla eterno, Foscolo contrappone un sistema di valori, illusioni, ideali, in grado di resistere all’azione corrosiva del tempo. Il sepolcro è non solo luogo di affetti, ma consente la trasmissione di un intero patrimonio umano, attraverso il culto dei più grandi eroi della Storia.

Si fondono allora, nell’argomentazione foscoliana (che spesso procede rapsodica, per analogie e per transizioni non sempre limpide ed immediate) il senso per le tradizioni, la venerazione per i “grandi” del passato letterario nazionale (in primis, il Parini e l’Alfieri), il culto della patria, il valore sublimante ed eternante della poesia(connesso al ruolo del poeta civile), i miti dell’antichità classica, che la poesia ha il compito di rendere sempre attuali. Fitta la tramatura di reminiscenze, classiche e coeve (tra queste, in particolare, l’Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray e, per i toni cupi e macabri del componimento, specie ai vv. 70-86, i Canti di Ossian di James Macpherson, conosciuti in Italia grazie alla traduzione realizzata da Melchiorre Cesarotti nel 1762).

Metro: carme in endecasillabi sciolti. Spesso, per l’ampiezza del discorso e per le necessità di arricchimento ritmico-stilistico, Foscolo ricorre sistematicamente all’enjambement, che dilata a dismisura la lunghezza del verso, e alla curatissima ricerca sulla disposizione degli accenti.

A Ippolito Pindemonte

Deorum Manium iura sancta sunto 

La formula-epigrafe (“Siano sacri i diritti delle divinità dei Mani”) è tratta dalle Leggi delle Dodici Tavole (450 a.C.), che costituiscono il nucleo primigenio del diritto romano. Nella religione di Roma, i Mani sono le anime dei defunti, e rappresentano quindi gli spiriti degli antenati (o, più genericamente, le divinità oltretombali).

Testo

  1. All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne 
  2. confortate di pianto è forse il sonno
  3. della morte men duro? Ove più il Sole
  4. per me  alla terra non fecondi questa
  5. bella d’erbe famiglia e d’animali,
  6. e quando vaghe di lusinghe innanzi
  7. a me non danzeran l’ore future,
  8. nè da te, dolce amico, udrò più il verso
  9. e la mesta armonia che lo governa,
  10. nè più nel cor mi parlerà lo spirto
  11. delle vergini Muse e dell’Amore,
  12. unico spirto a mia vita raminga,
  13. qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
  14. Che distingua le mie dalle infinite
  15. ossa che in terra e in mar semina morte?
  16. Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
  17. ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
  18. tutte cose l’obblio nella sua notte;
  19. e una forza operosa le affatica
  20. di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
  21. l’estreme sembianze e le reliquie
  22. della terra e del ciel traveste il tempo.
  23. Ma perché pria del tempo a sè il mortale
  24. invidierà l’illusion che spento
  25. pur lo sofferma al limitar di Dite?
  26. Non vive ei forse anche sotterra, quando
  27. gli sarà muta l’armonia del giorno,
  28. se può destarla con soavi cure
  29. nella mente de’ suoi? Celeste è questa
  30. corrispondenza d’amorosi sensi,
  31. celeste dote è negli umani; e spesso
  32. per lei si vive con l’amico estinto
  33. e l’estinto con noi, se pia la terra
  34. che lo raccolse infante e lo nutriva,
  35. nel suo grembo materno ultimo asilo
  36. porgendo, sacre le reliquie renda
  37. dall’insultar de’ nembi e dal profano
  38. piede del vulgo e serbi un sasso  il nome,
  39. e di fiori odorata arbore amica
  40. le ceneri di molli ombre consoli.
  41. Sol chi non lascia eredità d’affetti
  42. poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
  43. dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
  44. fra ’l compianto de’ templi Acherontei,
  45. ricovrarsi sotto le grandi ale
  46. del perdono d’lddio: ma la sua polve
  47. lascia alle ortiche di deserta gleba
  48. ove nè donna innamorata preghi,
  49. nè passeggier solingo oda il sospiro
  50. che dal tumulo a noi manda Natura.
  51. Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
  52. fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti 
  53. sacerdote o Talia, che a te cantando
  54. nel suo povero tetto educò un lauro
  55. con lungo amore, e t’appendea corone ;
  56. e tu gli ornavi del tuo riso i canti
  57. che il lombardo pungean Sardanapalo,
  58. cui solo è dolce il muggito de’ buoi
  59. che dagli antri abduani e dal Ticino
  60. lo fan d’ozi beato e di vivande.
  61. O bella Musa, ove sei tu? Non sento
  62. spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
  63. fra queste piante ov’io siedo e sospiro
  64. il mio tetto materno. E tu venivi
  65. e sorridevi a lui sotto quel tiglio
  66. ch’or con dimesse frondi va fremendo
  67. perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio,
  68. cui già di calma era cortese e d’ombre.
  69. Forse tu fra plebei tumuli guardi
  70. vagolando, ove dorma il sacro capo
  71. del tuo Parini ? A lui non ombre pose
  72. tra le sue mura la città, lasciva
  73. d’evirati cantori allettatrice,
  74. non pietra, non parola; e forse l’ossa
  75. col mozzo capo gl’insanguina il ladro
  76. che lasciò sul patibolo i delitti .
  77. Senti raspar fra le macerie e i bronchi
  78. la derelitta cagna ramingando
  79. su le fosse e famelica ululando;
  80. e uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
  81. l’ùpupa, e svolazzar su per le croci
  82. sparse per la funerea campagna
  83. e l’immonda accusar col luttuoso
  84. singulto i rai di che son pie le stelle
  85. alle obblîate sepolture. Indarno
  86. sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
  87. dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti
  88. non sorge fiore  ove non sia d’umane
  89. lodi onorato e d’amoroso pianto.
  90. Dal dì che nozze e tribunali ed are 
  91. dier alle umane belve esser pietose
  92. di sé stesse e d’altrui , toglieano i vivi
  93. all’etere maligno ed alle fere
  94. i miserandi avanzi che Natura
  95. con veci eterne a’ sensi altri destina.
  96. Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
  97. ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsi
  98. de’ domestici Lari, e fu temuto
  99. su la polve degli avi il giuramento:
  100. religïon che con diversi riti
  101. le virtù patrie e la pietà congiunta
  102. tradussero per lungo ordine d’anni.
  103. Non sempre  i sassi sepolcrali a’ templi
  104. fean pavimento; nè agl’incensi avvolto
  105. de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
  106. contaminò; nè le città fur meste
  107. d’effigïati scheletri : le madri
  108. balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
  109. nude le braccia su l’amato capo
  110. del lor caro lattante, onde nol desti
  111. il gemer lungo di persona morta
  112. chiedente la venal prece agli eredi
  113. dal santuario. Ma cipressi e cedri
  114. di puri effluvi i zefiri impregnando 
  115. perenne verde protendean su l’urne
  116. per memoria perenne, e prezïosi
  117. vasi accogliean le lagrime votive.
  118. Rapìan gli amici una favilla al Sole
  119. a illuminar la sotterranea notte,
  120. perché gli occhi dell’uom cercan morendo
  121. Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
  122. mandano i petti alla fuggente luce.
  123. Le fontane versando acque lustrali
  124. amaranti educavano e viole
  125. su la funebre zolla; e chi sedea
  126. a libar latte o a raccontar sue pene
  127. ai cari estinti, una fragranza intorno
  128. sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
  129. Pietosa insania che fa cari gli orti
  130. de’ suburbani avelli  alle britanne
  131. vergini, dove le conduce amore
  132. della perduta madre, ove clementi
  133. pregaro i Geni del ritorno al prode
  134. che tronca fe’ la trîonfata nave
  135. del maggior pino, e si scavò la bara.
  136. Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
  137. sien ministri al vivere civile
  138. l’opulenza e il tremore, inutil pompa
  139. inaugurate immagini dell’Orco 
  140. sorgon cippi e marmorei monumenti.
  141. Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo ,
  142. decoro e mente al bello Italo regno,
  143. nelle adulate reggie ha sepoltura
  144. già vivo, e i stemmi unica laude. A noi 
  145. morte apparecchi riposato albergo,
  146. ove una volta la fortuna cessi
  147. dalle vendette, e l’amistà raccolga
  148. non di tesori eredità, ma caldi
  149. sensi e di liberal carme l’esempio.
  150. A egregie cose il forte animo accendono
  151. l’urne de’ forti , o Pindemonte; e bella
  152. e santa fanno al peregrin la terra
  153. che le ricetta. Io quando il monumento
  154. vidi ove posa il corpo di quel grande 
  155. che, temprando lo scettro a’ regnatori,
  156. gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
  157. di che lagrime grondi e di che sangue;
  158. l’arca  di colui  che nuovo Olimpo
  159. alzò in Roma a’ Celesti; e di chi  vide
  160. sotto l’etereo padiglion rotarsi
  161. più mondi, e il Sole irradiarli immoto,
  162. onde all’Anglo che tanta ala vi stese
  163. sgombrò primo le vie del firmamento:
  164. te beata 
  165. Lieta dell’aer  tuo veste la Luna
  166. di luce limpidissima i tuoi colli
  167. per vendemmia festanti, e le convalli
  168. popolate di case e d’oliveti
  169. mille di fiori al ciel mandano incensi:
  170. e tu prima, Firenze , udivi il carme
  171. che allegrò l’ira  al Ghibellin fuggiasco ,
  172. e tu i cari parenti e l’idïoma
  173. desti a quel dolce di Calliope labbro ,
  174. che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
  175. d’un velo candidissimo adornando,
  176. rendea nel grembo a Venere Celeste ;
  177. ma più beata  che in un tempio accolte
  178. serbi l’Itale glorie, uniche forse
  179. da che le mal vietate Alpi e l’alterna
  180. onnipotenza delle umane sorti,
  181. armi e sostanze t’invadeano, ed are
  182. e patria, e, tranne la memoria, tutto.
  183. Che ove speme di gloria agli animosi
  184. intelletti rifulga ed all’Italia,
  185. quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
  186. venne spesso Vittorio ad ispirarsi,
  187. irato a’ patrii Numi; errava muto
  188. ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
  189. desîoso mirando; e poi che nullo
  190. vivente aspetto gli molcea la cura,
  191. qui posava l’austero; e avea sul volto
  192. Il pallor della morte e la speranza.
  193. Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
  194. fremono amor di patria. Ah sì! da quella
  195. religïosa pace un Nume parla:
  196. nutrìa contro a’ Persi in Maratona
  197. ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
  198. la virtù greca e l’ira. Il navigante
  199. che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
  200. vedea per l’ampia oscurità scintille
  201. balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
  202. fumar le pire igneo vaporcorrusche
  203. d’armi ferree vedea larve guerriere
  204. cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
  205. silenzi si spandea lungo ne’ campi
  206. di falangi un tumulto e un suon di tube
  207. e un incalzar di cavalli accorrenti
  208. scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
  209. e pianto, ed inni, e delle Parche il canto
  210. Felice te che il regno ampio de’ venti,
  211. Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
  212. E se il piloto ti drizzò l’antenna 
  213. oltre l’isole Egée, d’antichi fatti 
  214. certo udisti suonar dell’Ellesponto
  215. i liti , e la marea mugghiar portand
  216. alle prode Retée  l’armi d’Achille
  217. sovra l’ossa d’Aiace: a’ generosi
  218. giusta di glorie dispensiera è morte ;
  219. né senno astuto, né favor di regi 
  220. all’Itaco le spoglie ardue serbava,
  221. ché alla poppa raminga le ritolse
  222. l’onda incitata dagl’inferni Dei.
  223. E me  che i tempi ed il desio d’onore 
  224. fan per diversa gente ir fuggitivo ,
  225. me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
  226. del mortale pensiero animatrici.
  227. siedon custodi de’ sepolcri, e quando
  228. il tempo con sue fredde ale vi spazza
  229. fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
  230. di lor canto i deserti, e l’armonia
  231. vince di mille secoli il silenzio .
  232. Ed oggi nella Tròade  inseminata
  233. eterno splende a’ peregrini  un loco
  234. eterno per la Ninfa a cui fu sposo
  235. Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
  236. onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
  237. talami e il regno della Giulia gente 
  238. Però che quando Elettra udì la Parca 
  239. che lei dalle vitali aure del giorno
  240. chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
  241. mandò il voto supremo: E se diceva,
  242. a te fur care le mie chiome e il viso
  243. e le dolci vigilie, e non mi assente
  244. premio miglior la volontà de’ fati,
  245. la morta amica almen guarda dal cielo
  246. onde d’Elettra tua resti la fama.
  247. Così orando moriva. E ne gemea
  248. l’Olimpio; e l’immortal capo accennando 
  249. piovea dai crini ambrosia su la Ninfa
  250. e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
  251. Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto
  252. cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne
  253. sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando
  254. da’ lor mariti l’imminente fato;
  255. ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
  256. le fea parlar di Troia il dì mortale,
  257. venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
  258. e guidava i nepoti, e l’amoroso
  259. apprendeva lamento a’ giovinetti .
  260. E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,
  261. ove al Tidide e di Laerte al figlio
  262. pascerete i cavalli, a voi permetta
  263. ritorno il cielo, invan la patria vostra
  264. cercherete! Le mura, opra di Febo,
  265. sotto le lor reliquie fumeranno.
  266. Ma i Penati di Troja avranno stanza
  267. in queste tombe; chè de’ Numi è dono
  268. servar nelle miserie altero nome.
  269. E voi palme e cipressi che le nuore
  270. piantan di Priamo, e crescerete ahi! presto
  271. di vedovili lagrime innaffiati.
  272. Proteggete i miei padri: e chi la scure
  273. asterrà pio dalle devote frondi
  274. men si dorrà di consanguinei lutti
  275. e santamente toccherà l’altare,
  276. proteggete i miei padri. Un dì vedrete
  277. mendico un cieco errar sotto le vostre
  278. antichissime ombre, e brancolando
  279. penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
  280. e interrogarle. Gemeranno gli antri
  281. secreti, e tutta narrerà la tomba
  282. Ilio raso due volte e due risorto 
  283. splendidamente su le mute vie
  284. per far più bello l’ultimo trofeo
  285. ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
  286. placando quelle afflitte alme col canto,
  287. i prenci argivi eternerà per quante
  288. abbraccia terre il gran padre Oceàno .
  289. E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
  290. ove fia santo e lagrimato il sangue
  291. per la patria versato, e finché il Sole
  292. risplenderà su le sciagure umane.

