XXI – A Silvia

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

Il celebre idillio leopardiano è composto a Recanati tra il 19 e il 20 aprile del 1828, e compare poi nei Canti a cura dell’editore Piatti di Firenze (1831). L’ultimo verso di ogni strofa è sempre un settenario in rima come uno dei versi precedenti. In questo componimento Leopardi rievoca una figura femminile del sua giovinezza, Silvia, morta prematuramente di tisi. Il poeta riflette quindi sull’inevitabile infelicità dell’uomo e sul crollo delle speranze. La giovane, con la sua precoce morte, diventa l’emblema della disillusione dell’età adulta.

Metro: Canzone di strofe libere, senza schema fisso. Anche lo schema rimico è libero; con l’unico elemento ricorrente del verso che chiude ogni strofe che è in rima con uno dei precedenti.

Note

Nota la probabile identificazione della fanciulla con Teresa Fattorini, figlia di un cocchiere di casa Leopardi morta di tisi nel 1818, il cui nome poetico è tratto dall’Aminta di Torquato Tasso; alla figura rimanda anche un importante passo dello Zibaldone del giugno del 1828 in cui Leopardi descrive e trasfigura “una giovane dai sedici ai diciotto anni” che “ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec, un non so che di divino, che niente può agguagliare. […] quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria di innocenza, di ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fiore della vita”.

vita mortale: l’incipit di A Silvia si apre esplicitamente sull’onda del ricordo malinconico, come indicato dalla scelta del verbo (v. 1 “rimembri”), dall’uso del vocativo con nome personale e dal ricorso, volutamente sfumato, del pronome determinativo (v. 2 “quel tempo”). La funzione del ricordo – cruciale per buona parte della poetica leopardiana – è sottolineata anche in un celebre passo dello Zibaldone del 14 dicembre 1828: “La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago”.

ridenti e fuggitivi: i due termini, quasi in endiadi come “lieta e pensosa” al v. 5, indicano sia la giovanile attesa della bellezza della vita sia la percezione, oscuramente percepita, della sofferenza che l’attende; di qui la speranza e il timore nello stesso sguardo. Il tutto contribuisce alla caratterizzazione psicologica assai puntuale della figura femminile.

 La costruzione sintattica con la pausa dettata dalla virgola al verso 7 e la scansione tra lo spazio interno (“le quiete | stanze”) e quello esterno (“le vie dintorno”) quasi riproduce la propagazione ad eco del canto della fanciulla.

 Tra gli “studi leggiadri” e le “sudate carte” è forse ravvisabile la distinzione tra la passione leopardiana per la poesia e gli studi di erudizione su cui Leopardi stesso spende la propria adolescenza. Da notare la figura retorica del chiasmo “studi leggiadri – sudate carte”.

 veroni: aulicismo per “balconi”.

 Nell’immagine di Silvia intenta a lavori di cucito si noti la figura retorica della metonimia, che sostituisce all’effetto (il suono) la sua causa (appunto, la “man veloce”).

 Più che un’effettivo sentimento d’amore, Leopardi intende qui la compartecipazione di una stessa situazione esistenziale, quella appunto della giovinezza speranzosa e serena, non ancora turbata dalle sofferenze e dalle inquietudini della vita.

 chiuso morbola tisi, o “mal sottile”.

 Il soggetto della frase è la “speranza mia dolce” del v. 50; alla figura di Silvia si sovrappone dunque, nell’amarissimo finale, la speranza stessa, che indica la tomba come destino comune dell’umanità. “L’apparir del vero” (v. 60) è insomma il crollo delle illusioni nutrite in gioventù, e che le sofferenze della vita adulta hanno smontato pezzo per pezzo.

Parafrasi

  1. O Silvia, ti ricordi ancora
  2. quel periodo della vita terrena,
  3. quando la bellezza splendeva
  4. nei tuoi occhi felici e furtivi
  5. e tu, serena e riflessiva, ti avvicinavi
  6. alla soglia della giovinezza?
  7. Le stanze silenziose
  8. e le vie circostanti risuonavano
  9. per il tuo canto ininterrotto e spontaneo,
  10. quando sedevi, dedita
  11. ai lavori femminili, e assai felice
  12. di quell’indeterminato futuro che avevi in mente.
  13. Era il mese di maggio pieno di profumi primaverili:
  14. tu eri solita trascorrere così le tue giornate.
  15. Io abbandonando talvolta i miei
  16. amati componimenti e i testi di studio su cui faticavo,
  17. dove si spendeva la miglior parte
  18. di me stesso e della mia adolescenza,
  19. dai balconi della casa paterna
  20. porgevo l’udito al suono della tua voce,
  21. e a quello della mano che
  22. scorreva veloce sulla tela.
  23. Perdevo lo sguardo nel cielo sereno,
  24. per le strade invase dal sole e per gli orti,
  25. e di qui il mar che appare all’orizzonte, e quindi
  26. gli Appennini. Il linguaggio umano non può esprimere
  27. quel che allora io sentivo nel mio cuore.
  28. Che pensieri delicati ed indecifrabili,
  29. che speranze, che passioni, o Silvia mia!
  30. Quanto felice ci appariva allora
  31. la vita umana e il suo destino!
  32. Quando mi torna in mente di tali fiduciose illusioni,
  33. un moto dell’animo mi stringe
  34. in modo acerbo e senza consolazione possibile,
  35. e torno a soffrire per la mia sorte sventurata.
  36. O natura, o natura,
  37. perché non dai nell’età della maturità
  38. ciò che hai promesso durante la giovinezza? Perché
  39. inganni così tanto i figli tuoi?
  40. Tu, tormentata e sconfitta da un male incurabile,
  41. prima che l’inverno inaridisse i campi,
  42. ti spegnevi, o tenerella. E non potevi così vedere
  43. il fiore degli anni tuoi;
  44. non ti addolciva il cuore
  45. ora la lode dei tuoi capelli corvini
  46. ora gli sguardi innamorati e pudici;
  47. né con te le compagne nei giorni di festa
  48. discutevano d’amore.
  49. In modo simile periva di lì a poco
  50. la mia dolce speranza: il destino ha negato
  51. ai miei anni anche
  52. la giovinezza.
  53. Ah mia speranza fonte di lacrime,
  54. cara compagna della mia gioventù,
  55. come sei trascorsa!
  56. È questo quel mondo che avevamo sperato?
  57. Questi i piaceri, l’amore, le opere, gli accadimenti
  58. di cui tanto discutemmo insieme?
  59. Questa è la sorte dell’umanità?
  60. Al disvelamento della verità
  61. tu, misera, sei caduta: e con la tua mano
  62. indicavi da lontano la fredda morte
  63. e la tomba ignuda.

Commento

Nel 1828 Leopardi torna alla poesia, dopo l’intervallo prosastico delle Operette Morali; proprio i versi di A Silvia inaugurano la sua nuova stagione lirica. Il poeta ricorda un episodio avvenuto circa dieci anni prima: Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, era morta a ventun anni di tisi, una coetanea del poeta. La ragazza nella poesia diventa uno specchio di Leopardi, che vede la sua esistenza a Recanati come una morte in vita. Il poeta negli ultimi versi si interroga sul senso della speranza, che è rappresentata come una donna che da lontano indica la morte e la tomba, una figura monumentale quasi scultorea, che, come dice Cortellessa, sembra evocare i grandi monumenti funebri di Canova. Questo canto funebre si presenta anche come un’“elegia sulla fine di un modo poetico”:A Silvia e i grandi canti pisano-recanatesi sono, infatti, i primi esempi dell’invenzione formale di Leopardi, la canzone libera, in cui i versi della poesia lirica italiana, gli endecasillabi e i settenari, non sono più vincolati in un sistema chiuso e in una struttura riconosciuta, ma si alternano liberamente. Questa libertà negata all’individuo nella vita reale viene vissuta dal poeta nella sua scrittura, come dissoluzione dei legami e delle forme chiuse della poesia tradizionale.

Questi versi celeberrimi con i quali Leopardi torna alla poesia nel 1828 a Pisa, inaugurano una nuova stagione lirica di Leopardi. L’episodio che generalmente si associa a questo personaggio (Silvia, dal nome tassiano, preso dall’ecloga tassiana “Aminta”, molto amata da Leopardi), è un episodio di quasi dieci anni prima. Teresa Fattorini era la figlia del cocchiere di casa Leopardi, era morta di tisi a ventun anni (nel 1818): una coetanea di Leopardi, una ragazza che sicuramente avrà conosciuto, avrà ascoltato cantare, come ci dice in questi versi, ma che diventa improvvisamente un emblema, forse il primo personaggio della poesia italiana che si trasforma in un emblema, un’immagine quasi scultorea come quella degli ultimi versi, che sembrano evocare i grandi monumenti funebri di Antonio Canova, come già le poesie sepolcrali che Leopardi aveva inserito nei Canti. Un destino di morte, un destino di dissoluzione e soprattutto un’interrogazione sul senso della speranza: senso della speranza che Leopardi indica essere concluso all’altezza di questa nuova stagione poetica. La speranza di una felicità terrena che è tanto più ingannevole, illusoria, quanto più contemplata in un periodo successivo, quando quelle speranze rivelano la loro vacuità, la loro impossibilità, quanto erano solo parole, solo canti, solo sensazioni e sguardi, ma non componevano una vita, non componevano un’esperienza di vita condivisa, di vita proseguita, di vita continua. Il personaggio della giovane diventa specchio del poeta. Una vita, quella di Leopardi vissuta a Recanati, che era una “morte in vita”, ma anche la vita degli anni successivi, all’uscita dal “natio borgo selvaggio”, non è altro che una composizione continua di attività, che però non si riesce ad annodare, a filare in una tela continua. E questa immagine della filatrice, del cucito nel quale è intenta Silvia, ci ricorda le immagini terribili del mito funebre, le immagini delle Parche. Così come nel momento in cui viene introdotta la stagione invernale: la malattia di cui Silvia si ammala è una malattia che la conduce a morte, e viene associata all’inverno. Ed è questo un immaginario che richiama l’immagine di Persefone, di Proserpina, rapita alla vita umana e trascinata nell’Ade ghiacciata, in cui non c’è più sensualità, non c’è più gioia, non c’è più felicità, ma solo un mondo cupo e tenebroso, solo un mondo chiuso in un morbo mortale che impedisce l’esistenza. Questo canto funebre, questa rapsodia funebre è anche una elegia sulla fine di un modo poetico, perché A Silvia insieme ai grandi canti Pisano-recanatesi, come vengono chiamati quelli dell’anno seguente, Le Ricordanze e Canto notturno di un pastore errante dell’Asiaè un primo esempio di quella straordinaria invenzione formale di Leopardi, che è la cosiddetta canzone libera, in cui i versi della tradizione petrarchesca, i versi della tradizione retorica italiana, l’endecasillabo ed il settenario, non sono più vincolati e stretti in un sistema chiuso, in un sistema che abbia delle forme e delle strutture riconoscibili, ma si alternano liberamente e possono rilasciare, a seconda di quelli che sono i moti del sentimento, dell’immaginazione, le loro diverse energie ritmiche e prosodiche con somma libertà. Questa stessa libertà, quella che è negata all’individuo nella sua esistenza reale, biologica, nella vita reale, viene vissuta dal poeta nel suo laboratorio di scrittura, viene vissuta come dissoluzione dei legami, diluizione delle forme chiuse che erano state ereditate e come apparizione di un mondo nuovo, di un mondo libero, di un mondo aperto che invece nell’esistenza non viene concesso a noi umani. Quel verso famoso che è sempre stato tanto amato, “le vie dorate e gli orti”, in cui la successione dei nessi consonantici è così armoniosa e musicale, in realtà viene negato a Silvia o a Teresa Fattorini, se veramente si trattava di lei, così come viene negato a Giacomo Leopardi individuo biologico e sofferente, ma quelle “vie dorate e quegli orti” si sono aperte quel giorno a Pisa per tutti noi e per sempre.

