RACCONTO BREVE

CHI TRADISCE UNA VOLTA, TRADISCE SEMPRE

Palermo Luglio 1960

Marina

Oggi ho visto un ragazzo riccio passare davanti a me e a Greta. Mia sorella ha sedici anni e ha buon gusto, ma certamente non permetterò che “accalappi” il bel moretto. Mah, forse non era moretto; era castano. 

Greta continua a dire che non possiamo andare alle sette al mare e venir via alle undici. E’ meglio rimanere. Penso che abbia ragione. Papà torna per mezzogiorno a casa e certamente un’ora in più al mare fa bene a entrambe.

***

Oggi Greta è andata al mare senza di me. Pare che il bel ragazzo romano -questa ha appreso- le abbia chiesto di accendere una sigaretta. Ma lei non fuma, almeno sembra. Così tornando ha comprato dei fiammiferi e dice che li riporterà in spiaggia anche domani e posdomani.

Le ho tirato i capelli. Sì, perché se papà sa che ha comprato dei fiammiferi e che fuma, sono guai anche per me. Non ci farà andare più al mare.

Che ne sarà del bel moretto o castano?

***

Palermo agosto 1960

Marina

Papà ha detto a tavola che a gennaio saremo a Roma. Mi sembra un sogno. Mia sorella Greta pensa che così il bel moretto o castano, sarà lì ad attenderla. Ha detto che hanno fatto amicizia. Da domani posso tornare alla Marina. Così ci sarò io a seguirli. Pare abbiano stretto amicizia.

***

Papà ci ha dato qualche cartamoneta per il gelato. Anzi ha detto anche che possiamo mangiare nel locale in faccia al mare. Il bel moretto o castano stava passeggiando e quando Greta lo ha visto, gli è andata incontro.

Non ha occhi che per lui. Mi sembra che lui abbia due anni meno di me. E due più di lei. 

Ho detto a Greta che se si azzarda a stare con lui, lo dirò a papà.

***

Gennaio 1961

Roma

In Piazza della Repubblica abbiamo acquistato un cappotto per due. Greta deve andare a scuola e io il pomeriggio al suo ritorno posso indossarlo. Papà dice che gli daranno la promozione, così potrà comprarmene uno tutto per me.

Il bel moro si è fatto vivo al bar. Si vede che Greta non ha occhi che per lui.

Non posso dire nulla a papà, ma devo salvare Greta. Così le ho detto che usciremo in tre.

Si è messa a piangere. Ma non importa. Io non la lascio sola. E poi lui dice che al mare di Roma, Ostia, ci porterà con il consenso di papà.

Marzo 1961

Roma

Papà sa di Rudy- sì Rudy, Rodolfo- e ci ha strillate. Chi è, chi non è, da dove viene, lavora, ha la macchina, addirittura una Lancia 70. Deve avere i soldi, dice papà, oppure è di suo padre.

Il padre chi è, cosa fa, quando mai io lascio uscire due figlie con uno. Chi lo conosce. Gli metto un appuntato dietro…

Parole di papà. Papà si fida di me. Però non può sapere che anche a me piace Rudy.

Aprile 1961

Roma-Ostia

Rudy ci ha portate a Ostia. Non è la Marina di Palermo, ma va bene. Al baretto di Ostia Lido le donne se lo mangiavano con gli occhi. Greta ride con lui, meno che con me. Io però lo guardo e certo mia sorella non sarà sua. Io sono la sorella maggiore se vuole…

Giugno 1961

Roma

Papà ha detto a tavola che se Rudy viene a casa deve dirci cosa ha intenzione di fare. Non ha detto ancora che attività ha suo padre. Ma per avere la Lancia 70, dice papà, significa che stanno bene. Ad ogni modo io sono d’accordo con papà. Greta no. Ha paura che non sarà per lei la scelta di papà…

Luglio 1961

Palermo

E’ da ieri che siamo arrivati dalla nonna. Ci ha fatto la pasta. Un caldo…e Greta piange sempre. Le manca Rudy. 

Ma poi ce lo siamo trovate in spiaggia. Papà è fuori di sé.

Greta stasera non è tornata ad orario. Papà ha tirato fuori la cinta e quando è tornata, ha aspettato e gliel’ha tirata sulle cosce. 

Io non l’ho consolata.

Rudy in questi giorni mi chiede da accendere. Ho i fiammiferi.

Greta è in punizione e io no.

Rudy mi ha invitato a fare una passeggiata sul lungomare.

Ha detto che lui è serio. Greta gli piace ma lui non pensa a Greta. Allora mi è venuto un tuffo al cuore. A chi pensa?

Settembre 1961

Roma

Rudy mi ha aspettata nel bar di Piazza della Repubblica. Mi ha detto che non se ne fa nulla con Greta e io anche ero d’accordo. Poi mi ha detto che mi portava in giro a vedere le bellezze di Roma.

Papà non è d’accordo. Ma io non gli dico che esco con lui. Ho l’età.

Greta ha trovato un lavoro di pomeriggio, al termine della scuola. Lavora a Piazza Barberini.

Non mi parla. Crede che gli abbia rubato il posto con Rudy. Forse è vero.

Rudy pare essersi invaghito di me. Gli ho dato un bacio in macchina. Tiene la Lancia meglio che una donna…e chissà se mi sposa. Forse terrà me meglio della Lancia.

Dicembre 1961

Roma

Rudy ha chiesto a mio padre se posso uscire con lui. Che coraggio.

Mio padre gli ha detto che se mi fa del male lo fa fuori. Ha la pistola di ordinanza sopra il comò. Fa sul serio. 

Comunque ha dato il permesso. Greta piange, ma io l’ho salvata. Rudy ama me. Non lei. Lei si troverà uno adatto alla sua età.

Ho conosciuto sua madre, suo padre, le sue sorelle.

Rudy mi ha regalato delle rose. Il padre di Rudy non è come mio padre. E’ un gran signore. Però sento che mi nascondono qualcosa in quella famiglia.

Gennaio 1962

Roma

Greta è andata via di casa. Ha preso con delle amiche un appartamento a Re di Roma. Mio padre è su tutte le furie. Dice che “quella” ha disobbedito. Così ora Greta non studia più, fuma ed esce di notte. Io no. Di giorno con Rudy.

Rudy mi ha detto che l’ha vista con gente al Testaccio.

Rudy da quando ha incontrato Greta non è più sereno con me. Dice che Greta ci odia.

Sarà…ma io l’ho fatto “per lei”.

Marzo 1962

Roma

Rudy vuole che conviviamo. Gli ho detto che è matto. Si è messo a ridere. Ma la convivenza, dice, la faremo a casa dei suoi. C’è una stanza per loro. 

Io non so, mio padre, se dovesse saperlo, mi ucciderà.

Mamma non dice nulla. Greta non c’è. Mio padre è preoccupato per Greta, ma forse sono io quella che lo dovrebbe far preoccupare.

A cena ho accennato a papà che Rudy è serio. Papà tace.

Se tace significa che pensa. Cosa, non so.

Aprile 1962

Roma

Papà mi ha detto che vuole parlare con il padre di Rudy. Mi sento in colpa. Sono sicura che Rudy abbia buone intenzioni, però papà dice che non se ne parla proprio di andare io da lui. Prima si devono conoscere le famiglie e poi se tutto è buono, solo allora pensare al matrimonio.

Io so che sono in torto. Ho sbagliato.

I genitori di Rudy a cena l’altra sera si sono ammutoliti quando ho detto di queste idee. Hanno guardato male Rudy. Dopo cena, contrariamente agli altri momenti insieme alla sua famiglia, mi ha accompagnato a casa.

Giugno 1962

Roma

Sono strana. Vomito e non mi va di mangiare. Ho forse un brutto male?

Rudy mi ha detto che mi porta in ospedale. Io ho fatto la dura, ma in realtà vorrei andare.

Ci ha pensato papà. Sono svenuta e allora mamma ha fatto chiamare l’ambulanza, ma ha fatto prima papà.

Mi hanno visitato. Ho capito che non sono malata. Sono incinta.

Mamma ha urlato. Papà ha dato un pugno nel muro della camera dove sono stata mezza giornata.

Io sto zitta. E ora?

Rudy dovrà sposarmi.

***

Sono passate due settimane dalla mia “scoperta”. Rudy mi ha detto che deve parlarmi. Ho pensato che sarà per preparare la nuova camera per noi dai suoi.

