Tutte le stagioni della poetica di Giovanni Pascoli si possano riassumere, facendo riferimento a un unico distico di Virgilio (Ecloga IV): “Sicelides Musae, paulo maiora canamus! | Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae”. Sono i distici in cui si parla della vegetazione; da questi due versi di Virgilio, Pascoli trarrà gli esergo, cioè le citazioni iniziali che aprono le sue raccolte poetiche più importanti.
Il titolo della prima, Myricae (1892), è preso appunto dall’ultima parola di questo distico. Nello stesso anno della pubblicazione del libro, scrive a un amico, Piero Guidi,: “È una poesia quella di Myricae che si eleva poco da terra, una poesia humilis”. Questo distico di Virgilio, in cui si invocano le muse affinché si possa cantare più in alto, si possano cantare argomenti più elevati di quelli che invece riguardano gli arbusti e le umili tamerici, cioè la vegetazione più bassa, quasi rasoterra, rappresenta bene le varie stagioni, epoche della poesia di Pascoli:
Myricae; I primi poemetti (1897) recheranno in esergo “paulo maiora”, cercando di sollevare un po’ il tono, gli argomenti della poesia; I Canti di Castelvecchio fanno dittico con le Myricae, quindi tornano alla vena più familiare, più quotidiana, più bassa di Pascoli; di nuovo “arbusta iuvant humilesque myricae”; I poemi conviviali (1904), invece, elaborano una poetica del mito e della rilettura in chiave moderna dei grandi miti classici; l’esergo sarà ripreso da questi distico di Virgilio “Non omnis arbusta iuvant”, cioè non tutti possono apprezzare la poesia della vegetazione più umile; Odi e inni (1906), la raccolta più emblematica del Pascoli nazionalista e celebrativo, del Pascoli retorico; semplicemente “canamus”, “cantiamo”, finalmente abbiamo raggiunto la statura per un canto adulto.
È un luogo comune quello di associare la poesia più sincera, genuina e tipica di Pascoli all’età infantile, alla piccolezza, alle piccole cose, quasi a livello rasoterra delle tamerici e degli arbusti. In un saggio su Leopardi, questo poeta con il quale aveva profonde differenze dal punto di vista tecnico in sede più strettamente poetica, in questa conferenza su Il sabato del villaggio in occasione del centenario di Leopardi (1898), Pascoli scrisse: “Egli è il poeta a noi più caro, e più poeta e più poetico, perché è il più fanciullo”: questa tematica della scoperta del fanciullo all’interno dell’uomo adulto, che possa avere quella freschezza di sensazioni, di percezioni tipica dell’età infantile, ripresa con ogni probabilità dagli studi dei primi pedagogisti scientifici della fine dell’Ottocento che Pascoli conosceva, come è stato provato, e che però poteva trovare nella grande poesia romantica, nelle stesse annotazioni di Leopardi, per esempio ne Il discorso di un italiano sulla poesia romantica, si condensano nel 1897 ne I pensieri sull’arte poetica che è appunto il testo più importante per l’elaborazione del linguaggio di Pascoli e soprattutto per l’immagine dell’infanzia come luogo da riscoprire, luogo poetico per eccellenza. Il testo in cui si condensa tutta questa riflessione, Il fanciullino, che poi resterà come una specie di sigla di antonomasia su Pascoli è del 1903 e riassume tutta questa lunga stagione di riflessioni.
Il procedimento più immediato per capire quale sia l’impronta che Pascoli sta dando al linguaggio poetico in questi anni, è leggere una poesia di Myricae: Il bove, che Giovanni Capecchi ha giustamente confrontato con la ben più celebre poesia di Carducci, il maestro e predecessore diretto di Pascoli, che a sua volta aveva cantato il pio bove: “T’amo pio bove; e mite un sentimento | Di vigore e di pace al cor m’infondi, | O che solenne come un monumento | Tu guardi i campi liberi e fecondi, […]”. L’animale che diventa il monumento a se stesso, un emblema, una statua della laboriosità della capacità di vivere la natura nella pienezza. Il bove di Pascoli è completamente diverso: “Al rio sottile, di tra vaghe brume, | guarda il bove, coi grandi occhi”; seguono una serie di immagini viste dalla prospettiva del bove, per esempio “ampie ali aprono immagini grifagne | nell’aria; vanno tacite chimere, | simili a nubi, per il ciel profondo; || il sole immenso, dietro le montagne | cala, altissime: crescono già, nere, | l’ombre più grandi d’un più grande mondo.”