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XIII – La Sera Del Dì Di Festa

O Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

Idillio recanatese composto, con tutta probabilità, tra la primavera e i primi di ottobre del 1820. Compare, con il titolo originale de La sera del giorno festivo, prima sul «Nuovo Ricoglitore» milanese del dicembre 1825 insieme con gli altri testi leopardiani – L’infinitoAlla lunaLa vita solitariaIl sogno e il Frammento XXXVII «Odi Melisso…» – poi nell’edizione bolognese dei Versi (Stamperia delle Muse, Bologna, 1826) e in quella fiorentina dei Canti (Piatti, Firenze, 1831). Il titolo attuale, oltre ad alcune varianti al testo, arriva solo con la seconda edizione dei Canti curata dall’autore e dall’amico Antonio Ranieri (Starita, Napoli, 1835).

Metro: endecasillabi sciolti.

Note

Il celebre incipit de La sera del dì di festa rimanda ad un passo di Omero (Iliade, VIII, 555-559) che Leopardi ha già tradotto in un passo del suo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, del 1818: “Sì come quando graziosi in cielo | rifulgon gli astri intorno della luna, | e l’aere è senza vento, e si discopre | ogni cima de’ monti e ogni selva | ed ogni torre; allor che su nell’alto | tutto quanto l’immenso etra si schiude, | e vedesi ogni stella, e ne gioisce | Il pastor dentro all’alma”.

 Serena: l’aggettivo si riferisce con funzione predicativa a “montagna”.

 O donna mia: incerta – e senza dubbio poco rilevante per il senso complessivo della lirica – l’identificazione del personaggio; possibile che si tratti di una giovane, tale Serafina Basvecchi, figliastra di uno zio del poeta, Vito Leopardi.

 già tace ogni sentiero: immagine questa volta desunta da Virgilio (Eneide, IV, 525).

 Costruzione: “e la notturna lampa [la lucerna da tavolo] traluce rara [fa passare una luce fioca e debole] pei balconi”.

 chete stanze: le stanze sono “chete” nella doppia accezione di “silenziose” e “tranquille”; il contesto in cui ha luogo il canto del poeta contrasta insomma con la sua disperazione intima e personale.

 Il “già” serve da rafforzativo alla negazione, in un passaggio dove anche il verbo (“morde”, v. 8) è connotato espressivamente.

 Costruzione: “io mi affaccio a salutar questo cielo, che sì benigno appare in vista, e [sottointeso: mi affaccio a salutar] l’antica natura onnipossente”.

 Il soggetto sottointeso è “l’antica natura onnipossente”.

 solenne: latinismo che qui indica il giorno festivo contrapposto a quello feriale (o “giorno | volgar” come detto sotto ai vv. 31-32). Probabile il riferimento alla festività di San Vito (15 giugno), patrono di Recanati, anche se vale soprattutto per indicare la felicità altrui contrapposta al senso di esclusione dell’io lirico.

 i sollazzi: ai “trastulli” (v. 17) della donna amata si aggiungono qui i divertimenti di un comune popolano in una giornata di feste: il gioco e il vino.

 succede: dal latino succedĕre, nel senso di “subentrare”, “prendere il posto di”.

 “Accidente” mantiene qui un forte collegamento con l’idea di “caso”, come ad indicare che, per Leopardi, l’intera vita umana è governata da una logica estranea ai desideri e alle volontà dei singoli individui.

 il grido: da intendersi come “voce”, nel senso di fama tramandata nei secoli.

 l’armi, e il fragorio: i due termini “armi” e “fragorio” costituiscono un’endiadi, cioè una figura retorica (dal greco ἓν διὰ δυοῖν, “uno attraverso due”) per cui si esprime un’idea, un concetto o un’immagine con due elementi distinti.

 Si noti che l’accento metrico cade qui su “oceàno”.

 Un passo dello Zibaldone del 20 gennaio 1821 sembra rimandare quasi alla lettera a queste amare ed acute considerazioni: “Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec. Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere all’aspettazione, al giubilo precedente: e che il dolore della speranza delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza”.

 Espressione classicheggiante e letteraria per “restavo a letto”.

Parafrasi

  1. La notte è mite e serena e senza vento,
  2. e la luce lunare si posa quieta sui tetti e in mezzo
  3. ai giardini, e da lontano rende nitida
  4. ogni montagna. O donna mia, ormai ogni via
  5. del borgo è silenziosa, e la lampada notturna
  6. manda una luce fioca dai balconi:
  7. tu dormi, poiché un sonno rapido e conciliante
  8. ti ha accolto nelle tue stanze silenziose; e nessuna
  9. preoccupazione ti angoscia; e non sai per nulla
  10. né ci pensi alla ferita che m’hai procurato al cuore.
  11. Dormi; io mi affaccio a salutare questo cielo,
  12. che alla vista sembra così benevolo, e la natura
  13. eterna ed onnipossente, che mi ha creato
  14. affinché io soffrissi. [La natura] mi disse: “A te nego
  15. anche la speranza stessa, e i tuoi occhi
  16. non brillino se non per le lacrime.
  17. Questa è stata una giornata di festa; ora tu ti riposi
  18. dai divertimenti; e forse ti ritorna in mente
  19. in sogno a quanti oggi sei piaciuta, e quanti
  20. ti piacquero: certamente non sono io a ricorrere nei tuoi pensieri,
  21. né mi illudo che ciò possa avvenire. Intanto io mi domando
  22. quanto mi resti da vivere, e mi getto, urlo,
  23. e fremo qui nella mia stanza.
  24. Oh giorni tremendi nell’età giovanile! Ahi, per la strada
  25. sento non distante il canto solitario
  26. dell’artigiano, che torna a tarda notte,
  27. dopo i piaceri e i divertimenti, alla sua misera casa;
  28. e il cuore mi si stringe in maniera feroce e dolorosa,
  29. nel pensiero di come al mondo tutto sia transitorio,
  30. e non lascia quasi nessuna traccia di sé. Ecco
  31. è passato anche il giorno di festa, e a questo segue
  32. il giorno ordinario, e trascina con sé tutti gli avvenimenti umani.
  33. Dov’è ora il suono di quei
  34. popoli antichi? Dov’è adesso la voce
  35. che si leva alta dei nostri celebri antenati, e il grande
  36. impero di Roma, e il fragore delle sue armi,
  37. che attraversò terre ed oceani?
  38. Tutto è pace e silenzio, e tutto il mondo
  39. si riposa, né più si ha memoria di loro.
  40. Nella mia età giovanile, quando si aspettava
  41. il giorno festivo con un desiderio febbrile,
  42. dopo che questo era trascorso, io, insonne e sofferente,
  43. restavo disteso a letto; e a notte fonda
  44. un canto che si udiva smorzarsi
  45. allontanandosi a poco a poco per i sentieri,
  46. allo stesso modo di oggi mi soffocava il cuore.

Le tematiche e lo stile dell’idillio

Due sono qui i grandi temi affrontati nella Sera del dì di festa:

  • l’infelicità del poeta e il suo senso di esclusione alle gioie della giovinezza;
  • il distruttivo passare del tempo che annienta ogni opera umana.

Questi due campi di riflessioni, tipici della riflessione leopardiana sull’esistenza, vengono distribuiti nelle tre parti in cui è suddivisibile l’idillio.

Introduzione: il paesaggio notturno (vv. 1-14)

La poesia si apre con la descrizione di un tranquillo paesaggio notturno(vv. 1-4) di stampo classico, che ricorda quelle di poeti greci e latini (per esempio Omero, Virgilio e Ovidio) e Petrarca. Il ritmo dell’incipit è abilmente rallentato dall’uso di congiunzioni e dai due aggettivi che anticipano il sostantivo a cui si riferiscono (“dolce” e “chiara”). Già da questi primi versi emerge un senso di indeterminatezza, che caratterizza tutta la poetica degli Idilli; la suggestività del paesaggio notturno, tipico di gran parte della poesia romantica europea, diventa lo sfondo per la confessione sentimentale del poeta, attraverso un’antitesitra la pace del mondo notturno (vv. 2-4: “e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti | posa la luna, e di lontan rivela | serena ogni montagna. […]”) e il tormento del poeta.