***

Mamma ha mostrato il suo armadio. Ci sono i corredi: mio e di mia sorella.

Mamma piange. Forse perché resterà sola.

***

Rudy mi è venuto a prendere, come sempre. Però non siamo andati dai suoi, ma mi ha fatto mangiare in trattoria. Mi ha detto che non può sposarmi. Almeno finchè non potrà liberarsi da sua moglie.

L’ho guardato come fosse un marziano.

Mi è salita la rabbia al cervello. Non ci ho visto più.

Gli ho tirato il posacenere. Il cameriere mi ha trattenuto le mani dal lanciare anche il piatto e la brocca.

Rudy mi ha portato in macchina. La sua Lancia.

“Sei un farabutto”-“Papà aveva ragione.”

“Ti sposerò, sì, ti sposerò. Dai, riconosco il bambino. Vieni a vivere con me. Mia moglie, non la amo. Mi hanno costretto a sposarla.”

“Non ci credo. Non mi dire che avete bambini.”

Silenzio.

Sì, hanno un bambino di tre anni e uno in arrivo.

E io?

Io ho salvato mia sorella e non sono stata capace di salvare me.

E ora?

Quello che nascerà?

Papà, perdonami. Ho tradito la tua fiducia. Non sono più degna di essere tua figlia. Perdonami. Non mi abbandonare.

Marzo 1963

Caro diario. Ti scrivo dopo tanto tempo. Rudy mi ha convinto a stare a casa dei suoi. Io però me ne andrò. E’ nata una bambina. Camilla.

Sì. Bella. Però io non la voglio. Io non ce l’ho con lei. Ce l’ho con lui.

Chi tradisce una volta, tradisce sempre.

1969

Roma

Ultima pagina di diario

Sono passati nove anni. Rudy mi ha scaricato a casa dei miei con la bambina, a bordo della sua Lancia Flaminia.

Vuole bene alla macchina più che a noi due. Ho lasciato Camilla dai miei.

Senz’altro non tradiranno loro. Io però ho segnato la mia vita. Ma mia figlia sarà diversa, perché dai miei errori avrà appreso la lezione.

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PERSONAGGI

ELI COHEN

Veduta del Golan

Dalla creazione di Israele fino ai giorni nostri, la Siria è stata uno, se non il più implacabile dei nemici di Israele. Dal 1948 al 1967, la Siria sparò proiettili di mortaio dalle alture del Golan, negli insediamenti ebraici dell’Alta Galilea, a sud. Per vent’anni, gli insediamenti ebraici nel nord dello stato, al confine con la Siria, furono costantemente minacciati.

Oggi, si possono vedere gli ex bunker siriani che rimangono sulle alture del Golan, dal 1967. Successivamente Israele ha avuto per più di 40 anni un “tranquillo” confine settentrionale sul Golan, ad eccezione di alcune ricadute occasionali della guerra civile siriana. A volte prima della guerra civile, i siriani usavano il confine settentrionale di Israele con il Libano, per molestare Israele, come una volta facevano dalle alture del Golan. Dal 1992, il Golan è stato oggetto di discussione nei colloqui di pace.

Quando il Golan fu preso nel 1967, quasi alla fine della guerra dei Sei giorni, i coloni del nord potevano finalmente sentirsi sollevati, perché quella terra è ricca di acqua e si può coltivare.  Gran parte del merito nella capacità di Israele di prendere possesso del Golan era dovuto a Eli Cohen, la più grande spia di Israele.

Il Golan non è importante solo per il suo significato militare. Infatti, come accennato, è ricco d’acqua e fornisce anche il 30% delle fonti d’acqua di Israele. I tre principali affluenti dell’alto fiume Giordano – il Dan, il Baniya e il Hatzbani – hanno tutti origine nel Golan. Le nevi invernali, che si sciolgono, producono un enorme effetto d’acqua che rende il Golan una zona splendidamente verdeggiante nel tardo inverno e in primavera e irriga le valli di Hula e del Giordano sottostanti. Le sue acque scorrono nel Mar di Galilea (il Kinneret) e a sud fino al Mar Morto.

Il Kinneret fornisce a Israele la maggior parte del suo fabbisogno idrico. Negli anni ’60, Israele ha sviluppato un vettore d’acqua nazionale che ha deviato l’acqua dal Kinneret, in un acquedotto, che ha irrigato gran parte del paese, e in particolare l’arido sud di Israele.

Israele ha cercato di ottenere la cooperazione dei suoi vicini arabi per il piano, ma gli arabi non sono stati d’accordo, anche quando gli Stati Uniti hanno cercato di usare la loro leva diplomatica per promuovere il piano. Gli arabi infatti, a loro dire, non ne avrebbero avuto ricavi e quindi hanno deciso di deviare le sorgenti del fiume Giordano che ha avuto origine nel territorio tenuto dagli arabi. In questo modo, gli arabi speravano di privare Israele delle acque di cui ha bisogno per la sua crescita nazionale…

La Siria fece entrare nel suo stato ingegneri idraulici e attrezzature di deviazione per attualizzare lo schema. Ciò coincise con la presenza costante degli infiltrati terroristi palestinesi che arrivavano dal confine siriano, insieme a un continuo flusso di assistenza tecnica sovietica. I pianificatori della difesa israeliani avevano urgente bisogno di informazioni affidabili sulla portata del progetto di deviazione dell’acqua – piani ingegneristici, diagrammi, mappe e altri dati – e valutazioni aggiornate dell’influenza sovietica nella capitale siriana, nonché informazioni dettagliate sui piani per la modernizzazione, l’equipaggiamento e la riqualificazione delle forze siriane. Eli Cohen era l’uomo per quel lavoro!

Eli Cohen era nato ad Alessandria d’Egitto , il 26 dicembre 1924. I suoi genitori, ebrei siriani della fiorente città di Aleppo, avevano sempre instillato nel loro figlio le tradizioni del popolo ebraico, del sionismo e della cultura della comunità ebraica siriana, in particolare.

Nel 1949, i suoi genitori e tre fratelli si trasferirono in Israele, mentre Eli rimase in Egitto per coordinare lì le attività ebraiche e sioniste. Si possono ricordare le spie egiziane-ebraiche dell’operazione Susannah che furono sorprese a spiare, per Israele, nel 1953 e alcune di loro furono impiccate. Un certo numero di spie fu rilasciato solo quattordici anni dopo, in seguito alla guerra del 1967. Eli Cohen non era direttamente coinvolto con le spie dell’Operazione Susannah, ma fu coinvolto nell’attività pro-Israele e fu interrogato dai servizi di intelligence egiziani.

Dopo che l’operazione fu scoperta e portò alla scomparsa delle spie dell’Operazione Susannah, Eli Cohen lasciò l’Egitto per Israele, per sottoporsi a un addestramento intensivo di spionaggio, nell’estate del 1955. Si addestrò persino nella stessa struttura che era servita da casa dei suoi connazionali condannati nel 1953. Tornò in Egitto nel 1956, ma fu immediatamente sospettato e fu posto sotto sorveglianza. All’inizio della guerra del 1956, quando Israele occupò il Sinai, Eli Cohen fu arrestato dalle autorità egiziane e fu espulso dall’Egitto insieme al resto degli ebrei alessandrini alla fine della guerra. Arrivò in Israele l’8 febbraio 1957.

Eli Cohen, a ventinove anni, offerse i suoi servizi all’Intelligence israeliana, ma fu respinto per ben due volte. Non fu nemmeno arruolato nel servizio regolare, ma fu messo in una formazione di riserva dell’aeronautica israeliana, come impiegato di logistica. Forse non gli era stato permesso di entrare nel servizio di sicurezza a causa della sua valutazione dell’intelligence militare alcuni anni prima. L’agenzia aveva concluso che Cohen avesse un alto Quoziente Intellettivo, un grande coraggio, una memoria fenomenale e la capacità di mantenere un segreto; ma i test avevano anche dimostrato che nonostante il suo aspetto umile, quasi dimesso, in realtà aveva un esagerato senso di autostima e molto coraggio. Cohen, indicavano i risultati dell’Intelligence israeliana, non sempre valutava correttamente il pericolo ed era molto audace nella volontà di assumere rischi al di là di quelli necessari.

Il 31 agosto 1959, sposò una bellissima ebrea di origine irachena, Nadia Majald. Lavorò come contabile in un grande magazzino. Il lavoro non era sempre stabile, e presto dovette fare più affidamento su Nadia per sostenere il loro matrimonio.