“Un più grande mondo” è il mondo visto dagli occhi del bambino, dagli occhi addirittura dell’animale, cioè il poeta si trasfonde, si compenetra nella prospettiva che non è quella dell’uomo adulto né quella dell’essere umano, bensì di un elemento qualsiasi della natura, come può essere un animale che vaga nei campi. Queste immagini campestri quindi non sono idilli, bozzetti agresti, ma proprio disumanizzazioni della voce lirica; la voce lirica diventa la voce animale, si fa verso animale. In un famoso saggio degli anni ’50, Gianfranco Contini spiegò che uno degli orizzonti di ricerca fondamentali di Pascoli è quello dell’onomatopea, cioè della voce degli animali, dell’immettere all’interno del linguaggio poetico il linguaggio non umano, per esempio quello degli uccelli, come vedremo ne L’assiuolo, una famosa poesia di Myricae. Gli uccelli, considerando la mitologia familiare, psichica e personale di Pascoli (quella del nido), sarà una delle presenze naturali nelle quali questa poetica di Pascoli si trasfonde più felicemente, insieme però a una cultura ed erudizione classica che si sovrappone a questa naturalezza: è come se l’aspetto “pre-grammaticale”, come lo chiamava Contini, e quello post-grammaticale, quello erudito, di poesia postuma, cioè la poesia in latino, i riferimenti continui al mito classico, il riferimento a Virgilio nei titoli dei suoi libri di poesia si compenetrassero insieme, saltando il piano medio, colloquiale, della lingua naturale o comunque della visione naturale delle cose.
In questo, molta critica ha ravvisato una coerenza, una complanarità, una similitudine tra Pascoli e le grandi poetiche europee di quel tempo, cioè le poetiche del Simbolismo; poetiche che trasfondono il piano della realtà in un piano di corrispondenze più o meno immaginarie, di evocazione di mistero ed enigma, di piani che non sono quelli immediatamente visibili. In realtà, Pascoli non conosceva i grandi autori francesi suoi contemporanei, ma in adolescenza aveva, per esempio, tradotto Il corvo di Edgar Allan Poe, questo grande incunabolo romantico della poetica del Simbolismo. Come se avesse trovato la sua via personale al Simbolismo, indipendentemente dai grandi maestri: Rimbaud, Verlaine, Mallarmé. Giacomo Debenedetti, che scrisse molti saggi su Pascoli e dedicò a questo autore un corso universitario, parlava non a caso di “rivoluzione inconsapevole”: Pascoli rivoluziona il linguaggio poetico senza saperlo, semplicemente sviluppando una sua poetica, una sua visione della letteratura, una sua visione del mondo.
C’è di più: in questa poetica del fanciullino sembra sorpassare i simbolisti sul loro stesso terreno, cioè in questa idea di una natura percepita nelle sue categorie immediate, nei suoi piani di immediata verosimiglianza, ma anche di trasposizione su un piano diverso, c’è qualcosa che assomiglia a quello che i grandi teorici del Novecento, i formalisti russi, in particolare Viktor Šklovskij, chiameranno lo “straniamento”. Perché il fanciullino? Perché il fanciullino o l’animale vedono le cose per la prima volta; non hanno la nostra abitudine alla vita, la nostra consuetudine, la nostra assuefazione alla natura e ai fenomeni naturali, ma è come se, nel momento in cui il fanciullino scopre il mondo, in quel momento lo vede per la prima volta, nuovo, come se fosse stato appena creato.
Nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855, quarto dei numerosi figli di Ruggero e di Caterina Vincenzi Alloccatelli: Margherita (nata nel 1850), Giacomo (1852), Luigi (1854), Raffaele (1857), Giuseppe (1859), Carolina (1860; morta a cinque anni), Ida (1862, morta a pochi mesi), un’altra Ida (1863), Maria (1865). Ruggero era intendente di una tenuta dei principi Torlonia, la Torre, lungo il Rio Salto; e in questi luoghi, che rimasero per sempre fitti nel suo cuore, si svolse la puerizia campagnola e meditativa del futuro poeta. Il quale era con i tre fratelli più grandi a Urbino, nel collegio “Raffaello” tenuto dagli scolopî, dove il padre l’aveva mandato dopo gli studî elementari fatti a Savignano, quando la sciagura lo sorprese, terribile: l’assassinio del padre, avvenuto il 10 agosto 1867, mentre tornava in calesse da Cesena, dove si era recato per affari. L’assassino restò impunito; la vedova e gli orfani dovettero lasciare il dolce nido della Torre, rifugiarsi a San Mauro. E la morte continuò a mietere: Margherita, la madre (18 dicembre 1868), Luigi (1871); infine anche Giacomo (1876). Nel 1873-74 e nel 1874-75, vinta una borsa di studio, Giovanni è a Bologna a studiare lettere, allievo di G. Carducci; ma sono anni di sbandamento spirituale e d’irrequietezza. Amico di Andrea Costa, aderisce ai primi movimenti internazionalisti, si mescola ai rivoluzionarî più accesi, assetato di giustizia, egli che della giustizia umana aveva sperimentato la fallacia. Perde la borsa di studio; dal 7 settembre al 22 dicembre 1879 è in carcere, come rivoluzionario. La breve prigionia segna una data importante nella sua vita; il P. ne esce trasformato, pacificato con sé stesso e con gli altri: l’antica sete di giustizia permane, ma accanto ad essa c’è ormai anche un grande bisogno di amore e di pace. Ripresi nel 1880 gli studî interrotti, il P. si laurea nel 1882 con una tesi su Alceo; subito dopo, nel settembre, è nominato professore di lettere latine e greche nel liceo di Matera; due anni dopo è trasferito con lo stesso ufficio aMassa, dove chiama presso di sé Ida e Maria e ricostruisce per loro il nido distrutto; dal 1887 al 1895 insegna al liceo di Livorno. Sono anni di tenerezza e di malinconica serenità: l’atmosfera di Myricae. Ché, se Il Maniero e Rio Salto sono del 1877 e Romagna del 1880, tutte le altre poesie di quel volume sono posteriori al 1886; del 1891 è la prima edizione di esso, mentre nel 1892 Veianus gli procaccia la prima medaglia d’oro della gara di poesia latina di Amsterdam. La fama del poeta, in latino e in volgare, si estendeva e consolidava via via. Dal 1895 al 1897 insegnò per incarico grammatica greca e latina nell’università di Bologna; dal 1897 al 1903, come titolare, letteratura latina a Messina; nel 1903 fu trasferito, con l’insegnamento della grammatica latina e greca, a Pisa, dove restò sino al 1905, quando fu chiamato a succedere al Carducci sulla cattedra bolognese di letteratura italiana. Egli accettò riluttante, intimidito dalla responsabilità della successione e dal fervore stesso della simpatia con cui da ogni parte era aspettata la sua opera sulla cattedra famosa. Né questa successione è senza grande importanza per l’opera stessa del poeta; se è vero che nel P. è costante tendenza a volgersi verso temi sempre più vasti e complessi, non è men vero che nella scelta degli ampî cicli di poesia patriottica e nazionale che egli negli ultimi suoi anni andò meditando e in parte attuò, influì anche il fatto che il P. credé suo dovere raccogliere l’eredità del Carducci anche in quanto poeta della storia e della gloria nazionale. Divideva il poeta il suo tempo tra l’assiduo lavoro scolastico e quello poetico, a cui amava dedicarsi soprattutto in quella casa di Castelvecchio, dove s’era sistemato nell’estate del 1895 e che poco di poi aveva acquistato vendendo alcune medaglie d’oro guadagnate nelle gare di Amsterdam.Qui si ritirava con Maria, la cara Mariù (Ida s’era sposata il 30 settembre di quello stesso anno 1895), appena glielo permettevano i doveri del suo insegnamento. Ammalatosi gravemente alla fine del 1911, morì a Bologna il 6 aprile 1912. Bologna, San Mauro e Castelvecchio