Il lessico utilizzato (v. 10: “quanta piaga m’apristi in mezzo al petto”) è quello della poesia amorosa, poiché Leopardi, descrivendo il sonno di una donna amata, cui il poeta si rivolge con un’apostrofe (v. 4: “O donna mia”) ma che rimane indifferente alle sue sofferenze. La prima parte della poesia si chiude così, in una serie di versi dall’andamento prosastico (vv. 11-14), individuando la causa del male che affligge il poeta: si tratta della “antica natura onnipossente” (v. 13), che ha evidentemente creato Leopardi solo perché soffrisse.

La sofferenza amorosa e la Natura matrigna (vv. 15-33)

La seconda parte della Sera del dì di festa sviluppa il tema della delusione e della sofferenza d’amore, che per il poeta si ricollega direttamente all’intrinseca infelicità imposta dalla Natura alla sua esistenza, escludendolo dalle gioie della vita:

[…] A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillino gli occhi tuoi se non di pianto.

Si noti il forte enjambement tra v. 14 e v. 15, utile per evidenziare la negazione (“nego”) della speranza (“speme”) che la Natura impone. Qui la riflessione è interiore e personale, ed è tipica della fase del pessimismo storico, in cui il dolore non accomuna ancora tutti gli uomini. Con una climax ascendente (e cioè con una progressione evidente dei verbi tra i vv. 22-23: “A terra | Mi getto, e grido, e fremo”) il poeta esprime la propria disperazione, che si chiude con la comparsa di un elemento uditivo esterno:

[…] il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello ;

È uno stimolo sensoriale che induce il poeta, come avviene nell’Infinito, a riflettere sulla caducità delle cose umane , chiudendo così la seconda parte dell’idillio sulla pessimistica riflessione che il nostro mondo è dominato dal caso (“l’accidente” del v. 33)

La conclusione: il paragone con le età antiche e con l’infanzia (vv. 34-46)

La terza sezione della Sera si apre con una tragica considerazione sul potere distruttivo del tempo, che nel suo inesorabile passaggio conduce all’oblio le grandi imprese dell’uomo. La constastazione erompe dal cuore del poeta con una serie di interrogative retoriche di tono drammatico, ulteriormente sottolineate dalla figura retorica dell’enjambement che spezza i vv. 33-37. Ciò che rimane alla fine è solo  “pace e silenzio” (v. 38): i due termini richiamano la situazione iniziale del paesaggio notturno e ricordano a Leopardi un episodio dell’infanzia, collegato alla situazione presente.

Si istituisce così un paragone assai importante per comprendere il messaggio profondo del testo, che Leopardi chiarisce al v. 46). Il “canto” (v. 44) dell’artigiano che, spegnendosi a poco a poco nei sentieri in mezzo alla campagna, svelava al poeta bambino l’insoddisfazione del piacere del giorno festivo (vv. 40-45), stringe ancora il cuore di Leopardi (v. 46): l’unico guadagno per lui è aver preso consapevolezza della amara legge esistenziale che lo condanna. Il tema della rimembranza, tipico della poesia leopardiana, sarà poi ampiamente sviluppato dal Sabato del villaggio (1829).

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XII – L’Infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Note

ermo colle: Il monte Tabor, un colle che si alza a sud di Recanati.

 io nel pensier mi fingo: cioè, “immagino questa situazione con gli strumenti della mia fantasia”.

 il cor non si spaura: il motivo è presente, com’è noto, anche nei Pensieri di Blaise Pascal: “Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie” [“il silenzio eterno di questi infiniti spazi mi spaventa”].

 La congiunzione ha qui una sfumatura anche temporale: “quando”, “non appena”.

 mi sovvien l’eterno: indica la repentinità del movimento di pensiero del poeta che, di fronte all’infinito e al nulla in cui l’uomo pare annientarsi e al rumore del vento tra le fronde che gli suona noto e famigliare, intuisce il senso dell’eternità e del trascorrere dello spazio-tempo contrapposto alla finitezza dell’uomo.

Parafrasi

  1. Questo colle solitario mi è sempre stato caro,
  2. e anche questa siepe, che impedisce al mio sguardo
  3. una gran fetta dell’orizzonte più lontano
  4. Ma mentre siedo e fisso lo sguardo sulla siepe,
  5. io immagino gli sterminati spazi al di là di quella,
  6. i silenzi che vanno al di là dell’umana comprensione
  7. e la pace profondissima, tanto che per poco
  8. il mio cuore non trema di fronte al nulla. Quando sento
  9. le fronde delle piante stormire al vento, così paragono
  10. la voce del vento con quel silenzio infinito:
  11. e istintivamente mi giunge in mente il pensiero dell’eternità,
  12. le ere storiche già trascorse e dimenticate e quella attuale
  13. e ancor viva, col suo suono. Così il mio ragionamento
  14. si annega in quest’immensità spazio-temporale,
  15. e per me è un naufragare dolcissimo. 

Analisi

L’infinito, composto nella natìa Recanati nel 1819 (approssimativamente tra la primavera e l’autunno) viene inizialmente pubblicato sul milanese «Nuovo Ricoglitore» del dicembre 1825, per poi comparire nell’edizione dei Versi del conte Giacomo Leopardi (Stamperia delle Muse, Bologna, 1826) e successivamente nei Canti (Piatti, Firenze, 1831). Al poeta si presenta una visione limitata dell’orizzonte, ostacolata da una siepe, posta sulla cima di un colle. La vista impedita permette a Leopardi di fantasticare e meditare sull’infinito. L’idillio si basa su un confronto continuo tra limite e infinito, tra suoni della realtà e il silenzio dell’eternità. Il componimento è in endecasillabi sciolti, forma metrica che Leopardi trova più adatta per rendere il ritmo e i moti dell’animo.

L’infinito è una delle più celebri poesie di Leopardi: composta nel 1819, si trova nella raccolta degli Idilli. Con il termine “idillio” l’autore si richiama alla tradizione poetica classica di Teocrito e dei poeti alessandrini.L’idillio è un’immagine piccola, ristretta e limitata. Così paradossalmente il senso del limite e la visuale ristretta sono alla base dell’Infinito.
Nel componimento ci si trova davanti a una doppia immagine: quella degli occhi, limitata e sbarrata, e un’immagine virtuale, che “nel pensier si finge”. L’immagine creata dal poeta è così forte e intensa che per poco il suo animo non si spaventa. In tutta la poesia è presente un passaggio tra ciò che vediamo e sentiamo e ciò che immaginiamo, ricordiamo e presentiamo. Questo continuo spostamento tra piano reale e piano fittizio, che Cortellessa esprime parlando di oscillazione tra “piano empirico” e “piano virtuale”,spinge il soggetto all’estremo limite delle sue facoltà razionali. Ciò ricorda a Leopardi l’immagine di un naufragio o della morte stessa.

Interpretazione critica

In questo idillio, come è noto, Leopardi vuole suscitare nel lettore principalmente due sensazioni: una visiva e una uditiva. La prima porterà alla percezione di un infinito spaziale e la seconda temporale. Tali percezioni di infinità – come ha ormai certificato la critica moderna – non concedono niente alla teologia, alla metafisica e, più in generale, all’ambito del sacro, ma sono tutte interne alla finzione immaginativa e poetica. È più giusto dunque parlare, come osserva Walter Binni, di un canto “sorretto da un sobrio e solido processo intellettuale, da un movimento di esperienza interiore, quasi un itinerarium mentis in infinitum”. L’idillio è insomma – coerentemente alla definizione che si legge nei Disegni letterari – “un’avventura storica dell’animo” del poeta, che racconta di un’estasi dei sensi, i quali, di fronte alla figurazione momentanea dell’infinito, prima si “spaurano” e poi “naufragano dolcemente”. Per rendere questo duplice piano psicologico-percettivo Leopardi adotta precise tecniche espressive, che esemplificano al meglio la sua idea di poesia “vaga e indefinita” teorizzata a più riprese nello Zibaldone (cfr. almeno pp. 514-16, 1430-31, 1744-47), la quale, a sua volta, trova il principale nucleo ideologico nella famosa “teoria del piacere” (pp. 165-72), dove, tra l’altro, si parla proprio dell’“inclinazione dell’uomo all’infinito” (Zibaldone, luglio 1820)

Iniziamo ad osservare la sintassi. A parte il primo e l’ultimo verso, i restanti tredici non formano enunciazioni isolabili, ma sono legati tra loro in un “continuum metrico-sintattico”, come lo definisce Luigi Blasucci, che abbraccia l’intera poesia. Se guardiamo il totale dei versi, infatti, balza immediatamente all’occhio che ben dieci sono collegati da enjambements, che così contribuiscono a sviluppare un discorso poetico assai “legato” e coeso. Non solo. Avverbi, congiunzioni e connettivi in genere abbondano in tutto l’idillio: “ma sedendo” (v. 4), “ove per poco” (v. 7), “e come il vento” (v. 8), “e mi sovvien” (v. 11), “così tra questa immensità” (vv. 14-15), “e il naufragar” (v. 15).  La congiunzione, poi, ha un ruolo veramente determinante perché collega per polisindetotanto i singoli elementi descrittivi (vv. 5-7: “interminati | spazi di là da quella, e sovrumani | silenzi e profondissima quiete”), quanto i passaggi tematici della poesia, trovandosi in quest’ultimo caso sempre in posizione forte di inizio verso o di inizio proposizione (v. 2: “e come il vento”; v. 15: “e il naufragar”).