Nel 1960, tuttavia, l’intelligence israeliana iniziò a fidarsi di Eli Cohen. Eli, dopo tutto, era nato in un paese arabo, aveva caratteristiche orientali, era noto per essere coraggioso nella difesa della causa israeliana e aveva conoscenza dell’arabo, dell’inglese e del francese. 

Il rapporto con la Siria si stava riscaldando…

Nel 1960 l’intelligence israeliana lo avvicinò per lavorare di nuovo per loro. All’inizio, Eli rifiutò. Però, nel giro di un mese aveva perso il suo lavoro di contabile a Tel Aviv. Quando l’Intelligence andò per una seconda volta, a parlargli, Eli decise di accettare il lavoro. La sua formazione era già stata ampia ed esaustiva. Appena entrò a far parte dell’Intelligence, gli vennero insegnate nuove tecniche: la guida ad alta velocità, la competenza dell’uso delle armi, la conoscenza della topografia, la lettura di mappe, il sabotaggio e, soprattutto, l’uso del telegrafo e delle trasmissioni radio con crittografia. Queste abilità furono fondamentali per garantire la sicurezza e la sopravvivenza di “Kamal Amin Ta’abet”: questa fu la sua nuova identità. Uno dei compiti più difficili per Eli Cohen fu quello di imparare l’intricata e inconfondibile fonetica dell’arabo siriano; prima della sua formazione, il suo accento egiziano era molto forte e avrebbe potuto tradirlo. Il suo istruttore era un ebreo di origine irachena che aveva una vasta esperienza nella formazione di agenti nel parlare arabo e le tradizioni e i costumi musulmani.

L’intelligence aveva creato, per lui, un’identità completamente nuova: Kamal Amin Ta’abet era nato a Beirut, in Libano, da genitori musulmani siriani. Il nome di suo padre era Amin Ta’abet e Sa’adia Ibrahim quello di sua madre. Secondo la sua biografia immaginaria, nel 1948 la famiglia si trasferì in Argentina, dove aprì un’attività tessile di successo. Il ritorno di Kamal Amin Ta’abet in Siria sarebbe stata -apparentemente- la realizzazione di un sogno patriottico per tutta la vita.

All’inizio del 1961, Chaim Herzog, capo dell’intelligence militare e poi presidente di Israele, firmò il documento che autorizzava l’uso di Cohen come spia. Eli venne portato all’aeroporto, dove sua moglie Nadia fu presente. Ella capì che avrebbe lavorato per il Ministero della Difesa, ma non sapeva dove o in quale veste. Le era stato detto che sarebbe stato completamente al sicuro, e lei lo credette fino alla sua cattura, nel 1965.

Eli Cohen venne inviato per la prima volta a Buenos Aires, in Argentina, per la sua copertura come emigrato siriano. Si stabilì presto nella vita sociale e culturale della comunità siriana di Buenos Aires ed era conosciuto come un ricco uomo d’affari che era generoso, dava una bella mancia e amava la vita notturna. Presto venne accettato, benvoluto e rispettato e prese contatti con politici, diplomatici e funzionari militari, che lavoravano nell’ambasciata siriana. Uno di loro era il colonnello Amin al-Hafaz, un sostenitore del partito Ba’ath in Siria.

I contatti di Cohen, nutriti attraverso una serie di cene sontuose, occasioni sociali e amicizie con coloro che si trovavano in alto, portarono a inviti per visitare Damasco e creare un’impresa commerciale lì. Gli fu promesso sostegno, in qualsiasi impresa che potesse desiderare intraprendere, e le generose somme di denaro che sembrava possedere diedero fiducia a Eli.

Nove mesi dopo, alla fine del 1961, Eli tornò in Israele per una visita a sua moglie Nadia. Trascorse la maggior parte del suo tempo a Tel Aviv perfezionando la sua copertura. 

Cohen arrivò a Damasco nel febbraio 1962, fingendosi uomo d’affari argentino, tornato nella sua terra natale. Alla fine del 1961, il partito Ba’ath stava salendo al potere ed Eli Cohen voleva essere lì quando questo partito avrebbe preso il potere. Coltivò attentamente i contatti con la leadership, che includeva l’addetto militare siriano in Argentina, ossia il generale Amin al-Hafaz. Così Eli continuò la sua vita sociale, trascorrendo molto tempo nei caffè, ascoltando pettegolezzi politici. Tenne feste a casa sua. Lì i funzionari parlavano liberamente del loro lavoro e dei loro piani dell’esercito. Eli ascoltava tutto attentamente.

Con il tempo ebbe ancora più fiducia da parte dei più alti livelli di potere siriani. Divenne un confidente di George Saif, in alto nel Ministero dell’Informazione. 

Nel frattempo, Eli ogni giorno trasmetteva informazioni importanti ai suoi capi israeliani tramite un trasmettitore radio che aveva nascosto nella sua stanza.

Periodicamente Eli tornava in Israele per parlare con loro e visitare sua moglie e le sue figlie piccole. Complessivamente, tornò in Israele tre volte, tra il 1962 e il 1965.

Il progetto siriano di deviare l’acqua dalle sorgenti della Giordania, lontano da Israele, è stato menzionato già nell’introduzione di cui sopra. Eli era amico di due ufficiali dell’esercito di alto posizione, i colonnelli Hatoum e Dali, che erano pienamente informati sullo schema. All’inizio del 1964, Eli fu in grado di comunicare con Tel Aviv, dicendo che il canale veniva scavato lungo l’intera lunghezza delle alture siriane per ricevere il flusso deviato del fiume Baniyas – una delle principali fonti della Giordania – e svuotato nel territorio giordano. Eli aveva accuratamente precisato tutti i dettagli del progetto e li aveva trasmessi all’intelligence israeliana. Grazie a queste informazioni, l’aeronautica israeliana fu in grado di distruggere i piani siriani per lo schema di deviazione, bombardando la zona, all’inizio del 1964.

Le amicizie militari di Eli gli permisero di essere portato sulle alture del Golan. Le difese delle Alture del Golan erano top-secret e chiuse solo al personale militare di alto livello. Tuttavia, Kamal Amin Ta’abet (Eli Cohen) riuscì a visitare ogni posizione. Con alti ufficiali di stato maggiore che fungevano da guide, a Eli Cohen fu fornito una conoscenza approfondita di proporzioni monumentali. Eli fotografò la zona sulle alture del Golan, guardando verso Israele, insieme agli ufficiali siriani di più alto rango. 

Mentre l’ufficiale dell’esercito siriano spiegava a Eli le fortificazioni che l’esercito siriano aveva costruito, Eli suggerì che i siriani piantassero alberi lì, per ingannare gli israeliani nel pensare che non fosse fortificato, nonché per fornire ombra e bellezza ai soldati di stanza lì. L’ufficiale siriano accettò prontamente – ed Eli passò immediatamente le informazioni a Israele. Sulla base degli alberi di eucalipto, Israele sapeva esattamente dove si trovavano le fortificazioni siriane.

L’amicizia di Eli con Amin al-Hafez si rivelò molto preziosa. Dopo che Hafez divenne primo ministro, Eli fu persino considerato per la carica di viceministro della Difesa siriano.

Ma nel governo siriano stavano avvenendo cambiamenti che allarmarono Eli. Inoltre, il comandante dell’intelligence siriana, il colonnello Ahmed Su’edani, non si fidava di nessuno e a lui non piaceva Eli. Eli espresse la sua paura e desiderava terminare il suo incarico in Siria. Tuttavia, l’intelligence israeliana gli chiese di tornare in Siria ancora una volta. Le informazioni che aveva fornito loro da anni erano troppo importanti per rinunciarvi.

Eli tornò in Siria, ma il suo comportamento cambiò. Forse era davvero stanco di tutta quella farsa.

Gli esperti di sicurezza russi dotati di attrezzature di raccolta di informazioni tecniche molto sensibili, individuarono la fonte delle trasmissioni radio di Eli nella capitale siriana, ossia la casa stessa di Eli. Il 24 gennaio 1965, l’intelligence siriana fece irruzione nella sua casa nel bel mezzo di una trasmissione radio. 

Eli venne catturato nell’atto e non c’era niente che potesse fare. Venne torturato, ma non diede nessuna informazione incriminante su Israele. I suoi rapitori si stupirono del suo nobile portamento e del suo coraggio, nonostante gli orribili metodi di interrogatorio siriani.