si disputarono l’onore di custodire i resti del poeta; prevalse Castelvecchio e il corpo del P. vi fu seppellito il 12 ottobre, dopo essere stato provvisoriamente inumato a Barga. Maria scelse come tomba una piccola cappella presso la casa che Giovanni aveva tanto amato. Il poeta. – L’aspetto del poeta che si manifesta primo cronologicamente e che per primo s’impone all’attenzione del lettore, è indubbiamente quello “georgico“. Innamorato della campagna, abituato dall’infanzia a viverci e a studiarla con la curiosità mai paga dello scienziato, e insieme con l’interesse amoroso del contadino, il P., “ultimo figlio di Vergilio”, secondo una troppo fortunata definizione di G. d’Annunzio, si trova perfettamente a suo agio tra seminati e uccelli, tra opere e operai dei campi e dei villaggi. Artista essenzialmente analitico, egli vede e ama soprattutto i particolari, che rende con una nettezza e una concretezza di cui non si hanno forse le uguali nella letteratura italiana; e riesce, per mezzo di notazioni rapide e che, se si analizzino, possono sembrare slegate, a comporre armonici quadretti, nei quali c’è, sì, un prodigioso virtuosismo di tecnica impressionistica, ma c’è anche ben altro. E quando, con un processo costante in tutta la sua attività, il P. passa dal semplice al complesso, dal quadretto alla scena, dalla scena al ciclo che celebri compiutamente le opere e i giorni dei suoi contadini romagnoli e toscani, insomma dalle Myricae ai Poemetti, sempre identico è l’atteggiamento del poeta, che analizza e scompone e disperde anche quando vuol costruire. Tuttavia, l’unità dei Poemetti è data dal sempre uguale calore di attenta simpatia col quale il P. segue, nei minuti particolari, gli umili atti della vita campestre di ogni giorno. Ma quei gesti, che si ripetono uguali di generazione in generazione e dai quali il contadino a nessun patto si scosterebbe; quei proverbî, tramandati anch’essi dalla sapienza delle passate generazioni, nei quali il contadino crede quasi come in formule magiche o religiose; quegli auspici, tratti con ferma fiducia dalle condizioni del cielo del sole del vento: tutto ha la solennità di un rito propiziatore del più grande bene che gli uomini possano avere: il pane e il vino, nati, con miracolo rinnovantesi a ogni stagione, dalla terra che è buona. Donde deriva ai contadini pascoliani, poco approfonditi in quanto uomini, una certa ieraticità; donde deriva altresì la solennità del tono del poeta, che a B. Croce, forse a torto, sembrò inopportuna trasposizione di tono omerico nella descrizione di minuzie campestri. La campagna del P. non è arcadica, in quanto, come dicevamo, nettamente e concretamente disegnata; non realistica, in quanto il P. non vuole rappresentarci i contadini come sono, ma come strumenti di una provvidenza che premia la fatica e soprattutto il sapersi contentare del poco. Quest’aurea “contentabilità” ideale classico originalmente rivagheggiato, è il punto di approdo cui il P. giunge dopo lunghe traversie spirituali, che conosciamo più attraverso i dati esterni della biografia che attraverso le opere, che pure ne recano tracce; giacché, dopo i tentativi giovanili (il meglio di essi in Poesie varie raccolte da Maria) e dopo lungo silenzio, il P. torna alla poesia solo quando l’interno tumulto è sedato; e anzi la poesia è la massima testimonianza della malinconica serenità conquistata. Abbiamo infatti visto che il pieno fiorire della poesia pascoliana è tardo e pressoché improvviso, contemporaneo alla ricostruzione del nido, all’assestarsi della vita pratica del poeta in una dolce mediocrità ricca di affetti. La tragedia familiare gl’ispira molti canti – forse troppi, e non dei più belli, se anche dei più noti -, e domina nettamente quella seconda serie di più “costruite” Myricae che sono i Canti di Castelvecchio. Ma essa ha soprattutto efficacia sull’evoluzione del P. Il pensiero della morte diviene dominante; anzi di esso egli fa col tempo, generalizzando secondo il suo costume l’esperienza personale, il centro stesso della vita, l’elemento che solo distingue gli uomini dai bruti, che li deve far diventare più buoni. Educato nella desolazione del positivismo, che pure