Note

‘urne: è metonimia per le tombe dei defunti; i “cipressi” sono invece gli alberi sacri a Plutone, dio degli Inferi.

 I versi iniziali (e l’interrogativa che apre I sepolcri) sembrano far iniziare la conversazione del Foscolo da dove era rimasta interrotta: i sepolcri, dice il poeta, sono inutili ai morti, perché la morte determinerebbe l’annullamento dell’essere umano, riassorbito nel ciclo perenne di nascita e distruzione. Il concetto, qui espresso attraverso domanda retorica (che implica una risposta negativa) è presente anche nella già citata elegia di Gray, ed è esplicitato nella Lettera a Monsieur Guillon, che aveva fortemente criticato il carme foscoliano: “I monumenti, inutili ai morti, giovano ai vivi, perché destano affetti virtuosi lasciati in eredità alle persone dabbene”. Foscolo ha in mente le pratiche di sepoltura invalse presso Greci e Latini, come suggerisce il termine “urna”, vaso che raccoglieva le ceneri dei defunti cremati.  Il riferimento alla classicità è esplicitato più avanti, ai vv. 114-129.

 Ove: va letto in correlazione con il “quando” del v. 6. La frase significa semplicemente “quando sarò morto”, ma il poeta esprime l’idea indirettamente, attraverso una lunga perifrasi, artificio al quale spesso il Foscolo ricorre nel corso del carme per elevare il dettato stilistico del suo testo.

 per meil pronome è in posizione marcata, a ribadire con atteggiamento fiero dell’individualismo foscoliano, espresso spesso anche nei sonetti (basti pensare, ad esempio, all’Autoritratto).

 non danzeran l’ore future: quando non ci sarà più futuro perché per il poeta sopraggiungerà il tempo della morteLe Ore, figure della mitologia greca, sono personificate, come nell’ode All’amica risanata: sono rese attraenti (“vaghe”) per le promesse che portano con sé.

dolce amico: è Pindemonte, il cui nome, nella complessa architettura sintattica di apertura del carme, verrà fatto per la prima volta solo al v. 16.

 mesta armonial’intonazione malinconica del Pindemonte alla quale Foscolo fa riferimento è con ogni probabilità quella delle Poesie campestri

 delle vergini Muse e dell’Amorepoesia e amore, qui personificati, sono per Foscolo gli ideali più importanti (e che, nel corso del carme, diventeranno le fondamenta dei valori civili dell’umanità), e gli unici in grado di dare qualche conforto (“ristoro”) alla sua vita di esule. “Spirto”, al v. 10, è ripetuto al v. 12, a ribadire l’importanza di questo concetto e la forte carica semantica della parola: unisce infatti in sé passione e ispirazione poetica.

 in terra e in mar semina morte: si noti l’efficacia icastica dell’immagine prescelta: la morte, da intendersi qui come destino ineluttabile, semina morte su tutta la Terra, immaginata come un immenso e sconfinato cimitero.

 la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri: dibattuto dalla critica l’esatto significato di questa affermazione. L’immagine della speranza come ultima dea richiama un passo di Teognide (VI-V sec. a.C.) citato da Foscolo anche nel commento alla Chioma di Berenice: “Tutti  i numi salendo all’Olimpo gli infelici mortali abbandonano: la Speranza sola rimane buona dea”. Come messo in evidenza da Petrocchi, la speranza non è da intendersi in senso religioso, ma come “fiducia quotidianamente sofferta di compiere in vita, anche nell’ultimo stremo d’essa, gesta degne di tutti gli ideali cantati da Foscolo”.

le affatica di moto in moto: il poeta fa riferimento alla concezione che vede l’universo eternamente sottoposto a un ciclo di aggregazione e disgregazione della materia.Rilevante (e diffusissima come vedremo in tutta la prima parte de I sepolcril’eco lucreziana dal De rerum natura.

 L’azione inesorabile del tempo non lascia scampo, mutando inevitabilmente l’aspetto di cose e uomini. Alla lettera “estreme sembianze” significa appunto “ultimi aspetti”, e “reliquie” è “ciò che rimane”.

 Alla conclusione negativa della Ragione, espressa nei versi precedenti, che riprendevano le tesi già espresse da “filosofo indifferente” nel salotto della Albrizzi, il Foscolo contrappone un moto del sentimento, introdotto dalla forte avversativa iniziale “Ma”, che chiude la sorta di introduzione precedente. Il sepolcro – dice il poeta – non è del tutto inutile, se è in grado di ristabilire la “corrispondenza d’amorosi sensi” (o meglio, la sua illusione) tra morti e vivi.

 limitar di Dite: a fermare l’uomo sulla soglia dell’”oblio” che avvolge tutte le cose, è l’illusione, inverata nei cuori umani e resa possibile proprio dalla tomba. L’immagine dell’indugio sulla soglia di Dite è mutuata dal De Rerum Natura di Lucrezio e risulta particolarmente efficace per la sua forza espressiva.

 nella mente de’ suoi: il defunto continua a vivere idealmente grazie al moto di pietà coltivato dai vivi. Si noti come, specularmente al ragionamento precedente sull’inutilità del sepolcro, anche qui il discorso si sviluppa a partire da articolate interrogative retoriche.

