INNI SACRI

Nel 1812 Manzoni cominciò la stesura degli Inni sacri: l’autore voleva scrivere nell’ordine Il NataleL’EpifaniaLa PassioneLa RisurrezioneL’AscensioneLa PentecosteIl Corpo del SignoreLa Cattedra di San PietroL’AssunzioneIl Nome di MariaOgnissanti e I Morti ma ne portò a termine solo cinque: La RisurrezioneIl nome di MariaIl NataleLa Passione e La Pentecoste. I primi quattro furono scritti tra l’aprile 1812 e l’ottobre 1815 e pubblicati in un volumetto presso l’editore milanese Pietro Agnelli alla fine del 1815, mentre la stesura de La Pentecoste, iniziata nel 1817, fu completata solo cinque anni più tardi, rallentata da altre opere cui l’autore attese nei medesimi anni, tra cui spiccano le due tragedie e la prima versione del romanzo. L’Ognissanti (1830-1847) restò in stato di frammento, come altre possibili aggiunte agli Inni (Il Natale del 1833 e il brevissimo Dio nella natura). La poesia religiosa del Manzoni è infine completata dalle Strofe per una Prima Comunione. L’intenzione dell’autore è quella di una poesia popolare, da cui lo stile talvolta si allontana perché ancora influenzato dalla formazione neoclassica, per poi ritornare alla comunità dei credenti (l’ecclesia cristiana) che innalza, insieme al poeta, un canto di lode a Dio, unica sicurezza contro il male sempre imperante nella Storia. Questa dimensione corale emerge soprattutto nella Pentecoste, ove i «figli d’Eva» (v. 71), sparsi in tutto il mondo, trovano unità nella fede in Dio.

IL NATALE

  1. Qual masso che dal vertice
  2. Di lunga erta montana,
  3. Abbandonato all’impeto
  4. Di rumorosa frana,
  5. Per lo scheggiato calle
  6. Precipitando a valle,
  7. Batte sul fondo e sta
  8. Là dove cadde, immobile
  9. Giace in sua lenta mole;
  10. Né, per mutar di secoli,
  11. Fia che riveda il sole
  12. Della sua cima antica,
  13. Se una virtude amica
  14. In alto nol trarrà: 
  15. Tal si giaceva il misero
  16. Figliol del fallo primo,
  17. Dal dì che un’ineffabile
  18. Ira promessa all’imo
  19. D’ogni malor gravollo,
  20. Donde il superbo collo
  21. Più non potea levar. 
  22. Qual mai tra i nati all’odio
  23. Quale era mai persona
  24. Che al Santo inaccessibile
  25. Potesse dir: perdona?
  26. Far novo patto eterno?
  27. Al vincitore inferno
  28. La preda sua strappar? 
  29. Ecco ci è nato un Pargolo,
  30. Ci fu largito un Figlio:
  31. Le avverse forze tremano
  32. Al mover del suo ciglio:
  33. All’uom la mano Ei porge,
  34. Che si ravviva, e sorge
  35. Oltre l’antico onor
  36. Dalle magioni eteree
  37. Sporga una fonte, e scende
  38. E nel borron de’ triboli
  39. Vivida si distende:
  40. Stillano mele i tronchi;
  41. Dove copriano i bronchi,
  42. Ivi germoglia il fior. 
  43. O Figlio, o Tu cui genera
  44. L’Eterno, eterno seco;
  45. Qual ti può dir de’ secoli:
  46. Tu cominciasti meco?
  47. Tu sei: del vasto empiro
  48. Non ti comprende il giro:
  49. La tua parola il fe’.
  50. E Tu degnasti assumere
  51. Questa creata argilla?
  52. Qual merto suo, qual grazia
  53. A tanto onor sortilla?
  54. Se in suo consiglio ascoso
  55. Vince il perdon, pietoso
  56. Immensamente Egli è. 
  57. Oggi Egli è nato: ad Efrata,
  58. Vaticinato ostello,
  59. Ascese un’alma Vergine,
  60. La gloria d’Israello,
  61. Grave di tal portato:
  62. Da cui promise è nato,
  63. Donde era atteso uscì. 
  64. La mira Madre in poveri.
  65. Panni il Figliol compose,
  66. E nell’umil presepio
  67. Soavemente il pose;
  68. E l’adorò: beata!
  69. Innanzi al Dio prostrata
  70. Che il puro sen le aprì
  71. L’Angel del cielo, agli uomini
  72. Nunzio di tanta sorte,
  73. Non de’ potenti volgesi
  74. Alle vegliate porte;
  75. Ma tra i pastor devoti,
  76. Al duro mondo ignoti,
  77. Subito in luce appar. 
  78. E intorno a lui per l’ampia
  79. Notte calati a stuolo,
  80. Mille celesti strinsero
  81. Il fiammeggiante volo;
  82. E accesi in dolce zelo
  83. Come si canta in cielo, 
  84. A Dio gloria cantar. 
  85. L’allegro inno seguirono,
  86. Tornando al firmamento:
  87. Tra le varcate nuvole
  88. Allontanossi, e lento
  89. Il suon sacrato ascese,
  90. Fin che più nulla intese
  91. La compagnia fedel
  92. Senza indugiar, cercarono
  93. L’albergo poveretto
  94. Que’ fortunati, e videro,
  95. Siccome a lor fu detto,
  96. Videro in panni avvolto,
  97. In un presepe accolto,
  98. Vagire il Re del Ciel
  99. Dormi, o Fanciul; non piangere;
  100. Dormi, o Fanciul celeste:
  101. Sovra il tuo capo stridere
  102. Non osin le tempeste,
  103. Use sull’empia terra,
  104. Come cavalli in guerra,
  105. Correr davanti a Te. 
  106. Dormi, o Celeste: i popoli 
  107. Chi nato sia non sanno; 
  108. Ma il dì verrà che nobile 
  109. Retaggio tuo saranno
  110. Che in quell’umil riposo,
  111. Che nella polve ascoso,
  112. Conosceranno il Re.

Parafrasi

L’uomo giace in terra come un masso che, caduto dalla vetta (vertice) lungo il ripido pendio (lunga erta), franando rumorosamente lungo il irregolare solco (calle) precipita a valle e resta immobile (e sta– l’abbondanza di aggettivi e la forte accentuazione sull’ultima sillaba a chiusura del verso, rendono fonicamente e visivamente l’idea del precipitare del masso e della sua statica immobilità del suo arrestarsi).
Là dove è caduto rimane immobile nella sua inerte (lenta) mole; non accadrà (fia) nel tempo (per mutar di secoli) che egli possa ritornare a vedere il sole della sua antica altezza (il sua denota l’umanizzazione del sasso) se non per un intervento benevolo (virtude amica) che lo riporti sulla vetta (in alto). 
Così (tal – sottolinea il paragone tra l’inerte umanità colpevole e l’inerte masso alla fine della caduta) giaceva l’uomo (misero – intende l’umanità in generale caduta nell’abiezione del peccato), figlio del peccato originale (il fallo primo) dal giorno che un’inesprimibile (ineffabile – che non si può esprimere a parole; trascendente l’intelligenza umana) punizione promessa [da Dio ad Adamo e Eva] (ira promessa) oppresse (gravollo) l’uomo fino al fondo (imo – lat.) di ogni male. Percui non poteva più sollevare il superbo [il peccato originale fu un peccato d’orgoglio, in quanto cosciente violazione di un divieto divino e quindi un peccato di superbia] collo.
[La quarta strofa è caratterizzata da una serie di domande retoriche]
Quale (Qual/Quale – anafora) tra i nati dopo il peccato originale (nati all’odio – Dio non può che odiare il peccato)  poteva rivolgersi a Dio (Santo inaccessibile) per chiedere perdono, fare un nuovo patto (nuovo patto eterno – espressione biblica, intende patto d’amore con Dio) e strappare all’inferno vincitore la sua preda (cioè l’uomo che Satana era riuscito a far cadere in peccato).? 
[Manzoni in questo verso annuncia la nascita del Salvatore attraverso la citazione di un passo biblico (Ecco…figlio –Isaia IX,6) e l’avvento della nuova speranza grazie all’incarnazione di Cristo.] 
All’umanità peccatrice è nato un bimbo, un figlio, al cui muovere delle ciglia tremano le forze avverse a Dio (avverse forze = dell’inferno). Questo bimbo (Ei) porge la mano all’uomo, lo risolleva dal peccato e lo riconcilia con Dio facendolo tornare all’antica considerazione (antico onor). 
Dalle sedi celesti (magioni eteree) sgorga una fonte (della Grazia), e come l’acqua scorre nel burrone irto di rovi (nel borron de’ triboli) e fa crescere (vivida si distende) frutti e fiori dove gli sterpi ricoprivano tutto (dove copriamo i bronchi), [così essa ristora e ricrea l’umanità tribolata dal peccato]. 
[Il paesaggio descritto è di origine mediorientale, dove esistono letti di fiumi perlopiù secchi e quindi pieni di rovi e che si riempiono solo nella stagione delle piogge.]
O figlio [di Dio], tu (Tu/tu/tu – anafora) generato da Dio eterno (cui genera l’Eterno è il concetto teologico della relazione tra l’eternità del figlio e quella del padre che è nata non coi secoli ma prima dei secoli e quindi trascende il tempo) ed eterno tu stesso [come Lui]; chi mai, [al di fuori di Dio] potrà vantarsi di essere nato assieme a te? [concetto della sovratemporalità di Dio] 
Tu esisti e nemmeno l’estensione del cielo più ampio (vasto empiro) può comprenderti [concetto della sovra spazialità di Dio]. Il cielo stesso è creato dalla tua parola (la tua parola il fe’). 
E tu ti sei umiliato a incarnarti nell’uomo (creata argilla – richiamo biblico alla creazione di Adamo). Quale merito o quale atto gradito a Dio (grazia) la elesse (sortilla) ad un così grande onore? 
Se nei giudizi imperscrutabili di Dio (suo consiglio ascoso) il perdono vince [sulla vendetta] allora la sua pietà è veramente infinita. 
Oggi Egli è nato a Betlemme (Efrata)luogo indicato nella profezia come luogo natale del Messia (vaticinato ostello) . 
Salì (ascese – Betlemme era su un colle) una donatrice di vita (alma) vergine [la Vergine Maria], gloria d’Israele, gravida di tale figlio (grave di tal portato). E’ nato dalla stirpe da cui aveva promesso di nascere e dove era atteso secondo come la profezia. [del profeta Michea] 
La  ammirabile (mira) madre ravvolse (compose) il figlio in poveri panni e nell’umile presepe lo adagiò (soavemente il pose); e l’adorò: beata! Prostrata davanti a Dio [che era figlio ma anche Dio padre] che le dischiuse il seno verginale (che il puro sen le aprì) [facendola madre del Redentore].
L’angelo che annuncia un così grande evento (nunzio di tanta sorte), non si rivolge alle sorvegliate (vegliate) porte dei potenti ma ai pastori devoti, ignorati dal mondo insensibile (al duro mondo ignoti), all’improvviso (subito) appare illuminato dalla luce divina. 
E attorno a lui nella notte scesero dal cielo in gran numero (calati a stuolo) migliaia di angeli che si strinsero intorno a lui in quel volo di luce (fiammeggiante volo) e accesi di letizia angelica (dolce zelo) cantarono gloria a Dio come la si canta in cielo.
Continuarono (seguirono) il lieto inno tornando in cielo (firmamento): attraversando le nuvole si allontanarono e lentamente la musica sacra si affievolì salendo (ascese) finchè i pastori devoti (la compagnia fedel)  non udirono più nulla.
Senza indugiare cercarono la capanna (l’albergo poveretto) quei fortunati [perché potevano andare ad adorare il Messia] e videro (videro…videro la ripetizione del verbo serve a dare efficacemente l’idea del rapimento estatico dei pastori) avvolto nei panni, adagiato in un presepe il pianto del Re del cielo (vagire il Re del Ciel – vi è un efficace accostamento tra umano e divino) 
 [Le ultime due strofe sono modulate in forma di ninna nanna] 
Dormi fanciullo, non piangere; dormi o fanciullo divino (celeste – del cielo): Non osino sopra il tuo capo sibilare (stridere) le tempeste [intese non tanto come avversità della natura quanto come avversità fisiche e morali] abituali sulla terra empia (empiaperché peccatrice), come cavalli in guerra che corrono davanti a te.
Dormi, o creatura celeste: i popoli non sanno chi è [appena] nato ma verrà il giorno in cui saranno tutti tuoi sudditi [nobile retaggio tuo saranno – quando la parola di Cristo si diffonderà nel mondo per opera degli apostoli]; e in quel misero rifugio ora riposa (umil riposo – nella mangiatoia dove il bambino riposa), e si nasconde nella polvere (nella polve ascoso) colui nel quale riconosceranno il [loro] Re .

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GENESI 13

Bɵreshìt 13

ַו ַיּ ַעל ַא ְב ָרם ִמ ִמּ ְצ ַר ִים הוּא ְו ִא ְשׁתּוֹ ְו ָכל־ ֲא ֶשׁר־לוֹ ְולוֹט ִעמּוֹ ַה ֶנּ ְג ָבּה׃ vɵish’tò [e sua ְו ִא ְשׁתּוֹ]Mitzràim [Egitto ִמ ְצ ָר ִים ’Avràm dunque risalì dall ַא ְב ָרם 13:1

moglie – con sua moglie], con tutto quel che possedeva e לוֹט Lot ִעמּוֹ immò [con sè], andando verso il Negheb.

ְו ַא ְב ָרם ָכּ ֵבד ְמ ֹאד ַבּ ִמּ ְק ֶנה ַבּ ֶכּ ֶסף וּ ַב ָזּ ָהב׃ kèsef ֶכּ ֶסף ’mɵòd [molto-assai] ricco di bestiame, d ְמ ֹאדAvràm era ַא ְב ָרם 13:2

[argento] e di ָז ָהב zahàv [oro].

ַו ֵיּ ֶל􏰁 ְל ַמ ָסּ ָעיו ִמ ֶנּ ֶגב ְו ַעד־ ֵבּית־ ֵאל ַעד־ ַה ָמּקוֹם ֲא ֶשׁר־ ָה ָיה ָשׁם ָא ֳה􏰂ה ַבּ ְתּ ִח ָלּה ֵבּין ֵבּית־ ֵאל וּ ֵבין ָה ָעי׃

minneghev [dal Neghev] fino ִמ ֶנּ ֶגב ]vayyelèch E andò – E continuò il suo viaggio ַו ֵיּ ֶל􏰁 13:3 ָשׁם ]ad-hammakom [al luogo ַעד־ ַה ָמּקוֹם ,])bèt-El [Casa di Elohìm (Bethel ֵבּית־ ֵאל a

shàm [quivi] da prima era stata la sua ֹא ֶהל òhel [tenda], ֵבּין bèn [fra] ֵבּית־ ֵאל bèt-El [Casa di Elohìm (Bethel)] ed Ai,

ֶאל־ ְמקוֹם ַה ִמּ ְז ֵבּ ַח ֲא ֶשׁר־ ָע ָשׂה ָשׁם ָבּ ִרא ֹשׁ ָנה ַו ִיּ ְק ָרא ָשׁם ַא ְב ָרם ְבּ ֵשׁם יהוה׃ el-mɵkom hammiz’bèach̠ [al luogo dell’altare] ch’egli aveva ֶאל־ ְמקוֹם ַה ִמּ ְז ֵבּ ַח 13:4 ַא ְב ָרם ]shàm [quivi ָשׁם])vayyikrà [e chiamò (invocò ַו ִיּ ְק ָרא ;shàm [là] prima ָשׁם fatto Avràm ְבּ ֵשׁם bɵshèm [il nome] di יהוה Yahweh.