Subì un processo davanti a tutti i siriani, in piazza, come fosse uno spettacolo.

I leader mondiali, il governo israeliano, il papa Paolo VI e altri intervennero in suo favore, ma inutilmente! Fu impiccato il 18 maggio 1965. Scrisse un’ultima lettera a sua moglie prima di montare sull’impalcatura per essere impiccato davanti alla folla. L’esecuzione fu trasmessa alla televisione siriana. Dopo la sua esecuzione, una pergamena bianca piena di scrittura anti-sionista fu messa sul suo corpo, e fu lasciato appeso per sei ore.

Eli Cohen fornì un’incredibile quantità di dati di intelligence all’esercito israeliano per un periodo di tre anni. Nel 1967, gli israeliani furono in grado di conquistare le alture del Golan in due giorni, in parte grazie all’intelligence che Eli aveva dato. 

Nel 2019, Netflix ha creato la serie The Spy con Sacha Baron Cohen per raccontare la sua storia.

Il governo israeliano e la vedova di Cohen hanno cercato per molti anni di riavere il corpo di Eli. I siriani si sono costantemente rifiutati di rimandarlo in patria.

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LA DESTINAZIONE

“Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia,

e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”

Matteo, 6,33

Per chi vuole vivere la vita cristianamente, non è sufficiente guardare al retto modo di agire sulla Terra, ma bisogna vedere qual è il vero senso della vita umana, ossia la direzione da prendere e quindi la sua destinazione.

La prospettiva dalla quale parto è quella che Gesù ci ha dato, con la sua venuta sulla Terra e soprattutto cosa ha voluto dirci con la sua vita.

Gesù vuole mostrarci qual è il cammino che conduce al Padre e il cammino è Gesù stesso. Infatti dice nel Vangelo di Giovanni 14, 6 :”Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me“. 

Che cosa significa questo?

Io Sono la Via: Gesù è il cammino corretto per andare al Padre, per conoscere il Padre; io Sono la Verità, ossia che non esiste un altro modo corrispondente alla realtà per accedere al Padre, se non per mezzo di Gesù; Io Sono la Vita, ossia Gesù con il Padre nello Spirito Santo ha creato tutto e tutti e noi viviamo in Lui.

Ogni nostra azione sulla Terra, quindi, se davvero ci diciamo e siamo cristiani, sarà quella di capire cosa Gesù voglia da noi e dove andiamo.

Innanzitutto la vita terrena è solo una fase della Vita: infatti in Dio noi siamo stati, siamo e saremo sempre presenti e la vita terrena non è altro che una parentesi fino alla pienezza. Non esiste una reincarnazione, ossia morire ed entrare in un altro corpo, ma noi siamo stati, siamo e saremo sempre noi, con le nostre caratteristiche eterne. Il problema del corpo da sempre ha preoccupato l’umanità, perchè il corpo è quella parte della nostra persona che muore, ossia, una volta esalato l’ultimo respiro, perde le funzioni vitali e si disfà. Ma noi cristiani, in virtù della fede in Dio Padre Creatore e nella morte e risurrezione di Gesù Cristo, sappiamo che, dalla potenza di Dio, saremo risuscitati alla fine dei tempi.

Ogni persona nasce per amore: l’amore eterno che Dio manifesta in lei, l’amore di un uomo e una donna, l’amore di famiglie che si incontrano e che vogliono stare unite, sono il motore della vita. La vita quindi va difesa a spada tratta. Perciò noi cristiani non accettiamo l’aborto, l’eutanasia e custodiamo gelosamente la Vita in ogni suo momento.

Dio ha creato tutto e tutti per amore, perché vuole effondere su ognuno il suo Spirito e questo amore non può essere limitato. Il suo amore è eterno. Nessuna persona o nessun evento potrà mai annullare l’Amore. “Dio è Amore”, dice San Giovanni nella 1 lettera 14, 1, “chi sta nell’amore, dimora in Dio e Dio dimora in lui”.

Nell’esistenza umana di ogni persona, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, si nota come siamo resi responsabili di ciò che abbiamo ricevuto e di ciò che liberamente facciamo. Non esiste destino programmato ma esiste una Provvidenza, un piano di amore che possiamo rallentare o far deragliare e a volte anche distruggere.

Dio ha sempre progetti buoni su di noi ma ci lascia liberi.

E il male? il mistero del male sempre ha toccato la nostra mente e il nostro cuore. Il male è assenza di bene. Noi abbiamo il potere di amare e di non amare, il potere di migliorare e il potere di regredire; il male è la conseguenza del peccato degli uomini e spesso e volentieri siamo in errore riguardo a Dio, perchè Dio è assolutamente esente dal Male. La conclusione è che il male è frutto della nostra cattiveria -intesa come in latino, come “prigionia”- e della imperfezione del mondo che procede sempre, tra alti e bassi, fino all’incontro finale con Dio.

Può capitare che lo capiamo subito o tardi, però è bene pensare che la destinazione della nostra vita non è qui, ma nel Regno di Dio.

Se quindi la destinazione è il Regno di Dio, bisogna vedere come ci stiamo preparando a tale evento. Siccome non sappiamo il momento dell’Avvento del Regno di Dio, bisogna stare sempre allerta.

Non facciamoci trovare impreparati, ma ogni nostra azione e pensiero e sentimento siano per questo evento, in cui sarà chiarito il fine della nostra vita.

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UN’ESTATE A NUORO

Racconto breve

Nuoro è una città dormiente, come i suoi abitanti, specialmente l’estate, quando …
la maggior parte della gente va al mare, sul litorale orientale. 

Chi resta, al solleone, serra i battenti e si chiude in casa.
Le vie del Corso, fino alla Solitudine, vedono correre, qua e là, solo gatti e cani randagi.

Nei pomeriggi, solo qualche anima percorre le strade deserte…

Ecco levarsi allora un vento caldo, lo Scirocco.

D’inverno è il vento freddo a levarsi: il Maestrale.

La Sardegna non è tutta uguale.

Io che l’ho visitata tutta, vivendoci per vent’anni, so bene che la Sardegna,
quella vera è, per me, solo la Barbagia.

Avrò avuto quindici o sedici anni, in questo racconto…

Le tre del pomeriggio e tanto desiderio di andare, sola, per le vie della cittadina.

Da casa mia fino alla Solitudine, a piedi, erano venti minuti di
buona camminata. Faceva sì caldo, ma non era afoso.. Io-ricordo- studiavo al ginnasio. Sarà stato luglio…non ricordo bene, ma tanto tutte le estati sono uguali a Nuoro.

Ricordo bene ogni cosa: il viale alberato, la Via Lamarmora, la Chiesa delle Grazie, il Corso Giuseppe Garibaldi, la stradina in salita fino alla Cattedrale, al bivio.
Poi iniziava lo stradone verso la Solitudine, verso la sinistra del bivio.

A destra il dirupo con un suo avvallamento brullo e si vedeva in lontananza
la strada provinciale che porta ad Oliena.

A metà della grande balaustra che dà sullo strapiombo, c’è una Madonnina con le mani giunte, ma le mani non ci sono. Qualche malnato, ogni volta che dal Comune mandano un artigiano a rifarle in gesso bianco, immancabilmente gliele àmputa.

Strano prendersela con la statua -penso-. Quel codardo non è di qua. Mi affaccio alla balaustra e vi è solo il dirupo. Se dovessi cadere, nessuno vedrebbe.

Continuo quindi fino alla Chiesetta della Solitudine. E’ chiusa. Mi spiace. Vado spesso lì a pregare e a visitare la tomba di Grazia Deledda. Poi ci sono sulle scalette dei fiori piantati, anche se sono selvatici e ne colgo uno. Appassisce subito. Penso alla vita. Anche la vita dura quanto un fiore. Lo dice la Bibbia.

Sono già le quattro e mezza. A casa i nonni dormiranno ancora e io non ho da chi andare. 

Sono venuta qui, come faccio spesso. D’inverno mi è più difficile, perché fa notte presto e non è bene che una ragazza vada sola la sera. Ma io non temo. Primo perché so che uno zio sempre mi controlla e due perché sono una ragazza forte. 

(seconda parte)

Si sentono le cicale cantare anche se non è notte.

Se guardo verso la mia sinistra c’è la strada che porta a Val Verde e se guardo davanti a me, la strada che porta al Redentore, al Monte Ortobene.