 Spesso nel carme la natura è personificata: qui la terra è rappresentata come una madre pietosa che, dopo aver dato la vita al figlio e averlo nutrito, non esita ad accoglierlo porgendogli asilo dopo la morte. Si notino i termini appartenenti alla sfera semantica religiosa (“pie”, “celeste”, “sacre”, “profano”), a ribadire la nobiltà della “corrispondenza d’amorosi sensi”, per quanto il Foscolo non abbandoni mai una concezione immanentistica e laica: il nulla eterno può infatti essere superato grazie alle illusioni e ai più alti valori umani.

 profano piede del vulgo: Il sepolcro ostacola l’azione corrosiva degli agenti atmosferici e consente di evitare che le reliquie del defunto vengano profanate dal piede del volgo, svolgendo insomma una basilare funzione per conservare un simbolo della memoria.

 sasso: in questo caso non vale genericamente per tomba (per metonimia, dunque) ma, più propriamente, per “lapide”: portando inciso il nome del defunto, questa consentirà infatti di distinguere il sepolcro di ciascuna, rispetto alla massa indistinta di ossa di una fossa anonima.

 arbore: è latinismo, e dal latino mutua anche il genere femminile, coe si vede dall’aggetivazione.

 La consolazione del sepolcro è poca cosa solo per chi non abbia saputo meritarsi affetti durante la vita: non ci sarà infatti nessuno a compiangerlo e riattivare, con il moto di pietà già visto, la “corrispondenza d’amorosi sensi” così fortemente idealizzata dal poeta. Si veda come nei Sepolcril’andamento ragionativo di Foscolo spesso si concretizzi in “massime” brevi ed icastiche come questa, che sintetizzano o sviluppano il discorso dell’autore.

Chi confida in un’altra vita, immagina la propria anima fra “l’compianto dei templi Acherontei” (dove “compianto” è da intendersi semplicemente come “pianto comune” delle anime, mentre l’espressione “templi acherontei” fa riferimento ai luoghi infernali, attraversati dal fiume Acheronte), oppure “sotto le ali del perdono di Iddio”, con personificazione. Convincente l’interpretazione secondo cui con questa seconda immagine il poeta non avrebbe tanto voluto riferirsi al Purgatorio, quanto piuttosto a una generica visione cristiana dell’oltretomba, in contrapposizione a una visione pagana (già suggerita, appunto, attraverso l’espressione “templi Acherontei”).

 gleba: letteralmente, “zolla”, che, per sineddoche, sta più genericamente ad indicare la terra.

donna innamorata prieghil’immagine della donna innamorata che sospira e prega sulla tomba dell’amato è cara alla poesia del Foscolo: la ritroviamo anche nell’Ortis (nella lettera del 25 maggio 1798: “La mia sepoltura sarà bagnata dalle tue lacrime, e dalle lacrime di quella fanciulla celeste”) e concorre a determinare un sentimento di forte compassione, così come l’immagine immediatamente successiva.

L’editto di Saint Cloud, emanato in Francia nel giugno del 1804 (rinnovando, di fatto, precedenti legislazioni austriache) fu esteso in Italia nel settembre del 1805. La legge imponeva che i cimiteri fossero posti lontano del centro abitato: un provvedimento non condivisibile nella nuova concezione del Foscolo, in quanto tesa ad allontanare vivi ed estinti, non favorendo il commemorazione di questi ultimi.

 il nome a’ morti: le leggi austriache prevedevano che le iscrizioni fossero poste non sulla singola lapide, ma all’esterno del cimitero, rendendo così impossibile distinguere una tomba dall’altra.

il tuo sacerdote: poichè non sono concesse distinzioni, il poeta immagina che le reliquie del Parini giacciano accanto a quelle di un delinquente morto sul patibolo. Il passo presenta una tonalità macabra, ben distante dal patetismo che contraddistingueva la prima parte del componimento, e in linea con le suggestioni preromantiche coeve, quali si ritrovano nei già citati Canti di OssianTalia è la musa della poesia comica, e quindi, per estensione, satirica. Il Parini, qui definito – con ricorso al linguaggio della religione pagana – “sacerdote” (a ribadire il valore eternanate della poesia, tema principale dell’ultima parte del carme), vi si cimentò con la stesura del Giorno (l’autore dei Sepolcri vi allude implicitamente nei versi successivi, dedicati al “lombardo Sardanapalo”).

 tettometonimia per casa.

 t’appendea corone: la poesia ha sempre per Foscolo carattere sacro: il sacerdote di Talia, Parini, onora il suo compito coltivando (“educò” viene quindi etimologicamente dal latino educare, che significa letteralmente “coltivare”) un alloro (simbolo della poesia, in quanto pianta consacrata ad Apollo, il dio che presiede quest’arte) e appendendovi corone per omaggiare la sua musa.

Nel GiornoGiuseppe Parini satireggiò vita e costumi di un “Giovin signore” lombardo, sfaticato e corrotto come il re assiro Sardanapalo, il quale, gradendo soltanto il muggito dei suoi buoi, visse dalle rive dell’Adda a quelle del Ticino tra agi e in assenza di qualsivoglia ideale.

 abduani:  Abdua è l’antico nome dell’Adda, ma anche la vecchia denominazione della città di Lodi: di qui la duplice interpretazione dei commentatori di Foscolo.

ambrosia: è propriamente il nettare degli dei, ma qui – secondo una sfumatura di significato già assunta dell’ode All’amica risanata – fa riferimento al profumo esalato dalla divinità.

 non copre, o Dea, l’urna del vecchio: l’immagine della pianta che freme con fronde dimesse (letteralmente: “addolorate”), perché non arriva a coprire il sepolcro del Parini, va ad aggiungersi al già ricco elenco di esempi di natura umanizzata visti nel componimento.

 Il poeta immagina la musa Talia vagare alla disperata ricerca del suo sacerdote tra i cimiteri suburbani di Milano, nei quali è seppellita la plebe indistinta. Il capo del Parini è “sacro” perché tale è la poesia, come il Foscolo avrà ampiamente modo di argomentare nell’ultima parte del carme.

 d’evirati cantori: Parini si era scagliato con violenta invettiva contro la pratica invalsa di evirare cantori ancor giovinetti nell’ode Alla musica. Il riferimento è qui ripreso come immagine del degrado nel quale riversava la città di Milano, priva di qualsiasi valore morale.

La descrizione del cimitero dove giace il Parini si carica di ulteriori particolari orrorosi, volutamente caricati. È certamente uno dei passi più influenzati dal gusto tetro di tanta produzione romantica del tempo (e un primo influsso è già ravvisabile nella Notte dello stesso Parini).

 Un’altra suggestione mutuata da un autore contemporaneo al Foscolo, Vincenzo Monti. L’immagine della cagna famelica sembra infatti riecheggiare un passo del Bardo della selva nera (“Poi si diè ratto con umano ingegno | a raspar le macerie e lamentoso | ululando”, canto VI, vv. 429-431.). “Ululando” è qui un gerundio con valore participiale e ha un suono fortemente onomatopeico, come il successivo “upupa”.

upupa: è considerata dal Foscolo, e prima ancora, dal Parini, un uccello notturno terribile. Un errore probabilmente imputabile alle letture bibliche, nelle quali l’animale più volte veniva definito “uccello immondo” oppure alla reminiscenza classica del mito di Tereo, che addolorandosi di aver mangiato le membra del figlio, in seguito alla vendetta inflittagli da Procne e Filomela, fu trasformato in upupa, come raccontato nelle Metamorfosi (VI, vv. 671-674) di Ovidio.

 Con il suo canto, l’upupa sembra rimproverare le stelle per la luce della quale sono prodighe.

non sorge fiore: Al fiore va associato un significato proprio e uno figurato, come simbolo del ricordo del defunto. Il tono si innalza e si carica di un patetismo insistito.

 nozze e tribunali ed are: Foscolo si riallaccia e sintetizza il pensiero di Giambattista Vico (1668-1744) e della sua Scienza nuova (Libro primoSezione terza; con la relativa distinzione delle diverse età della storia umana): “Osserviamo tutte le nazioni […] custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti”. Dal pensiero dell’oblio nel quale giace la tomba del Parini, è breve il passaggio, per contrasto, all’importante ruolo sociale che le tombe hanno avuto nella storia del genere umano, fin dalle origini della civiltà. “La vostra tomba è un’ara”, scriverà Leopardi nella canzone All’Italia riecheggiando questo passo di Foscolo.

 esser pietose di sé stesse e d’altrui: dal giorno in cui abbandonarono il loro stato ferino, gli uomini si curarono delle reliquie dei vivi, con moto di compassione, identificabile con la “corrispondenza d’amorosi sensi”. Soggetto della proposizione sono le “umane belve”, divenute pietose, e non i “vivi”.

 La natura assume sempre nuove forme, soggetta a un processo di perenne trasformazione: anche qui il ragionamento foscoliano si modella su quello di Vico.

 Le tombe erano testimonianza di glorie passate (i “fasti”) e altari per la venerazione degli antenati, che ricambiavano la dedizione mostrata loro con responsi e vaticini. Sono definiti “Lari”, cioè i numi tutelari del focolare domestico nella relgione romana.

Non sempre: l’avverbio, preceduto dalla negazione, introduce il primo termine della contrapposizione e va letto in correlazione all’avversativo “ma”, al v. 114. In particolare, Foscolo contrappone polemicamente l’uso medievale di seppellire i morti nelle chiese alla rievocazione degli usi funebri praticati nella classicità, concedendosi un breve excursus nel quale si evince, in riferimemento alla contemporaneità,  una nota di ammirazione per i cimiteri inglesi, la cui armonia è tale da evocare il dialogo tra vivi ed estinti più volte auspicato dal poeta.

 d’effigïati scheletriI defunti in epoca medievale venivano sepolti nelle chiese, cosicché le stesse risultavano pavimentate da lastre sepolcrali; a questa immagine, se ne aggiungono altre due, più cruente, quasi a ottenere un effetto di climax: il “lezzo dei cadaveri” offende i fedeli (i “supplicanti”), mescolandosi all’odore degli incensi; immagini di morte, inoltre, affollano la città, fissate in raffigurazioni e sculture molto diffuse all’epoca, e poi tornate di moda nel barocco, a ricordare la precarietà della vita.