ְוַגם־ְללוֹט ַהֹהֵל􏰁 ֶאת־ַאְבָרם ָהָיהצֹאן־וָּבָקרְוֹאָהִלים׃ 13:5 Or לוֹט Lot, ַה ֹה ֵל􏰁 ha’holèch [che viaggiava] con ַא ְב ָרם Avràm, ָה ָיה hayah [fu]

aveva anch’egli pecore, buoi e tende.

ְולֹא־ ָנ ָשׂא ֹא ָתם ָה ָא ֶרץ ָל ֶשׁ ֶבת ַי ְח ָדּו ִכּי־ ָה ָיה ְרכוּ ָשׁם ָרב ְולֹא ָי ְכלוּ ָל ֶשׁ ֶבת ַי ְח ָדּו׃ 13:6Eָהָאֶרץ ha’àretz[laterra]לֹאlò[non]erasufficienteperch’essipotessero abitarvi ַי ְח ָדּו yach̠ ’dàv [assieme]; poiché le loro facoltà erano grandi ed essi ל ֹא lò [non] potevano stare ַי ְח ָדּו yach̠ ’dàv [assieme].

ַו ְי ִהי־ ִריב ֚ ֵבּין ֹר ֵעי ִמ ְק ֵנה־ ַא ְב ָרם וּ ֵבין ֹר ֵעי ִמ ְק ֵנה־לוֹט ְו ַה ְכּ ַנ ֲע ִני ְו ַה ְפּ ִר ִזּי ָאז ֹי ֵשׁב ָבּ ָא ֶרץ׃ ַא ְב ָרם’roè [pastori] del bestiame d ֹר ֵעי bèn [fra] i ֵבּין E nacque una contesa 13:7 Avràmeiֹרֵעי roè[pastori]delbestiamediלוֹטLot.ICananeieiFerezeiabitavanoa quel tempo ָבּ ָא ֶרץ ba’àretz [nella terra].

ַויֹּאֶמר ַאְבָרם ֶאל־לוֹט ַאל־ָנא ְתִהי ְמִריָבה ֵבּיִניוֵּביֶני􏰀וֵּבין ֹרַעיוֵּבין ֹרֶעי􏰀 ִכּי־ֲאָנִשׁים ַאִחים ֲא ָנ ְחנוּ׃

,al-nà [ti prego ַאל־ ָנא ,Lot: ‘Deh לוֹט Avràm a ַא ְב ָרם ]Vayòmer [E disse ַויֹּא ֶמר 13:8 non] ci sia contesa ֵבּי ִני bè’nì [fra me] וּ ֵבי ֶני􏰀 uvènècha [e fra te], né fra i miei pastori e ituoipastori,poichéuominiַאִחים ach̠ìm[fratelli]noi(siamo)!

ֲהלֹא ָכל־ ָה ָאֶרץ ְל ָפֶני􏰀 ִה ָפֶּרד ָנא ֵמ ָע ָלי ִאם־ ַה ְשּׂמֹאל ְו ֵאיִמָנה ְוִאם־ ַהָיִּמין ְו ַא ְשְׂמִאי ָלה׃ lɵfanècha ְל ָפ ֶני􏰀chol-ha’àretz [Tutta la terra] sta essa ָכל־ ָה ָא ֶרץ ]?halò [non ֲהלֹא 13:9

[davanti a te]? Deh, sepàrati da me! Se tu vai a sinistra, io andrò a destra; e se tu vai a destra, io andrò a sinistra’.

ַוִיּ ָשּׂא־לוֹט ֶאת־ ֵעי ָניו ַו ַיְּרא ֶאת־ ָכּל־ ִכּ ַכּר ַה ַיְּר ֵדּן ִכּי ֻכ ָלּהּ ַמ ְשׁ ֶקה ִל ְפ ֵני ַשׁ ֵחת יהוה ֶאת־ ְס ֹדם ְו ֶאת־ ֲעֹמָרה ְכַּגן־יהוה ְכֶּאֶרץ ִמְצַרִים ֹבֲּאָכה ֹצַער׃

13:10 E לוֹט Lot alzò gli occhi ַו ַיּ ְרא vayàr [e vide] l’intera pianura del ַיּ ְר ֵדּן Yarddèn [Giordano]. ִל ְפ ֵני lifnè [Prima che] יהוה Yahweh avesse distrutto ְס ֹדם Sɵdom ְכּ ַגן־ ,Amorah [Gomorra], essa era tutta quanta irrigata fino a Tsoar ֲע ֹמ ָרה Sodoma] e[ kɵèretz Mitzràim ְכּ ֶא ֶרץ ִמ ְצ ַר ִים ,]kɵgàn-Yahweh [come il giardino di Yahweh ְיהוה [come la terra d’Egitto].

ַוִיְּב ַחר־לוֹלוֹט ֵ֚את ָכּל־ִכּ ַכּר ַהַיְּרֵדּן ַוִיּ ַסּעלוֹט ִמ ֶקֶּדם ַוִיּ ָפְּרדוּ ִאישׁ ֵמ ַעל ָאִחיו׃ 13:11 E לוֹט Lot si scelse tutta la pianura del ַיּ ְר ֵדּן Yarddèn [Giordano], e partì andando verso ִמ ֶקּ ֶדם mikkèdem [l’oriente]. Così si separarono l’uno dall’altro.

ַא ְב ָרם ָי ַשׁב ְבּ ֶא ֶרץ־ ְכּ ָנ ַען ְולוֹט ָי ַשׁב ְבּ ָע ֵרי ַה ִכּ ָכּר ַו ֶיּ ֱא ַהל ַעד־ ְס ֹדם׃ לוֹט kɵna’àn [Canaan], e ְכּ ָנ ַען]bɵèretz [in terra di ְבּ ֶא ֶרץ Avràm dimorò ַא ְב ָרם 13:12

Lot abitò nelle città della pianura e andò piantando le sue tende fino a ְס ֹדם Sɵdom [Sodoma].

ְו ַא ְנ ֵשׁי ְס ֹדם ָר ִעים ְו ַח ָטּ ִאים ַליהוה ְמ ֹאד׃ -mɵòd [molto ְמ ֹאד Sɵdom [Sodoma] erano ְס ֹדם ]vɵanshè [E gli uomini di ְו ַא ְנ ֵשׁי 13:13

assai]peccatriceַליהוה laYahweh[controYahweh].

ַויהוה ָא ַמר ֶאל־ ַא ְב ָרם ַא ֲח ֵרי ִה ָפּ ֶרד־לוֹט ֵמ ִעמּוֹ ָשׂא ָנא ֵעי ֶני􏰀 וּ ְר ֵאה ִמן־ ַה ָמּקוֹם ֲא ֶשׁר־ ַא ָתּה ָשׁם ָצֹפָנה ָוֶנְגָבּה ָוֵקְדָמה ָוָיָמּה׃

Lot si fu לוֹט Avràm, dopo che ַא ְב ָרם Yahweh ad יהוה ]Vayòmer [E disse ַויֹּא ֶמר 13:14 separatodalui:’Alzaoraֵעיֶני􏰀 enècha[gliocchituoi]וְּרֵאהur’eh[emira-eguarda],

dal luogo dove sei, ָשׁם shàm [di là] a settentrione, a mezzogiorno, a oriente, a occidente.

ִכּי ֶאת־ָכּל־ָהָאֶרץ ֲא ֶשׁר־ַאָתּה ֹרֶאה ְל􏰀 ֶאְתֶּנָנּהוְּלַזְר ֲע􏰀 ַעד־עוָֹלם׃ et-kol-ha’àretz [Tutta la terra] che vedi, lo darò a te e alla tua ֶאת־ ָכּל־ ָה ָא ֶרץ 13:15

progenie, ַעד־עוֹ ָלם àd-’olàm [per sempre].

ְו ַשׂ ְמ ִתּי ֶאת־ ַז ְר ֲע􏰀 ַכּ ֲע ַפר ָה ָא ֶרץ ֲא ֶשׁר ִאם־יוּ ַכל ִאישׁ ִל ְמנוֹת ֶאת־ ֲע ַפר ָה ָא ֶרץ ַגּם־ ַז ְר ֲע􏰀 ִי ָמּ ֶנה׃13:16Efaròsìchelatuaprogeniesaràcomelapolvereָהָאֶרץ ha’àretzha’àretz[della

terra];inguisache,sealcunopuòcontarelapolvereָהָאֶרץ ha’àretzha’àretz[della terra], anche la tua progenie si potrà contare.

קוּם ִהְתַהֵלּ􏰁 ָבָּאֶרץ ְלָאְרָכּהּוְּלָרְחָבּהּ ִכּי ְל􏰀 ֶאְתֶּנָנּה׃ ba’àretz [nella ָבּ ָא ֶרץ ]hit’hallèch [va – cammina- percorri ִה ְת ַה ֵלּ􏰁 ,]kùm [Lèvati קוּם 13:17

terra] quant’è lungo e quant’è largo, poiché io te lo darò’.

ַוֶיּ ֱא ַהל ַאְבָרם ַוָיּבֹא ַוֵיּ ֶשׁב ְבּ ֵא􏰂ֵני ַמְמֵרא ֲא ֶשׁר ְבּ ֶחְברוֹן ַוִיּ ֶבן־ ָשׁם ִמְז ֵבּ ַח ַליהוה׃ 13:18 Allora ַא ְב ָרם Avràm levò le sue tende, ַו ָיּבֹא vaiyavò [Ed entrò – e venne] ad abitare alle querce di Mamre, che sono a Hebron; e quivi edificò un ִמ ְז ֵבּ ַח mizbèach̠ [altare]ַליהוה laYahweh[aYahweh].

TRADUZIONE

Abramo e Lot

13.1 Dall’Egitto Abram risalì nel Negheb, con la moglie e tutti i suoi averi; Lot era con lui. Abram era molto ricco in bestiame, argento e oro. Abram si spostò a tappe dal Negheb fino a Betel, fino al luogo dov’era già prima la sua tenda, tra Betel e Ai, il luogo dove prima aveva costruito l’altare: lì Abram invocò il nome del Signore.
Ma anche Lot, che accompagnava Abram, aveva greggi e armenti e tende, e il territorio non consentiva che abitassero insieme, perché avevano beni troppo grandi e non potevano abitare insieme. Per questo sorse una lite tra i mandriani di Abram e i mandriani di Lot. I Cananei e i Perizziti abitavano allora nella terra. 8 Abram disse a Lot: “Non vi sia discordia tra me e te, tra i miei mandriani e i tuoi, perché noi siamo fratelli. 9Non sta forse davanti a te tutto il territorio? Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra, io andrò a destra; se tu vai a destra, io andrò a sinistra”.
10 Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte – prima che il Signore distruggesse Sòdoma e Gomorra – come il giardino del Signore, come la terra d’Egitto fino a Soar. 11 Lot scelse per sé tutta la valle del Giordano e trasportò le tende verso oriente. Così si separarono l’uno dall’altro: 12 Abram si stabilì nella terra di Canaan e Lot si stabilì nelle città della valle e piantò le tende vicino a Sòdoma. 13 Ora gli uomini di Sòdoma erano malvagi e peccavano molto contro il Signore.
14 Allora il Signore disse ad Abram, dopo che Lot si era separato da lui: “Alza gli occhi e, dal luogo dove tu stai, spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente. 15 Tutta la terra che tu vedi, io la darò a te e alla tua discendenza per sempre. 16 Renderò la tua discendenza come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti. 17 Àlzati, percorri la terra in lungo e in largo, perché io la darò a te”. 18 Poi Abram si spostò con le sue tende e andò a stabilirsi alle Querce di Mamre, che sono ad Ebron, e vi costruì un altare al Signore.

Note nel testo

13,1 Lot è il padre dei popoli di Moab e Ammon (vedi 19,30-38).

 Lot è nipote di Abramo: qui è definito “fratello” nel senso di parente prossimo (vedi anche 14,14.16).

13,18 Mamre: presso Ebron, a sud di Gerusalemme.

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GENESI 12

Bɵreshìt 12

ַויֹּאֶמריהוה ֶאל־ַאְבָרם ֶל􏰁־ְל􏰀 ֵמַאְרְצ􏰀וִּממּוַֹלְדְתּ􏰀וִּמֵבּית ָאִבי􏰀 ֶאל־ָהָאֶרץ ֲאֶשׁר ַאְרֶאָךּ׃

1 2 : 1 O r ַו יּ ֹ א ֶמ ר V a y ò m e r [ E d i s s e ] י ה ו ה Y a h w e h a d ַא ְב ָר ם A v r à m : 􏰀 ֶל 􏰁 ־ ְל l è c h – l ɵ c h à ָא ִבי􏰀 mear’tzɵchà [dalla terra tua] e dal tuo parentado e dalla casa di ֵמ ַאְר ְצ􏰀 ]Vattene[avìcha [tuo padre], ֶאל־ ָה ָא ֶרץ el-ha’àretz [a la terra] che io ti mostrerò;

ְו ֶא ֶע ְשׂ􏰀 ְלגוֹי ָגּדוֹל ַו ֲא ָב ֶר ְכ􏰀 ַו ֲא ַג ְדּ ָלה ְשׁ ֶמ􏰀 ֶו ְה ֵיה ְבּ ָר ָכה׃ 12:2 e io farò di te una ָגּדוֹל gadòl [grande] nazione ַו ֲא ָב ְר ֶכ ָךּ va’avarɵchècha [e ti

ֶו ְה ֵיה ]shɵmècha [tuo nome ְשׁ ֶמ􏰀 va’agaddɵlah [e renderò grande] il ַו ֲא ַג ְדּ ָלה ]benedirò vehɵyeh [e tu sarai] fonte di ְבּ ָר ָכה bɵrachah [benedizione];

ַוֲאָבֲרָכה ְמָבְרֶכי􏰀וְּמַקֶלְּל􏰀 ָאֹארְוִנְבְרכוּ ְב􏰀 ֹכּל ִמְשְׁפֹּחת ָהֲאָדָמה׃ va’avar’chah mɵvarɵchècha [E benedirò quelli che ti ַו ֲא ָב ֲר ָכה ְמ ָב ְר ֶכי􏰀 12:3

benediranno] e maledirò chi ti maledirà e in te saranno benedette tutte le famiglie .’ ]ha’adàmah [della terra ָה ֲא ָד ָמה

ַו ֵיּ ֶל􏰁 ַא ְב ָרם ַכּ ֲא ֶשׁר ִדּ ֶבּר ֵא ָליו יהוה ַו ֵיּ ֶל􏰁 ִאתּוֹ לוֹט ְו ַא ְב ָרם ֶבּן־ ָח ֵמשׁ ָשׁ ִנים ְו ִשׁ ְב ִעים ָשׁ ָנה ְבּ ֵצאתוֹ ֵמ ָח ָרן׃

12:4 E ַא ְב ָרם Avràm se ne andò, come יהוה Yahweh ִדּ ֶבּר ֵא ָליו ddibèr elàv [gli aveva parlato –detto], e לוֹט Lot andò ִאתּוֹ ittò [con lui]. ַא ְב ָרם Avràm aveva ֶבּן־ ָח ֵמשׁ ben-
ָשׁ ָנה ]vɵshiv’ìm [e settanta ְו ִשׁ ְב ִעים ]shanìm [anni ָשׁ ִנים ]ch̠ amesh [figlio di cinque shanah [anno] settantacinque anni quando partì da Charan.