Non mi avventuro. Però mi piacerebbe andare a Val Verde.

Se però scendo verso la strada, potrei incontrare qualche mal intenzionato. La prudenza mi dice di non andare e allora resto seduta sul grande blocco di granito grigio striato e poi mi alzo e vado verso la strada che porta al Cimitero.

Non volevo andarci, nemmeno entrarci e così proseguo.

Mi ritrovo in una collina dalla quale si vede il panorama. Vorrei avere le ali per librarmi come un’aquila e spiccare il volo. Chiudo gli occhi, tanto non c’è nessuno in strada e apro le braccia come fosse un aliante. Mi immagino di salire in cielo, toccare le nubi, vedere dall’alto gli orti, le montagne brulle, le case basse dei quartieri antichi. Una ziedda, vestita di nero, come è tipico qui da noi in Sardegna, passa sgranando un rosario.

Sono le cinque e un quarto. Nonna starà in pensiero. Penserà che sia andata dall’amica Marianna, nell’edicola vicino casa, ma a quest’ora del pomeriggio, non apre.

Vado giù per la discesa che porta al Comune e vicino c’è il mio Liceo. Regio Ginnasio-Liceo G.Asproni. Bello, imponente, chiuso dentro le grate. Siamo tutti un po’ liberi e un po’ prigionieri, penso.

Una via in discesa mi riporta verso la Chiesa delle Grazie.

Preferisco prendere invece un’altra strada, quella che faccio ogni giorno da casa a scuola e da scuola a casa.

Percorro i miei passi, sento il pavimento caldo e il vento caldo. Sono quasi arrivata giù da un’altra discesa che mi porta a Via Lamarmora.

Lì c’è già qualche bar aperto ma non ho con me monete per un gelato.

Bevo dalla fontanella e mi lavo la faccia.

Mi sento una beduina nel deserto. Arsura. Calore. Io e il caldo non siamo amici.

Poi penso che a casa mi aspetta un po’ d’ombra. Ma in realtà non voglio tornare a casa. Dormono. Li sveglierei. 

La solitudine ce l’ho nell’anima, io.

Mi devo abituare, dico a me stessa: a non dipendere da nessuno, da nulla. A sedici anni sogno solo la poesia e la letteratura. Vorrei tanto diventare come Grazia. Sì, Graziedda.

Sarà vero? Forse sì, forse no. Però mi fa compagnia dentro di me, e mi sento bene se dico a Graziedda che anche oggi sono andata alla Solitudine a trovarla.

Un giorno si potrà forse anche volare. Un giorno si potrà rivedere le persone defunte. Penso a mio padre, ai miei antenati, alle storie raccontate da nonna e anche a quelle che studio a scuola. Penso a Ulisse, a Penelope, a Itaca. Per me Itaca è la Sardegna. La casa, il focolare.

Un giorno si rivedrà ciò che si è visto da bambini, si rivedrà la terra e il cielo che ti hanno visto crescere.

Ritorno verso il Viale dove da bambina andavo in bicicletta accompagnata da mio nonno.

Arrivo all’edicola e lì c’è la mia amica Marianna che mi dice:

“Hai l’aria di una venuta da un lungo cammino!”

Non le rispondo e mi fa entrare dentro. Mi siedo e mi fa un ritratto. Io sono la sua modella.

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LA MIA LIBERTA’

dedicata a Franco Califano

La mia libertà non fa conto del successo, 

perché la mia libertà è come un fuoco dentro, 

un fuoco che trova sempre la sua sorgente in alto.

La mia libertà si alimenta di scintille di vita: 

Vita immortale.

La mia libertà è fatta di schiettezza, 

di sincerità e a volte di rudezza.

Perché la libertà non si compra al mercato 

con denaro, 

né con il voto dei potenti 

e non ha nemmeno concorrenti.

Lungo la strada della vita, 

un cammino fatto di tappe…

asfalto o terra battuta, 

pietre del selciato e dirupi; 

la vita che cammina sulle rotaie del deserto 

o in mezzo ai quartieri della Capitale.

Chi non è solo sulla Terra, che non dica?

-“Eccomi: alito di vita, prendimi e sollevami!”-

La mia libertà è quella di esprimere 

ciò che penso, fortemente, 

senza badare alle etichette, 

nelle montagne russe

del cuore. 

La mia intelligenza, 

la mia orgogliosa pretesa 

il mio potere di camminare, 

imperterrita e forte, 

fragile a volte e gentile, 

Soldatessa di un regno ultraterreno.

La cavalcatura è sempre pronta 

e così la spada.

Non ci sarebbero freni alle briglie, 

non ci sarebbero cappi al collo, 

non ci sarebbero pamphlet di censura, 

se non ci fosse la Libertà.

La Libertà fa invidia 

a chi non ha il coraggio 

di vivere e di morire. 

La Libertà è come un viaggio 

di cui si ha sempre nostalgia.

La Libertà, quella vera, 

vive sempre dietro le sbarre 

di un carcere, 

dentro le case, 

nelle parole non dette o taciute, 

nelle azioni non fatte e poi deluse.

La Libertà è come un tesoro nascosto 

per il quale, chi lo trova rinuncia 

ad ogni cosa

pur di possederlo.

La Libertà è un vento forte

che ti attraversa 

e ti innalza

SEMPRE 

al di sopra 

e aldilà.

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ELSA

https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2022/04/Angela-Bubba-Elsa-00c562a2-8d92-4c9b-95ce-19aacbcb1618.html

ELSA MORANTE.  UNA GRANDE AUTRICE ROMANA

Se non avete mai letto nulla di Elsa, legge questo romanzo di Angela Bubba. 

ELSA, appunto!

Quando ero ragazza, avevo un professore così bravo che ogni volta che spiegava ci lasciava immaginare di essere al fianco degli scrittori o scrittrici studiati. Io sempre amai e amo immergermi nelle vite delle persone, con discrezione, come una spettatrice che sa osservare bene, ricordare fortemente e apprendere. E così sono rimasta. 

La Letteratura è un mondo alternativo oppure è la spiegazione del mondo degli scrittori. 

Mi sembra che tra tutti gli autori del Novecento, Elsa Morante tenga in sé unite le trame di tante storie e per me è una scrittrice amata, nella quale spesso mi specchio.

In questo romanzo di Angela Bubba, scrittrice calabrese, giovane, ma consapevole del potere della narrazione, si potrà conoscere molto bene Elsa.

La chiamerò così, per nome. 

Per me Elsa è come un’amica sempre viva, anche se non più tra noi. Elsa è come una spada che trafigge nel cuore e là rimane. Non si può dimenticare ciò che dice nei suoi libri e anche nelle trasposizioni cinematografiche, come per il romanzo La Storia, tutto resta.

Ogni libro è un tesoro, una scoperta. Per chi ama conoscere strade sconosciute, questo libro sarà come un tesoro.

Elsa Morante va scrutata profondamente, come sempre dico ai miei alunni. 

Infatti, in lei si cela la vita di una giovane donna italiana del Novecento, segnata dalla presenza delle tipiche contraddizioni italiane. Figlia di una maestra ebrea e di un padre assente, dal quale ricevette solo il DNA e cresciuta in seno ad una famiglia il cui padre non era il suo, ma solo il marito di sua madre, con dei fratellastri, nel quartiere del Testaccio, durante gli anni ’30-40; Elsa si emancipò presto dalla famiglia e andò a vivere da sola. Presto conobbe Alberto Moravia, figlio di madre cattolica e di padre ebreo, borghese ricco e già giornalista e scrittore. Erano gli anni del Fascismo.

Il critico letterario Cesare Garboli -che conobbi personalmente e che intervistai negli anni ’90 per la mia tesi di laurea, su un autore suo amico e di cui era curatore- diceva che «Elsa Morante è una di quelle persone che si possono esplorare da cima a fondo, senza mai lasciarsi conoscere. Queste persone si direbbe che ignorino la morte, ma siccome ignorano la morte, ignorano anche il riposo, quella pace della vita che chiamiamo maturità. Sono tutte vive, tutte infantili. E della loro infanzia si portano addosso la croce di far parte non di un oggi ma di un sempre». 