 La climax raggiunge l’apice: le madri, risvegliate dal gemito dei morti che chiedono insistentemente suffragi per “venal prece” (cioè, dietro corresponsione in denaro), così da abbreviare la loro permanenza in Purgatorio, si svegliano di notte, tendendo le braccia sul capo del figlio, perché non venga svegliato da quel lamento inquietante. Si noti l’inusuale aggettivo “esterrefatte”, a ribadire il carattere sostanzialmente impoetico di questo passaggio (non a caso, la suggestione e l’uso del termine viene con ogni probabilità mutuato da un’opera coeva fortemente caratterizzata da tinte fosche, Il bardo della selva nera di Vincenzo Monti).

 Qui si esplicita la contrapposizione rispetto al passo precedente: non solo per l’avversativo, che cade esattamente a metà verso, ma anche per le immagini in stridente antitesi, rispetto a quelle lugubri appena abbandonate: le essenze profumate dei cedri e dei cipressi (“puri effluvi”), da correlarsi, per contrasto, al lezzo dei cadaveri, gli alberi che offrono “perenne verde” per una “memoria perenne” (si noti l’anastrofe, a ribadire l’importanza della continuità della vita resa possibile tramite il sepolcro).

 Ai tempi del Foscolo si riteneva che i lacrimatoi fossero vasi destinati al raccoglimento delle lacrime votive di quanti si appressavano al tumulo del defunto per commemorarlo. In realtà erano contenitori per essenze profumate. Si noti, dal v. 115, l’insistita allitterazione della “p”, che concorre a creare una tramatura fonica armonica e coesa, a ribadire l’armonia e la pace suggerita dal nuovo quadro descrittivo.

 gli occhi dell’uom cercan morendo il Sole: le lampade sepolcrali omaggiavano i defunti donando loro una parvenza di quella luce che videro in vita, e rievocando, nello specifico, gli ultimi istanti dell’esistenza, durante i quali il moribondo è solito cercare un’ultima “favilla”.

 Su la funebre zolla: altro efficace quadro descrittivo, con il quale Foscolo insiste sul potere rasserenante della natura, che agisce tanto apportando la pace ai defunti, quanto consentendo la conciliazione tra vivi e morti (impossibile in uno scenario affine a quello descritto dal poeta ai vv. 104-114).

de’ beati Elisi: i campi Elisi erano, secondo la religione pagana, i luoghi dove vivevano, in quiete e serennità perenne, coloro che si erano guadagnati l‘amore divino.

 Pietosa insania: ecco comparire nel testo una prima ossimorica definizione delle illusioni, così importanti nella visione del mondo (e del sepolcro) di Foscolo. Entrambi i vocaboli sono da relazionare al loro significato etimologico e alla loro origine latina: “pietoso” viene infatti da pietas, un termine dal significato complesso, atto a indicare l’atteggiamento di chi si mostra profondamente rispettoso e misericordioso nei confronti degli altri uomini. “Insania” viene dall’aggettivo insanus, “folle”, a ribadire la consapevolezza della soddisfazione mai pienamente raggiungibile attraverso le illusioni, tuttavia così necessarie all’uomo per superare le aride considerazioni materialistiche e la constatazione del nulla eterno.

 suburbani avelli: oltre all’antichità classica, un modello di commemorazione dei defunti positivo e coevo è offerto dai “suburbani” avelli inglesi, giardini aperti, ben curati e nelle immediate periferie delle città, ancora in contrapposizione alle immagini orrorose che contraddistinguevano le sepolture cattoliche.

 A indurre le “britanne Vergini” a far visita al cimitero non sono soltanto gli affetti familiari (“l’amore della perduta madre”), ma anche la preghiera ai geni, numi tutelari della patria, affinché concedano il ritorno dell’ammiraglio Horatio Nelson (1758-1805), eroe nazioanle inglese che fece allestire la propria bara ricavandola dal legno dell’albero maestro della “trionfata nave” francese (la francese Orient) al tempo delle guerre napoleoniche.

 Orco: è uno dei nomi con il quale viene designato il dio degli inferi, Plutone.

 Foscolo fa riferimento ai tre collegi elettorali, il dotto, il ricco e il patrizio, che designavano i ceti politicamente influenti, dapprima nella Repubblica Cisalpina, e poi nel Regno d’Italia: il giudizio del poeta è affidato allo sprezzante termine “vulgo” (analogo uso del termine il poeta ne faceva nell’Ortis), e all’ironica espressione “decoro e mente al bello Italo regno”.

unica laude: per Foscolo, i nobili che vivono tra le adulazioni e l’onore puramente formale degli stemmi nobiliari sono come dei morti in vita (“ha sepoltura già vivo”).

 A noi: con questo plurale maiestatis il Foscolo si contrappone fieramente al “vulgo” ed esplicita la consapevolezza dell’importanza del proprio compito di poeta-civile al servizio dei valori assoluti della poesia.

 Con posa romantica, Foscolo parla del destino come di una forza che infierisce contro il poeta, avversandolo: per questo l’auspicio è che la morte possa offrire un “riposato albergo” (con espressione che ricalca quella del sonetto Alla sera), ponendo fine alle vendette della sorte.

 di liberal carme l’esempio: l’eredità del Foscolo non sarà contraddistinta dai beni materiali dai quali è attratto il “vulgo”, bensì dall’esempio “caldi affetti” e di un nobile carme in grado di ispirare ed eternare i più grandi valori (ovvero, I sepolcri stessi).

 l’urne de’ forti: ecco che viene esplicitato un concetto finora rimasto sotteso, quello degli ideali suggeriti dal sepolcro, primo stimolo per ravvivare il desiderio di gloria di un popolo: dal culto dei defunti la nazione può, per il Foscolo, trovare nuovo slancio. Il concetto viene poi ulteriormente approfondito e ampliato, salvo andare incontro a una ritrattazione parziale, tipica del procedere argomentativo del poeta: anche la tomba è sottoposta all’azione distruttiva del tempo, diversamente dalla poesia, grazie alla quale i valori vengono immortalati ed eternalizzati.

 quel grande: è Machiavelli il primo grande al quale Foscolo fa riferimento dopo il Parini; lo capiamo grazie alla lunga perifrasi alla quale il poeta ricorre nel designare gli argomenti trattati nella sua opera più significativa, Il Principe, nel quale impartì ai regnanti l’arte del buon governo, disvelando l’illusorietà di quegli onori (gli allor ne sfronda) e come il loro potere si fondi non tanto sul consenso (che il bravo principe, per il Machiavelli, deve sempre ricercare), quanto sull’oppressione dei popoli.

 arcanel Medioevo, una cassa destinata a contenere le reliquie del defunto. Qui, più genericamente, sta ad indicare la tomba.

 colui: Michelangelo Buonarroti (1475-1564), che ultimò a Roma la Cappella Sistina, un “Olimpo cristiano”.

 Il pensiero di Foscolo va ora ad un uomo di scienza, Galileo Galilei, che aprì la strada alle scoperte di Newton: con il suo telescopio per primo osservò nella volta celeste (“etereo padiglion”) il moto dei pianeti, illuminati dal Sole, “immoto”, verificando sperimentalmente le tesi di Copernico. Nella designazione dei grandi del passato anche recente, il dettato si fa più sostenuto, aulico: si noti la sovrabbondanza di perifrasi e di inversioni.

 Anglo: è Isaac Newton (1642-1727), che formulò la legge di gravitazione universale. La metafora dell’ala dell’ingegno colpisce per la sua evidenza icastica.

 te beatal’apostrofe è rivolta a Firenze, e viene reiterata nei versi successivi, quasi a raggiungere un effetto di climax. La sua prima fortuna consiste nella pace della quale può godere, ristorata dalle piacevoli acque dell’Arno. La città è idealizzata anche nei sonetti (si veda, a titolo esemplificativo, E tu ne’ carmi avrai perenne vita), nell’Ortis e nelle Grazie.

 Lieta dell’aer:l’espressione è utilizzata dal Foscolo anche nelle Grazie, e deriva da un sonetto che il poeta ebbe modo di commentare nell’antologia Vestigi della storia del sonetto italiano, da lui curata: si tratta del componimento di Galeazzo di Tarsia Già corsi l’alpi gelide e canute. La luna, traendo giovamento dall’area vivificatrice di Firenze, la ripaga illuminandone i colli festosi per la vendemmia.

 Firenze: è introdotto il secondo motivo della beatitudine di Firenze, il fatto di essere stata la città natale di Dante e di Petrarca, i poeti che hanno fondato l’illustre tradizione italiana e che, insieme a Boccaccio, costituivano le “tre corone” della lingua italiana.

 allegrò l’irail carme che confortò lo sdegno di Dante nei confronti della sua epoca è, ovviamente, la Commedia.

 Ghibellin fuggiascoDante, in realtà, era guelfo. L’aggettivo “fuggiasco” consente di chiarire il riferimento foscoliano: durante l’esilio, infatti, l’autore della Commedia cominciò a simpatizzare per il partito imperiale.

 Petrarca è ricordato soprattutto per l’influsso che esercitò sulla lingua poetica ed è ricordato per la dolcezza dei suoi versi: non a caso, viene perifrasticamente definito come “dolce labbro” di Calliope(propriamente, la musa della poesia epica); il Foscolo tuttavia, che anche per via delle sue origini conosceva benissimo il greco, intendeva fare riferimento al significato insito nel nome della musa: Calliope significa infatti, letteralmente, “bella voce”.

 Secondo il Foscolo, altro merito del Petrarca consiste nell’aver ricoperto del candido velo del pudore il sentimento amoroso e, quindi, nell’aver restituito metaforicamente Amore a Venere Celeste, una divinità tutta spirituale, radicalmente contrapposta alla Venere Terrestre, sensuale, della poesia classica (la contrapposizione tra le due figure della religione pagana è già presente in Platone).

 più beata: il motivo più grande di orgoglio per Firenze consiste però nel fatto di custodire, in Santa Croce, le reliquie dei più grandi uomini del passato.