Anche il lessico è volutamente selezionato, così da allontanare le percezioni di finitudine, di concretezza e di precisione a vantaggio di una sensazione indeterminata e dilatata sia nello spazio che nel tempo. Nella prima parte (quella dedicata all’infinito “spaziale”) Leopardi sceglie aggettivi polisillabici, con valore superlativo (“interminati”, v. 4; “sovrumani”, v. 5; “profondissima”, v. 6), accoppiandoli a sostantivi astratti di valore assoluto (“spazi”, v. 5; “silenzi”, v. 6; “quiete”, v. 6). Mantengono lo stesso valore anche i sostantivi della seconda parte (ove predomina l’infinito “temporale”) come “eterno” (v. 11) e “stagioni” (v. 12), affiancati però ad aggettivi con un minor numero di sillabe: non più quadrisillabi o pentasillabi, ma trisillabi: “morte” (v. 12), “presente” (v. 12), “viva” (v. 13). Ancora più brevi le scelte lessicali del momento conclusivo, dove si scende a due sillabe: “dolce” (v. 15) e “mare” (v. 15). Una funzione essenziale rivestono, inoltre, gli aggettivi dimostrativi, che collocano nello spazio l’esperienza psicologica della poesia, che pure trascende uno spazio e un luogo specifici. Inizialmente essi accompagnano riferimenti toponomastici precisi (“quest’ermo colle”, v. 1; “questa siepe”, v. 2; e “queste piante”, v. 9, sono senz’altro quelli che il poeta ha davanti a sé, vale a dire sul Monte Tabor di Recanati, dietro il “paterno ostello”), per poi andare ad affiancare elementi con valenza più generica e indeterminata (“questa immensità”, vv. 13-14; “questo mare”, v. 15).

Infine vale la pena osservare – sempre con l’aiuto degli insostituibili studi di Luigi Blasucci – come tutto l’idillio sia pervaso da un’atmosfera emotivamente vibrante, in cui traspare il coinvolgimento non solo di un io fittizio e impersonale, ma anche di un io interno e effettivamente coinvolto nell’esperienza. Pare insomma che Leopardi, da questi celebri versi, voglia anche lasciar intravedere in filigrana il suo volto, il suo rapporto col luogo da cui si irradia questa esperienza. Lo si può ben osservare nel primo verso dove il “colle”, teatro della scena, è luogo da “sempre caro”, carico quindi di ricordi e di familiarità (confermata dall’incipit di Alla luna, vv. 1-3: “O graziosa luna io mi rammento | che, or volge l’anno, sovra questo colle | io venia pien d’angoscia a rimirarti”). E lo si può notare dall’uso, in seguito ripetuto, del dativo etico o d’affettoespresso dal sintagma “mi”. Dunque un luogo dell’assoluto, senz’altro; ma anche un luogo reale, che fu da sempre “a me” – cioè a Giacomo Leopardi – “caro”, e un “naufragare” dei sensi che “a me”, al poeta e filosofo precocemente impegnato nel disvelamento dell’“arido vero”, non può che riuscire “dolce”. 

Bibliografia essenziale:

– W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973.
– L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985.
– F. Brioschi, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano, Il Saggiatore, 1980.

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LA PERSECUZIONE IN FRANCIA

Dopo la capitolazione, il 22 giugno 1940, Hitler divise la Francia in due zone, una occupata, l’altra libera. La zona sotto occupazione si estendeva a nord della Loira e lungo la costa atlantica. La zona non occupata comprendeva la Francia meridionale, amministrata dal governo collaborazionista del maresciallo Henri Philippe Pétain, con sede a Vichy. L’Alsazia-Lorena fu annessa al Reich tedesco. Nel 1940 vivevano in territorio francese circa 330.000 ebrei, di cui dai 190.000 ai 200.000 di nazionalità francese e dai 130.000 ai 140.000 stranieri. Circa 80.000 di essi caddero vittime dell’Olocausto, eliminati principalmente nei campi di sterminio tedeschi. Le autorità francesi collaborarono attivamente allo sterminio di questi ebrei, occupandosi di quasi tutte le operazioni preparatorie. Il governo di Vichy avviò la sua politica antiebraica subito dopo essersi insediato, nell’estate del 1940. Ciò avvenne addirittura prima che tale politica venisse introdotta dalle autorità tedesche di occupazione nella Francia occupata. Oltre alle normali limitazioni imposte alla totalità degli ebrei, una parte degli ebrei stranieri venne internata in campi. Il peggio, però, doveva ancora arrivare. Il 4 luglio 1942 il regime di Vichy, su pressione tedesca, si dichiarò disposto a consegnare agli invasori, e quindi a deportare nei campi di sterminio nazisti, tutti gli ebrei stranieri; nel contempo esso assicurava la collaborazione della polizia e delle autorità francesi. Il primo convoglio partì il 17 luglio dal campo di Pithiviers, carico di 928 persone e diretto ad Auschwitz. Lo seguirono altri convogli. Peraltro non furono consegnati soltanto ebrei stranieri, ma anche francesi; gli stranieri erano comunque in maggioranza. Alla fine del 1942, dalla Francia, erano stati deportati complessivamente 42.500 ebrei. Le deportazioni continuarono fino all’estate del 1944: l’ultimo convoglio partì il 15 agosto 1944. 

Il numero totale degli ebrei deportati dal territorio francese ammonta a poco meno di 76.000 unità. Gli ebrei morti durante la deportazione nei campi di concentramento in Francia (soprattutto in quelli della zona non occupata) furono circa 3000. Gli ebrei giustiziati sommariamente o assassinati per il solo fatto di essere tali furono circa 1000. Il numero complessivo delle vittime della “Soluzione finale” in Francia ammonta quindi a 80.000: si può dunque affermare che, in pratica, il 25% degli ebrei di Francia perse la vita nell’ambito della “Soluzione finale”. Delle 80.000 vittime, 24.500 furono ebrei francesi e 56.500 stranieri. Nelle deportazioni le autorità e le forze di polizia in loco svolsero il ruolo decisivo. Le autorità francesi registravano le vittime destinate alla deportazione, la polizia e la gendarmeria le arrestavano e le conducevano nei campi. A numerose razzie parteciparono non solo le forze di polizia, ma anche soldati, vigili del fuoco e volontari francesi. Nella zona occupata, talvolta, vi partecipò anche la polizia militare [Feldgendarmerie ] tedesca. I campi erano sorvegliati da gendarmi francesi e amministrati, fino all’estate 1943, dalle autorità di polizia francesi. I convogli di deportati venivano allestiti e preparati per la partenza all’interno dei campi; la maggior parte di essi partì dal campo di Dancy. La polizia francese accompagnava i convogli fino al confine con la Germania, per poi consegnarli ai colleghi tedeschi, che li scortavano fino ad Auschwitz. Senza la collaborazione attiva delle autorità e delle forze di polizia francesi, le deportazioni su così larga scala non sarebbero state possibili. 

0002000070 ‣ Gli altri paesi . Anche da altri paesi europei posti sotto la sfera di potere del Reich tedesco furono consegnati ebrei ai tedeschi. Le sole eccezioni sono rappresentate da Danimarca e Finlandia. Il governo bulgaro si oppose alla deportazione di circa 50.000 ebrei bulgari, tuttavia consegnò ai tedeschi tutti gli ebrei delle regioni che la Bulgaria aveva occupato durante la guerra grazie all’aiuto tedesco. Complessivamente, le autorità e le forze di polizia bulgare deportarono più di 11.000 ebrei dalla Macedonia (precedentemente jugoslava) e dalla Tracia (Grecia) nei campi di sterminio tedeschi. 

Negli altri paesi la follia annientatrice nei confronti degli ebrei da parte degli autori tedeschi dell’Olocausto ebbe “maggiore successo”. Dall’Olanda occupata, i tedeschi deportarono nei campi di sterminio, dal luglio 1942 all’agosto 1944, circa 107.000 dei complessivi 140.245 ebrei olandesi. Di questi deportati i sopravvissuti furono soltanto 5200 circa. Nelle razzie e nelle operazioni di allestimento dei convogli di deportati, i tedeschi utilizzarono sia la propria polizia di pubblica sicurezza sia forze di polizia olandesi. Dei circa 52.000 ebrei che vivevano in Belgio alla fine del 1940, gli occupanti tedeschi ne deportarono nei campi di sterminio circa 25.000; la polizia e le autorità belghe svolsero in questo frangente un ruolo subordinato. Il regime Quisling, insediato da Hitler in Norvegia, consegnò ai tedeschi 759 dei circa 1800 ebrei norvegesi. Solo 25 di questi 759 deportati sopravvissero alla guerra. Gli altri ebrei si salvarono, quasi tutti scappando in Svezia. In Albania alcune centinaia di ebrei albanesi caddero vittima dell’Olocausto, eliminati dagli occupanti tedeschi. 

Dopo l’invasione dell’Italia, nell’estate 1943, gli occupanti tedeschi deportarono ad Auschwitz “soltanto” 6416 ebrei italiani e stranieri (circa il 19% di tutti gli ebrei presenti in Italia). Autorità e forze di polizia italiane non ebbero quasi mai alcun ruolo in questa azione. In Boemia e in Moravia, le regioni della Cecoslovacchia occupate dai tedeschi, di quasi 120.000 ebrei sopravvissero alla guerra circa 40.000. Gli altri morirono nel ghetto di Tereźin (Theresienstadt), o nei campi di sterminio e di concentramento tedeschi. La polizia e le autorità ceche svolsero in questo ambito un ruolo subordinato: dovettero collaborare su ordine dei tedeschi al rastrellamento e al concentramento delle vittime. Gli invasori tedeschi si occuparono in larga parte autonomamente anche dell’eliminazione degli ebrei greci, mentre nelle regioni greche occupate dai bulgari collaborarono efficacemente, come già accennato, le autorità e le forze di polizia bulgare. Dei circa 71.000 ebrei greci sopravvissero all’Olocausto soltanto 12.000. 