ַו ִיּ ַקּ ח ַא ְב ָר ם ֶא ת ־ ָשׂ ַר י ִא ְשׁ תּ וֹ ְו ֶא ת ־ ל וֹ ט ֶבּ ן ־ ָא ִח י ו ְו ֶא ת ־ ָכּ ל ־ ְר כ וּ ָשׁ ם ֲא ֶשׁ ר ָר ָכ שׁ וּ ְו ֶא ת ־ ַה ֶנּ ֶפ שׁ ֲא ֶשׁ ר ־ ָעשׂוּ ְב ָחָרן ַוֵיְּצאוּ ָל ֶל ֶכת ַאְר ָצה ְכַּנ ַען ַוָיּ ֹבאוּ ַאְר ָצה ְכָּנ ַען׃

ben ֶבּן ,Lot לוֹט Saraj sua moglie e ָשׂ ַרי Avràm ַא ְב ָרם ]vayikkàch̠ [E prese ַו ִיּ ַקּח 12:5 [figlio] di ָא ִחיו ach̠ iv [suo fratello], e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Charan, ַו ֵיּ ְצאוּ vayetzɵù [ed uscirono] ָל ֶל ֶכת lalèchet [per andare] ]vayavoù [ed entrarono ַו ָיּ ֹבאוּ;]kɵna’àn [Canaan ְכּ ָנ ַען ar’tzah [verso-terra] di ַא ְר ָצה

.]kɵna’àn [Canaan ְכּ ָנ ַען ar’tzah [in terra] di ַא ְר ָצה

ַוַיֲּעֹבר ַאְבָרם ָבָּאֶרץ ַעד ְמקוֹם ְשֶׁכם ַעד ֵאלוֹןמוֶֹרהְוַהְכַּנֲעִני ָאז ָבָּאֶרץ׃ 12:6 E ַא ְב ָרם Avràm passò ָבּ ָא ֶרץ ba’àretz [nella terra] fino al luogo di Sichem, fino

alla quercia di Moreh. Or in quel tempo i Cananei erano ָבּ ָא ֶרץ ba’àretz [nella terra].

ַוֵיָּראיהוה ֶאל־ ַאְבָרם ַויֹּא ֶמר ְלַזְר ֲע􏰀 ֶא ֵתּן ֶאת־ ָה ָאֶרץ ַהזֹּאת ַוִיּ ֶבן ָשׁם ִמְז ֵבּ ַח ַליהוה ַהִנְּר ֶאה ֵא ָליו׃ : ] v a y ò m e r [ e d i s s e ַו יּ ֹ א ֶמ ר A v r à m ַא ְב ָר ם Y a h w e h a d י ה ו ה ] v a i e r à [ E a p p a r v e ַו ֵיּ ָר א 7: 2 1 ‘Io darò questa ֶאת־ ָה ָא ֶרץ et-ha’àretz [la terra] alla tua progenie’. ַו ִיּ ֶבן vayìven [Ed egli edificò] ָשׁם shàm [quivi] un ִמ ְז ֵבּ ַח mizbèach̠ [altare] ַליהוה laYahweh [a Yahweh]

.]hannir’ehèlav[sihafattovederealui-cheglieraapparso ַהִנְּרֶאה ֵאָליו

ַו ַיּ ְע ֵתּק ִמ ָשּׁם ָה ָה ָרה ִמ ֶקּ ֶדם ְל ֵבית־ ֵאל ַו ֵיּט ָא ֳה􏰂ה ֵבּית־ ֵאל ִמ ָיּם ְו ָה ַעי ִמ ֶקּ ֶדם ַו ִיּ ֶבן־ ָשׁם ִמ ְז ֵבּ ַח ַליהוה ַו ִיּ ְק ָרא ְבּ ֵשׁם יהוה׃

12:8 E di là si trasportò ָה ָה ָרה haharah [verso il monte] ִמ ֶקּ ֶדם mikkèdem [a oriente] di bèt-El ֵבּית־ ֵאל bèt-El [Casa di Elohìm (Bethel)], e piantò le sue tende, avendo ֵבּית־ ֵאל [Casa di Elohìm (Bethel)] a occidente e Ai ִמ ֶקּ ֶדם mikkèdem [ad oriente]; e quivi edificò un ִמ ְז ֵבּ ַח mizbèach̠ [altare] ַליהוה laYahweh [a Yahweh] ַו ִיּ ְק ָרא vayyikrà [e Chiamò (invocò)] ְבּ ֵשׁם bɵshèm [il nome] di יהוה Yahweh.

ַוִיַּסּע ַאְבָרם ָהלוֹ􏰁ְוָנסוַֹע ַהֶנְּגָבּה׃

12:9 Poi ַא ְב ָרם Avràm si partì, proseguendo da un accampamento all’altro, verso mezzogiorno.

ַוְיִהי ָרָעב ָבָּאֶרץ ַוֵיֶּרד ַאְבָרם ִמְצַרְיָמה ָלגוּר ָשׁם ִכּי־ָכֵבד ָהָרָעב ָבָּאֶרץ׃ ra’àv [una ָר ָעב ]ba’àretz [nella terra ָבּ ָא ֶרץ ]vay’hì [E fu – Or venne ַו ְי ִהי 12:10

carestia-fame]; e ַא ְב ָרם Avràm scese ִמ ְצ ַר ְי ָמה mitzràymah [in Egitto] per soggiornare .]ba’àretz [nella terra ָבּ ָא ֶרץ shàm [là], perché la fame era grave ָשׁם

ַו ְי ִהי ַכּ ֲא ֶשׁר ִה ְק ִריב ָלבוֹא ִמ ְצ ָר ְי ָמה ַויּ ֹא ֶמר ֶאל־ ָשׂ ַרי ִא ְשׁתּוֹ ִה ֵנּה־ ָנא ָי ַד ְע ִתּי ִכּי ִא ָשּׁה ְי ַפת־ ַמ ְר ֶאה ָא ְתּ׃

Mitzraimah [in ִמ ְצ ָר ְי ָמה ]lavò [per entrare ָלבוֹא vay’hì [E fu ] quando stava ַו ְי ִהי 12:11 Egitto], ַויּ ֹא ֶמר vayòmer [E disse] a ָשׂ ַרי Saraj ִא ְשׁתּוֹ ishtò [sua moglie]: ‘Ecco, io so che ְי ַפת־ ַמ ְר ֶאה ָא ְתּ ifat-mar’eh att [tu sei una donna di bell’aspetto];

ְו ָה ָיה ִכּי־ִיְראוּ ֹא ָת􏰁 ַה ִמּ ְצִרים ְו ָא ְמרוּ ִא ְשׁתּוֹ זֹאת ְו ָהְרגוּ ֹא ִתי ְו ֹא ָת􏰁 ְי ַחיּוּ

,vɵhayah [e sarà – e avverrà] che quando gli Egiziani t’avranno veduta ְו ָה ָיה 12:12
d i r a n n o : ז ֹ א ת z ò t [ Q u e s t a ] è ִא ְשׁ תּ וֹ i s h t ò [ s u a m o g l i e ] ; e d u c c i d e r a n n o ֹא ִת י o t ì [ m e ] , m a a te ְי ַחיּוּ yɵch̠ ayù [lasceranno la vivere].

ִא ְמ ִרי־ ָנא ֲא ֹח ִתי ָא ְתּ ְל ַמ ַען ִיי ַטב־ ִלי ַב ֲעבוּ ֵר􏰁 ְו ָח ְי ָתה ַנ ְפ ִשׁי ִבּ ְג ָל ֵל􏰁׃ 12:13 Deh, di’ ֲא ֹח ִתי ָא ְתּ ach̠ otì att [che sei mia sorella], ְל ַמ ַען lɵmà’an [affinché] io sia

ִבּ ְג ָל ֵל􏰁 ]vɵch̠ ayɵtah naf’shì [e viva l’anima mia ְו ָח ְי ָתה ַנ ְפ ִשׁי ,trattato bene a motivo di tebig’lalech [per amor tuo]’.

ַוְיִהי ְכּבוֹא ַאְבָרם ִמְצָרְיָמה ַוִיְּראוּ ַהִמְּצִרים ֶאת־ָהִא ָשּׁה ִכּי־ָיָפה ִהוא ְמֹאד׃ ִמ ְצ ָר ְי ָמה Avràm fu giunto ַא ְב ָרםvay’hì [E fu – avvenne che] quando ַו ְי ִהי 12:14

ֶאת־ ָה ִא ָשּׁה vajir’ù [videro – osservarono] che ַו ִיּ ְראוּ Mitzraimah [in Egitto], gli Egiziani et-haìsshah [la donna] ִכּי־ ָי ָפה ִהוא ְמ ֹאד ki-yafah hiv mɵod [che essa era molto bella].

ַוִיְּראוּ ֹאָתהּ ָשֵׂרי ַפְרֹעהַוְיַהְללוּ ֹאָתהּ ֶאל־ַפְּרֹעהַוֻתַּקּח ָהִאָשּׁה ֵבּית ַפְּרֹעה׃ 12:15 E i principi di ַפּ ְר ֹעה par’oh [Faraone] ַו ִיּ ְראוּ ֹא ָתהּ vajir’ù otàh [e la videro] e la

lodarono dinanzi ֶאל־ ַפּ ְר ֹעה el-par’oh [a Faraone]; e la donna fu condotta in casa di .]par’oh[Faraone ַפְּרֹעה

וְּלַאְבָרם ֵהיִטיב ַבֲּעבוָּרהַּוְיִהי־לוֹצֹאן־וָּבָקרַוֲחֹמִריםַוֲעָבִדיםוְּשָׁפֹחתַוֲאֹתֹנתוְּגַמִלּים׃

12:16 Ed egli fece del bene ad ַא ְב ָרם Avràm per causa di lei; ed ַא ְב ָרם Avràm ebbe pecore e buoi e asini e servi e serve e asine e cammelli.

ַוְיַנַגּעיהוה ֶאת־ַפְּרֹעהְנָגִעיםְגֹּדִליםְוֶאת־ֵבּיתוֹ ַעל־ְדַּבר ָשַׂרי ֵאֶשׁת ַאְבָרם׃ 12:17MaיהוהYahwehcolpìַפְּרֹעה par’oh[Faraone]elasuacasacongrandipiaghe, a motivo di ָשׂ ַרי Saraj, moglie d’ַא ְב ָרם Avràm.

ַוִיְּקָרא ַפְרֹעה ְלַאְבָרם ַויֹּאֶמר ַמה־זֹּאת ָעִשׂיָת ִלּי ָלָמּהלֹא־ִהַגְּדָתּ ִלּי ִכּי ִאְשְׁתּ􏰀 ִהוא׃ ַויֹּאֶמרAvràmַאְבָרם]par’oh[Faraone ַפְּרֹעה]vayyikrà[E(allora)Chiamò ַוִיְּקָרא12:18 vayòmer [e disse]: ‘ַמה־זֹּאת ָע ִשׂי ָת ִלּי mah-zòt asìta lì [che cosa è questo che m’hai ִכּי ִא ְשׁ ְתּ􏰀 lò [non] m’hai detto לֹא ]lammah [Perché ָל ָמּה ?]fatto – Perché mi hai fatto questo ?]kì ishttɵchà hiv [ch’era tua moglie ִהוא

ָל ָמ ה ָא ַמ ְר ָתּ ֲא ֹח ִת י ִה ו א ָו ֶא ַקּ ח ֹא ָת הּ ִל י ְל ִא ָשּׁ ה ְו ַע ָתּ ה ִה ֵנּ ה ִא ְשׁ ְתּ 􏰀 ַק ח ָו ֵל 􏰁 ׃ ach̠ otì hiv [essa è mia sorella]? ond’io ֲא ֹח ִתי ִהוא :lamah [Perché] hai detto ָל ָמה 12:19

me la son presa ְל ִא ָשּׁה lɵìsshah [per moglie]. Or dunque ִה ֵנּה hinneh [ecco] ַקח kach̠ [Prendi] ִא ְשׁ ְתּ􏰀 ish’ttɵchà [tua moglie]; ָו ֵל􏰁 valèch [e vattene]!’

ַוְי ַצו ָע ָליו ַפְּר ֹעה ֲא ָנ ִשׁים ַוְי ַשׁ ְלּחוּ ֹאתוֹ ְו ֶאת־ ִא ְשׁתּוֹ ְו ֶאת־ ָכּל־ ֲא ֶשׁר־לוֹ׃

anashìm ֲא ָנ ִשׁים par’oh [Faraone] ai suoi ַפּ ְר ֹעה ]vayɵtzàv [E comandò ַו ְי ַצו 12:20 [uomini] ed essi fecero partire lui, ְו ֶאת־ ִא ְשׁתּוֹ vɵet-ish’tò [e la sua moglie], e tutto quello ch’ei possedeva.

TRADUZIONE

12Il Signore disse ad Abram:

“Vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò.
Farò di te una grande nazione
e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome
e possa tu essere una benedizione.
3 Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò,
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra”.

Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. Abram prese la moglie Sarài e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso la terra di Canaan. Arrivarono nella terra di Canaan e Abram la attraversò fino alla località di Sichem, presso la Quercia di Morè. Nella terra si trovavano allora i Cananei.
Il Signore apparve ad Abram e gli disse: “Alla tua discendenza io darò questa terra”. Allora Abram costruì in quel luogo un altare al Signore che gli era apparso. 8 Di là passò sulle montagne a oriente di Betel e piantò la tenda, avendo Betel ad occidente e Ai ad oriente. Lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore. Poi Abram levò la tenda per andare ad accamparsi nel Negheb.


Sara insidiata in Egitto

10 Venne una carestia nella terra e Abram scese in Egitto per soggiornarvi, perché la carestia gravava su quella terra. 11 Quando fu sul punto di entrare in Egitto, disse alla moglie Sarài: “Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. 12 Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: “Costei è sua moglie”, e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. 13 Di’, dunque, che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te”.
14 Quando Abram arrivò in Egitto, gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente.15 La osservarono gli ufficiali del faraone e ne fecero le lodi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella casa del faraone. 16 A causa di lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli. 17 Ma il Signore colpì il faraone e la sua casa con grandi calamità, per il fatto di Sarài, moglie di Abram. 18Allora il faraone convocò Abram e gli disse: “Che mi hai fatto? Perché non mi hai dichiarato che era tua moglie? 19 Perché hai detto: “È mia sorella”, così che io me la sono presa in moglie? E ora eccoti tua moglie: prendila e vattene!”. 20 Poi il faraone diede disposizioni su di lui ad alcuni uomini, che lo allontanarono insieme con la moglie e tutti i suoi averi. 