 Le tombe dei magnanimi sono l’unica testimonianza della gloria passata: il concetto di un’Italia mal difesa, nonostante la barriera naturale offerta dalle Alpi, è sviluppata dal Foscolo già nell’Ortis: “I tuoi confini, o Italia, son questi; ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia”. L’Italia è privata di tutto (forza, ricchezze, luoghi di culto, tesori artistici), fuorché della memoria. Proprio dal ricordo della grandezza passata occorre, per Foscolo, ripartire, così da trovare nuovo slancio e far risorgere l’antica gloria di un tempo, come dirà nei versi immediatamente successivi.

 A lasciarsi ispirare da quelle tombe è il grande per eccellenza, il poeta Vittorio Alfieri, che aveva a sua volta auspicato una rinascita di popolo nel Misogallo e nel Bruto secondo.

“Errava muto”, “desioso mirando” e “nullo vivente aspetto gli molcea la cura” sono tutte espressioni tese a dar conto del dissidio interiore dell’Alfieri, del quale Foscolo darà efficacemente conto anche ricorrendo alla sintomatologia fisica: lo contraddistinguono infatti il “pallor di morte” e “la speranza”, a ribadirne l’animo contrastato tra il desiderio di morte, derivante dalla percezione della realtà che lo circonda, e la pulsione al riscatto, sempre frustrata.

 abita eterno: perché ancora vivo nella memoria di chi, come il Foscolo, non ha dimenticato la sua grandezza.

 un Nume parla: dai sepolcri di Santa Croce sembra parlare un nume, personificazione dell’amor di patria, ispiratore di nobili valori: di qui, il pensiero del poeta si rivolge ad altre tombe famose, quelle dei Greci a Maratona del 490 a.C.

 Foscolo cita il Viaggio nell’Attica di Pausania, che riporta di straordinarie apparizioni notturneavvistate dai naviganti che costeggiavano (“veleggiò”) l’isola di Eubea: quei fantasmi (“larve”) rievocavano la grande battaglia del 490 a.C.

Le immagini della battaglia si susseguono quasi fossero rievocazioni oniriche, in versi di notevole suggestione per immagini e scenari evocati: cozzare di spade, tumulto di falangi, corse di cavalli sfrenati, pianti e, infine, il canto delle Parche (Cloto, Lachesi ed Atropo). La rapidità e la drammaticitàcon la quale il poeta presenta queste “visioni” è sorretta da artifici stilistici che concorrono a creare un effetto di accelerazione, quali la giustapposizione di sintagmi nominali, la frequente ellissi dei predicati, la ripetizione insistita della congiunzione coordinante.

 Felice te: Foscolo torna, con vocativo, a rivolgersi al Pindemonte (“Ippolito”, con anastrofe, al verso successivo), che in gioventù navigò il mar Mediterraneo.

il regno ampio de’ venti: stessa espressione è utilizzata da Gabriello Chiabrera, nella poesia Cetra de’ canti amica (ai vv. 12-13).

 correviil verbo è usato transitivamente, come nel libro III dell’Eneidecurrimus aequor” (v. 191).

 antenna: per sineddoche, “vela” e, per estensione, genericamente “nave”.

 I luoghi visti dal Pindemonte in gioventù sono ancora in grado di rievocare la grandezza delle imprese che lì si svolsero.

i litile spiagge dello stretto dei Dardanelli, sulle quali, come spiega il Foscolo in nota, furono sepolti gli eroi greci.

La marea, con il suo violento muggito, porta con sé le armi che Ulisse sottrasse ad Aiace con l’inganno. Aiace, leggendario eroe dell’Iliade omerica, figlio di Telamone, re di Salamina, e marito della concubina Tecmessa, fu uno dei più importanti protagonisti dell’assedio troiano, e a lui avrebbero dovuto essere destinate le armi del defunto Achille. Tuttavia nella contesa per ottenere delle armi – implicito riconoscimento del valore guerriero – fu l’astuto Ulisse ad avere la meglio, provocandone l’ira e poi, complice la maledizione di Atena, la pazzia, che gli costò la perdita dell’onore e, conseguentemente, la scelta del suicidio. Foscolo si lasciò suggestionare dalla trattazione che di quel mito fece Sofocle, nella tragedia che dall’eroe greco protagonista prende il nome. Aiace è autentico modello di eroismo nella concezione romantica di Foscolo: la sua grandezza si esplicita proprio nella sventura.

 prode Retée: sul promontorio reteo, nel Bosforo, dove venne sepolto Aiace.

 La vicenda è narrata da Pausania: pare infatti che la marea avesse privato Ulisse delle armi di Achille, per restituirle ad Aiace, che avrebbe dovuto ottenerle per merito, trasportandole sul suo tumulo.

 Giusta di glorie dispensiera è morte: è il senso profondo del messaggio che Foscolo vuole lasciare al lettore: la giustizia, non ottenuta in vita, è ottenuta con la morte.

 regi: sono Agamennone e Menelao.

 E me: da leggersi in correlazione a “Felice te” del verso 213, a ribadire la diversità di sorte toccata a Foscolo rispetto a quella dell’amico. 

 tempi e desio d’onore: i due termini costituiscono un binomio che descrive alla perfezione lo spirito indomito del poeta, che nella sua opera (si pensi, in particolare, all’Ortis) si compiace dell’accanimento della sorte (i “tempi”), e del desiderio di gloria che da questa strenua lotta può derivargli.

 L’intero verso riecheggia l’incipit di In morte del fratello Giovanni (“Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente”, v. 1).

Il poeta enuncia espressamente l’altezza del proprio compito: è chiamato dalle muse a rievocare le gesta degli eroi greci, rendendole imperiture attraverso il canto poetico. Le muse sono dette “animatrici” perché rievocano la memoria del passato, consentendone vita eterna.

 Il soggetto dell’intero periodo sono le muse “Pimplee” (dal monte Pimpla, in Macedonia, a loro consacrato), elette a simbolo del valore eternante della poesia. La loro azione si contrappone all’effetto distruttivo del tempo, personificato e descritto come un uccello che con le sue “fredde ale” (sinestesia) spazza via i sepolcri: per quanto esaltati come luogo della memoria, sono anch’essi sottoposti all’azione corrutrice del tempo (che rende questi luoghi “deserti”), diversamente dalla poesia, per il Foscolo, estrema illusione. L’armonia, ristabilita dal canto poetico, vince pertanto il silenzio “di mille secoli”. L’invocazione delle muse, connessa al ruolo civile del poeta, è un motivo tradizionale in poesia.

 Foscolo vede nella vicenda di Troia l’esempio più significativo di quanto appena dichiarato: la città, più volte distrutta e risorta, fino all’annientamento per mano dei Greci, lungi dal conoscere la morte definitiva, continua a vivere nel corso dei secoli grazie al canto di Omero. La “Troade” è, propriamente, provincia dell’Asia minore, dove sorse Troia. È “inseminata”, cioè deserta, in quanto priva di qualsiasi forma di vita umana.

 a’ peregrini: anche per i “peregrini”, gli stranieri che casualmente transitano in quei luoghi, Troia conserva la sua fama eterna (si noti la ripetizione dell’aggettivo, ad insistere sul concetto di immortalità, qui ulteriormente rafforzato dall’anafora). La notorietà eterna di Troia è ricondotta, con gusto neoclassico, al motivo mitologico: la ninfa Elettra, amata da Giove, gli chiese, prima di morire, che la sua fama potesse perdurare nella memoria, resa possibile per tramite di quei luoghi.

 Con gusto erudito, Foscolo si concede una digressione genealogica: Elettra, ninfa figlia di Atlante, unendosi a Giove, generò Dardano, dal quale ebbero origine Troia, Assaraco (nonno di Anchise, il padre di Enea) e Priamo con i suoi cinquanta figli, congiunti ad altrettante mogli (“talami”). Figlio di Enea fu Iulo, dal quale ebbe origine l’omonima gens romana. Le fonti classiche alle quali attinge Foscolo sono Omero (canto XX dell’Iliade) e Virgilio (nel celebre passo dell’ekphrasis dello scudo di Enea, al canto VIII dell’Eneide).

la Parca: è Atropo, la parca che recide il filo della vita.

 cori: dal latino chorus“danza”.

il voto supremo: in punto di morte, Elettra rivolge allo sposo un’ultima preghiera: non essendole concesso “premio migliore” (cioè, il godere dell’immortalità che spetta agli dei), la richiesta è che almeno la sua fama possa perdurare in eterno. Si noti il patetismo insistito dell’orazione, che fa leva sugli affetti del consorte (e non è esente da una componente di sensualità). La morte, nell’ultima parte del carme, si carica di attributi positivi: qui è definita “amica”, mentre nel passo dedicato alla morte di Aiace veniva designata come “dispensiera”.

 l’Olimpio: È Giove, appunto, re dell’Olimpo.

 Con il suo silenzioso cenno, Giove acconsente a donare l’immortalità ad Elettra e fa piovere (“piovea”, usato transitivamente), dal suo capo, ambrosia, con la quale consacra il suo corpo e la sua tomba.

 Nella stessa tomba vennero sepolti anche Erittonio, figlio di Dardano, ed Ilo, dal quale discesero Priamo e Anchise. Con la ripetizione dell’avverbio di luogo (“ivi”, ai vv. 254, 255, 258), Foscolo insiste ancora una volta sull’importanza del sepolcro come luogo grazie al quale non soltanto si ristabilisce la continuità di affetti, ma vengono ispirati l’amor patrio e i più alti valori (lì si recano le donne troiane con le chiome sciolte, in gesto di supplica, per scongiurare il destino di morte già segnato dei loro mariti e della stessa Troia).

 Sulle tombe si reca anche Cassandra, la profetessa di Apollo, inutilmente amata dal dio: il sentimento non corrisposto le costò infatti la pena di vaticinare il futuro, senza tuttavia essere mai creduta. La drammaticità del passo è sostenuta da artifici stilistici finalizzati ad innalzare il dettato: il verbo “venne” (nella costruzione della frase da anticipare rispetto al soggetto, Cassandra) con forte anastrofe è posticipato al v. 260.

 nume: è quello del dio Apollo, che le fece conoscere anzitempo il destino di Troia.

 a’ giovinetti: ai sepolcri Cassandra conduce anche i giovani, affinché vengano ispirati da un sentimento di appartenenza alla civiltà troiana, così da mantenere consapevolezza della loro dignità anche quando toccati dalla sventura della schiavitù, che sarebbe capitata loro subito dopo la sconfitta da parte dei Greci.