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Le persecuzioni in Polonia

Nel dibattito internazionale riguardante gli autori non tedeschi dell’Olocausto, la Polonia occupa un posto particolare, determinato, tra l’altro, dai seguenti fattori. Prima del 1939 in Polonia viveva la maggioranza degli ebrei d’Europa, più di 3.000.000 di persone, una comunità che equivaleva a oltre il 10% della popolazione nazionale complessiva. Gli occupanti tedeschi costruirono in territorio polacco tutti i campi di sterminio in cui gli ebrei, polacchi ed europei, furono eliminati. Più della metà di tutte le vittime dell’Olocausto perse la vita in territorio polacco e circa la metà delle vittime dell’Olocausto era costituita da ebrei polacchi. Inoltre la Polonia pagò il prezzo di vittime tra la popolazione non ebraica proporzionalmente più alto in confronto alle altre popolazioni coinvolte nella Seconda guerra mondiale. A perdere la vita durante l’Olocausto non furono solo i circa 3 milioni di ebrei polacchi, ma anche fino a un milione e mezzo di persone di etnia polacca, per lo più civili e non solo a causa del terrore tedesco, ma anche di quello sovietico. All’inizio, tuttavia, dopo la sconfitta e l’occupazione della Polonia, il terrore tedesco non prese ancora di mira in primo luogo gli ebrei polacchi, bensì l’intellighenzia polacca, considerata la promotrice della resistenza anti-tedesca similmente a quanto accadeva nelle regioni polacche occupate dai sovietici. Il momento che segnò il cambio di trattamento nei confronti degli ebrei polacchi fu rappresentato dall’attacco tedesco all’URSS. Nelle regioni della Polonia orientale, fino ad allora occupate dai sovietici, si verificarono pogrom e fucilazioni di massa, soprattutto a danno di ebrei. I pogrom furono particolarmente intensi nel territorio dell’odierna Ucraina occidentale; vi parteciparono soprattutto ucraini, ma anche polacchi. Tuttavia questi eccessi si rivolsero in parte anche contro i polacchi. 

Le regioni della Polonia nordorientale, precedentemente occupate dai sovietici, più precisamente intorno alle città di Bialystok e di Lomża, furono anch’esse colpite da un’ondata di violenza antiebraica che fece migliaia di vittime. Qui si giunse in decine di località a eccessi di violenza. A questo proposito vanno distinte due diverse fasi della violenza. La prima iniziò subito dopo il ritiro dei sovietici e fu rivolta verso individui ben precisi: ebrei o polacchi accusati di collaborazionismo con gli occupanti sovietici o di complicità nelle stragi perpetrate dai sovietici. Centinaia di persone furono seviziate, percosse a morte o consegnate ai tedeschi e fucilate. Gli autori delle violenze erano molto spesso polacchi, vittime del terrore sovietico: prigionieri sfuggiti ai russi o detenuti scarcerati dai tedeschi, parenti di deportati o di giustiziati, oppure membri del movimento clandestino antisovietico, molto attivo in questa regione. A questa ondata di violenza ne seguì un’altra più sanguinosa. Essa prendeva ora di mira tutti gli ebrei, compresi donne, bambini e anziani. In molte località della regione, ad esempio a Jedwabne, venivano compiute in modo pianificato azioni di sterminio indirizzate contro intere comunità ebraiche. Tali azioni erano ispirate e organizzate da commando mobili delle SS e in alcune località furono condotte da mano polacca. Altrove la partecipazione polacca si “limitava” al rastrellamento e alla sorveglianza delle vittime ebraiche, mentre l’uccisione materiale tramite fucilazione veniva effettuata dai responsabili tedeschi. Centinaia di polacchi presero parte a queste azioni omicide; nella sola Jedwabne furono circa quaranta. 

Dopo alcune settimane l’ondata di violenza si placò e gli invasori tedeschi passarono alla persecuzione e all’eliminazione sistematica degli ebrei, in modo simile alle restanti regioni orientali. Seguirono la ghettizzazione, gli espropri, i lavori forzati e, infine, l’eliminazione nelle camere a gas del campo di sterminio di Treblinka. L’aggressione militare tedesca all’URSS ebbe come conseguenza una radicalizzazione della persecuzione contro gli ebrei, che condusse allo sterminio totale anche nei restanti territori polacchi occupati dai tedeschi. Fu del settembre 1941 la decisione di eliminare gli ebrei del Warthegau (la regione attorno a Poznań e Lodź), mentre a ottobre si pianificò lo sterminio degli ebrei del Governatorato generale (la cosiddetta “azione Reinhard”). Il piano di annientamento prevedeva il massacro degli ebrei non tramite le fucilazioni di massa, come nelle regioni orientali occupate, ma tramite gassazione in fabbriche di morte appositamente costruite. I tedeschi realizzarono tali strutture nella Polonia occupata. Il campo di sterminio di Kulmhof entrò in funzione nel dicembre 1941, quello di Bełżec nel marzo del 1942, il campo di Sobibór nel maggio 1942, mentre quelli di Treblinka e Auschwitz nel luglio 1942. 

A partire dal dicembre 1941 gli invasori tedeschi cominciarono a eliminare gli ebrei polacchi nei campi di sterminio. Le operazioni si svolgevano prevalentemente in questo modo: massicce forze delle SS e di polizia circondavano un ghetto o un quartiere ebreo. Esse conducevano fuori dalle abitazioni gli ebrei, radunandoli nel luogo di raccolta. Durante tali operazioni gli eccessi erano la norma: le vittime venivano bastonate e uccise, soprattutto quelle che tentavano la fuga, opponevano resistenza o le persone “non idonee al trasporto”, come i malati costretti a letto o i vecchi. Si verificarono anche stupri di donne ebree. Nel luogo di raccolta avveniva la selezione degli “abili al lavoro” e degli “inabili al lavoro”. Gli “abili al lavoro”, in primo luogo lavoratori giovani e qualificati, potevano restare nel ghetto o venivano inviati in un campo di lavoro, dove svolgere appunto lavoro forzato. Tutti gli “inabili al lavoro”, bambini, donne e anziani, venivano caricati nei convogli predisposti e trasportati in uno dei campi di sterminio, dove si procedeva alla loro eliminazione. 

In tutte queste operazioni gli autori tedeschi delle deportazioni si affidavano normalmente a forze proprie, cioè personale delle SS e di polizia, e a formazioni da loro istituite, composte da stranieri, come soprattutto gli “uomini di Trawniki” (v. sopra). Non di rado fornivano cooperazione attiva anche i membri dell’amministrazione civile e i soldati della Wehrmacht. Anche la polizia ebraica dei ghetti, soprattutto nei ghetti più grandi come quello di Varsavia, doveva prestare la propria collaborazione. Nelle località con comunità ebraiche più piccole, invece, per rastrellare le vittime ebree venivano impiegati anche poliziotti polacchi della cosiddetta “polizia blu”, i membri del “servizio edile” [Baudienst ], delle amministrazioni comunali e del corpo volontario dei vigili del fuoco. Nel Governatorato generale i giovani polacchi erano reclutati in forma coatta per il servizio edile: dal 1943 il rifiuto di prestare lavoro forzato per gli occupanti tedeschi fu punito con la pena di morte. 

Le forze locali, nella Polonia sotto occupazione tedesca, svolsero quindi un ruolo subordinato nell’ambito delle deportazioni nei campi di sterminio, per il fatto stesso che nella maggioranza dei casi il coinvolgimento era forzato (per i membri del servizio edile) oppure disposto da ordini superiori (nel caso della polizia blu o dei polacchi appartenenti alle amministrazioni comunali). Questo, tuttavia, vale solo parzialmente nel caso della caccia alle vittime fuggitive. A partire dall’estate 1942 si ebbero fughe in massa dai ghetti. Migliaia di ebrei tentarono di salvarsi dall’imminente deportazione nei campi di sterminio cercando l’aiuto degli “ariani”. Gli occupanti tedeschi, di contro, procedevano con grande rigore: essi infliggevano pene draconiane a tutti coloro che tentassero in qualsiasi modo di aiutare gli ebrei; per costoro e per le loro famiglie era prevista la pena di morte, generalmente eseguita subito sul posto, in modo da scoraggiare tutti i potenziali soccorritori. Dall’altra parte i tedeschi resero obbligatoria la collaborazione dei cittadini nella cattura degli ebrei e dei fuggitivi, e se da un lato l’inosservanza dell’obbligo veniva punita, dall’altro ai collaboratori erano promesse ricompense. In questo modo gli invasori tedeschi crearono condizioni a dir poco “paradisiache” per qualsiasi individuo predisposto al crimine: ormai vessare e consegnare gli ebrei non solo era permesso, ma diveniva addirittura un obbligo di legge. Non pochi dunque nella Polonia occupata erano disposti a fare ciò, già solo per la prospettiva di vantaggi materiali. È molto difficile calcolare quanto fosse grande il numero di costoro e la loro percentuale rispetto alla popolazione complessiva. Nel caso di Varsavia si presumono tra i 4000 e i 5000 gli abitanti polacchi che assunsero un atteggiamento attivo nella caccia agli ebrei nascosti: una percentuale compresa tra il quattro e il cinque per mille della popolazione polacca di Varsavia. 

Pochi studi si sono finora occupati delle modalità in cui si svolgeva la caccia ai fuggitivi nelle campagne. È comunque certo che vi presero parte polacchi, alcuni costretti con la forza, altri volontariamente. Contadini polacchi, ad esempio, dovettero partecipare a vere e proprie battute di caccia agli ebrei nascosti nei boschi. Singole persone denunciarono alle autorità tedesche gli ebrei clandestini. Non accadeva di rado che gli ebrei nascosti fossero derubati e uccisi. Marek Jan Chodakiewicz calcola che, nel periodo compreso tra la primavera del 1942 e l’estate 1944, nel distretto di Janów Lubelski, a ovest di Lublino, circa 1000 ebrei avevano tentato la fuga. Approssimativamente 400 di questi furono scoperti durante cacce all’ebreo o durante azioni antipartigiane, e sottoposti a “trattamento speciale” [sonderbehandelt ]; più di 300 ebrei furono uccisi da banditi comuni, da partigiani comunisti e non e da collaborazionisti polacchi. D’altra parte vi furono anche molti cittadini che, a rischio della propria vita, aiutarono i perseguitati. Per questo motivo, molti di essi vennero uccisi dai tedeschi con tutta la loro famiglia. 