Note nel testo

12,3 Benedirò: scelto da Dio per divenire padre del popolo eletto, Abramo è chiamato ad essere benedizione per tutti i popoli: la storia di Abramo raggiungerà il suo fine solo quando includerà tutte le genti. Il Nuovo Testamento proclama che in Cristo è stata compiuta questa promessa universale di Dio (vedi Gal 3,15-18).

12,8-9 Abramo attraversa tutta la terra promessa, da nord a sud: Betel e Ai sono città; il Negheb è la regione desertica del sud.

12,10-20 L’episodio della moglie del patriarca desiderata da un re straniero è ripetuto tre volte: ancora per Sara nel Negheb vedi 20,1-18 e per Rebecca presso i Filistei vedi 26,1-11.

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In morte di Carlo Imbonati

È un componimento in endecasillabi sciolti, scritto da Manzoni nel 1805 in occasione della morte di Carlo Imbonati (il nobile che conviveva con la madre Giulia Beccaria a Parigi, dove il giovane Alessandro si trasferì subito dopo). Il carme è una sorta di dialogo morale con l’Imbonati, che aveva avuto come precettore Parini (questi gli aveva dedicato l’ode L’educazione) e che intendeva proseguirne l’impegno morale: per il giovane Manzoni diventa una sorta di maestro di vita e di letteratura, in modo assai simile a Parini stesso la cui influenza sul pensiero dello scrittore sarà sempre molto importante. Manzoni immagina che l’Imbonati gli appaia in una sorta di visione notturna e, dopo uno scambio di battute in cui i due esprimono la stima reciproca e il dolore per la forzata separazione, il giovane Alessandro chiede al defunto Carlo di indicargli la strada da percorrere per giungere alla gloria poetica: l’anima dell’antico maestro risponde che dovrà meditare profondamente, accontentarsi di poco, mantenere la purezza della mente e delle azioni, non asservirsi ai potenti, e, soprattutto, non tradire mai il “santo Vero”, né pronunciare mai una parola “che plauda al vizio, o la virtù derida”. In sostanza Manzoni affida all’Imbonati i termini essenziali della sua poetica e della sua vita morale, poi espresse in gran parte della sua produzione letteraria e che preludono alla successiva conversione religiosa, che evidentemente già maturava in quegli anni. Il testo risente ancora della formazione settecentesca e neoclassica di Manzoni e in alcuni passaggi eccede un poco in retorica, il che si spiega anche con la giovane età dell’autore che negli anni seguenti porterà a compimento un processo di maturazione stilistica e poetica (del 1809 è ancora il poemetto neoclassico Urania, che in seguito Manzoni avrebbe impietosamente rinnegato).

Testo

VERSI

DI

ALESSANDRO MANZONI

A GIULIA BECCARIA

SUA MADRE






Se mai più che d’Euterpe il furor santo,
E d’Erato il sospiro, o dolce madre,
L’amaro ghigno di Talia mi piacque,
Non è consiglio di maligno petto.
5Né del mio secol sozzo io già vorrei
Rimescolar la fetida belletta,
Se un raggio in terra di virtù vedessi,
Cui sacrar la mia rima. A te sovente
Così diss’io: ma poi che sospirando,
10Come si fa di cosa amata e tolta,
Narrar t’udia di che virtù fu tempio
Il casto petto di colui che piangi;
Sarà, dicea, che di tal merto pera
Ogni memoria? E da cotanto esemplo
15Nullo conforto il giusto tragga, e nulla
Vergogna il tristo? Era la notte; e questo
Pensiero i sensi m’avea presi; quando,
Le ciglia aprendo, mi parea vederlo
Dentro limpida luce a me venire,
20A tacit’orma. Qual mentita in tela,

Per far con gli occhi a l’egra mente inganno,
Quasi a culto, la miri, era la faccia.
Come d’infermo, cui feroce e lungo
Malor discarna, se dal sonno è vinto,
25Che sotto i solchi del dolor, nel volto
Mostra la calma, era l’aspetto. Aperta
La fronte, e quale anco gl’ignoti affida:
Ma ricetto parea d’alti pensieri.
Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso
30Non difficile il labbro. A me dappresso
Poi ch’e’ fu fatto, placido del letto
Su la sponda si pose. Io d’abbracciarlo,
Di favellare ardea; ma irrigidita
Da timor da stupor da reverenza
35Stette la lingua; e mi tremò la palma,
Che a l’amplesso correva. Ei dolcemente
Incominciò: Quella virtù, che crea
Di due boni l’amor, che sian tra loro
Conosciuti di cor, se non di volto,
40A vederti mi tragge. E sai se, quando
Il mio cor ne le membra ancor battea,
Di te fu pieno; e quanta parte avesti
De gli estremi suoi moti. Or poi che dato
Non m’è, com’io bramava, a passo a passo
45Per man guidarti su la via scoscesa,
Che anelando ho fornita, e tu cominci,
Volli almeno una volta confortarti
Di mia presenza. Io, con sommessa voce,
Com’uom, che parla al suo maggiore, e pensa
50Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,
Risposi: Allor ch’io l’amorose e vere
Note leggea, che a me dettasti prime,
E novissime furo; e la dolcezza
De l’esser teco presentia, chi detto
55M’avria che tolto m’eri! E quando in caldo
Scritto gli affetti del mio cor t’apersi,
Che non saria da gli occhi tuoi veduto,

Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo
Di te nutrissi desiderio, il pensa.
60E come il pellegrin, che d’amor preso
Di non vista città, ver quella move;
E quando spera che la meta il paghi
Del cammin duro e lungo, e fiso osserva
Se le torri bramate apparir veggia;
65E mira più da presso i fondamenti
Per crollo di tremuoto in su rivolti,
E le porte abbattute, e fori e case
Tutto in ruina inospital converso,
E i meschini rimasti interrogando,
70Con pianto ascolta raccontar dei pregi
E disegnar dei siti; a questo modo
Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti
Di retto acuto senno, d’incolpato
Costume, e d’alte voglie, ugual, sincero,
75Non vantator di probità, ma probo:
Com’oggi al mondo al par di te nessuno
Gusti il sapor del beneficio, e senta
Dolor de l’altrui danno. Egli ascoltava
Con volto nè superbo nè modesto.
80Io rincorato proseguia: se cura,
Se pensier di quaggiù vince l’avello
Certo so ben che il duol t’aggiunge e il pianto
Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
Te perdendo, ha perduto. E se possanza
85Di pietoso desio t’avrà condotto
Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto
Grondar la stilla del dolor sul primo
Bacio materno. Io favellava ancora,
Quand’ei l’umido ciglio e le man giunte
90Alzando inver lo loco onde a me venne,
Mestamente sorrise, e: se non fosse
Ch’io t’amo tanto, io pregherei che ratto
Quell’anima gentil fuor de le membra
Prendesse il vol, per chiuder l’ali in grembo
95

Di Quei, ch’eterna ciò che a Lui somiglia.
Ché finch’io non la veggo, e ch’io son certo
Di mai più non lasciarla, esser felice
Pienamente non posso. A questi accenti
Chinammo il volto, e taciti ristemmo:
100Ma per gli occhi d’entrambi il cor parlava.
Poi che il pianto e i singulti a le parole
Dieder la via, ripresi: a le sue piaghe
Sarà dittamo e latte il raccontarle
Che del tuo dolce aspetto io fui beato,
105E ridirle i tuoi detti. Ora, per lei
Ten prego, dammi che d’un dubbio fero
Toglierla io possa. Allor che de la vita
Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto
Di possanza vital feceti a gli occhi
110Il dardo balenar che ti percosse?
O pur ti giunse impreveduto e mite?
Come da sonno, rispondea, si solve
Uom, che né brama né timor governa,
Dolcemente così dal mortal carco
115Mi sentii sviluppato; e volto indietro,
Per cercar lei, che al fianco mio si stava,
Più non la vidi. E s’anco avessi innanzi
Saputo il mio morir, per lei soltanto
Avrei pianto, e per te: se ciò non era,
120Che dolermi dovea? Forse il partirmi
Da questa terra, ov’è il ben far portento,
E somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier da la parola è sempre
Altro, e virtù per ogni labbro ad alta
125Voce lodata, ma nei cor derisa;
Dov’è spento il pudor; dove sagace
Usura è fatto il beneficio, e brutta
Lussuria amor; dove sol reo si stima
Chi non compie il delitto; ove il delitto
130Turpe non è, se fortunato; dove
Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.

Dura è pel giusto solitario, il credi,
Dura, e pur troppo disegual, la guerra
Contra i perversi affratellati e molti.
135Tu, cui non piacque su la via più trita
La folla urtar che dietro al piacer corre
E a l’onor vano e al lucro; e de le sale
Al gracchiar voto, e del censito volgo
Al petulante cinquettio, d’amici
140Ceto preponi intemerati e pochi,
E la pacata compagnia di quelli
Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
Segui tua strada; e dal viril proposto
Non ti partir, se sai. Questa, risposi,
145Qualsia favilla, che mia mente alluma,
Custodii, com’io valgo, e tenni viva
Finor. Né ti dirò com’io, nodrito
In sozzo ovil di mercenario armento,
Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto
150De l’insipida stoppia, il viso torsi
Da la fetente mangiatoia; e franco
M’addussi al sorso de l’Ascrea fontana.
Come talor, discepolo di tale,
Cui mi saria vergogna esser maestro,
155Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso
Di tanto amor, che mi parea vederli
Veracemente, e ragionar con loro.
Né l’orecchio tuo santo io vo’ del nome
Macchiar de’ vili, che oziosi sempre,
160Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
L’operosa calunnia. A le lor grida
Silenzio opposi, e a l’odio lor disprezzo.
Qual merti l’ira mia fra lor non veggio;
Ond’io lieve men vado a mia salita,
165Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,
Se di te vero udii che la divina
De le Muse armonia poco curasti.
Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque

Di chiaro esempio, o di veraci carte
170Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo. E venerando il nome
Fummi di lui, che ne le reggie primo
L’orma stampò dell’Italo coturno:
E l’aureo manto lacerato ai grandi,
175Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
E di quel, che sul plettro immacolato
Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
Cui, di maestro a me poi fatto amico,
Con reverente affetto ammirai sempre
180Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
L’immondizia del trivio e l’arroganza,
E i vizj lor; che di perduta fama
185Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
Far di lodi mercato e di strapazzi.
Stolti! Non ombra di possente amico,
Nè lodator comprati avea quel sommo
D’occhi cieco, e divin raggio di mente,
190Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d’Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo:
Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
195E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il cielo.
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravissuti, oscura e disonesta
Canizie attende. E tacque; e scosso il capo,
200E sporto il labbro, amaramente il torse,
Com’uom cui cosa appare ond’egli ha schifo.
Gioia il suo dir mi porse, e non ignota
Bile destommi; e replicai: deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
205Io possa, o far che, s’io cadrò su l’erta,

Dicasi almen: su l’orma propria ei giace.
Sentir, riprese, e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi: conservar la mano
210Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: nè proferir mai verbo,
215Che plauda al vizio, o la virtù derida.
O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
Non mi sia spento; a governar rimani
Me, cui natura e gioventù fa cieco
220L’ingegno, e serva la ragion del core.
Così parlava e lagrimava: al mio
Pianto ei compianse, e: non è questa, disse,
Quella città, dove sarem compagni
Eternamente. Ora colei, cui figlio
225Se’ per natura, e per eletta amico,
Ama ed ascolta, e di filial dolcezza
L’intensa amaritudine le molci.
Dille ch’io so, ch’ella sol cerca il piede
Metter su l’orme mie; dille che i fiori,
230Che sul mio cener spande, io gli raccolgo,
E gli rendo immortali; e tal ne tesso
Serto, che sol non temerà nè bruma,
Ch’io stesso in fronte riporrolle, ancora
De le sue belle lagrime irrorato.
235Dolce tristezza, amor, d’affetti mille
Turba m’assalse; e da seder levato,
Ambo le braccia con voler tendea
A la cara cervice. A quella scossa,
Quasi al partir di sonno io mi rimasi;
240E con l’acume del veder tentando,
E con la man, solo mi vidi; e calda
Mi ritrovai la lacrima sul ciglio.

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Indice delle Opere Manzoni

Indice

  • 1Autoritratto (1801)
  • 2A Francesco Lomonaco (1802)
  • 3Alla Musa (1802)
  • 4Alla sua donna (1802)
  • 5In morte di Carlo Imbonati (1805-1806)
  • 6A Parteneide
  • 7I sermoni (1802 – 1804)
  • 8Poemetti
    • 8.1Del trionfo della libertà (1801)
    • 8.2Adda (1803)
    • 8.3Urania (1809)
  • 9Dopo la conversione (1810)
    • 9.1Inni Sacri (1812 – 1822)
    • 9.2Odi civili
      • 9.2.1Aprile 1814 (1814-1821)
      • 9.2.2Il proclama di Rimini (1815)
      • 9.2.3Marzo 1821 (1821)
      • 9.2.4Il cinque maggio (1821)
    • 9.3Epigrammi, scherzi e complimenti
      • 9.3.1L’ira di Apollo (1816)
    • 9.4Tragedie
      • 9.4.1Il Conte di Carmagnola (1816 – 1820)
      • 9.4.2Adelchi (1820 – 1822)
      • 9.4.3Spartaco (1823)
      • 9.4.4I cori delle tragedie
        • 9.4.4.1Coro de Il Conte di Carmagnola (atto II: S’ode a destra uno squillo di tromba) (1819)
        • 9.4.4.21° coro dell’Adelchi (atto III: Dagli atrii muscosi – dai fori cadenti) (1822)
        • 9.4.4.32° coro dell’Adelchi (atto IV – Coro di Ermengarda: Sparsa le trecce morbide) (1822)
    • 9.5Narrativa
      • 9.5.1Fermo e Lucia (1823)
      • 9.5.2I promessi sposi (1827 – 1840)
    • 9.6Saggistica
      • 9.6.1Poetica
        • 9.6.1.1Prefazione al Conte di Carmagnola
        • 9.6.1.2Lettre à Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie (1820)
        • 9.6.1.3Lettera Sul romanticismo al Marchese Cesare D’Azeglio (1823)
        • 9.6.1.4Del romanzo storico, e, in genere de’ componimenti misti di storia e di invenzione (1830)
        • 9.6.1.5Dell’Invenzione (1850)
      • 9.6.2Storiografia
        • 9.6.2.1Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822)
        • 9.6.2.2Storia della colonna infame (1840)
        • 9.6.2.3La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859: saggio comparativo (1889)
      • 9.6.3Filosofia morale
        • 9.6.3.1Osservazioni sulla morale cattolica (1819)
        • 9.6.3.2Lettera a Victor Cousin (1828 – 1830)
      • 9.6.4Linguistica
        • 9.6.4.1Sentir messa (1835-36)
        • 9.6.4.2Sulla lingua italiana (1846)
        • 9.6.4.3Saggio sul vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze (1856)
        • 9.6.4.4Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868)
        • 9.6.4.5Intorno al libro “De vulgari eloquentia” di Dante (1868)
        • 9.6.4.6Intorno al vocabolario (1868)
        • 9.6.4.7Lettera al Marchese Alfonso della Valle di Casanova (1871)
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Alessandro Manzoni

Fonte: Enciclopedia Treccani

VITA (Milano 7 marzo 1785 – ivi 22 maggio 1873)

Nato dall’infelice matrimonio di Giulia Beccaria, la figlia di Cesare, con un gentiluomo di lei molto più anziano, il conte Pietro M. (o, come voleva una diffusa diceria, dalla relazione adulterina della madre con il minore e meno noto dei fratelli Verri, Giovanni), per il disaccordo dei coniugi, che finirono con il separarsi, e il disinteresse della madre, fu educato nel collegio dei somaschi, a Merate e a Lugano, e in quello dei barnabiti al Longone di Milano: educazione ed educatori che egli più tardi giudicò severamente. Lo stesso nonno materno, verso il quale dovevano naturalmente volgersi l’ammirato orgoglio e l’emulazione dell’adolescente, gli offriva un modello di grande cultura, di impegno civile e di rigore intellettuale, ma non di austerità e di forza morale; né certo migliore era l’esempio che poteva venirgli dall’ambiente aristocratico. L’energico imperativo morale che informa anche le sue prime precoci prove poetiche, è il segno quindi di una tendenza costitutiva della personalità manzoniana, oltre che dell’influsso su di essa esercitato dalla migliore cultura del tempo, che in letteratura inclinava alla magniloquenza dell’epica imperiale e alla satira dei costumi, ma recava traccia della recente disillusione di cui erano ambasciatori gli esuli napoletani (con V. Cuoco e F. Lomonaco M. fu in relazione). 