Angela Bubba tenta di restituirci un’immagine più netta di una donna che spesso si nascose al grande pubblico. Il romanzo “Elsa” ripercorre più di mezzo secolo di storia, dal 1922 fino al 1985, anno della morte della scrittrice. A partire dall’infanzia, in cui Elsa, bambina, viene descritta come schiva e solitaria, ma già dotata di acume e intelligenza straordinari. Nel romanzo, in cui Angela Bubba descrive la vita e gli scritti della Morante, raffigura i momenti salienti della vita della scrittrice come la vittoria del premio Strega nel 1957, con L’isola di Arturo, o il primo incontro con il grande amico Pasolini.

Il romanzo di Angela Bubba funge come omaggio a una delle più grandi scrittrici italiane di sempre, ma non solo. In alcune costruzioni narrative emerge il desiderio dell’autrice di far comprendere al lettore qualcosa di più profondo e misterioso, a tratti inquietante, della personalità di Morante. 

Ciò che resta al termine della lettura è la conoscenza di una vita che fu già di per sé un romanzo e il desiderio di studiare, cogliere altre sfumature, nascoste nei romanzi di una scrittrice senza tempo.

Quando si legge un autore/autrice, è come leggere dentro la loro anima.

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NASCERE CON LA CAMICIA

“Quando avrai oltrepassato la soglia di questa vita mortale,

sarai nel cosmo infinito e ritroverai la tua origine.”

PRIMA PARTE

“Dicevi sempre che ero nata in modo diverso. E forse avevi ragione, grande nonna Maria!”

I monti della Barbagia sono meglio di cento città visitate. 

I monti della Barbagia sanno di quella essenzialità che non si conosce altrove, se non nel deserto.

Perché la Sardegna non è la terra dei continentali, che vengono a sporcarla, ma dei nativi o degli eredi.

E io non sono nata lì, ma sono una erede.

Ci sono situazioni che non abbiamo scelto. Qualcuno ha scelto per noi.

Mia madre ha scelto per me. Mi sta bene.

Prima non accettavo mia madre. Ora mi identifico in lei. Perché ogni figlia è la derivazione della madre. La mia era una gran donna. Io mi sentivo una protuberanza di mia madre, finché sono cresciuta e sono diventata me stessa.

Però non ho mai dimenticato lei.

Diciamo che le dedico questo libro.

Ogni ragazza vede nella madre ciò che vorrebbe essere o…non essere, ma non c’è nulla da fare: il DNA parla.

Mio padre sta nel sottofondo. Avendolo visto solo in foto, cerco rassomiglianze…almeno fisiche e ci sono solo gli occhi. I suoi sono i miei e i miei i suoi, e quell’aria da intellettuale bohémien, a volte triste a volte giocoso, come sono io.

Ma io sono 75% di mamma e 25% di papà.

Lo sento.

Quando sarò passata al di là di questa vita terrena, voglio proprio verificare di persona com’era lui in verità e com’era lei.

Il tempo scorre e lascia dietro di sé delle scaglie di dolore e gioia, incertezze, rimpianti e desideri.

Il momento presente non sa minimamente quanto belle fossero le aspettative dell’infanzia e della prima giovinezza.

Poi nemmeno sa quali sono quelle del futuro, se mai ci saranno.

Resta forse una certa acredine per ciò che non si è stati e non si è fatto.

Il presente è l’unico possesso fuggente.

Un attimo solo e ciò che sei e sarai, potrebbe sfuggirti di mano.

Ecco perché scrivere: anche se nessuno leggesse nulla, avrai lasciato un segno della tua presenza.

Nel silenzio in cui la vita ti lascia, puoi ritrovarti o affondare.

Meglio la prima opzione.

-“Sei nata con la camicia”.- Quante volte mia nonna mi avrà ripetuto questa frase, quasi contenta o anche irritata, però profetessa in ogni caso.

Sì, perché io sempre mi sono reputata differente da tutti. Anche da quelli di casa.

La camicia bianca, quella con il colletto inamidato, con i polsini, al femminile, quella che indossavo e che sapeva di pulito, di casa.

La camicia è simbolo di pulizia. Te la chiudi bene o la lasci un poco aperta, ha sempre il suo stile.

Io avevo il mio stile. Le mie velleità di artista, di scrittrice, di studiosa, di “secchiona”, come la gente mediocre dice, a volte, queste caratteristiche mi hanno tracciato il cammino.

Sarà che mi è rimasto solo lo studio e la conoscenza….

Forse i due talenti del vangelo, per me, sono questi.

Fra poco è Natale. Gli anni passano. Umanamente parlando, senti che non sei più bambina, ragazza, giovane. Sei una donna. Sei adulta.

Ripenso ai natali di famiglia: l’albero, il presepe, i doni da aprire nella notte, il calore della casa di famiglia, fuori il freddo e i problemi.

Tutti dovrebbero avere questo. Tutti hanno diritto al proprio angolo di paradiso. 

Io sono cresciuta in una famiglia credente.

Ogni festa era con la compagnia della Sacra Famiglia.

Sopra il letto di ogni membro della casa, vi era sempre un’immagine sacra.

Non si faceva nulla senza invocare Dio o la Madonna.

L ‘ umiltà non era una facciata. 

Certo c’era anche la fierezza.

L ‘ umiltà e la fierezza sono due caratteristiche che sembrano antitetiche, ma che fanno parte della mia eredità familiare.

Umiltà perché nulla di quanto accadeva si sarebbe fatto senza la volontà salvifica di Dio e… fierezza, per l’orgoglio derivante dalle origini. Diciamo che cielo e terra si incrociavano per non lasciarsi più.

La fragilità della condizione umana per me, da piccola, non era percepita. Esisteva il Mito. Esiste ancora il Mito. Il Mito come patrimonio e possesso di un popolo, che lascia ai suoi figli ricordi di gesta prodigiose.

In tutto ciò mia nonna Maria giocò un ruolo fondamentale: quello di Narratrice prodigiosa di storie.

Io vivevo delle storie raccontatemi da lei.

D’inverno, davanti alla finestra della nostra cucina: io sulle sue ginocchia, ascoltavo canti e gesta del popolo Sardo.

Le fate, nelle loro Domus de Jana, le vecchie che sapevano leggere il futuro, i Pastori che andavano lontano a pascolare il gregge, le donne chiuse in casa, con i figli piccoli e il focolare sempre acceso…

Io vivevo in quelle storie, in quei sogni ad occhi aperti.

Io ero in quelle fate, in quei pastori, in quelle donne, in quei bambini.

Io ero in quelle terre brulle, nel silenzio…nel vento freddo, quello che ti taglia le guance e che però non vorresti mai scambiare con altro.  

Un poco più grande, a circa quindici, sedici anni, andare per le vie in cui il vento ti entrava in petto e ti squarciava il malessere, era la mia miglior diversione.

Nel quartiere dove era nata e aveva vissuto Grazia Deledda, era per me come essere di casa.

Spesso, da sola, me ne andavo là. Stavo davanti all’ingresso, osservavo attentamente ogni pietra di granito che costituiva il muro, il fico oltre il muro, le finestre al secondo piano…tutto, per immaginarmi la scrittrice che più amavo in quel momento e nella quale mi identificavo.

Ero anche io una piccola scrittrice e vivere nella città di lei mi era di aiuto e conforto.

Sempre la carta e la penna sono state le mie compagne nella solitudine.

E la Solitudine per i Sardi è anche un santuario, un luogo di Dio, proprio dove Grazia Deledda ha voluto essere sepolta. Guarda verso il Monte Ortobene.

In un mondo in cui la donna era ed è Madre e Moglie, ma non altro, non libera, non amante, non padrona di sé, il mio sogno era quello di essere differente.

Sapevo che sarei stata differente, nel senso che non mi sarei mai adeguata agli stereotipi.

Io potevo studiare. Molte ragazze alla mia età, quindici, sedici anni, erano già fidanzate, erano già programmate… a scuola, al liceo erano poche.

Io ero la terza di tre ragazze, in una classe di 22, gli altri erano maschi.

Eppure non ero nemmeno come le altre due, che si spalleggiavano e che venivano da un paese di pastori. La “cittadina” e la “continentale” ero io.

Sapere di essere al liceo, in un mondo di maschi e soprattutto di ragazzi intelligenti, mi ha sempre spinto a emergere.

I ragazzi non competevano con me. Io ero indipendente, una outsider, come nelle corse dei cavalli.

Ricordo solo che era dura per tutti, al ginnasio e poi al liceo. Il latino, il greco, la filosofia…eppure ero fiera di sgobbare. Stavo dimostrando a me stessa e al mondo arcaico nel quale vivevo, che una ragazza può essere come i ragazzi e forse anche migliore di loro.