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I persecutori non tedeschi nell’Europa centrale e orientale

L’annientamento degli ebrei d’Europa durante la Seconda guerra mondiale fu un atto collettivo e caratterizzato da una precisa divisione dei ruoli, un atto che vide la partecipazione di numerose istituzioni e di migliaia di autori. La maggioranza delle istituzioni e gran parte degli autori coinvolti furono tedeschi. Fu il governo tedesco di allora a decidere di perpetrare questo sterminio di massa, a fissare il momento, la forma e il modo in cui organizzare ed eseguire il crimine. In ciò ricorse in primo luogo a istituzioni tedesche e a personale tedesco. Questo tema è già stato affrontato in ricerche relativamente esaustive. All’Olocausto parteciparono, tuttavia, anche molte istituzioni non tedesche, e perfino governi e migliaia di autori stranieri. Per decenni le ricerche a livello internazionale hanno trascurato il problema degli autori e dei collaboratori non tedeschi che parteciparono all’annientamento degli ebrei. Il primo a occuparsene approfonditamente fu Raul Hilberg, il padre degli studi storici sull’Olocausto, nel suo libro Perpetrators, Victims, Bystanders, pubblicato in America nel 1992. L’opera di Hilberg ha aperto la strada a una serie sempre più numerosa di contributi e lavori sull’argomento, incentrati sulla questione degli autori e dei complici dell’Olocausto provenienti dall’Europa orientale. La presente trattazione si basa proprio su queste recenti pubblicazioni, e si occuperà in primo luogo di coloro che furono coinvolti, come autori diretti, nello sterminio degli ebrei europei.

Dal punto di vista geografico, il fulcro di questa indagine è l’Europa centrorientale: proprio in queste regioni, prima del 1939, viveva la maggior parte degli ebrei del vecchio continente, con più di 3 milioni nella sola Polonia. E fu proprio in Polonia che la maggior parte delle vittime dell’Olocausto trovò la morte. Nell’ambito di questo discorso è importante tenere in considerazione che, durante la Seconda guerra mondiale, la popolazione dell’Est europeo (a differenza dell’Europa occidentale e meridionale) conobbe ben due regimi criminali: quello tedesco (dal 1941 al 1944-45) e quello sovietico (1939-41, e successivamente al 1944-45). È indiscusso ormai che il regime di terrore sovietico in quelle regioni influenzò l’atteggiamento degli abitanti nei confronti dei conquistatori tedeschi, che invadevano quei luoghi nell’estate 1941. L’ingresso delle truppe tedesche fu spesso salutato come una vera e propria liberazione dal giogo sovietico. L’esperienza traumatica del regime terroristico sovietico non coinvolse le altre regioni europee e, ancora oggi, questo fatto non viene debitamente considerato da molti degli autori occidentali. All’occupazione sovietica di queste regioni dell’Europa orientale, nell’autunno del 1939 e nell’estate 1941, seguì la loro brutale sovietizzazione. I nuovi dominatori applicarono nelle regioni occupate una strategia del terrore senza precedenti. Allo scopo di consolidare il loro proprio potere, essi strumentalizzarono le tensioni etniche e sociali preesistenti. Considerando la sua durata temporale relativamente breve, nelle terre annesse l’occupazione sovietica ebbe conseguenze devastanti: migliaia di persone furono deportate, imprigionate e assassinate. Le vittime furono polacchi, ucraini, lituani, lettoni, estoni, bielorussi e rumeni. La logica conseguenza di ciò fu la paura e l’odio nei confronti degli invasori sovietici e dei loro collaboratori. 

Intanto, tuttavia, le vecchie tensioni si acuirono e affiorarono nuovi focolai di conflitto tra le singole componenti della popolazione e, in un simile contesto, la popolazione ebraica finì in una situazione estremamente precaria. Da una parte le loro élite vennero perseguitate, perché considerate anti-sovietiche. Molti ebrei, inoltre, tentarono, sia in modo attivo sia passivo, di opporre resistenza al processo di sovietizzazione. Dall’altra parte il sistema sovietico offriva nuove prospettive a molti ebrei. Il dominio sovietico forniva, soprattutto ai giovani, opportunità di ascesa sociale. Negli altri strati della popolazione questo fatto suscitava invidia e desiderio di vendetta. Ai tradizionali pregiudizi antisemiti si accompagnò l’immagine degli ebrei come presunti sfruttatori della sovietizzazione e complici degli invasori sovietici. Da parte tedesca si era a conoscenza del marcato umore antisovietico e antiebraico diffuso nelle regioni occupate e se ne tenne conto per la preparazione della guerra. Tra gli ordini che le Einsatzgruppen [unità operative mobili] ricevettero prima dell’attacco all’Unione Sovietica, vi fu quello di organizzare “senza lasciar traccia” [spurenlos ] con forze locali pogrom antiebraici come “azioni di autopulizia” [Selbstreinigungsaktionen ]. Il 29 giugno 1941 Heydrich ricordò a tutti i comandanti delle Einsatzgruppen gli ordini già impartiti prima dell’aggressione all’Unione Sovietica: Facendo riferimento alle istruzioni da me già impartite il 17.IV [1941] a Berlino, ricordo che: 1) le azioni di autopulizia portate avanti dai gruppi anticomunisti e antiebraici nelle terre da occupare non vanno ostacolate in alcun modo. Esse, al contrario, andranno, tuttavia in modo tale da non lasciare traccia, incitate e intensificate, e, se necessario, avviate nei giusti binari senza che i “gruppi di autodifesa” locali possano successivamente appellarsi a disposizioni o a garanzie politiche esistenti.

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XI Il Passero solitario

D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

Note

Passata è la tempesta: è una situazione meteorologico-paesaggistica, di natura autobiografica, ad aprire la Quiete dopo la tempesta: dopo un violento temporale, un piccolo borgo rurale – che riporta alla mente il “natio borgo selvaggio” delle Ricordanze, v. 30 – torna lentamente alla vita e alle normali abitudini, dopo lo scampato pericolo.

 augelli: tipico esempio del lessico selezionato della poesia leopardiana che, in accordo con alcune dichiarazioni di poetica dello Zibaldone, rinviene nelle parole arcaiche e desuete uno strumento assai efficace per evocare sensazioni poetiche, connesse in questo caso con la teoria del piacere e delle illusioni.

 Ecco il sereno: l’idillio leopardiano, che occupa tutta la prima strofe, è attentamente studiato; dopo il quadro dei primi versi (che descrivono gli attimi successivi alla “tempesta”), qui l’eruzione del cielo sereno dal crinale della montagna (v. 5) è qualcosa di improvviso, come indicato dall’avverbio (“ecco”) e dall’enjambement tra i vv. 4-5.

 chiarol’aggettivazione mette a fuoco l’importanza della luce in questo passo, che risplende e si riflette anche nelle acque del fiume a valle; dato che il contesto è autobiografico, si può immaginare che il corso d’acqua sia il Potenza, che scorre appunto tra Macerata e Recanati.

 il lavoro usato: la dimensione del lavoro umile e quotidiano, come attività che rallegra il cuore dell’uomo e lo tiene lontano dalle angosce e dalle paure, è presente anche nel Sabato del villaggio (vv. 31-37). Anche l’aspetto fonico fa la sua parte, con una serie di echi in particolare del fonema – r – che arricchiscono la musicalità dei versi.

umido: in quanto fresco di pioggia appena caduta.

 La strofe si chiude sempre su una nota musicale: il “tintinnio” dei sonagli, percepito da lontano, si somma allo stridere delle ruote del carro.

 Le interrogative retoriche che aprono la terza strofe indicano il passaggio dalla descrizione paesaggistica (che funge quindi da exemplum) alla riflessione filosofica, venata di pessimismo, della filosofia leopardiana e dell’intrinseco legame tra dolore e piacere per i comuni mortali.

 Piacer figlio d’affanno: è una tesi tipicamente leopardiana, che viene svolta soprattutto nelle pagine dello Zibaldone; qui, in alcune pagine dell’agosto 1822, il poeta spiega con lucidità: “Le convulsioni degli elementi e altri tali cose che cagionano l’affanno e il male del timore all’uomo naturale o civile […] si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell’ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perché più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perché senza essi mali, i beni non sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia […]”.

chi la vita aborria: il piacere che coglie ciascuno di noi quando scampiamo un pericolo è tale per Leopardi da cogliere anche chi, conscio del dolore che nasconde l’esistenza, desidera la morte per liberarsi dal dolore. Si tratta insomma di una pura illusione, ma che riesce ad apportare un piacere momentaneo.

 fredde, tacite, smorte: la climax degli aggettivi fotografa bene l’impotenza umana di fronte agli eventi naturali devastanti, con un accento che tornerà ne La ginestra in merito all’eruzione del Vesuvio.

 natura cortesel’aggettivazione è ovviamente sarcastica: la “natura” concede ai suoi figli solo questo tipo di “doni” (v. 43), ovvero la morte come soluzione per “uscir di pena” (v. 45). Nello ZIbaldonesi conferma: “L’uomo non può molto godere, non solo perché pochi e piccoli sono i piaceri, ma anche rispetto a se stesso, perché egli è molto limitatamente capace del piacere, e quegli stessi che vi sono, così piccoli e pochi, bastano a vincere di gran lunga le sue capacità”.

 mostro: dal latino monstrum, -i, con sfumatura etimologica, “prodigio”, “cosa inaudita”. Il piacere è insomma qualcosa che ci giunge solo per eccezionale e fortuita contingenza del caso.

 eterni: l’appello agli dei (e la chiusura di tutta la Quiete) suona sprezzantemente sarcastico soprattutto nei confronti di chi si illude che il genere umano sia discendenza diretta degli dei e che il cosmo sia costruito per dare all’uomo una vita felice. Sono temi che saranno poi sviluppati dalla Ginestra.

Introduzione

Il Passero solitario fu composto probabilmente a partire dal 1831. La sua struttura metrica è quella della canzone libera in endecasillabi e settenari alternati, tipica dei canti successivi al silenzio poetico dell’autore (1822-1828). In questo componimento il poeta opera un parallelo tra la sua solitudine ed esclusione esistenziale e quella di un passero, che in primavera canta solitario. Centrale è anche un motivo tipico della produzione leopardiana, ovvero il rimpianto di non godere della gioventù che fugge.