La produzione poetica giovanile di M., nella quale spiccano il poema Il trionfo della libertà(1801), composto per la pace di Lunéville e la ricostituzione della Repubblica Cisalpina, l’idillio Adda (1803), i quattro Sermoni (1802-04), risente della lezione di grande decoro formale e appassionato impegno politico e civile di G. Parini e di V. Monti, da lui conosciuto personalmente, nonché delle letture di Virgilio, di Orazio e di Dante; e si situa sullo sfondo di un razionalismo di tempra ancora settecentesca e di un generico deismo. Ma nel 1805, allorché M. raggiunse la madre a Parigi, in occasione della morte di C. Imbonati, con il quale Giulia aveva a lungo convissuto, nella vita dello scrittore si verificò un fatto importante, che fu celebrato dal carme In morte di C. Imbonati (1806). M. pervenne insieme a una specie di scoperta dell’amor filiale e a una più matura definizione dei suoi propositi. Il “nuovo intatto sentier” che il poeta aveva già deliberato di battere viene individuato nella centralità di una severità morale che non si contenta della denuncia di un ceto o di un costume, ma investe la sfera mondana nel suo insieme, a prescindere dai regimi politici e dagli orientamenti ideali dominanti, e il suo porre “sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo”; e nell’assunzione, ben oltre ogni mero atteggiamento letterario, delle responsabilità comportate in termini di condotta personale e impegno intellettuale da questa presa di posizione. Dalla madre M. non si sarebbe mai più separato, sì che Giulia costituì poi, finché visse, il centro della sua vita familiare.

La dimora a Parigi (1805-10) permise a M. di frequentare attivamente gli ambienti intellettuali che costituivano il crogiolo della più avanzata ricerca filosofica e letteraria dell’Europa di allora. Specie alla “Maisonnette” di Meulan, presso la vedova del Condorcet, che conviveva con C. Fauriel, poté assistere da vicino alla più importante delle trasformazioni in atto, a quella riflessione del razionalismo illuminista sui proprî risvolti materiali e psicologici alla quale legarono il loro nome i cosiddetti idéologues (oltre al Fauriel, con il quale M. strinse allora una appassionata duratura amicizia, P. Cabanis e A. Destutt de Tracy). Così, quando, all’indomani della pubblicazione (1809) del suo poemetto neoclassico Urania, egli scrisse che non avrebbe più fatto versi simili, dei quali era assai malcontento “soprattutto per la loro assoluta mancanza d’interesse”, manifestava probabilmente una nuova sensibilità per uno almeno dei fondamenti della poetica romantica, secondo il quale la poesia non avrebbe dovuto essere destinata a una élite di raffinati, ma suo compito sarebbe stato piuttosto quello di “interessare” i lettori, facendosi interprete delle loro idee e sentimenti e solo in questo modo assecondando la propria vocazione universale. Contemporanea a questa prima attenzione alle posizioni romantiche è la cosiddetta conversione al cattolicesimo, che il ritorno ai sacramenti suggellò nel 1810, poco dopo dunque la sconfessione di Urania. L’una e l’altra non sono anzi che aspetti d’un medesimo profondo rivolgimento intimo. Sui modi nei quali precisamente si attuò la conversione religiosa, siamo assai male informati, soprattutto per il geloso riserbo di M.: indubitabile, data anche la sua indole, che essa sia stata il risultato di lunghe, severe meditazioni, e che non si sia in nessun modo risolta nella conquista di un pacifico approdo, comportando al contrario una ulteriore accentuazione dell’inquietudine e del problematicismo dello scrittore; ma ignoriamo se ci sia stato un punto preciso di risoluzione della crisi, dai gravi riflessi nevrotici della quale peraltro M. non si sarebbe mai del tutto liberato. Rimane dubbio il racconto di alcuni amici, secondo cui una folgorazione di fede sarebbe avvenuta (aprile 1810) nella chiesa di S. Rocco a Parigi. 

Più sicuro è l’influsso di Enrichetta Blondel, che M. aveva sposato giovanissima nel 1808, per la quale il problema religioso non era filosoficamente eludibile: calvinista, ella sentì imperioso il bisogno di essere istruita circa quella fede cattolica secondo la quale era stata battezzata la prima figlia, Giulia: ascoltò l’abate E. Degola, si convinse, abiurò. L’urgenza di quel problema si impose così in casa M.: Alessandro e la madre non tardarono a ritornare a loro volta al cattolicesimo attivo, assistiti poi a lungo dal canonico L. Tosi. Tale ritorno ebbe senz’altro coloriture giansenistiche, vista la tendenza dello scrittore, che pure sarebbe rimasto sempre nella più stretta ortodossia, a un’interpretazione più severa della religione e soprattutto della morale cattolica. La conversione era d’altronde per lui una necessità logica e sentimentale. Negata la validità perenne e certa della ragione, la vita umana e la storia si palesavano romanticamente, alla ipertesa sensibilità dello scrittore, come un doloroso, miserabile disordine, inspiegabilmente vano. Mentre gli veniva a mancare la base sicura dell’istanza morale, a M. si imponeva la necessità di trasferire nella propria esperienza intima e di testimoniare con i proprî comportamenti l’interpretazione eroica della vita e il confronto quotidiano con la storia di cui quel severo moralismo si nutriva. Con la stessa fede prima riposta nella felicità raggiungibile per mezzo della ragione, in M. il senso romantico dell’incomprensibilità della vita, della sua oscura legge di dolore, si compone subito, senza annullarsi, nella prospettiva provvidenziale di un ordine superiore agli accadimenti e alla loro immediata percezione e di una felicità dopo la morte, sempre all’insegna di una lucida fermezza intellettuale e di un impegno assoluto della persona.

Nel 1810 M. tornò a Milano, donde non si mosse più se non per brevi viaggi (importante quello parigino del 1819, nel corso del quale entrò in contatto con V. Cousin e A. Thierry). Colà e nella villa di Brusuglio, che la madre aveva ereditato da Imbonati, visse ritirato in compagnia della moglie (morta nel 1833; M. sposò poi Teresa Borri vedova Stampa), della madre (morta nel 1841), dei molti figli e di pochi amici (tra i quali C. Porta, T. Grossi, A. Rosmini, che esercitò un notevole influsso sulla definitiva sistemazione delle sue idee estetiche e religiose, N. Tommaseo). Lavorava lentamente: quattro Inni sacri (La Risurrezione, 1812; Il Nome di Maria e Il Natale, 1813; La Passione, 1814-15), ai quali poi aggiunse La Pentecoste (cominciato nel 1817, ripreso nel 1819 e finito nel 1822); due tragedie (Il conte di Carmagnola, 1816-19; Adelchi, 1820-22; di una terza tragedia, Spartaco, non scrisse che uno schema); tre odi politiche (Il proclama di Rimini, 1815, e Marzo 1821, pubblicate solo nel 1848; Il cinque maggio, l’unica poesia che M. abbia scritto di getto, alla notizia della morte di Napoleone, 1821); le Osservazioni sulla morale cattolica (1ª parte, 1819; ripubblicata nel 1855 come opera compiuta; la 2ª parte restò frammentaria); infine il romanzo: la prima redazione, con il titolo Fermo e Lucia, fu scritta dal 1821 al 1823; la seconda redazione, profondamente modificata, con il titolo I promessi sposi, fu pubblicata dal 1825 al 1827 in un’edizione conosciuta come la “ventisettana”. Nel frattempo, la sua fama europea si accresceva (testimonianza della grande stima di J. W. Goethe, ammiratore del M. tragediografo e del romanziere, fu la sua tempestiva traduzione in tedesco del Cinque maggio) e in Italia gli veniva riconosciuto un ruolo di riferimento politico e letterario senza precedenti. Dopo di allora, M. sostanzialmente tacque: attese a lungo alla correzione, specie linguistica, del suo fortunatissimo romanzo, che, prima di apparire nel suo testo definitivo dal 1840 al 1842 (tale edizione fu detta la “quarantana”) insieme con la Storia della colonna infame, fu sottoposto appunto alla proverbiale “risciacquatura in Arno”; e alla stesura di opere storiche (Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, al quale lavorò a più riprese negli ultimi anni, ma rimasto frammentario) e soprattutto linguistiche. Di poesia, non scrisse più, d’importante, che, nel 1835, Il Natale del 1833, cioè il Natale in cui era morta Enrichetta e, forse nel 1847, un nuovo inno, L’Ognissanti: incompiuti l’uno e l’altro componimento. M. morì quasi novantenne, nel 1873, per i postumi di una caduta all’uscita dalla chiesa. G. Verdi compose in suo onore una Messa da requiem, eseguita a un anno dalla sua scomparsa.

M. non partecipò mai direttamente alle polemiche letterarie e alle lotte politiche del suo tempo, pur prendendo posizione con fermezza nell’uno e nell’altro campo. In quello politico, il suo pensiero cattolico-liberale e il suo ideale monarchico e unitario restarono ben saldi per tutta la lunga vita, da quando nel 1814 sottoscrisse la petizione del senato del Regno italico perché all’Italia fosse riconosciuta l’indipendenza, e l’illusione del momento cantò in Aprile 1814, e l’anno dopo plaudì nel Proclama di Rimini al tentativo murattiano di unificazione; sino a quando, senatore, partecipò nel 1861 alla seduta in cui fu proclamato il Regno d’Italia. Nel 1864 il suo ossequio alla Chiesa non gli impedì di votare il trasferimento della capitale a Roma; ancora nell’ultimo anno di vita, nel 1873, riprese alcune pagine del Saggio comparativo e ne fece un’operetta nuova, rimasta anch’essa incompiuta, intitolata Dell’indipendenza dell’Italia. Ma tutta l’opera sua è retta da quel pensiero e ispirata da quel sentimento. Assidua e in coerente svolgimento (attestato dai cosiddetti Materiali estetici) fu altresì la sua meditazione intorno alle questioni letterarie aperte dalla rivoluzione romantica. I novatori del gruppo milanese lo considerarono presto il loro capo, anche se egli non prese parte alla rumorosa lotta che si accese a partire dal 1816. Inedita restò per allora un’ode scherzosa, del 1818, L’ira di Apollo; ma la stringata prefazione al Carmagnola(1820) e subito dopo la risposta a V. Chauvet (Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, finita nel luglio 1820, pubbl. nel 1823), che vanno ben oltre il problema delle unità pseudo-aristoteliche nel teatro, la lettera al marchese C. d’Azeglio Sul Romanticismo (1823, ma pubbl., e senza il consenso dell’autore, solo nel 1846), formulano con estrema nettezza e rigore logico il pensiero manzoniano in questo momento. Respinte, semplicemente come non fondate sul ragionamento, le regole classicistiche e ogni astrattezza teorica che non rispettasse la natura molteplice e complessa del reale e della stessa esperienza estetica, M., anche se non nasconde la sua incertezza circa la definizione del concetto corrispondente, pone il vero come sorgente e oggetto della ricerca letteraria, restituendo quindi una più sostanziale unità all’opera d’arte, che troverà poi una sintetica espressione nella formula “l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”. Il poeta delle due tragedie e dei Promessi sposi si riserva il compito di collaborare con lo storiografo, restaurando con la sua fantasia poetica quanto rimane fuori della storia, cioè i riflessi che i grandi avvenimenti e le generali condizioni politiche e sociali hanno avuto sugli individui, sulle anonime folle, che, senza costituire essi stessi storia, possono essere recuperati dalla peculiare verità della letteratura. M. si preparò a tali opere con attentissimi studî, testimoniati, oltre che dalle Notizie storiche premesse alle due tragedie, dall’ampio Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, dai capitoli di storia generale inseriti nei Promessi sposi, e dalla Storia della colonna infame. Già all’indomani della prima edizione del romanzo, M., per approfondire il concetto di “vero”, mise mano al suo discorso Del Romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d’invenzione, che finì e pubblicò solo nel 1845, e tornò sull’argomento, con il conforto del Rosmini, nel dialogo Dell’invenzione (1850). In questi scritti M. giunge a una più netta distinzione fra l’attività dello storico e quella del poeta, negando in definitiva la legittimità dell’invenzione letteraria anche nell’accezione ridotta da lui stesso sperimentata.

L’attività letteraria di M. anteriore alla duplice conversione, lungamente sottovalutata dalla critica, pur conservando il suo carattere giovanile e preparatorio rispetto alla maggiore produzione successiva, contiene in sé elementi di grande interesse, dal dato originario di una personalità inquieta e complessa alla precoce grande padronanza tecnica del versificatore, alla sicurezza dei progetti e già quasi alla predestinazione dell’incontro tra la sete di assolutezza, per esempio attestata dal pindarismo di Urania, e l’energia stilistica dell’imitatore di Dante e di Parini e gli sbocchi istituzionali offerti dal cattolicesimo militante e dal romanticismo. Discende così naturalmente dagli sciolti In morte di C. Imbonati la volontaria mortificazione cui M. sottopone, prima negli Inni sacri e poi nelle tragedie, la propria individualità e gli ideali letterarî a essa connessi, l’una e gli altri sacrificati a una missione di verità che è sì innanzitutto riconoscimento della vanità di ogni sforzo di salvezza individuale e recupero della propria identità di fedele, ma risponde anche all’intuita necessità di un compito sovrumano per l’artista moderno e si concilia comunque con la raffinatissima institutio retorica che nello scrittore avrà sempre il compito di esorcizzare la complessità del reale e la tragedia del vivere, conferendo a ognuna delle sue pagine lo statuto privilegiato di ciò che non è il frutto di un ragionamento individuale, ma appena l’anticipazione sapiente dell'”assenso” collettivo. 