Il Titide, cioè il figlio di Tideo, è Diomede, mentre il figlio di Laerte è Ulisse (Omero li rappresenta sempre in coppia; la loro amicizia sarà ricordata da Dante, che nella Commedia (Inferno, canto XXVI) li colloca nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio infernale, dove erano puniti i consiglieri di frode.

 Anche qualora venissero liberati dalla loro condizione di schiavi, i giovani troiani non potranno sperare nel ritorno in patria, giacché Troia sarà distrutta (le mura sono definite “opra di Apollo” in quanto la loro costruzione veniva tradizionalmente ricondotta al dio): il lamento luttuoso di Cassandra, rafforzato dalla forte enjambement (“la patria vostra | cercherete”), assume un’intonazione diversa al v. 269, a partire dal forte avversativo “ma”, in posizione iniziale.

Troia, pur nel destino di sventura, vivrà in eterno, in quanto i suoi eroi gloriosi, antenati della stirpe, assurti a divinità, dimoreranno in eterno in quei luoghi.

palme e cipressi: le due piante sono, rispettivamente, simbolo di gloria e di morte. Sono piantate dalle “nuore di Priamo”, cioè le donne troiane che ne accelereranno il processo di crescita bagnandole delle loro lacrime pietose.

 Solo chi pietosamente tiene lontana la scure dalle fronde delle piante consacrate ai defunti e tocca con mano pura gli altari, rispettando con devozione i culti funebri, ottiene il favore divino.

 un cieco: è Omero, assurto a simbolo del valore eternante della poesia; il suo canto ha immortalato quelle gesta gloriose, al di là dello scorrere del tempo e dell’esito della guerra di Troia, al quale fece seguito il decennale assedio. La distinzione tra vincitori e vinti è superata, in virtù dell’amor patrio rappresentato dal sacrificio del quale si rese protagonista Ettore. La descrizione del poeta che brancola tra le tombe cercando responsi tra i defunti è probabilmente ispirata ai Canti di Ossian, come già detto, uno dei modelli più influenti in questo componimento. Nella sua descrizione di infelice ed errante, per Foscolo Omero rappresenta il poeta per eccellenza, e quasi un suo alter ego.

Gemeranno: Il gemito degli “antri segreti” è un grido lamentoso che si leva dalle tombe, placato però dal canto del poeta, che dona ai defunti l’agognata pace, promettendo loro una fama imperitura.

 raso due volte e due risortodistrutta da Ercole e poi dalle Amazzoni, la città si risolleva, più gloriosa, per rendere eroica e leggendaria la sconfitta infernale dai Greci.

 fatati: come spiegò il Foscolo in nota, “fatati” sta per fatali, cioè destinati dal fato a sconfiggere Troia.

 Ecco l’immagine rasserenante con la quale Foscolo chiude i Sepolcri: a porre fine al tormento delle anime dei morti, sarà la sublimazione del canto poetico, che consentirà ai defunti di godere di fama eterna, a risarcirli della precarietà della vita. La fama si diffonderà tra tutti i territori abbracciati dal “padre Oceano”, descritto in Omero come un fiume che circonda le terre emerse.

 Il sacrificio di Ettore, per quanto non in grado di risollevare le sorti di Troia, acquista grazie alla poesia di Omero nuova gloria. L’espressione “ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato” ricorda un passo de Il bardo della selva nera di Vincenzo Monti: “il petto ancor del sangue brutto per la patria versato” (VI, vv. 90-91).

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Alla sera

Il canzoniere di Ugo Foscolo, pubblicato nel 1803 a Milano, presenta un numero esiguo di componimenti: dodici sonetti e due odi. La presenza delle odi è un esplicito omaggio aGiuseppe Parini, modello di poesia neoclassica che ispirerà sempre la produzione di Foscolo. Alla Sera, il primo dei sonetti, può essere preso come modello del canzoniere, in quanto appaiono temi e situazioni ricorrenti. Inoltre, proprio per la presenza dei temi cari al poeta, può essere visto come una premessa e introduzione all’opera. In questo sonetto l’ordine sintattico supera sia l’ordine del verso (su 14 versi, 11 sono con enjambement), sia l’ordine delle strofe. Nel componimento si sente l‘influenza dei petrarchisti cinquecenteschi e di Petrarca stesso (l’ultimo verso è, infatti, una citazione diretta di un suo sonetto). Il poeta invoca la sera come immagine di dolcezza e quiete che ricorda la morte, vista non negativamente, ma come assopimento delle fatiche e degli affanni della vita. Foscolo riprende la concezione positiva della morte dal materialismo del poeta latino Lucrezio, che vede la morte come un sonno quieto ed eterno da cui non ci si riprende. Ma nel componimento non ci sono solo influenze classiche e medievali, ma anche contemporaneedella lirica tedesca di fine Settecento, lo Sturm und Drang. Questo si evince nel tentativo di trovare corrispondenze tra lo stato d’animo del poeta e l’ambiente naturale. La sera, quindi, rispecchia le profondità dell’animo inquieto di Foscolo.

Composto tra il 1802 e il 1803Alla sera è uno dei sonetti più significativi di Ugo Foscolo. I sentimenti che qui ritroviamo erano già stati espressi nello Jacopo Ortisla sera, che porta il riposo, si configura per il poeta come un’immagine di morte, anch’essa concepita come “fatal quïete” dal travaglio del vivere. L’allocuzione alla sera, con cui Foscolo vuole intessere una sorta di confessione intima, apre le quartine, in una grande scenografia atmosferica: qui la discesa delle ombre notturne dona ristoro a chi le contempla dopo le angosce del giorno, e porta l’autore a pacate riflessioni su un riposo e una pace più lunghi, quelli legati alla morte, vista come la fine naturale di tutti i patimenti mondani.

È una pausa di raccoglimento e di pace: la morte non è più vista (come nel romanzo pseudo-autobiografico) come indomito nemico al quale opporre uno strenuo quanto vano tentativo di ribellione, quanto piuttosto come immersione dell’io travagliato nel “nulla eterno” della “fatal quïete”. Un atteggiamento questo affine a quello delle più significative espressioni europee coeve della lirica romantica, di cui Foscolo è uno dei primi (e al tempo stesso più maturi) dei nostri interpreti.

Metro: sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD. Fitta è la presenza di enjambements (vv. 5-6, 7-8, 10-11, 13-14), che legano tra loro i versi, con notevole perizia, in una sorta di ininterotta riflessione intima, come anche in A Zacinto.

  1. Forse  perché della fatal quïete 
  2. tu sei l’immago a me sí cara vieni,
  3. o sera ! E quando ti corteggian liete
  4. le nubi estive e i zeffiri sereni,
  5. e quando dal nevoso aere inquïete
  6. tenebre e lunghe  all’universo meni
  7. sempre scendi invocata, e le secrete
  8. vie  del mio cor soavemente tieni.
  9. Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
  10. che vanno al nulla eterno ; e intanto fugge
  11. questo reo tempo , e van con lui le torme 
  12. delle cure onde meco egli si strugge ;
  13. e mentre io guardo la tua pace, dorme
  14. quello spirto guerrier  ch’entro mi rugge.

Forse: l’avverbio iniziale contribuisce a creare un effetto di ripresa di un dialogo interiore già in corso, ravvisabile anche nell’attacco di A Zacinto (“Né piu mai toccherò…”, v. 1).

 fatal quïeteè la quiete della morte, in grado di porre fine a tutte le sofferenze: è “fatale”, come osservato dal De Robertis, “perché a tutti assegnata dal destino”, con rinvio al latino fatumnel senso di “parola e voce della divinità”. Pur nel contesto materialistico della poesia foscoliana – la morte è, epicureicamente, privazione di sensazioni – la presenza di una sorte prescritta a tutti non fa che accrescere il tono malinconico e drammatico della “confessione” serale dell’io poetico.

L’allocuzione alla sera segna una cesura rispetto ai primi versi: dall’intonazione riflessiva dei versi 1-2, si passa all’andamento descrittivo dei versi seguenti.

 inquïete tenebre e lunghe: i due aggettivi, anziché essere correlati da congiunzione, sono separati da sostantivo, secondo una costruzione latineggiante. L’inversione innalza il dettato, mentre, secondo un processo di drammatizzazione del paesaggio nell’ora del tramonto, alle tenebre che scendono sulla Terra viene trasferita l’inquietudine dell’uomo.

 le secrete vie: in tutte le quartine, gli enjambements isolano a fine verso degli aggettivi (“liete”, “inquïete”, “secrete”), sottolineandone con forza la funzione e il significato all’interno della visione del mondo e del sistema di valori (la morte come privazione del dolore, le inquietudini della vita terrena, il perdersi nell’inseguimento delle proprie passioni) di Ugo Foscolo.

 Se le prime due quartine esprimono il sentimento di pace che deriva al poeta dal calar della sera, nelle due terzine l’espressione “nulla eterno” (v. 10) dà conto della concezione materialistica e immanentistica del Foscolo: non esiste immortalità dell’anima, ma l’uomo, come l’universo, fa parte di un ciclo perenne di nascita, morte e trasformazione.

 reo tempo: l’interpretazione di quest’espressione potrebbe essere almeno triplice, secondo una progressione dal singolo individuo alla Storia e all’esistenza umana: da un lato può fare riferimento alla vita angosciosa del poeta, dall’altro al momento storico, in ultima istanza al tormentoso vivere che contraddistingue l’esistenza di ogni uomo in quanto tale. Il tema del tempo che fugge è di ascendenza classica; Orazio, Odi, I, XI, 7-8: “Dum loquimur, fugerit invida | aetas”, “mentre noi parliamo, se ne va, fuggendo, il tempo invidioso”).

 tormevocabolo tipicamente ortisiano, connota efficacemente la violenza con la quale gli affanni, descritti come schiere, si abbattono sulla vita del poeta, provocandone la rapida consunzione.

 onde meco egli si strugge: la distruzione inesorabile provocata dalle “cure” si esercita sul tempo del poeta, che si consuma per esse: un’espressione condensata, ellittica, e tuttavia non priva di suggestione.