Canzone composta tra il 17 e il 20 settembre 1829, praticamente in parallelo al Sabato del villaggio (con cui condivide non pochi elementi di poetica), e quindi pubblicata nei Canti a partire dall’edizione fiorentina del 1831. La Quiete presenta inizialmente un quadro di vita agreste, subito dopo la pace che segue lo scatenarsi e poi l’attenuarsi di un temporale; il ritorno alla normalità coincide con la riflessione filosofica di Leopardi, che, rifacendosi anche alle tesi delo Zibaldone, ragiona sull’illusione dei piaceri e sulla condanna umana al dolore.

Metro: Canzone di strofe libere di endecasillabi e settenari, con frequenti assonanze interne.

Parafrasi

  1. È finita la tempesta:
  2. sento gli uccellini cinguettare, e la gallina,
  3. ritornata sulla strada [dopo il diluvio]
  4. che ripete continuamente il suo verso. Ecco
  5. all’improvviso laggiù si apre da occidente il sereno,
  6. in direzione delle montagne: si sgombra
  7. la campagna [dalle ombre], e nella valle il fiume
  8. risplende limpido. Ogni essere umano
  9. si conforta, in ogni angolo si sente di nuovo
  10. un rumore di vita, e torna il lavoro quotidiano.
  11. L’artigiano, osservando il cielo dopo il diluvio,
  12. con gli attrezzi di lavoro in mano, cantando,
  13. si affaccia sull’ingresso; la fanciulletta esce
  14. di casa in un tentativo di raccogliere
  15. l’acqua appena caduta;
  16. l’erbivendolo ripete, da un sentiero
  17. all’altro, il suo grido,
  18. che ripete sempre ogni giorno.
  19. Ecco ritorna a splendere il sole, eccolo sorridere
  20. per colline e case di campagna. La servitù
  21. spalanca balconi, finestre e logge: e,
  22. dalla strada maestra, si sente un tintinnio
  23. lontano di sonagli; il carro del visitatore
  24. stride, mentre riprende il suo viaggio.
  25. Ogni cuore torna a sprizzar felicità.
  26. Quando la vita è dolce e lieta
  27. come in questi momenti?
  28. Quando un uomo segue il suo lavoro
  29. con tanta amorevole dedizione? O quando
  30. torna alle sue fatiche, o quando ne inizia
  31. di nuove? Quando egli si ricorda meno delle sue afflizioni?
  32. Il piacere è figlio della sofferenza;
  33. [è] una gioia effimera ed illusoria, che è frutto
  34. della paura che si è provata, per la quale
  35. ebbe un sussulto e temette di morire
  36. anche chi disprezza la vita;
  37. per cui le genti umane, agghiacciate,
  38. ammutolite e pallide di morte 
  39. sudarono e palpitarono
  40. osservando fulmini, nuvole e vento mossi
  41. per colpirci tutti.
  42. O natura gentile,
  43. questi sono i tuoi doni,
  44. questi sono i piaceri
  45. che offri agli uomini. Per noi, è un diletto
  46. l’uscita dalla pena.
  47. Tu spargi dolore in abbondanza; il dolore
  48. è uno stato naturale ed è invece gran guadagno
  49. di piacere ciò che talora nasce, per prodigio
  50. o per miracolo, tra le nostre sofferenze.
  51. O stirpe umana cara agli dei immortali! Assai
  52. felice [sei] se ti è lecito aver sollievo
  53. da ogni sofferenza; beata [sei] se la morte
  54. ti purifica da ogni dolore.

Analisi

Nella prima strofa della lirica (vv. 1-16) Leopardi descrive un paesaggio primaverile vago e armonioso. Da questo quadro felice, in cui tutti gli esseri viventi condividono la gioia per il ritorno della primavera, emerge il contrasto con il passero solitario, che “pensoso in disparte il tutto mira” (v. 12; da notare la scelta dell’aggettivo “pensoso”, più adatto a un essere umano, quale il poeta, che non a un volatile)  che e non partecipa a questa atmosfera di felicità e rinnovamento, ma canta “finché non more il giorno” (v.3). Leopardi nella descrizione usa termini e immagini tipici della poetica dell’indefinito, come al v. 1 (“torre antica”), dove l’aggettivo crea un effetto di lontananza temporale e spaziale e al vv. 2-3 (“alla campagna… vai”), che crea un senso di indeterminatezza e vastità del paesaggio; la determinazione di luogo verrà ripresa al v. 37, “alla campagna uscendo”, dando vita al confronto tra il passero e Leopardi stesso.

Dai vv. 17-44 si realizza il parallelo tra la vita solitaria del passero, voluta e cercata per disposizione naturale, e quella del poeta, che, come l’uccello, osserva in disparte la vita, che si rinnova gioiosa in primavera, metafora abbastanza esplicita della giovinezza. Questo innaturale senso di isolamento e il rifiuto di godere delle gioie dell’età giovanile non sono del tutto comprensibili a Leopardi (v. 22: “io non so come”) e diventano il suo personale destino, proprio nel momento in cui il poeta si mette a confronto con gli altri giovani che si preparano a festeggiare l’arrivo della primavera (vv. 32-33: “La gioventù del loco | Lascia le case, e per le vie si spande; | E mira ed è mirata, e in cor s’allegra”). Un elemento visivo esterno, il sole che tramonta e “par che dica | che la beata gioventù vien meno” (vv. 43-44) porta Leopardi ad affrontare la realtà: in futuro rimpiangerà il mancato godimento della giovinezza, perché “Ogni diletto e gioco | indugio in altro tempo” (vv. 38-39).

L’ultima strofa (vv.45-59) è incentrata ancora sul confronto tra il passero e l’autore: l’uccello, per sua natura, poiché vive secondo l’istinto, non rimpiangerà il suo modo di vivere (vv. 46-49: “Del viver che daranno a te le stelle, | certo del tuo costume | non ti dorrai, che di natura è frutto | ogni vostra vaghezza”), mentre il poeta, se giungerà alla dura età matura, sconsolato si volgerà indietro e si pentirà del passato. La vecchiaia è vista in maniera negativa, rende “il dì presente più noioso e tetro”, soffocando ogni passione.

Le fonti letterarie

Diverse sono le fonti letterarie che hanno ispirato Leopardi nella composizione del Passero solitario, alcune classiche ed altre più recenti. Maria Corti (nel saggio Passero solitario in Arcadia contenuto nella raccolta di saggi Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969) sostiene che una delle possibili fonti tematiche e strutturali di questo componimento sia L’Arcadia di Jacopo Sannazaro, pubblicata nel 1504, e in particolare l’egloga VIII. Porta a sostegno di questa ipotesi i versi 37-42 del poema quattrocentesco:

Questa vita mortale al dì somigliasi,
il qual, poi che si vede giunto al termine,
pien di scorno all’occaso rinvermigliasi.
Così, quando vecchiezza avvien che termine
i mal spesi anni che sì ratti volano,
vergogna e duol convien c’al cor si germine.

Corti si sofferma innanzitutto su “l’occaso” che “provoca la similitudine tra il giorno e la vita mortale”, e sui versi 41-44 del Passero solitario, in cui si riscontra la stessa similitudine: “il Sol…cadendo si dilegua, e par che dica che la beata gioventù vien meno”. Poi, mette in luce una seconda corrispondenza tra il verso 40 (“quando vecchiezza avvien che termine” e il versi 50-51 di Leopardi (“se di vecchiezza | la detestata soglia”), e ancora tra v. 41 (“i mal spesi anni che sì ratti volano”) e v. 57 (“Che di quest’anni miei?”) e infine tra la “vergogna e duol” sugli anni della giovinezza spesi male del verso 42 del componimento sannazzariano e gli ultimi due versi di Leopardi (vv. 58-59): “Ahi, pentirommi, e spesso, | Ma sconsolato, volgerommi indietro”.

L’autrice considera anche un passo dello Zibaldone (I, 88) in cui viene citato il verso 126 dell’egloga VIII:

E tanto è miser l’uomo quant’ei si reputa disse eccellentemente il Sannazzaro. Ora in quello stato ch’io diceva in un pensiero poco sopra, egli non reputandosi misero neanche sarebbe stato, come ora tanti in condizione simile a quella ch’i’ ho detto, poco reputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e così tutti secondo che si stimano infelici;

Corti, commentando, scrive: “Con tale argomento nel Passero il poeta può contrapporre la sua infelicità alla naturalezza dell’animale e dei paesani”.

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Gli Idilli

La prima raccolta degli Idilli leopardiani è del 1826, quando la Stamperia delle Muse di Bologna pubblica alcuni brevi testi del poeta, insieme con altri componimenti (tra cui due Elegie, alcuni sonetti, una Epistola al Conte Piepoli, tre canti della Batracomiomachia tradotta dal poeta e il volgarizzamento di una Satira di Simonide, poeta lirico greco del IV secolo a.C.).

Gli idilli confluiscono poi nella prima edizione dei Canti del 1831, volume in cui sono raggruppate tutte le raccolte precedenti di Leopardi. Le liriche di questo volume possono essere suddivise in sezioni separate, risalenti a periodi diversi della vita del poeta.La prima di questa sezioni include le Canzoni (1818-1823) e appunto gli Idilli (1819-1821). Queste due sezioni si presentano tematicamente unitarie: sono, infatti, collegate alla fase del pessimismo storico, che nelle canzoni viene sviluppato in maniera oggettiva con l’uso di esempi storico-mitologici, mentre negli idilli viene analizzato in modo soggettivo, scavando nell’interiorità dell’autore e dei suoi sentimenti.

Le caratteristiche dell’idillio e la poetica di Leopardi

Per Leopardi – com’egli dirà nei Disegni letterari del 1828 – gli Idilli sono componimenti che esprimono “situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”. Dell’edizione degli Idilli del 1826 fanno parte sei testi: L’infinitoLa sera del dì di festaAlla lunaIl sognoLa vita solitaria, il Frammento XXXVII.