per alcuni riguardi era così stranamente e grossolanamente ottimistico, il P. esprime quel contrasto tra la filosofia dominante, che la ragione non sa ancora respingere, e le nuove esigenze oscuramente fermentanti nell’intimo, che è il tema fondamentale della letteratura italiana degli ultimissimi dell’Ottocento e del primo Novecento: in tal senso, egli dà l’avvio alla poesia del nuovo secolo. L’estrema piccolezza e labilità dell’uomo e dello stesso mondo è un dato della ragione; compito della poesia, egli dice, è farlo diventare un dato di sentimento: far diventare “coscienza” quello che è semplicemente “scienza”. Ma per conto suo il P. non compone il dissidio: la sua poesia “cosmica” nasce appunto dall’urto tra scienza e coscienza, tra l’uomo che sa di dover morire, e che tutto con lui morrà, e il fanciullino che non vuole rassegnarsi, che “non sa” morire. La pascaliana e leopardiana angoscia dinnanzi agli spazî infiniti trova nel P. un nuovo cantore, che però non ha né la fede religiosa del Pascal, né il lucido coraggio negatore del Leopardi. E dunque, se la religione non soccorre a perpetuare la vita di là dalla morte, se il coraggio non aiuta a raggiungere la convinzione sentimentale, oltre che razionale, che la morte è morte; non rimane che arretrare di fronte al “mistero”, che averne sgomento come il bimbo del buio; non rimane che rifugiarsi inconsciamente in un vago misticismo, e insieme, con contraddizione logica in cui peraltro consiste la coerenza lirica del P., cingere il proprio mondo di una siepe, concentrare lo sguardo e l’anima sulle piccole cose concrete che ci sono d’intorno, e dalle quali si può trarre, insieme con la consolazione d’una poesia inavvertita dai più, l’aiuto d’una certezza. Il P. ha diritto di piena cittadinanza nella letteratura europea mistico-simbolistico-decadente. I rapporti particolari che sono stati additati tra l’Italiano e gli stranieri sono in genere, più che vere e proprie derivazioni dell’uno dagli altri o degli altri dall’uno, significativi incontri di spiriti congeniali. Comune a quei poeti e al P. il bisogno di esprimere l’inesprimibile, di cercare di far diventare poesia attuale, per suggestioni simboliche e musicali, l’aspirazione potente ma imprecisa alla poesia, quell’inconscio fermentare della più segreta spiritualità, che dilegua se lo si voglia rendere coi mezzi tradizionali, se si tenti di tradurlo direttamente in immagini concrete. Ma, detto questo, sarebbe erroneo andar oltre. Intanto, non solo mancò al P., celebratore quanto altri mai della vita “borghese”, l’atteggiamento esteriore di poeta “maledetto” e ribelle, che fu caro a molti dei suoi compagni stranieri di poesia, ma gli difettò totalmente, nell’intimo, l’animus polemico, anzi la coscienza stessa dell’opposizione tra il nuovo e il tradizionale modo di concepir la poesia. D’altra parte, la sua educazione classica gli faceva amare le immagini nitide e le forme definite, mentre era in lui prepotente quel bisogno di estrema concretezza che abbiam visto caratterizzare la sua poesia georgica. Onde, questo mistico che si diceva positivista – e per certi riguardi lo era – talvolta, più che concepire simbolicamente, aggiunge il simbolo a posteriori; e abbiamo non una poesia che nasca da un’intuizione simbolica, ma un simbolo che è sovrapposto razionalmente, e quindi falsamente, a un’emozione lirica di altro genere. Del resto, il difetto fondamentale della poesia pascoliana sta proprio nel bisogno che il poeta sente sempre di “costruire” intorno alle proprie emozioni; di diluire, di autocommentarsi. Analogamente, egli, che da giovanissimo aveva sognato di comporre poesie-musiche, che valessero per suggestione di suoni prima che per forza d’immagini, si abbandona, sì, alla magia dei suoni in quanto tali, non senza raggiungere per tal via effetti artistici di prim’ordine (egli è uno squisito tecnico del verso, un felice inventore di combinazioni strofiche); ma d’altra parte indulge, e se ne fa un vanto, alla minuzia nomenclatrice che lo conduce all’abuso dei dialettismi. Le onomatopee, che tanto son dispiaciute ai critici, son frutto di ambedue queste contraddittorie tendenze. Tutto questo travaglio spirituale