Nel quindicennio di maggior fervore creativo (1812-27), M. è preso dall’urgenza di dar voce poetica alle sue nuove credenze religiose. Rievoca quindi negli Inni sacri i grandi eventi del passaggio terreno di Gesù, la loro eterna contemporaneità attraverso i riti della Chiesa, o esalta l’aiuto che agli umili è dato dall’umile e regale Maria, escogitando un linguaggio poetico che si ispira direttamente a quello della Bibbia per restituire alla liturgia freschezza e entusiasmo e dalla poesia profana del Settecento e dal melodramma rileva ritmi fortemente cadenzati e predisposti all’esecuzione corale. Prima di affidare al romanzo l’eredità pariniana e montiana di uno stile tanto più eletto quanto più efficacemente si confronta con la realtà, negli Inni sacri e nella poesia civile di Marzo 1821 e del Cinque maggio, come nei cori “lirici” delle tragedie, M. realizza una poesia in cui il tema è dato, più che dalle Scritture, dalla preveggenza del sentimento religioso o patriottico e viene svolto da un poeta per una volta capace di condividere lo stesso fiducioso abbandono al canto e alle parole del lettore più semplice. Per un altro verso, le tragedie ruotano intorno al dilemma formulato da Adelchi morente: nel mondo “non resta che far torto o patirlo”. Il senato veneto che condanna l’innocente Carmagnola, Carlo che ripudia l’innamorata Ermengarda, Desiderio che prende le armi contro il diritto del pontefice, gli Italiani che combattono contro altri Italiani, gli stranieri invasori dell’Italia: tutti fanno il torto, ma trascinati da una forza che supera la loro stessa volontà, dalla stessa legge ferrea e incomprensibile della vita e della storia. Sicché è “provvida” la sventura che pone tra gli oppressi Ermengarda, discesa dalla progenie degli oppressori; e che con la sconfitta, privandolo del regno, pone Desiderio nell’impossibilità d’essere strumento del male. Lo sforzo dei personaggi prima ancora che del poeta è scorgere nel tumulto della storia, nella vanità d’ogni gloria e d’ogni azione terrena l’intervento onnipresente di Dio, i cui fini, se sono imperscrutabili, non sono perciò meno giusti e sicuri (Cinque maggio); o invocare per tutti, contro ogni tempesta, l’ausilio dello Spirito Santo, che si attua attraverso il magistero soprannaturale della Chiesa (Pentecoste). 

È questo il momento del più esplicito impegno romantico manzoniano, che non senza ragione trova la sua più netta espressione nella tragedia e nella forza dei contrasti che informa la prima redazione del romanzo. Nelle ferme pagine della seconda redazione del romanzo, subentra un’ulteriore maturazione della poetica manzoniana, che già non aveva mai mostrato indulgenza verso le posizioni estreme del romanticismo. Nei Promessi sposi, la stessa pietà per gli oppressi è contenuta, dissimulata dal sorriso con cui sono contemplate le loro debolezze ed errori; e se mai domina la dolente rappresentazione della violenza cui soggiace Gertrude, monacata a forza, o quella della miserabile fine di Don Rodrigo. Al delitto anche gli oppressori sono trascinati: quello di Gertrude nasce dalla violenza familiare, che a sua volta dipende dalle convenzioni sociali. La persecuzione di Don Rodrigo è effetto non di passione o di vizio, ma della necessità cui egli non sa sottrarsi di vincere il “punto d’onore”, di conservare cioè il prestigio della sua casata, che appunto per questo è tutta solidale con lui. Mentre però nelle tragedie gli oppressi piegavano sotto il male, rifugiandosi solo nel pensiero e nella speranza di Dio, nei Promessi sposi lottano contro di esso. Non Renzo, la cui ribellione è disordinata e inefficiente perché contenuta tutta nei limiti dell’azione terrena, ma fra Cristoforo e il cardinale Federigo Borromeo, che concretamente e coraggiosamente agiscono in nome della Provvidenza di cui sanno d’essere strumenti, sono i rappresentanti dell’umanità ideale per M.; e l’Innominato, allorché egli piega al servizio del bene la sua energia che la conversione non ha domato; e Lucia, con la forza disarmata ma invincibile della sua innocenza e della sua fede. Se poi l’inutile fede religiosa di Don Abbondio, la viltà che lo porta a diventare strumento dell’ingiustizia, rappresentano il contro-ideale di M., lo scrittore però sa che “il coraggio uno non se lo può dare”; che è solo di pochi purtroppo quella terrena fortezza senza odio che egli, giunto al culmine della sua arte, ci propone come guida e meta della nostra vita. M. riconosce nel romanzo il terreno di uno scontro cruciale tra le ragioni della letteratura, o in ultima istanza della ragione senz’altro, e la casualità della verifica storica, salvo poi rassegnarsi a questa apparente casualità come alla prova da superare cristianamente grazie alla fede. Il suo rifiuto e la sua aperta polemica contro il romanzesco, evocato con tutte le cautele e puntualmente esorcizzato, interpretano bene le resistenze di fondo, innanzitutto linguistiche, di tutta la nostra tradizione al “meraviglioso” moderno e alla sua vocazione popolare; e proietteranno un’ombra tenace su tutti i romanzi posteriori, contribuendo a rafforzare preclusioni e riserve e incoraggiando con il proprio esempio gli sbocchi, atipici in ambito europeo ma caratteristici della nostra tradizione, verso il romanzo-poema e il romanziere-storiografo.

Il Manzoni e la questione della lingua

M., già da giovanissimo, aveva romanticamente lamentato la frattura esistente in Italia tra lingua parlata e lingua letteraria. Non solo per le sue prime poesie, ma anche per gli Inni sacri e le tragedie, si era sostanzialmente valso della lingua poetica offertagli dalla tradizione; ma scrivendo la prosa del romanzo, nel quale per la prima volta in Italia il realismo romantico investe i dominî dell’alta letteratura, gli si pone concretamente il problema della lingua. Partì dall’idea che una lingua letteraria “comune” a tutta l’Italia potesse essere quella costituita dall’incontro tra i varî dialetti italiani, in particolare tra il milanese e il toscano; ma poi piegò sempre più verso la concezione che la lingua comune dovesse essere basata sull’uso, e quest’uso non potesse essere che quello d’una determinata regione, cioè della Toscana; considerando poi che anche nell’interno della Toscana c’erano discrepanze tra l’una e l’altra parlata, finì col sostenere la necessità di adottare il fiorentino parlato (ma quello, per così dire, epurato, delle persone colte) come lingua comune. A questa tesi fiorentina giunse esplicitamente e pubblicamente in una lettera a G. Carena del 1847; quando già, almeno dall’indomani della pubblicazione della prima edizione del suo romanzo, egli si era volto ad approfondire il problema sia correggendo in senso fiorentino i Promessi sposi per l’edizione definitiva, sia lavorando, per tutto il resto della sua vita, a un trattato sulla lingua, che non condusse mai a termine, e del quale ci restano numerosi abbozzi e frammenti (uno di essi fu pubbl. nel 1923 col titolo Sentir messa). 

E. Broglio, seguace di M. nelle questioni della lingua, diventato ministro della Pubblica Istruzione, nominò nel 1868 una commissione, presieduta da M., che suggerisse provvedimenti atti “a rendere più universale a tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia”. M. scrisse subito una relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1868), seguita l’anno dopo da un’Appendice, nella quale egli propugnava lucidamente le sue idee e respingeva le obiezioni. Come base della desiderata unità linguistica, la quale era concepita da M. come un essenziale coronamento dell’unità politica, si proponeva la pubblicazione di un vocabolario dell’uso di Firenze, che apparve poi, dal 1870 al 1897, opera dello stesso Broglio e di G. B. Giorgini. La relazione manzoniana e l’inizio della pubblicazione del Novo vocabolario accesero vaste polemiche, pro e contro; autorevolissimo tra gli oppositori di M., in nome di una concezione storica della lingua, per la quale la desiderata unificazione linguistica non poteva non essere che il frutto di lenta maturazione, d’una effettiva unificazione nazionale, fu G. I. Ascoli, nel proemio del suo Archivio glottologico (1873). Ma fu lo stesso Ascoli a dire che la mano di M., che pareva “non aver nervi”, era riuscita “a estirpare dalle lettere italiane… l’antichissimo cancro della retorica”. Ed è appunto questo l’aspetto storicamente positivo della teoria e soprattutto dell’esempio manzoniano: anche se in alcuni dei suoi seguaci la sobrietà, il nitore, l’aggiustatezza verbale senza fronzoli del maestro poterono diventare lezio. Donde la reazione di tanti, nel secondo Ottocento, che desiderarono e attuarono una prosa più sostenuta e quadrata, più “classica”: tra i quali in primo luogo G. Carducci.

Tra le edizioni contemporanee, fondamentale è l’ed. critica, avviata da M. Barbi e diretta da A. Chiari e F. Ghisalberti, di Tutte le opere di Alessandro M., di cui sono apparsi i voll. I-V (1954-91), comprendenti poesie e tragedie, il romanzo nelle sue tre stesure, le opere morali e filosofiche, i saggi storici e politici, gli scritti linguistici e letterarî, e VII (3 tomi, 1970), comprendente le lettere. Di queste s’è avuta un’ed. con integrazioni: Tutte le lettere, a cura di C. Arieti e D. Isella (3 voll., 1986). Per il Carteggio (ma solo fino al 1831) si deve ricorrere all’ed. fornita da G. Sforza e G. Gallavresi (2 voll., 1912-21). Sono disponibili le Concordanze degli Inni sacri, a cura dell’Accademia della Crusca (1967), e le Concordanze dei Promessi sposi, a cura di G. De Rienzo, E. Del Boca, S. Orlando (5 voll., 1985).

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GENESI 11


Bɵreshìt 11
]safah [labbro ָשׂ ָפה ]chol-ha’àretz [tutta la terra ָכל־ ָה ָא ֶרץ vay’hì [e fu] che ַו ְי ִהי 11:1

.]udɵvarìm ach̠ adìm [e (usava) le stesse parole וּ ְד ָב ִרים ֲא ָח ִדים ]ech̠ àd [uno ֶא ָחת

ַוְיִהי ְבָּנְסָעם ִמֶקֶּדם ַוִיְּמְצאוּ ִבְקָעה ְבֶּאֶרץ ִשְׁנָער ַוֵיְּשׁבוּ ָשׁם׃ ,]mikkèdem [da oriente ִמ ֶקּ ֶדם vay’hì [e fu – E avvenne che], essendo partiti ַו ְי ִהי 11:2

gli uomini trovarono una pianura ְבּ ֶא ֶרץ bɵèretz [in terra] di Scinear, e ָשׁם shàm [quivi] si stanziarono.

ַויּ ֹא ְמרוּ ִאישׁ ֶאל־ ֵר ֵעהוּ ָה ָבה ִנ ְל ְבּ ָנה ְל ֵב ִנים ְו ִנ ְשׂ ְר ָפה ִל ְשׂ ֵר ָפה ַו ְתּ ִהי ָל ֶהם ַה ְלּ ֵב ָנה ְל ָא ֶבן ְו ַה ֵח ָמר ָהָיה ָלֶהם ַלֹחֶמר׃

vayomɵrù [E dissero] l’uno all’altro: ‘Orsù, facciamo de’ mattoni e ַויֹּא ְמרוּ 11:3 bruciamoli (con il ֵאשׁ èsh [fuoco])!’ ָה ָיה hayah [fu] E si valsero di mattoni invece di pietre, e di bitume invece di calcina.

ַויֹּאְמרוָּהָבהִנְבֶנה־ָלּנוִּעירוִּמְגָדּלְורֹאשׁוַֹבָשַּׁמִיםְוַנֲעֶשׂה־ָלּנוֵּשׁםֶפּן־ָנפוּץַעל־ְפֵּניָכל־ָהָאֶרץ׃ jr [città] e una torre diִעיר vayomɵrù [E dissero]: ‘Orsù, edifichiamoci una ַויֹּא ְמרוּ 11:4 cui la cima giunga ַב ָשּׁ ַמ ִים vashamàim [nel cielo], e acquistiamoci fama, onde ל ֹא lò [non] siamo dispersi ַעל־ ְפּ ֵני àl-pɵnè [sulla faccia] di ָכל־ ָה ָא ֶרץ chol-ha’àretz [tutta la terra]’.

ַו ֵיּ ֶרד יהוה ִל ְר ֹאת ֶאת־ ָה ִעיר ְו ֶאת־ ַה ִמּ ְג ָדּל ֲא ֶשׁר ָבּנוּ ְבּ ֵני ָה ָא ָדם׃

11:5 E יהוה Yahweh discese per vedere la città e la torre che i ְבּ ֵני bɵnè [figli] degli uomini edificavano.

ַויּ ֹא ֶמר יהוה ֵהן ַעם ֶא ָחד ְו ָשׂ ָפה ַא ַחת ְל ֻכ ָלּם ְו ֶזה ַה ִח ָלּם ַל ֲעשׂוֹת ְו ַע ָתּה ל ֹא־ ִי ָבּ ֵצר ֵמ ֶהם ֹכּל ֲא ֶשׁר ָיְזמוּ ַל ֲעשׂוֹת׃

àm ַעם ֶא ָחד hèn [Ecco], essi sono ֵהן :Yahweh יהוה ]Vayòmer [E disse ַויֹּא ֶמר 11:6
ech̠ àd [un solo popolo] e hanno tutti il medesimo linguaggio; e questo che loro hanno cominciato ַל ֲעשׂוֹת la’asòt [a fare] è il p rincipio del loro lavoro; ora nulla li impedirà di condurre a termine ֹכּל ֲא ֶשׁר kol ashèr [tutto quello che] disegnano ַל ֲעשׂוֹת la’asòt [di fare].

ָה ָבה ֵנְר ָדה ְו ָנ ְב ָלה ָשׁם ְשׂ ָפ ָתם ֲא ֶשׁר לֹא ִי ְשׁ ְמעוּ ִאישׁ ְשׂ ַפת ֵר ֵעהוּ׃

11:7 Orsù, scendiamo e confondiamo ָשׁם shàm [quivi] il loro linguaggio, sicché l’uno re’èhu [suo ֵר ֵעהוּ yish’mɵ’ù [ascoltino – capisca] il parlare del ִי ְשׁ ְמעוּ ]lò [non ל ֹא prossimo -dall’altro]!’

ַו ָיּ ֶפ ץ י ה ו ה ֹא ָת ם ִמ ָשּׁ ם ַע ל ־ ְפּ ֵנ י ָכ ל ־ ָה ָא ֶר ץ ַו ַיּ ְח ְדּ ל וּ ִל ְב ֹנ ת ָה ִע י ר ׃11:8CosìיהוהYahwehlidispersedilàַעל־ְפֵּני àl-pɵnè[sullafaccia]diָכל־ָהָאֶרץ chol-

ha’àretz [tutta la terra], ed essi cessarono di edificare la città.

ַעל־ֵכּן ָקָרא ְשָׁמהּ ָבֶּבל ִכּי־ ָשׁם ָבַּלליהוה ְשַׂפת ָכּל־ָהָאֶרץוִּמ ָשּׁם ֱהִפיָצםיהוה ַעל־ְפֵּני ָכּל־ ָה ָא ֶרץ׃

ָבּ ֶבל ]karà shɵmàh [il nome di essa fu chiamato ָק ָרא ְשׁ ָמהּ ]al-kèn [Perciò ַעל־ ֵכּן 11:9 bavel [Babel] perché יהוה Yahweh confuse quivi il linguaggio di ָכּל־ ָה ָא ֶרץ kol- ha’àretz [tutta la terra], וּ ִמ ָשּׁם umisshàm [e di là] יהוה Yahweh li disperse ַעל־ ְפּ ֵני àl- pɵnè [sulla faccia] di ָכּל־ ָה ָא ֶרץ kol-ha’àretz [tutta la terra].