 I commentatori hanno ravvisato nell’espressione “spirto guerrier” un’eco proveniente da un sonetto del Della CasaFeroce spirto ebbi un tempo e guerrero. L’aggettivazione spiega il tumultuoso ardire che contraddistingue l’indole del poeta, secondo un atteggiamento ravvisabile, nei sonetti, anche nell’Autoritratto e in Non son chi fui.

Parafrasi

  1. O sera, forse giungi a me così gradita
  2. perché sei l’immagine della quiete assegnataci
  3. dal fato! Sia quando ti accompagnano felici
  4. le nubi estive e i venti che rasserenano il cielo,
  5. sia quando dal cielo che fa presagire la neve
  6. conduci sulla terra tenebre minacciose e lunghe,
  7. sempre scendi da me invocata e occupi dolcemente
  8. i luoghi più segreti del mio animo.
  9. Mi porti con i miei pensieri all’idea della fine del tutto;
  10. e mentre sono assorto in questa contemplazione,
  11. questo tempo ingrato trascorre via rapido e con lui vanno le schiere
  12. degli affanni per cui egli si consuma con me;
  13. e mentre io contemplo la tua pace, si placa
  14. lo spirito combattivo che ruggisce dentro di me.

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In morte del fratello Giovanni

Composto in memoria del fratello Giovanni, che si uccise con una pugnalata (secondo alcune fonti, a causa di un debito di gioco, secondo altre per un’accusa di furto), questo sonetto, che insieme Alla seraA ZacintoAlla musa, è considerato tra i maggiori sonetti del Foscolo, condensa i più importanti temi della sua produzione poetica: la coscienza di un destino d’esilio e di sventura, gli affetti familiari, il sepolcro e il colloquio tra vivi ed estinti, la tempesta delle passioniil desiderio di quiete. Evidenti gli echi catulliani (Carme CI) e petrarcheschi(Movesi il vecchierel), anche se tutta foscoliana è l’intonazione drammatica del dettato, così come il tema della “corrispondenza degli amorosi sensi”.

Metro: sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD. Forti gli enjamebements ai vv. 2-3, 3-4, 10-11.

  1. Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
  2. di gente in gente ; mi vedrai seduto
  3. su la tua pietra , o fratel mio, gemendo
  4. il fior de’ tuoi gentili anni caduto :
  5. la madre or sol , suo dì tardo traendo ,
  6. parla di me col tuo cenere muto :
  7. ma io deluse a voi le palme  tendo;
  8. e se da lunge i miei tetti  saluto,
  9. sento gli avversi Numi , e le secrete
  10. cure che al viver tuo furon tempesta;
  11. e prego anch’io nel tuo porto quïete :
  12. questo di tanta speme  oggi mi resta!
  13. straniere genti, l’ossa mie rendete
  14. allora al petto della madre mesta 

L’esilio non è da intendersi come puro dato biografico ed esistenziale: è anche e soprattutto il modo in cui Foscolo interpreta romanticamente il significato della propria vita e prende coscienza della sua personalità, che sente sempre al di fuori della patria vera. Di fatto l’inizio richiama quello catulliano (Carme LI, 1: “Multas per gentes et multa per aequora vectus”) ma, mentre il carme del poeta latino assume i toni di un’affettuosa elegia, il sonetto del Foscolo offre il drammatico scorcio di un’esistenza tutta trascorsa in lotta con il destino e il fuoco delle proprie passioni.

 pietrametonimia tradizionale in poesia per indicare la tomba.

 La metafora del fiore della giovinezza è già in Petrarca (Che debb’io far? che mi consigli, Amore?, v. 39: “fece ombra al fior degli anni suoi”) e Leopardi (A Silvia, vv. 42-43: “E non vedevi il fior degli anni tuoi”). L’iperbato “fior caduto” concorre a determinare la sostenutezza del dettato.

 Solo la madre può parlare con il figlio morto, e parla dell’altro figlio lontano, quasi per invocarlo, ma invano, perché non vi si potrà ricongiungere.

 La descrizione della madre ricorda il petrarchesco “traendo poi l’antiquo fianco” (Movesi il vecchierel): di fatto a quell’altezza cronologica la madre del Foscolo aveva solo cinquantacinque anni, e il suo invecchiamento prematuro è da ricondursi alle pene sofferte.

 cenere muto: è una sinestesia, che accosta due sfere sensoriali differenti, tatto e udito.

 deluse palmeipallage, figura retorica con cui si attribuiscono ad un elemento caratteristiche proprie di un altro contiguo (qui, la delusione senza speranza è del poeta, non delle sue mani).

 tetti: sta per case o, più generalmente, patria. È una sineddoche.

 avversi Numi: è il destino avverso che ritroviamo anche in A Zacinto, contro il quale il poeta spesso inveisce, pur ricercandolo, con titanismo e romantico tormento.

 La morte è “quïete”, promessa di pace, anche nel sonetto Alla sera (vv. 1-2: Forse perché della fatal quïete | tu sei l’immago a me sí cara vieni”).

 Stilema da Petrarca: “Questo m’avanza di cotanta speme” (Che debb’io far? che mi consigli, Amore?, v. 32)

 ossa mie: altra metonimia.

 Il componimento segue una perfetta circolarità: si apre con un’immagine di esilio e si chiude con l’appello, venato di pathos, con cui il poeta, esule in vita e dal destino assai simile a quello del fratello, chiede un ultimo ed estremo ricongiungimento con gli affetti familiari.

Parafrasi

  1. Un giorno, se io non andrò sempre vagando
  2. di nazione in nazione, mi vedrai accostato
  3. alla tua tomba, fratello mio, piangendo
  4. la tua giovane etàstroncata nel suo sbocciare.
  5. Solo la madre ora, trascinandosi dietro la sua vecchiaia,
  6. parla di me alle tue mute spoglie:
  7. intanto io tendo senza speranza le mani a voi;
  8. e soltanto saluto da lontano i tetti della mia patria.
  9. Avverto l’ostilità del fato e i reconditi
  10. tormenti interiori che tempestarono la tua esistenza,
  11. e invoco anch’io la pace, insieme a te, nella morte.
  12. Questo, di così tante speranze, oggi mi resta!
  13. Popoli stranieri, quando morirò, restituite le mie spoglie
  14. alle braccia della madre inconsolabile.

Il sonetto In morte del fratello Giovanni viene composto da Ugo Foscolonella primavera del 1803 e pubblicato lo stesso anno nel volume dei Sonetti. Il testo è dedicato alla memoria del fratello minore,Giovanni Dionigi, ufficiale dell’esercito cisalpino morto, molto probabilmente suicida, nel 1801. Il testo, uno dei più noti del poeta, è ricco di rimand letterari classici e sviluppa temi tipici della poesia di Foscolo (che ritroveremo in altri sonetti importanti come Alla sera o A Zacinto o nell’opera maggiore de I sepolcri): il destino di esule, la mortecome pacificazione dai tormenti della vita, il valore simbolico del “sepolcro” per gli affetti familiari.

La caratteristica che spicca maggiormente di In morte del fratello Giovanni è senza dubbio l’ordine e la misura calibratissima dei versi, che sembrano quasi in contraddizione con il contenuto dolorosissimo del testo, che descrive la futura visita del poeta alla tomba del fratello, che si toglie la vita nel 1801, schiacciato dai debiti al tavolo da gioco o per un’accusa di furto.

La prima quartina presenta Foscolo che, riferendosi alla sua condizione di fuggitivo,si augura di poter visitare la tomba del caro fratello, morto nel pieno della giovinezza. Già dal primo verso è esplicitato il modello letterario che serve da spunto alla composizione. Si tratta del carme 101del poeta latino Catullo, anch’esso dedicato al ricordo di un fratello defunto. L’incipit del testo latino recita:

Mùltas pèr gentès et mùlta per aèquora vèctus
àdvenio hàs miseràs, fràter, ad ìnferiàs 

“Condotto per molte genti e molti mari | sono giunto a queste (tue) tristi spoglie, o fratello,”. 

La prima differenza rispetto al precedente letterario è che qui il ricongiungimento è solo ipotetico: il poeta si riconosce in fuga per il mondo, e non può assicurare che “un dì” (v. 1) arriverà finalmente a rendere omaggio al fratello “su la tua pietra” (v. 3). Questo elemento doloroso è sottolineato dall’uso dei pronomi in questi quattro versi: si noti l’insistenza con cui compaiono sulla pagina i pronomi e gli aggettivi possessivi (“io”, v. 1; “me”, v. 2; “tua”, v. 3; “mio” v. 3; “tuoi”, v. 4), come nell’inutile tentativo di instaurare un dialogo con chi non può più rispondere. Come nel resto del sonetto, la forma è però molto ben bilanciata e non fa trasparire la sofferenza del poeta: gli endecasillabi si dividono in maniera equilibarata tra quelli a maiore (v. 1 e v. 4) e quelli a minore (v. 2 e v. 3), contribuendo al ritmo pacato della poesia. Le rime, scandite secondo il classico schema ABAB, coinvolgono tutte parole grammaticalmente affini: si tratta infatti di participi (“seduto”, v. 2; “caduto”, v. 4) o di gerundi (“fuggendo”, v. 1; “gemendo”, v. 4). Ad elevare lo stile contribuisce un’altra citazione classica, molto nota e facilmente riconoscibile dal pubblico dell’epoca: il fratello, al v. 4, è paragonato ad un fiore troppo presto reciso, con un’immagine che rimanda al nono libro dell’Eneide, dove la morte di Eurialo è paragonata ad un fiore reciso dall’aratro .