è naturalmente alle radici anche di quella parte dell’opera pascoliana che all’osservatore superficiale può sembrare più pacata: cioè ai carmi in latino e ai Poemi conviviali. Prodigiosamente padrone delle lingue e delle letterature greca e latina, il P. traduce dai classici in maniera tecnicamente perfetta, sforzandosi di riprodurre, con ben altra industria e perizia del Carducci, la metrica quantitativa; ma è ben lontano dal rivivere l’antichità con la pienezza che fu propria del suo maestro. Come nelle traduzioni, così. nelle sue opere originali d’argomento classico, in latino e in volgare – le une e le altre cronologicamente parallele alle altre poesie -, il P. opera un avvicinamento dei poeti e del mondo antichi a sé stesso, al suo modo di vedere la vita, pronto a metter l’accento su quanto in essi c’è di congeniale a lui: ammodernamento certo ben lontano dalle intenzioni del P. e in contrasto con la sua formidabile conoscenza della classicità. Le poesie latine, a prescindere da un gruppo di epigrammi e di componimenti in metri lirici, constano essenzialmente di poemetti d’argomento romano, ispirati sia alle vicende politiche (Res romanae) sia alla storia letteraria di Roma (Liber de poetis), e d’argomento cristiano (Poemata christiana): questi ultimi, che costituiscono un gruppo a sé e rappresentano, grosso modo cronologicamente, ma rigorosamente dal punto di vista spirituale, un’evoluzione del gusto poetico del P. latino, contengono alcune delle pagine più belle di tutta la produzione pascoliana. Ed è stato bene osservato che anche i Poemi conviviali, prendano essi lo spunto da Omero o da Platone, da Esiodo o da Apuleio o da Plinio, sono nella loro essenza, a prescindere dalla ricchissima e squisita decorazione a musaico, la ricostruzione di una paganità pervasa dagli oscuri presagi della futura morale cristiana. Ben visibile nel P. la tendenza, sempre più accentuata, alla gnomica morale e politica; tendenza che trova la sua più precisa espressione nel volume di Odi e inni, ma che è presente sempre, sin dalle Myricae. Giacché, se è vero che il poeta fu troppo sensibile alle voci dei critici che lo venivan dipingendo come un arcade svagato dietro al canto degli uccelli, o come uno squisito ma limitato cantore di un piccolo mondo e di un personale dolore; è anche vero che questa funzione ammaestratrice egli assegnò costantemente alla poesia. Il poeta “fanciullino”, che – secondo una notissima teoria estetica del P., anch’essa generalizzazione della sua propria esperienza di poesia – è sempre pronto a stupire di tutto, a scoprire il grande nel piccolo e il piccolo nel grande, e nelle cose le “somiglianze e relazioni più ingegnose”; che non ha altro fine e altro bisogno, se non quello di esprimere ingenuamente il suo ingenuo stupore; questo “fanciullino” è, e vuol essere, -anche “predicatore”. Né qui importa che l’opposizione tra questi due termini, cioè tra la poesia-poesia e la poesia variamente moralistica, sia del P. prima ancora che del Croce; questa è una delle tante contraddizioni del pensiero pascoliano. Predicatore sincerissimo sempre, questo positivista cristiano, questo socialista patriota; ma la sincerità della poesia è tutt’altra cosa della sincerità pratica del poeta. La sua anima è sensibile a quanto c’è sulla terra di bello e di buono, dovunque e in servizio di qualunque idea esso si trovi. Esorta il P. gli uomini ad amarsi, a stringersi solidalmente insieme contro il mistero della vita e della morte che incombe ugualmente angoscioso su tutti; mostra loro l’orrore dell’odio scatenato dalle cupidigie insaziabili, mentre sarebbe così semplice esser felici, contentandosi del poco; esalta le vittorie del lavoro, le conquiste della pacifica audacia umana; addita come rimedio contro la violenza la rassegnazione al male, e insieme celebra la guerra quando questa sia combattuta per la giustizia; ma soprattutto, profondamente buono egli stesso, non si stanca mai di raccomandare la bontà, che sola può attenuare l’infelicità comune. Diventa tutto questo poesia? Molte volte sì, non meno del frammento impressionistico, al quale a torto da alcuni si vuol ridotto il P. poeta; ma la maggior parte delle