ֵאֶלּהתּוְֹלֹדת ֵשׁם ֵשׁם ֶבּן־ְמַאת ָשָׁנהַויּוֶֹלד ֶאת־ַאְרַפְּכָשׁד ְשָׁנַתִים ַאַחר ַהַמּבּוּל׃ ֵשׁם tolɵdòt [discendenti, generazioni, posterità] di תּוֹ ְל ֹדת èlleh [Questa] è la ֵא ֶלּה 11:10 ָשׁ ָנה ben-mɵat [all’età di cento] cent’anni ֶבּן־ ְמ ַאת,]Shem [Nome ֵשׁם .]Shem [Nome ַא ַחר ]shɵnatàim [due anni ְשׁ ָנ ַת ִים ,vaiyoled [e generò] Arpacshad ַויּוֹ ֶלד ,]shanah [anno ach̠ àr [dopo] ַה ַמּבּוּל hammabul [il diluvio].

ַוְיִחי־ֵשׁם ַאֲחֵריהוִֹלידוֹ ֶאת־ַאְרַפְּכָשׁד ֲחֵמשׁ ֵמאוֹת ָשָׁנהַויּוֶֹלד ָבִּניםוָּבנוֹת׃ 11:11 E ֵשׁם Shem [Nome], ַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ ach̠ arè holìdò [dopo ch’ebbe generato]

Arpacshad, visse ֲח ֵמשׁ ch̠ amesh [cinque] ֵמאוֹת meòt [centi cento] ָשׁ ָנה shanah [anno] cinquecent’anni ַויּוֹ ֶלד vaiyoled [e generò] ָבּ ִנים banìm [figli] וּ ָבנוֹת uvanòt [e figlie].

ְוַאְרַפְּכַשׁד ַחי ָחֵמשׁוְּשׁ􏰀ִשׁים ָשָׁנהַויּוֶֹלד ֶאת־ָשַׁלח׃ 11:12 Arpacshad ַחי ch̠ ai [visse] ָח ֵמשׁ ch̠ amesh [cinque] וּ ְשׁ􏰀 ִשׁים ush’loshìm [e trenta]

trentacinque anni ָשׁ ָנה shanah [anno] ַויּוֹ ֶלד vaiyoled [e generò] Scelah;

ַוְיִחי ַאְרַפְּכַשׁד ַאֲחֵריהוִֹלידוֹ ֶאת־ֶשַׁלח ָשׁ􏰀שׁ ָשִׁניםְוַאְרַבּע ֵמאוֹת ָשָׁנהַויּוֶֹלד ָבִּניםוָּבנוֹת׃ ach̠ arè holìdò [dopo ch’ebbe ַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ vaych̠ ì [E visse] Arpacshad ַו ְי ִחי 11:13 ֵמאוֹת ]vɵarbà [e quattro ְו ַא ְר ַבּע]shanìm [anni ָשׁ ִנים ]shalosh [tre ָשׁ􏰀שׁ generato] Scelah meòt [centi cento] ָשׁ ָנה shanah [anno] quattrocentotre anni ַויּוֹ ֶלד vaiyoled [e generò] .]uvanòt[efiglieוָּבנוֹת]banìm[figli ָבִּנים

ְו ֶשׁ ַלח ַחי ְשׁ􏰀 ִשׁים ָשׁ ָנה ַויּוֹ ֶלד ֶאת־ ֵע ֶבר׃

ַויּוֹ ֶלד shanah [anno] trent’anni ָשׁ ָנה ]shɵloshìm [trenta ְשׁ􏰀 ִשׁים Scelah visse 11:14 vaiyoled [e generò] Eber;

ַוְיִחי־ֶשַׁלח ַאֲחֵריהוִֹלידוֹ ֶאת־ֵעֶבר ָשׁ􏰀שׁ ָשִׁניםְוַאְרַבּע ֵמאוֹת ָשָׁנהַויּוֶֹלד ָבִּניםוָּבנוֹת׃ 11:15 e Scelah, ַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ ach̠ arè holìdò [dopo aver generato] Eber, ַחי ch̠ ai [visse] ]meòt [centi cento ֵמאוֹת ]vɵarbà [e quattro ְו ַא ְר ַבּע ]shanìm [anni ָשׁ ִנים ]shalosh [tre ָשׁ􏰀שׁ ]banìm [figli ָבּ ִנים ]vaiyoled [e generò ַויּוֹ ֶלד shanah [anno] quattrocentotre anni ָשׁ ָנה .]uvanòt [e figlie וּ ָבנוֹת

ַוְי ִחי־ ֵע ֶבר ַאְר ַבּע וּ ְשׁ􏰀 ִשׁים ָשׁ ָנה ַויּוֹ ֶלד ֶאת־ ָפּ ֶלג׃ 11:16 Eber visse ַא ְר ַבּע arbà [quattro] וּ ְשׁ􏰀 ִשׁים ush’loshìm [e trenta] ָשׁ ָנה shanah

[anno] trentaquattro anni ַויּוֹ ֶלד vaiyoled [e generò] Peleg;

ַוְיִחי־ֵעֶבר ַאֲחֵריהוִֹלידוֹ ֶאת־ֶפֶּלג ְשׁ􏰀ִשׁים ָשָׁנהְוַאְרַבּע ֵמאוֹת ָשָׁנהַויּוֶֹלד ָבִּניםוָּבנוֹת׃ ְשׁ􏰀 ִשׁים ach̠ arè holìdò [dopo aver generato] Peleg, visse ַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ ,ed Eber 11:17 shɵloshìm [trenta] ָשׁ ָנה shanah [anno] ְו ַא ְר ַבּע vɵarbà [e quattro] ֵמאוֹת meòt [centi cento] ]banìm [figli ָבּ ִנים ]vaiyoled [e generò ַויּוֹ ֶלד shanah [anno] quattrocentotrent’anni ָשׁ ָנה .]uvanòt [e figlie וּ ָבנוֹת

ַו ְי ִח י ־ ֶפ ֶל ג ְשׁ 􏰀 ִשׁ י ם ָשׁ ָנ ה ַו יּ וֹ ֶל ד ֶא ת ־ ְר ע וּ ׃ ַויּוֶֹלדshanah[anno]trent’anni ָשָׁנה]shɵloshìm[trentaְשׁ􏰀ִשׁים11:18Pelegvisse

vaiyoled [e generò] Reu;

ַוְיִחי־ֶפֶלג ַאֲחֵריהוִֹלידוֹ ֶאת־ְרעוּ ֵתַּשׁע ָשִׁניםוָּמאַתִים ָשָׁנהַויּוֶֹלד ָבִּניםוָּבנוֹת׃ 11:19 e Peleg, ַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ ach̠ arè holìdò [dopo aver generato] Reu, visse ֵתּ ַשׁע teshà [nove] ָשׁ ִנים shanìm [anni] וּ ָמא ַת ִים umàtaìm [e duecenti] ָשׁ ָנה shanah [anno] duecentonove anni ַויּוֹ ֶלד vaiyoled [e generò] ָבּ ִנים banìm [figli] וּ ָבנוֹת uvanòt [e figlie].

ַו ְי ִחי ְרעוּ ְשׁ ַתּ ִים וּ ְשׁ􏰀 ִשׁים ָשׁ ָנה ַויּוֹ ֶלד ֶאת־ ְשׂרוּג׃ ]ush’loshìm [e trenta וּ ְשׁ􏰀 ִשׁים ]shɵttaìm [due ְשׁ ַתּ ִיםvaych̠ ì [E visse] Reu ַו ְי ִחי 11:20

;vaiyoled [e generò] Serug ַויּוֹ ֶלד shanah [anno] trentadue anni ָשׁ ָנה

ַוְיִחיְרעוּ ַאֲחֵריהוִֹלידוֹ ֶאת־ְשׂרוּג ֶשַׁבע ָשִׁניםוָּמאַתִים ָשָׁנהַויּוֶֹלד ָבִּניםוָּבנוֹת׃ ]ach̠ arè holìdò [dopo aver generatoַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ ,vaych̠ ì [E visse] Reu ַו ְי ִחי 11:21 ָשׁ ָנה ]umàtaìm [e duecenti וּ ָמא ַת ִים ]shanìm [anniָשׁ ִנים ]shevà [sette ֶשׁ ַבע ,Serug וּ ָבנוֹת ]banìm [figli ָבּ ִנים ]vaiyoled [e generò ַויּוֹ ֶלד shanah [anno] duecentosette anni uvanòt [e figlie].

ַו ְי ִחי ְשׂרוּג ְשׁ􏰀 ִשׁים ָשׁ ָנה ַויּוֹ ֶלד ֶאת־ ָנחוֹר׃ ]shanah [anno ָשׁ ָנה ]shɵloshìm [trenta ְשׁ􏰀 ִשׁים vaych̠ ì [E visse] Serug ַו ְי ִחי 11:22

trent’anni ַויּוֹ ֶלד vaiyoled [e generò] Nahor;
ַו ְי ִחי ְשׂרוּג ַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ ֶאת־ ָנחוֹר ָמא ַת ִים ָשׁ ָנה ַויּוֹ ֶלד ָבּ ִנים וּ ָבנוֹת׃

]ach̠ arè holìdò [dopo aver generato ַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ ,vaych̠ ì [E visse] Serug ַו ְי ִחי 11:23 ַויּוֹ ֶלד shanah [anno] duecento anni ָשׁ ָנה ]màtaìm [duecento – duecenti ָמא ַת ִים ,Nahor vaiyoled[egenerò]ָבִּנים banìm[figli]וָּבנוֹתuvanòt[efiglie].

ַו ְי ִחי ָנחוֹר ֵתּ ַשׁע ְו ֶע ְשׂ ִרים ָשׁ ָנה ַויּוֹ ֶלד ֶאת־ ָתּ ַרח׃ ָשׁ ָנה ]vɵe’srìm [e venti ְו ֶע ְשׂ ִרים ]teshà [nove ֵתּ ַשׁעvaych̠ ì [E visse] Nahor ַו ְי ִחי 11:24

shanah [anno] ventinove anni ַויּוֹ ֶלד vaiyoled [e generò] Terah;

ַו ְי ִחי ָנחוֹר ַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ ֶאת־ ֶתּ ַרח ְתּ ַשׁע־ ֶע ְשׂ ֵרה ָשׁ ָנה וּ ְמ ַאת ָשׁ ָנה ַויּוֹ ֶלד ָבּ ִנים וּ ָבנוֹת׃ ]ach̠ arè holìdò [dopo aver generato ַא ֲח ֵרי הוֹ ִלידוֹ ,vaych̠ ì [E visse] Nahor ַו ְי ִחי 11:25 Terah, ְתּ ַשׁע־ ֶע ְשׂ ֵרה tɵshà-esɵreh [nove-dieci] ָשׁ ָנה shanah [anno] וּ ְמ ַאת umɵat [e cento] ]banìm [figli ָבּ ִנים ]vaiyoled [e generò ַויּוֹ ֶלד shanah [anno] centodiciannove anni ָשׁ ָנה .]uvanòt [e figlie וּ ָבנוֹת

ַו ְי ִחי־ ֶת ַרח ִשׁ ְב ִעים ָשׁ ָנה ַויּוֹ ֶלד ֶאת־ ַא ְב ָרם ֶאת־ ָנחוֹר ְו ֶאת־ ָה ָרן׃ ַויּוֹ ֶלד shanah [anno] settant’anni ָשׁ ָנה]shiv’ìm [settanta ִשׁ ְב ִעים Terah visse 11:26

vaiyoled [e generò] ַא ְב ָרם Avràm, Nahor e Haran.

ְוֵאֶלּהתּוְֹלֹדת ֶתַּרח ֶתַּרחהוִֹליד ֶאת־ַאְבָרם ֶאת־ָנחוֹרְוֶאת־ָהָרןְוָהָרןהוִֹליד ֶאת־לוֹט׃ tolɵdòt [discendenti, generazioni, posterità] di תּוֹ ְל ֹדת vɵèlleh [E questa] è la ְו ֵא ֶלּה 11:27 Terah. Terah הוֹ ִליד holìd [generò] ַא ְב ָרם Avràm, Nahor e Haran; e Haran הוֹ ִליד holìd [generò] לוֹט Lot.

ַוָיָּמת ָהָרן ַעל־ְפֵּני ֶתַּרח ָאִביו ְבֶּאֶרץמוַֹלְדתּוֹ ְבּאוּר ַכְּשִׂדּים׃ aviv ָא ִביו àl-pɵnè [in presenza] di Terah ַעל־ ְפּ ֵניvayyamot [e morì] Haran ַו ָיּ ָמת 11:28

[suo padre], ְבּ ֶא ֶרץ bɵèretz [in terra] di sua parentela, in Ur de’ ַכּ ְשׂ ִדּים Kasdìm [Caldei].

ַו ִיּ ַקּח ַא ְב ָרם ְו ָנחוֹר ָל ֶהם ָנ ִשׁים ֵשׁם ֵא ֶשׁת־ ַא ְב ָרם ָשׂ ָרי ְו ֵשׁם ֵא ֶשׁת־ ָנחוֹר ִמ ְל ָכּה ַבּת־ ָה ָרן ֲא ִבי־ ִמ ְל ָכּה ַו ֲא ִבי ִי ְס ָכּה׃

nashìm ָנ ִשׁים Avràm e Nahor per loro delle ַא ְב ָרם ]vayikkàch̠ [e presero ַו ִיּ ַקּח 11:29 [donne – mogli]; ֵשׁם ֵא ֶשׁת־ ַא ְב ָרם shèm eshèt-abràm [il nome della moglie d’Avràm] era ָשׂ ַרי Saraj; ְו ֵשׁם ֵא ֶשׁת־ ָנחוֹר vɵshèm eshèt-nach̠ or [e il nome della moglie di Nahor], ֲא ִבי avì [padre di] Milca e ֲא ִבי ,bat [figlia] di Haran ַבּת milkah [Milca], ch’era ִמ ְל ָכּה avì [padre di] di Isca.

ַו ְתּ ִהי ָשׂ ַרי ֲע ָק ָרה ֵאין ָלהּ ָו ָלד׃ 11:30 E ָשׂ ַרי Saraj era sterile; ֵאין nèn [non] aveva ְבּ ֵני bɵnè [figli].

ַו ִיּ ַקּח ֶתּ ַרח ֶאת־ ַא ְב ָרם ְבּנוֹ ְו ֶאת־לוֹט ֶבּן־ ָה ָרן ֶבּן־ ְבּנוֹ ְו ֵאת ָשׂ ַרי ַכּ ָלּתוֹ ֵא ֶשׁת ַא ְב ָרם ְבּנוֹ ַו ֵיּ ְצאוּ ִא ָתּם ֵמ א וּ ר ַכּ ְשׂ ִדּ י ם ָל ֶל ֶכ ת ַא ְר ָצ ה ְכּ ַנ ַע ן ַו ָיּ ֹב א וּ ַע ד ־ ָח ָר ן ַו ֵיּ ְשׁ ב וּ ָשׁ ם ׃

11:31 E Terah prese ַא ְב ָרם Avràm, ְבּנוֹ bɵnò [suo figlio], e לוֹט Lot, ֶבּן ben [figlio] di Haran, cioè ֶבּן ben [figlio] del ְבּנוֹ bɵnò [suo figlio], e ָשׂ ַרי Saraj sua nuora, moglie d’ַא ְב ָרם Avràm ְבּנוֹ bɵnò [suo figlio], ַו ֵיּ ְצאוּ vayetzɵù [e uscirono] ִא ָתּם ittàm [con loro] ַאְרָצה]lalèchet[percamminare-perandareָלֶלֶכת]Kasdìm[Caldei ַכְּשִׂדּים’daUrde ar’tzah [verso la terra] di ְכּ ָנ ַען kɵna’àn [Canaan]; ַו ָיּ ֹבאוּ vayavoù [e entrarono – e, giunti] a Charan, dimorarono ָשׁם shàm [quivi].