Meglio di loro. Mio nonno per i miei diciotto anni, visto che vi sarebbero state le elezioni, mi disse che molti suoi amici di partito gli avevano chiesto di me, se fossi disposta a candidarmi.

Io, benchè lusingata, non accettai, ma in un pomeriggio in cui si riunivano nel salone del grande albergo di N., andai con mio nonno.

Ricordo ancora che ero vestita con una camicetta di raso verde-acqua, dei pantaloni in pelle nera e degli stivaletti a caviglia, molto belli, ai quali tenevo in modo speciale.

Mi chiamarono sul palco, rifecero la proposta, ma rifiutai. Però dissi alcune parole di incoraggiamento al pubblico presente.

Tutti gli occhi erano puntati verso di me.

Scendendo le scalette laterali, un forte applauso accompagnò il mio passo.

Mi volto indietro a guardare al mio passato, perché esso mi dà conforto. In tutto ciò che ho vissuto, sola o con la mia famiglia, c’è stato un segno di Dio.

Sotto il Suo sguardo, anche nelle vicende drammatiche.

Fondamentalmente mi sono forgiata al duro lavoro. Non avevo problemi economici. Mio nonno, che era militare, aveva maturato una pensione veramente buona e mia nonna anche. 

In casa ero la loro unica nipote e si può dire che ogni loro attenzione e speranza fossero indirizzate verso di me.

La camera che mi avevano preparato fin dal mio settimo anno d’età (perché prima dormivo in una culla-letto nella loro camera, dai quattordici mesi…) era molto grande. Un ingresso con anticamera, due letti singoli sulla destra, per quando fosse venuta mia madre o mia zia, un grande armadio fino a soffitto alla sinistra dell’ingresso, una scrivania-libreria, alla sinistra dell’armadio, una finestra su un giardino, una scrivania più piccola alla destra, e infine una grande libreria fino al soffitto, oltre i due letti.

Mio zio più piccolo, fratello di mia madre, aveva acquistato per me la Treccani completa, con l’obbligo, alla sera, prima di dormire, di leggere una o due pagine, in ordine.

Così, prima per obbligo, poi per curiosità, ogni sera, dopo le ventuno, visto che non potevo guardare la tv, leggevo la Treccani.

A dodici anni, mi regalò la collana di psicoanalisi, quella di letteratura italiana per ragazzi e poi…per l’esame di terza media, la collana Einaudi…quella che si completava ogni mese, con l’arrivo di un libro nuovo.

A quattordici anni avevo già letto intera la Bibbia e tutto Freud. Iniziando il Ginnasio, nonno acquistò per me i Classici Greci e Latini.

Leggevo l’Eneide a mia nonna, in originale e poi le facevo la parafrasi, così, mentre lei ascoltava, io mi esercitavo.

Mia nonna con le amiche diceva di avere una nipote che studiava in latino e in greco…e io sorridevo per lei, che non aveva terminato le elementari. Lei era una grande lettrice. In casa i maschi avevano fatto studi tecnici e i suoi cugini erano avvocati a S., mentre le ragazze non avevano potuto studiare, visti i vecchi criteri di un tempo.

Però lei si riscattava tramite me.

Non era lo stesso per la famiglia di mio nonno, che aveva titoli nobiliari e studi accademici (tutti erano militari).

Mia nonna diceva che io sarei stata differente. E fu così.

Insomma, ognuno dei parenti, nei miei confronti, ha dato il suo contributo alla mia formazione: la nonna mi ha trasmesso la fede e la capacità di narrare, mio nonno tutto l’affetto del mondo, l’orgoglio e poi, economicamente parlando, il denaro per comprare libri su libri, fare viaggi e comprare vestiti, oltre ciò che desideravo di più, per il mio svago; gli zii le enciclopedie e i libri in abbonamento ogni mese, mia zia i vestiti e le scarpe, mia madre tutto quanto si trattasse della salute fisica e morale.

Io non mancavo di nulla. Io ero la Regina della mia casa, loro erano il mio tutto.

Non mi mancava né carattere né motivazioni.

Io conosco cosa sia lottare per le proprie idee e sono anticonvenzionale. Nello stesso tempo molto stakanovista e briosa. Non mi annoiavo mai. Nemmeno ora. Perché trovo sempre qualcosa che mi incuriosisca e non mi faccia appiattire.

Ero nata con la camicia.


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LA MADRE

Credo molto alle rivelazioni, ai sogni e alle illuminazioni…ai ricordi.

La nostra vita è come un cammino in cui, gradualmente si scopre la nostra identità e il significato delle cose.

Stamattina, fine maggio, mese dedicato a Maria, svegliandomi ho ricordato mia madre. 

Non è ovviamente solo oggi che la ricordo, perché sta sempre nel mio cuore…però stamane è come se avessi capito quale relazione ci lega, non solo tra noi, ma anche con tutte le creature.

La Madre è un archetipo, un modello fisso, dal quale abbiamo origine e verso il quale ogni essere si dirige. 

La Madre è l’immagine con la quale sempre, in vita e in morte, dobbiamo fare i conti.

Dicono che la prima figlia sia immagine del padre, ma per me, per come io mi vedo, ho i tratti e il carattere di mia madre Rosetta.

Mi piace ricordarla. Bellissima, bionda, occhi azzurri, carattere forte, simpatica e intraprendente. Una diva degli anni Sessanta. 

Mia madre era un’impavida. O che stesse con gente di classe o con gente di popolo, non aveva mai paura di niente e di nessuno.

L’estate, quando ero libera dalla scuola, mi portava a visitare Roma, le sue bellezze.

Andavamo a Trastevere, a passeggiare. Poi di sera per Via del Corso, Piazza Venezia, Via Nazionale.

Io godevo quando lei brillava di luce propria. Metteva del trucco azzurro sulle palpebre, un rossetto lieve e delle belle camicette di seta chiara, con delle gonne al ginocchio, nere… 

I tacchi alti…una Regina.

Io gelosa del suo fascino, avrei voluto imitarla…ma preferivo osservarla, perché era il mio modello.

Quando lavorava comandava tutti e tutti obbedivano. Non era un capo noioso. Sapeva gestire con fermezza e determinazione. Organizzava sempre tutto.

Se invitava gente a cena, nelle serate d’estate, ci si metteva all’aperto. 

Cucinava come nessuna. Era la Signora della festa.

La sua religiosità la viveva nel nascondimento. Andava ai santuari di notte, al Divin Amore, alla Scala Santa, in ginocchio…e sapeva tacere sui problemi.

Non era vanitosa, perché era sobria. Vestiva di marca ma dava ai poveri. Era generosa.

Una volta venne invitata dal suo datore di lavoro ad Hammamet, in Tunisia, in una villa vicina a quella di C.. Il suo datore di lavoro era un regista molto importante e lei era la sua segretaria. C. chiese al regista se lui, andando a cena, avrebbe portato mia madre e mia madre accettò.

Dai suoi racconti, immagino che la sera fu bellissima. Il mare, la luce delle strade vicine, gli invitati…

Mia madre stava seduta e veniva servita come gli altri, ma non rimase troppo così. Si alzò, prese i vassoi e servì lei…perché diceva che “quelli” non sapevano fare. Era così. Intraprendente.

Poi misero della musica araba e si mise a ballare, intrattenendo gli ospiti fino a notte fonda.

C. disse al regista: “Fai venire sempre Rosetta!”

Un’altra estate, quando avevo diciassette anni, la moglie di Nino M., che aveva una boutique a Via Margutta, dove mia madre lavorava, ci invitò alla loro villa a Formia.

Io ero entusiasta. Insomma, andare a passare una settimana con la famiglia di un grande attore, non è proprio da tutti…

Così partimmo per Formia da Termini, con il treno…solo che quando stavamo quasi in dirittura d’arrivo, la signora si accorse che si era dimenticata la carta d’identità. Passò il controllore. Tutti avevamo i documenti, ma la signora disse che aveva dimenticato. Disse che era la moglie di Nino M., ma il controllore si mise a ridere e voleva multarla.

Mia madre assicurò che era la verità e stava per prendere una multa anche lei, quando arrivammo alla stazione di Formia; scendendo io vidi dal finestrino tanti fotografi. 

Erano lì per Nino M.

Scendemmo che ancora litigavano: il controllore con mia madre e la signora amica…

Fu così che Nino M. si avvicinò e circondato dai fotografi, iniziò ad accertarsi della cosa..