Nella seconda quartina Foscolo inserisce l’immagine della madreche, trascinando la sua stanca vecchiaia (“or sol suo dì tardo traendo”, v. 5, dove è evidente la citazione petrarchesca di Movesi il vecchierel canuto e bianco), parla di lui con il “cenere muto” (v. 6) del fratello, mentre egli non può che salutare la sua famiglia da una terra lontana. Foscolo evidenzia così due temi a lui assai cari: la condizione di esule, che gli impedisce di ricongiungersi con i suoi cari in una situazione così infelice, e la funzione basilare del sepolcro di essere una testimonianza della “eredità d’affetti” di cui si parla al v. 41 de I sepolcri. La tomba di Giovanni è infatti per il poeta l’unico segno di una possibile riunione con la famiglia dispersa; si spiega così il tono patetico della quartina, in cui i personaggi coinvolti (“la madre”, v. 5; “tuo cenere muto”, v. 6; “io”, v. 7) si cercano senza riuscire a trovarsi, in quanto Foscolo può salutare i suoi cari solo “da lunge” (v. 8). E la separazione è ancor più dolorosa se si considera che essa coinvolge non solo gli affetti familiari del poeta ma anche il suo fortissimo amor di patria, rappresentato dall’espressione “i miei tetti” del v. 8: l’esclusione è dunque doppia, in quanto Foscolo non potrà mai più toccare le “sacre sponde” della natìa isola di Zacinto.

Questo tema viene sviluppato ed approfondito nelle due terzine: con un’atteggiamento già visto in Alla sera, Foscolo confessa di sentire vicini a sé gli stessi numi ostili che tormentarono l’animo del fratello e prega di trovare quiete nella morte. La suggestione della morte (e forse del suicidio) è presente pure nella seconda terzina, dove anzi diventa l’unico mezzo per tornare dalla “madre mesta” (v. 14), che otterrà dalle “straniere genti” 3 otterrà solo le ossa. Le due terzine riassumono così gli argomenti fondamentali del testo (l’esilio, il destino infelice, la morte come cura, la lontananza dagli affetti): il termine centrale è “quïete” (v. 11), su cui si concentrano le riflessioni del poeta sulla morte e sulla sua esistenza.

La scansione del discorso all’interno del sonetto è assai ordinata: la fine ogni strofa coincide con una pausa forte del periodo e anche i singoli versi (con le eccezioni degli enjambements dei v. 3-4 e v. 9-10) si modellano sulla misura della singola frase. La sintassi, priva di significative inversioni, è poi prevalentemente paratattica, seguendo lo sviluppo del ragionamento del poeta tra la presentazione della scena del sepolcro (prima quartina), il rapporto con la madre e la patria (seconda quartina), la riflessione sul destino e la morte (prima terzina), la richiesta per il futuro e la propria fine (seconda terzina). La forma del sonetto è insomma statica e bloccata, come se Foscolo volesse dare una patina di quiete e di serenità al proprio dolore. Anche la frequenza di citazioni classiche (Catullo, Virgilio) e moderne (Petrarca su tutti) può essere intesa come un “filtro” di cui Foscolo si serve per oggettivare e placare il proprio dolore, incasellandolo in una rete di rimandi e di memorie letterarie. Importante anche la duplicità di piani che attraversa il testo: da un lato c’è il ricordo del fratello morto (la cui circostanza del suicidio dà l’avvio al testo); dall’altro, molto più preponderante, c’è l’io del poeta, che a poco a poco prende corpo e spazio. La riflessione malinconica sulla morte di Giovanni diventa la prefigurazione senza speranza del proprio destino di esule. Il tema del suicidio, che resta sotterraneo in questo sonetto, è però diverso rispetto allo Jacopo Ortis: nel romanzo giovanile esso era infatti la manifestazione estrema dell’animo romantico del protagonista (e dell’autore); qui invece è un ideale classico di pace e serenità, che finalmente donerà pace a chi è in perenne lotta col mondo.

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A Zacinto

Scritto tra il 1802 e il 1803, il sonetto è dedicato alla madrepatria Zacinto (nome greco dell’isola di Zante, parte delle isole Ionie al largo del Peloponneso), cantata dal poeta anche ne Le Grazie, con espressioni e immagini che ritroviamo anche in questo componimento. Celebrata non soltanto come patria natale ma anche come patria ideale, eternata dagli antichi miti greci e dalla poesia omerica, il poeta ne piange la lontananza e profetizza per sé la sventura di un esilio perpetuo(l’”illacrimata sepoltura”, appunto). Dopo l’appassionata evocazione dell’isola chi scrive si identifica con Ulisse, l’esule per eccellenza, e Zacinto diventa così l’Itaca di Foscolo, patria agognata ed idealizzata al tempo stesso (e mai riconquistata). La poesia, che si fa strumento cardine della memoria e della celebrazione letteraria delle proprie origini, si conclude però con un secco pensiero di morte, espressione del pessimismo foscoliano: il poeta ricorda come ognuno di noi si avvia verso una sepoltura annunciata e “illacrimata”, ricollegandosi così al tema principale dei Sepolcri.

Metro: sonetto con schema ABAB ABAB CDE CED. La folta presenza di enjambements dilata spasmodicamente la struttura dell’endecasillabo e del sonetto stesso, costruito su due soli periodi(il primo, che occupa le quartine e la prima terzina, e il secondo, confinato come sentenza finale, ai vv. 12-14).

  1. Né più mai  toccherò le sacre sponde
  2. ove il mio corpo fanciulletto giacque ,
  3. Zacinto mia , che te specchi nell’onde
  4. del greco mar da cui vergine nacque
  5. Venere , e fea quelle isole feconde
  6. col suo primo sorriso , onde non tacque 
  7. le tue limpide nubi e le tue fronde
  8. l’inclito  verso di colui che l’acque
  9. cantò fatali , ed il diverso esiglio 
  10. per cui bello di fama e di sventura
  11. baciò la sua petrosa Itaca Ulisse .
  12. Tu non altro  che il canto avrai del figlio,
  13. materna mia terra; a noi  prescrisse
  14. il fato illacrimata  sepoltura.

Parafrasi

  1. Io non toccherò mai più le sacre rive
  2. dove trascorsi la mia fanciullezza, 
  3. Zacinto mia, che ti specchi nelle onde
  4. del mare greco da cui vergine nacque 
  5. Venere, e rese quelle isole feconde
  6. con il suo primo sorriso, e per questo non si esentò
  7. dal descrivere le tue nubi e la tua vegetazione
  8. la poesia immortale di Omero, che 
  9. cantò i lunghi viaggi per mare voluti dal fato e il procedere
  10. in direzioni contrarie, grazie ai quali Ulisse, reso bello dalla
  11. fama e dalle sventure, riuscì a baciare la sua rocciosa Itaca. 
  12. mia terra natale, tu non avrai altro che il canto di tuo figlio;
  13. a noi il destino ha prescritto una tomba
  14. sulla quale nessuno giungerà a versare le sue lacrime.

Né mai più: la triplice negazione rafforza l’idea dell’impossibilità del ritorno e crea un effetto di sospensione meditativa iniziale. Come evidenziò De Robertis, “pare che il poeta, cominciando, continui un discorso fatto tra sé e sé”. Il primo periodo si snoda attraverso due quartine e per la prima terzina, a creare un andamento solenne, sostenuto peraltro dall’anafora dei tre nessi relativi (“onde […] di colui che […] per cui”).

 sacre: l’aggettivo si carica di significati, per quanto relegati – conformemente all’ideologia del Foscolo – ad una posizione tutta immanentistica e laica. Le rive di Zacinto sono sacre in quanto hanno assistito alla nascita di Venere, ma anche, più genericamente, perché Zacinto si colloca in Grecia, patria di miti e della bellezza, e perché egli ebbe modo di trascorrervi la fanciullezza. C’è infine una sacralità che le deriva dal suo stesso essere oggetto poetico, grazie al valore eternante e sublimante della poesia. Il “nativo aer” veniva definito “sacro” già nell’ode All’amica risanata (vv. 91-92).

 giacque: il corpo fanciulletto del Foscolo “giace” tra le sacre sponde di Zacinto, come se queste fossero in grado di cullarlo.

Zacinto mia: il vocativo è rafforzato dall’aggettivo possessivo, dal forte valore affettivo.

 nacque Venere: il mito della nascita di Venere è narrato da Esiodo nella Teogonia.

 col suo primo sorriso: allusione all’epiteto greco della deaphilommeidés, “amante del sorriso”, cui si aggiunge la prerogativa della dea ad essere fonte di vita.

onde non tacque: poiché nel mare di Zacinto nacque Venere, l’isola fu celebrata dal cantore delle peregrinazioni di Odisseo, cioé Omero, considerato come il padre della creazione poetica. “Non tacque” è litote (una figura retorica per cui si definisce qualcosa negandone il contrario), a sottolineare l’impossibilità di tacere l’irresistibile bellezza e rigogliosità di quelle isole, feconde proprio grazie al “primo sorriso” di Venere.

 Già in una nota alle Grazie, il poeta ebbe a dire che Omero e Virgilio lodarono l’isola “per la beltà de’ suoi boschi, e la serenità del cielo”.

 inclito: dal latino inclitus, a, um, “mai sconfitto, immortale”. 

 fatali: i mari verso i quali Odisseo fu sospinto per volere del fato.

 diverso esiglio: letteralmente “vario esilio”. “Diverso” è infatti latinismo da divertus (dal verbo diverto, “volto in varie direzioni”).

 Odisseo personifica l’eroe ideale nella concezione titanica del Foscolo, nel quale gloria e sventura si fondono, e anzi maggior gloria pare nascere proprio da maggiore sventura.

 non altro: “soltanto”. La perifrasi si adatta perfettamente alla solennità del dettato.

 a noi: il pronome non è un semplice plurale maiestatis, ma ha la funzione di includere tutti coloro che sono accomunati da un medesimo destino.

 illacrimata: in quanto nessuno vi spargerà mai sopra le sue lacrime.

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