Il termine “idillio” deriva dal greco, e letteralmente significa “piccola scena” o “piccola poesia”, indicando un breve componimento poetico di ambientazione pastorale, come quelli di Teocrito, autore greco di età ellenistica. Leopardi si basa per il titolo su quello omonimo della raccolta di Mosco, un poeta greco del II secolo a.C. da lui tradotto nel Discorso sopra Mosco del 1815. Tuttavia l’autore innova la tradizione idillica, modificando innanzitutto l’ambientazione e dando ai suoi versi una dimensione intima e personale. Negli Idilli l’autore abbandona i modelli antichi e classici, e si concentra in una forma di puro lirismo sui moti dell’animo e dei propri sentimenti. La scelta formale dell’endecasillabo sciolto, più adatto a rendere i ritmi e la pieghe intime dell’animo rispetto a metri più tradizionali, è segno esteriore di questo profondo cambiamento del tono poetico e del modo stesso di intendere la poesia.

La poetica dell’indefinito è al centro della raccolta degl Idilli e nasce dalle riflessioni di Leopardi sul piacere. Secondo il poeta l’uomo prova un desiderio infinito – e quindi inappagabile – di piacere. Le gioie quotidiane sono soddisfazione effimere, prodotte dalla cessazione temporanea del dolore. Questa tragica realtà viene celata all’uomo dalla Natura, che benevola riesce ad affievolire la contraddittorietà insita nel genere umano. In epoca antica e durante l’infanzia l’individuo era ed è meno infelice perché più disposto a lasciarsi illudere grazie a una forte immaginazione. L’età moderna e l’età adulta allontanano invece l’uomo dalla natura e dalla fantasia, creando una condizione di infelicità e angoscia.

Leopardi, quindi, vede come una unica possibilità di fuga da questa condizione il riprodurre la sensazione di indefinitezza e immaginazione propria dell’infanzia, attraverso una poetica dell’indefinito e del vago. L’aspetto principale di questa è il ricordo della fanciullezza o di un passato relativamente lontano, ricordo che rende più indefinito e poetico il dolore, attenuandolo. La percezione della realtà si modifica e le cose si confondono o si mascherano di nuove sensazioni attraverso la lontananza nello spazio e nel tempo. Per l’autore l’uomo moderno non può riscoprire del tutto l’immaginazione, ma deve accontentarsi di rievocare nostalgicamente le illusioni e le fantasie che da bambini si è soliti avere. A questo tema, si ricollega quanto affermato in questo passo dello Zibaldone, risalente al 16 gennaio 1821:

forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo le fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza…; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, etc., perché ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine etc. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle circostanze.

Negli Idilli con episodi della sua vita personale Leopardi introduce i temi chiave dei suoi componimenti, incentrati sul pessimismo storico: il destino infelice del poeta causato da un profondo senso di esclusione dalla gioia; la caducità delle cose; l’impossibilità di un rapporto tra uomo moderno e natura; il ricordo e la sua permanenza nel presente; la contemplazione dell’infinito.

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Le Canzoni di Giacomo Leopardi

Le Canzoni di Leopardi fanno parte oggi della prima sezione poetica della raccolta Canti, la cui edizione definitiva viene pubblicata postuma nel 1845 e viene curata da Antonio Ranieri (1806-1888), amico intimo del poeta recanatese. Le precedenti edizioni testimoniano il processo evolutivo della poetica leopardiana e la tensione dell’autore verso una raccolta complessiva della propria produzione in versi, che riunisse tematicamente e stilisticamente quasi vent’anni di poesia.

La prima edizione delle Canzoni, dopo un breve opuscolo del 1820, è del 1824, quando a Bologna Leopardi dà alle stampe dieci canzoni giovanili di impostazione classicheggiante; nel 1826 escono invece (sempre a Bologna, presso la Stamperia delle Muse) i Versi, che riuniscono gli “idilli” del periodo 1818-1821. Il titolo attuale di Canti compare per la prima volta nel 1831, quando l’editore fiorentino Piatti pubblica in un unico volume (con alcune aggiunte e alcuni spostamenti nell’ordinamento dei testi nell’indice) le Canzoni e cinque “idilli”. Questa edizione costituisce la base per il volume del 1835 (Starita, Napoli), dove si inseriscono undici nuovi componimenti. L’edizione del 1845, curata da Ranieri con scarsa attenzione filologica, aggiunge infine Il tramonto della luna e La Ginestra. Le attuali edizioni sono frutto del lavoro di revisione critica condotto sugli autografi napoletani.

Temi, stile e poetica

Il periodo di composizione delle Canzoni è quello compreso tra il 1818 e il 1823. Come gli Idilli, le Canzoni sono legate al pessimismo storico, ma rispetto alla prima raccolta affrontano riflessioni storico-esistenziali, da cui emergono il patriottismo del poeta e l’esortazione all’impegno civile (soprattutto nei primi due testi, le canzoni “civili”, che si distaccano da quelle di vena più intima e personale). Sono poesie giovanilid’ispirazione classicista di tono alto e retorico, in cui i temi esistenziali, trattati in maniera più intimistica negli Idilli, assumono dimensione mitico-storica, con esempi provenienti dal passato e dalla tradizione letteraria. Sul piano metrico Leopardi modifica la struttura della canzone petrarchesca, radicata da secoli nella tradizione letteraria, inserendo versi non in rima, che permettono una varietà di ritmo maggiore. Questo sarà un lascito fondamentale della poesia leopardiana.

Dall’esaltazione del passato al pessimismo leopardiano

Nel 1818 Leopardi compone due canzoni civiliAll’Italia e Sopra il monumento di Dante; in questi due componimenti viene presentata la crisi politico-sociale italiana dell’epoca, contrapponendola alla grandezza del passato: viene espressa l’esigenza di incitare gli italiani a rinnovare i fasti della Roma imperiale, che Leopardi rimpiange nostalgicamente. Nelle due canzoni è evidente l’invito a seguire l’esempio degli antichi. Questo confronto tra la felicità del passato e la decadenza presente si sviluppa anche in altre canzoni, come Ad Angelo Mai, in cui al tema patriottico si aggiungono riflessioni filosofico-esistenziali, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone. La Natura in queste odi appare come madre benigna che si prende cura degli esseri da lei generati, facendo sorgere piacevoli illusioni nell’uomo. Questo tema è presente anche in Alla primavera (1822) e in Inno ai patriarchi (1821).

A partire dal 1819 si affiancano alle canzoni civili anche componimenti in cui sono centrali un profondo pessimismo e il tema della vanità delle cose e della disillusione. In Bruto Minore (1821) viene presentato il suicidio di Bruto, uccisore di Cesare e sconfitto a Filippi nel 42 a.C.. Il suicidio rappresenta il crollo degli ideali repubblicani nella Roma dell’epoca e una protesta contro il “destino invitto e la ferrata necessità” (v. 31). In chiave contemporanea esso può essere visto come la decadenza della civiltà attuale rispetto a quella classica. La disillusione di Leopardi si incarna nella figura di Bruto e nella sua strenua, quanto fallimentare, lotta contro il fato. Il tema del suicidio è presente anche in un’altra canzone del 1822, L’ultimo canto di Saffo. Questo componimento appare fortemente autobiografico. Il profondo senso di esclusione dalla felicità e dalla bellezza della natura, a causa del suo aspetto fisico e di una forte delusione d’amore, porta la poetessa greca Saffo al suicidio. In Alla sua donna, canzone del 1823, si riaffaccia la tematica amorosa, venata sempre dalla coscienza dell’illusione e del destino di dolore che aspetta ogni uomo. 

L’evoluzione della Natura in madre matrigna

La Natura non è più una madre benevola, ma, nell’ottica di Leopardi, si sta già trasformando in Natura matrigna, tema presente nella produzione successiva di Leopardi, caratterizzata dal pessimismo cosmico, che si configurerà come una evoluzione sostanziale rispetto alla fase del pessimismo “storico”. Come nel Bruto, anche qui è presente il tema del destino incomprensibile e tragico, che non concede speranze. Fortemente autobiografico è il senso di esclusione dalla vita e dall’amore, che prova la poetessa, lo stesso che Leopardi sente sempre presente nell’arco della sua giovinezza. Per la prima volta egli sembra comprendere che l’infelicità non è propria di un singolo individuo, ma una condizione che accomuna tutto il genere umano.

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Elenco delle Opere di Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi

I – ALL’ITALIA
II – SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE CHE SI PREPARAVA IN FIRENZE
III – AD ANGELO MAI, QUAND’EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE DELLA REPUBBLICA
IV – NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA
V – A UN VINCITORE NEL PALLONE
VI – BRUTO MINORE
VII – ALLA PRIMAVERA, O DELLE FAVOLE ANTICHE
VIII – INNO Al PATRIARCHI, O DE’ PRINCIPII DEL GENERE UMANO
IX – ULTIMO CANTO DI SAFFO
X – IL PRIMO AMORE
XI – IL PASSERO SOLITARIO
XII – L’INFINITO
XIII – LA SERA DEL DÌ DI FESTA
XIV – ALLA LUNA
XV – IL SOGNO
XVI – LA VITA SOLITARIA
XVII – CONSALVO
XVIII – ALLA SUA DONNA
XIX – AL CONTE CARLO PEPOLI
XX – IL RISORGIMENTO
XXI – A SILVIA
XXII – LE RICORDANZE
XXIII – CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL’ ASIA
XXIV – LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA
XXV – IL SABATO DEL VILLAGGIO
XXVI – IL PENSIERO DOMINANTE
XXVII – AMORE E MORTE
XXVIII – A SE STESSO
XXIX – ASPASIA
XXX – SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi
XXXI – SOPRA IL RITRATTO Dl UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA
XXXII – PALINODIA Al marchese Gino Capponi
XXXIII – IL TRAMONTO DELLA LUNA
XXXIV – LA GINESTRA, O FIORE DEL DESERTO
XXXV – IMITAZIONE
XXXVI – SCHERZO
FRAMMENTI
XXXVII – “ODI, MELISSO”
XXXVIII – “IO QUI VAGANDO”
XXXIX – “SPENTO IL DIURNO RAGGIO”
XL – DAL GRECO DI SIMONIDE
XLI – DELLO STESSO

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