ַו ִיּ ְה י וּ ְי ֵמ י ־ ֶת ַר ח ָח ֵמ שׁ ָשׁ ִנ י ם וּ ָמ א ַת ִי ם ָשׁ ָנ ה ַו ָיּ ָמ ת ֶתּ ַר ח ְבּ ָח ָר ן ׃ ch̠ amesh ָח ֵמשׁ ]yɵmè-Terach̠ [i giorni di Terah ְי ֵמי־ ֶת ַרח ]vayihyù [E furono ַו ִיּ ְהיוּ 11:32

[cinque]ָשִׁנים shanìm[anni]וָּמאַתִיםumàtaìm[eduecenti]ָשָׁנה shanah[anno] duecentocinque anni; ַו ָיּ ָמת vayyamot [e morì] Terah in Charan.

La torre di Babele e nuova genealogia

11.1 Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. 2 Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
10 Questa è la discendenza di Sem: Sem aveva cento anni quando generò Arpacsàd, due anni dopo il diluvio; 11 Sem, dopo aver generato Arpacsàd, visse cinquecento anni e generò figli e figlie.
12 Arpacsàd aveva trentacinque anni quando generò Selach; 13 Arpacsàd, dopo aver generato Selach, visse quattrocentotré anni e generò figli e figlie.
14 Selach aveva trent’anni quando generò Eber; 15 Selach, dopo aver generato Eber, visse quattrocentotré anni e generò figli e figlie.
16 Eber aveva trentaquattro anni quando generò Peleg; 17 Eber, dopo aver generato Peleg, visse quattrocentotrenta anni e generò figli e figlie.
18 Peleg aveva trent’anni quando generò Reu; 19 Peleg, dopo aver generato Reu, visse duecentonove anni e generò figli e figlie.
20 Reu aveva trentadue anni quando generò Serug; 21 Reu, dopo aver generato Serug, visse duecentosette anni e generò figli e figlie.
22 Serug aveva trent’anni quando generò Nacor; 23 Serug, dopo aver generato Nacor, visse duecento anni e generò figli e figlie.
24 Nacor aveva ventinove anni quando generò Terach; 25 Nacor, dopo aver generato Terach, visse centodiciannove anni e generò figli e figlie.
26 Terach aveva settant’anni quando generò Abram, Nacor e Aran.


ABRAMO

Genealogia e migrazione

27 Questa è la discendenza di Terach: Terach generò Abram, Nacor e Aran; Aran generò Lot. 28 Aran poi morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra natale, in Ur dei Caldei. 29 Abram e Nacor presero moglie; la moglie di Abram si chiamava Sarài e la moglie di Nacor Milca, che era figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. 30 Sarài era sterile e non aveva figli.
31 Poi Terach prese Abram, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio cioè di suo figlio, e Sarài sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono.
32 La vita di Terach fu di duecentocinque anni; Terach morì a Carran.

Note nel testo

11,1-26 Il nome Babele (Babilonia) significa “porta di Dio”, ma viene interpretato come sinonimo di “confusione”. La storia della torre diventa emblema di quella arroganza religioso-politica che vorrebbe imporre a tutti il proprio potere, ma alla fine genera confusione e dispersione; la diversità dei popoli appare così come “divisione”, frutto negativo di quella arroganza.

11,2 Sinar indica la Mesopotamia.

11,27-25,18 La vicenda di Abramo rappresenta l’inizio di una storia nuova: quella di una umanità che risponde a Dio nella fede. Modello di fede, Abramo rappresenta la vita come obbedienza, attesa, cammino (vedi Eb 11,8-19). Tutta la storia di Abramo è dominata dalla promessa.

11,27-12,9 Si dà inizio alla storia di Abramo presentando, attraverso una genealogia, i diversi personaggi e le prime tappe di un viaggio: da Ur (nell’attuale Iraq) a Carran verso nord, per poi piegare a sud-ovest verso Canaan. Le vie antiche evitano il deserto siriano descrivendo questo arco.

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Il periodo post-bellico

Di fronte a un’Europa devastata dalla guerra, gli Stati Uniti restavano l’unica potenza mondiale in grado di fare affidamento su una fiorente economia. Per contrastare la diffusione delle tendenze comuniste e filo-sovietiche e dimostrare l’efficienza del sistema liberale, Washington programmò un piano di aiuti diretto ai Paesi inclusi nella propria sfera d’influenza (in particolare quelli dell’Europa occidentale). Grazie alla pianificazione dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), istituito nel 1943 sotto l’egida dell’ONU, ma in realtà controllato dagli USA, vennero inviati in Europa capitali, materie prime e generi alimentari: il presidente americano Truman fece di questa condotta lo strumento per sostenere una guerra ideologica contro il totalitarismo comunista.

A una prima fase (1945-46), ne seguì una seconda, culminata nel piano Marshall (avviato nel giugno 1947), un progetto di grandi aiuti economici rivolti indistintamente a tutti i Paesi europei. Con esso gli Americani speravano di allargare la propria influenza anche ai Paesi dell’Est europeo, ma tali ambizioni naufragarono per l’ostilità sovietica, che decise di rispondere con una sua struttura di cooperazione economica, il Comecon.

La divisione della Germania

In base agli accordi tra le potenze la Germania, divisa in quattro zone di occupazione (a occidente gli eserciti francese, inglese e statunitense, a oriente l’Armata Rossa) avrebbe dovuto essere denazificata, demilitarizzata, democratizzata e sottoposta a un processo di riforma dell’assetto economico.

Ciò avvenne in un clima di contrasti crescenti tra Est e Ovest (Stati Uniti e Unione Sovietica collaborarono solo durante il processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti, tra il novembre 1945 e l’ottobre 1946). Anche la capitale, Berlino, fu divisa in quattro zone di oc- cupazione. Le tensioni si acuirono quando nel giugno 1948 l’URSS bloccò ogni accesso terrestre e fluviale alla città, con lo scopo di estromettere gli ex alleati occidentali, che tutta- via ricorsero a un imponente ponte aereo per i rifornimenti; il blocco a Berlino fu quindi tolto nel maggio 1949.

I contrasti con Mosca accelerarono la nascita di uno Stato tedesco occidentale: Americani, Inglesi e Francesi stabilirono di federare gli undici lander tedeschi da essi controllati in uno Stato indipendente filoccidentale: nacque così la Repubblica Federale Tedesca (RFT, maggio 1949). La rispo- sta sovietica si concretò nel varo di uno Stato tedescoco- munista a Est, nell’ottobre dello stesso 1949: la Repubblica Democratica Tedesca (RDT).

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1945: LA FINE DELLA GUERRA

L’ultimo anno di guerra si aprì con la Conferenza di Jalta, tenutasi in Crimea dal 4 all’11 febbraio. Roosevelt, Stalin e Churchill decisero l’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), riservandosi però il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, e stabilirono la divisione della Germania in quattro zone di occupazione e lo spostamento verso occidente dei confini sovietici; i tre leader si impegnarono a indire elezioni democratiche nei Paesi liberati. Per il suo andamento complessivo, la conferenza assurse tuttavia a simbolo della divisione dell’Europa in sfere d’influenza e del cedimento di Roosevelt alle mire di Stalin. Sul piano militare, il lancio delle V2 su Londra (l’unica “arma segreta” di Hitler effettivamente realizzata), l’ultima controffensiva tedesca nelle Ardenne (tra dicembre 1944 e gennaio 1945) e l’impiego da parte dei Giapponesi dei piloti suicidi (kamikaze) contro le navi americane non riuscirono a modificare le sorti del conflitto, ormai decise dalla schiacciante superiorità in uomini e mezzi di Ameri- cani, Britannici e Sovietici.

In Italia, le truppe alleate attestate sul Serchio rimasero inattive fino a febbraio. Ai primi di aprile iniziò l’offensiva finale. Tra il 25 e il 26 aprile lo sbandamento delle truppe tedesche e alcuni episodi di insurrezione partigiana portarono alla liberazione del Paese, mentre Mussolini fu catturato e fucilato dai partigiani a Dongo, presso Como (28 aprile 1945), insieme ad altri gerarchi.
Le truppe americane provenienti da occidente e quelle sovietiche provenienti da oriente si incontrarono in Germania, a Torgau, il 25 aprile, sulle sponde del fiume Elba. Il 30 aprile 1945, a Berlino, mentre le truppe sovietiche avanzavano casa per casa, Hitler si suicidò all’interno del suo bunker. La Germania si arrese senza condizioni a Reims il 7 maggio seguente.

I Giapponesi erano in lenta ritirata su tutti i fronti. Ma per gli Stati Uniti, nonostante la metodica avanzata (Iwo Jima e Manila, febbraio; Okinawa, maggio) le operazioni militari si rivelarono più lunghe e sanguinose del previsto.
Il 26 luglio gli Alleati, riuniti nella conferenza di Potsdam per decidere i criteri dei trattati di pace con la Germania e i suoi alleati, intimarono al Giappone la resa incondizionata o la distruzione totale.
Il 6 agosto 1945 il presidente Harry Truman (1945-1953), succeduto a Roosevelt, fece sganciare la prima bomba atomica della storia su Hiroshima, causando 90 000 vittime. L’8 agosto l’Unione Sovietica dichiarò guerra al Giappone. Il 9 agosto un altro ordigno nucleare statunitense colpì Nagasaki. Il Giappone acconsentì a intraprendere trattative di pace, accettando quindi la resa, firmata ufficialmente a Tokyo, a bordo della corazzata americana Missouri, il 1° settembre 1945.

Poco dopo la fine della guerra, concretizzando un progetto
del 1941, fu varato lo statuto definitivo dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite, San Francisco, 26 giugno 1945), istituita per salvaguardare la pace, la libertà e la democrazia nel mondo. Essa, tuttavia, dimostrò subito una
certa debolezza non riuscendo a risolvere i crescenti contrasti tra USA e URSS, i due grandi vincitori del conflitto.

Gli accordi di pace

Le prime spaccature tra le due superpotenze emersero già durante le trattative per gli accordi di pace con Italia, Bulgaria, Romania e Ungheria, Paesi ex-alleati della Germania. I trattati tra i quattro vincitori della guerra e gli sconfitti, a eccezione della Germania, furono avviati nell’estate del 1946 e firmati il 10 febbraio 1947 a Parigi.

Sul confine occidentale l’Italia cedette Briga e Tenda alla Francia. Più ampie le perdite sul confine orientale, con la cessione di Zara, Fiume e dell’Istria alla Iugoslavia. Trieste, rivendicata dagli Iugoslavi, fu organizzata in un territorio libero diviso in due zone (la zona A anglo-americana, la B iugoslava); nel 1954 la zona A sarebbe stata affidata all’Italia. Il trattato impose anche la restituzione delle colonie (Libia ed Etiopia), di Rodi e del Dodecaneso (queste ultime a vantaggio della Grecia).

Bulgaria, Romania, Ungheria e Finlandia, occupate dall’Armata Rossa, si piegarono a trattati rispondenti alle esigenze di Mosca. L’URSS ottenne il controllo sui Paesi baltici, inglobò la Carelia (a spese della Finlandia) e ottenne dalla Polonia le regioni di Bielorussia e Ucraina, provocando così lo spostamento della Polonia verso occidente e la conseguente annessione, da parte di quest’ultima, di vasti territori tedeschi (Pomerania, Slesia e parte della Prussia Orientale). Tali modifiche di confine causarono l’espulsione di milioni di cittadini tedeschi verso occidente.

In Asia, il Giappone perse tutti i possedimenti cinesi, Formosa, Sahalin e la Corea, e fu sottoposto al controllo politico-militare statunitense. Il governo di occupazione retto dal generale americano Douglas MacArthur varò una nuova costituzione (1946) e intervenne a fondo nel settore economico (scioglimento dei maggiori gruppi monopolistici, gli zaibatsu; riforme agrarie). La responsabilità di governo fu di nuovo affidata ai Giapponesi nel 1951. Negli altri territori dell’Estremo Oriente le potenze vincitrici mantennero sostanzialmente il controllo sui rispettivi imperi coloniali.

La guerra fredda

La struttura bipolare delle relazioni internazionali si consolidò rapidamente attorno a USA e URSS, raggruppando attorno ai due poli le potenze minori.
Il peggioramento dei rapporti tra Mosca e Washington e la totale antiteticità tra i rispettivi sistemi economici e socia li, portò a una fase di aperta tensione. Winston Churchill, in un discorso tenuto a Fulton nel marzo del 1946 disse, a proposito della creazione del blocco di Stati comunisti nel Vecchio Continente, che una “cortina di ferro” era calata a dividere l’Europa. Si avviava così un contrasto che avrebbe assunto dimensioni globali tra mondo comunista e mondo liberaldemocratico occidentale.

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1944: ANNO CRUCIALE

Le disfatte in Africa, Russia e Italia dimostrarono che la potenza nazi-fascista era prossima alla sconfitta. Churchill, Roosevelt e Stalin, alla conferenza di Teheran avevano sta- bilito di aprire un fronte che colpisse direttamente il cuore dell’Europa.

Lo sbarco in Normandia

Si progettò quindi lo sbarco in Normandia (operazione Overlord) che avvenne il 6 giugno 1944. Gli Anglo-americani sbarcarono sulle coste francesi con 350 000 uomini, mettendo in campo 6500 aerei e circa 6400 navi. Nel mese di agosto truppe alleate sbarcarono anche nel sud della Francia, nei pressi di Cannes. Gli alleati e il generale De Gaulle entrarono a Parigi il 26 agosto.

I Tedeschi erano ormai impegnati a oriente dai Russi e sui fronti meridionale e occidentale dagli Anglo-Americani. Hitler, che il 20 luglio 1944 era sfuggito a un attentato organizzato da alcuni ufficiali della Wehrmacht, ordinò una strenua resistenza. A oriente, l’Armata Rossa varcò il 10 ottobre i confini del Reich, portando la guerra in territorio germanico.
In Italia, nel mese di maggio gli Alleati scatenarono l’offensiva su Cassino, sbloccando così un lungo stallo e facendo il loro ingresso a Roma il 4 giugno. L’offensiva, coadiuvata dalle forze partigiane, condusse anche alla liberazione di Firenze (22 agosto), bloccandosi però lungo la linea difensiva tedesca allestita tra Pisa e Rimini (linea gotica).

Nel Pacifico gli Americani avevano avviato fin dal mese di gennaio un’offensiva in Birmania, estesa poi a giugno alle isole Marianne. Gli Americani avevano ormai conquistato il dominio del mare e dell’aria: nella seconda metà del 1944 vinsero i Giapponesi anche nelle battaglie navali delleFilippine e del golfo di Leyte.

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