“Vede? Questo è Nino M.? e la signora è sua moglie!”, disse mia madre al controllore, il quale si scusò e non ci fece pagare la multa.

Poi Nino M. iniziò a ridere e a dire a mia madre…”Ahh lei è la famosa Rosetta? Perché non facciamo un film insieme?”

Mia madre rise e continuammo ad andare verso la vettura.

Io osservavo la scena. Poi mi resi conto che mia madre sarebbe stata una buona attrice.

E fu così che passai una settimana da sogno nella villa di Nino M.

La vera diva era mia madre.

Una Madre, La Madre. Il mio modello. Sempre ricorderò gli episodi più belli insieme, quelli che danno vita e che danno futuro. La Madre è la luce nel cammino.

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I GIARDINI DI BENGASI

QUANDO LA LIBIA ERA ITALIANA

Un po’ di storia …

A seguito della guerra italo-turca del 1911 voluta dal Governo italiano, presieduto da Giovanni Giolitti, la città, assieme alla regione cirenaica, fu annessa al Regno d’Italia assieme alle regioni della Tripolitania. Nel 1912 la Turchia, sconfitta, fu costretta a riconoscere la sovranità dell’Italia e a ritirare le sue truppe.

L’insediamento italiano, tuttavia, si scontrò con una forte resistenza locale culminata, nel 1923, nella rivolta dei seguaci del maggior esponente della confraternita della Senussiyya. Nella primavera del 1922 fu intrapresa una sistematica occupazione del territorio e in seguito fu avviata una campagna di colonizzazione che portò migliaia di italiani a insediarsi in Libia.

Solo nel 1931 le truppe coloniali ebbero la meglio sulla resistenza libica anche nei territori interni, dopo aver giustiziato il loro capo Omar al-Mukhtar. Dalla fine di agosto del 1942 fu comandante militare di Bengasi il generale di artiglieria Camillo Zarri; inoltre Bengasi era sede del Comando del 15º Stormo della Regia Aeronautica.

Nella cittadina libica, mio bisnonno materno, Filippo, fu inviato dal capo del governo italiano, per essere direttore della sede del governo italiano nella città libica. Vi andò con la moglie e i suoi tre figli, il maggiore dei quali era mio nonno, nato nel 1914. Erano i primi anni Venti. Il fascismo era al potere da poco. I coloni venivano inviati dalle varie regioni d’Italia e un folto gruppo andò dalle Puglie.

La storia certamente, nei particolari non la conosco, per mancanza di documenti attendibili e perché dalla cacciata degli italiani, non è permesso ottenere nulla; però le foto parlano di una città-oasi, sul mare, fiorente ed estiva.

La spiaggia sembra quella di Ostia-Roma, negli anni coevi, solo che sta dall’altra sponda del Mediterraneo. Si vede mia bisnonna affiancata da un giovane magro e serio: mio nonno all’età di circa vent’anni, quindi più o meno il 1934.

Sullo sfondo una veranda di un chiosco, come quelli delle spiagge del litorale laziale.

Mia bisnonna porta una vestaglia sobria, un sovra-costume, mentre mio nonno un completo bianco coloniale.

Immagino di essere lì io, a fare la foto.

Non è molto diverso da un qualsiasi giorno di agosto della nostra epoca, ma certamente meno agitato e chiassoso.

Alla destra della nonna, si vede una sdraio di legno con un tettuccio, forse di colore avana. 

Non sono sicura del colore, forse un bianco sporco…la foto è in bianco e nero, sbiadita ai lati, ma sono ben visibili i volti delle persone.

Immagino di sentire dietro di me, il rumore delle onde che si infrangono, leggere, sul bagnasciuga.

Tornando a mio bisnonno Filippo, senz’altro essere responsabile del Palazzo e dei Giardini del Re d’Italia, deve esser stato un onore.

In Libia vivevano molti italiani e i quartieri erano molto marcati. Mia nonna materna mi disse che esistevano comunità diverse. Lei si trovava lì, dagli anni Trenta, come dama di compagnia e amica di una nobildonna messinese.

Il quartier generale e la caserma italiana erano sul lungomare, ed ella vi passava con la signora sua amica, insieme alla sua bambina.

Immagino che mia nonna passasse ogni giorno davanti a tale luogo, dove poi conobbe mio nonno…

Mi piace pensare che i giardini del Re fossero un luogo fatato, un’oasi appunto, come appariva allora Bengasi.

I giardinieri arabi mantenevano, in ordine, ogni angolo. Nelle notti calde di un agosto africano, mentre cantavano le cicale, dai minareti attigui si sentiva il muezzin richiamare alla preghiera.

Alle tre di notte, quel richiamo stridulo spezza il sonno. Non è come ascoltare le nostre campane. Ne ho avuto esperienza tempo addietro…in uno dei miei viaggi in Siria.

Eppure, se si ha fortuna, si può riacquistare qualche ora di sonno e attendere i servi che aprano le imposte delle finestre…

Un’altra foto mostra mio bisnonno in tenuta militare che aspetta l’arrivo delle Autorità italiane, capeggiate da Italo Balbo.

Altri tempi.

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IL PLURALISMO

Siamo in una società democratica, nata dalle ceneri di una guerra, la seconda guerra mondiale, dalla Guerra Fredda, dagli anni del boom economico degli anni 60, dagli anni della Lotta armata e delle Brigate Rosse, dalla Mafia e dalla Corruzione, dai partiti di destra e sinistra e di centro, dall’Antimafia e dalle stragi… siamo figli e nipoti di un’Italia che ha percorso dei cammini spesso contorti e contrastati.

Siamo figli e nipoti di un cambiamento che in realtà è rimasto sospeso.

La nostra Costituzione fu scritta dalle forze uscite dalla guerra civile, dalla lotta contro il nazifascismo e dalla necessità di un’identità nuova. Furono anni di vendetta fratricida, anni di ricostruzione personale e sociale.

Siamo figli e nipoti di un pluralismo che aveva e ha ancora bisogno di trovare motivazioni e crescita.

Ultimamente però, guardando e ascoltando quanto avviene nel campo politico e sociale, nella cosiddetta cultura e nello scambio con le altre nazioni, si nota che il passato riaffiora e riaffiora anche la contraddizione di un’Italia spesso divisa, tra Nord e Sud, tra ricchezza e povertà, tra analfabetismo e conoscenza, tra religiosità sana e ateismo o indifferenza, tra morale e anti morale.

Personalmente non sono mai stata conformista: anzi!

Non accetto supinamente tutto quello che ci viene propinato, ma rispetto le regole della società, fintanto che queste regole non infrangano i valori personali, familiari, religiosi e morali nei quali credo e che insegno ai giovani!

Non è che si possa dire che viviamo in un tempo esente da difficoltà. Anzi!

Direi che, più nella vita vado avanti, più credo che il pluralismo voglia dire confronto ma soprattutto consapevolezza di radici solide.

Pluralismo significa rispetto, ma prima di tutto rispetto della persona e del suo vissuto, capacità di dialogo ma non annacquamento delle proprie idee dinanzi al nulla, o dinanzi al male.

Mi riferisco a tutte quelle forme di falsa democrazia che sono appiattimento e accettazione passiva o indifferente di tutto quanto si faccia e si pensi.

Spesso si ritiene che lasciare la libertà a tutti sia uguale a non avere criteri.

La libertà non è libertarismo o libertinismo, allargando il concetto a tutte le sfere personali e sociali.

Libertà è saper discernere e saper scegliere bene.

Spesso si lascia che prevalga l’ ipocrisia del “lasciar vivere” piuttosto che l’onestà del “saper vivere”.

Sinceramente appartenere ad una democrazia significa portare avanti ciò che di buono e di vero esista in un popolo ( nella fattispecie quello italiano) e non nell’accettazione imbecille di tutto quanto venga proposto, da chiunque venga e faccia il maestro o il leader del momento!

Il pluralismo è accettabile se non costringe a cedere sui valori, se insegna che esistono dei punti sui quali basarsi per condurre un’esistenza degna, in mezzo agli altri.

Il pluralismo non è relativismo e non è“fare a capriccio” ma dare il proprio contributo personale, affinché la società in cui si vive, migliori e offra ancora possibilità di vita, tali che facciano sperare per il futuro. Per noi e per le nuove generazioni.

Concludendo… pluralismo non è: “tutto mi/ci va bene“.

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