volte si resta indubbiamente al di qua. E al di qua della poesia è anche, se si eccettuino isolate bellezze, quanto ci rimane dei complessi cicli di poesia storica e celebrativa che il P. immaginò negli ultimi anni. Il dantista e il critico. – Naturalmente, i difetti del poeta si aggravano nello scrittore di prosa, che troppo spesso è arzigogolata e leziosa, non sorretta da una solida e coerente impalcatura di pensiero. Il P. teneva moltissimo ai suoi volumi di critica dantesca, nei quali, riprendendo una tendenza esegetica che aveva avuto a campione G. Rossetti, approfondì gli studî sulla simbologia della Commedia. Ricollegandosi alla sua fondamentale teoria che il pensiero della morte è ciò che distingue gli uomini dai bruti, egli vide rappresentata nella Commedia, che sarebbe stata composta tutta a Ravenna dopo la morte di Arrigo VII, la mistica morte in Cristo, mediante la quale si risorge alla vera vita. Dalla selva oscura del peccato originale l’umanità riguadagna la divina foresta del Paradiso terrestre, riconquista cioè l’innocenza anteriore ad esso peccato. Ma si tratta di processo interno: l’uomo è in una selva, o ha in sé una selva, che diventa essa stessa divina foresta, quando egli riesce a conquistare la sua libertà interiore. Difficile riconquista perché l’impero è vuoto: occorre, per riuscire, una sintesi di Cristo con la giustizia imperiale. Il P. “scopre” un rapporto simmetrico tra la Croce e l’Aquila di spiriti luminosi che appaiono nel Paradiso (un suo discepolo, L. Valli, trovò poi altre 29 di tali simmetrie): Virgilio che ebbe l’Aquila senza la Croce, integra Dante che ebbe la Croce senza l’Aquila: in altri termini la fede non può condurre a salvezza se non è integrata dalla giustizia terrena. L’interpretazione mistica, non esente da pericolose sottigliezze, fu freddamente accolta; di che il P. si accorava. Ma il meglio della sua opera di critico è nelle finissime osservazioni sparse nelle due antologie latine e nelle due italiane, specialmente a commento dei poeti o dei momenti di poesia a lui più vicini.
Edizioni. – Poesie: Myricae. Il titolo compare la prima volta come titolo complessivo di un gruppo di nove liriche, pubbl. in Vita nuova, II, 10 agosto 1890. L’anno successivo apparve, a Livorno, la prima ediz. in volume, assai smilza; seguirono altre tre edizioni, pubbl. sempre a Livorno (1892, 1894, 1897) assai diverse l’una dall’altra per aggiunte, esclusioni, diversi aggruppamenti. La 6ª ed. (Livorno 1903) è la definitiva; Poemetti, 1ªa ed., col titolo Poemetti, Firenze 1897; 3ª ed., definitiva, col titolo Primi poemetti, Bologna 1904; Nuovi poemetti, 1ª ed., ivi 1909; Canti di Castelvecchio, 1ª ed., ivi 1903; 4ª ed., definitiva, ivi 1907; nella 6ª, postuma (1912), Maria aggiunse qualche lirica; Odi e inm, 1ª ed., ivi 1906 (la 2ª e la 3ª ed., 1907 e 1913, presentano aggiunte e varianti); Poemi conviviali (così chiamati perché alcuni di essi erano stati nel 1895 pubblicati nel Convito, rivista diretta da A. De Bosis), 1ª ed., ivi 1904; Poesie varie, 1ª ed., ivi 1912; 2ª ed., riordinata e aumentata, ivi 1913; Poemi del Risorgimento. Inno a Roma. Inno a Torino, ivi 1913 (l’Hymnus in Romam e l’Hymnus in Taurinos, nel testo lat. e nella trad. ital., ivi 1911); Traduzioni e riduzioni, ivi 1913; Poemi italici e Canzoni di re Enzio, ivi 1914 (prima pubbl. sparsamente, ivi 1908-1911); Nell’anno Mille e schemi di altri drammi, ivi 1924; (Nell’anno Mille era stato pubbl. prima per nozze, ivi 1922). – I poemetti latini, di sulle edizioni originali di Amsterdam, furono raccolti da E. Pistelli, I. P. Carmina, ivi 1914 e, in 2 voll., a cura di Maria e di A. Gandiglio, ivi 1930. Fra le traduzioni di essi, cfr.: G. B. Giorgini, Tre poemetti latini, Pisa 1912; R. De Lorenzis, Poemetti cristiani, Napoli 1916; L. Vischi, Carmi latini, Bologna 1920; A. Gandiglio, Poemetti latini di soggetto virgiliano e oraziano, 2ª ed. con aggiunte, Bologna I931. Opere dantesche: Minerva oscura, Livorno 1898; Sotto il velame, Messina 1900; La mirabile visione, ivi 1902; Conferenze e studi danteschi i, Bologna 1915. – Altri scritti: Miei pensieri di varia unanità, Messina 1903 (in gran parte rist. in Pensieri e discorsi, 1ª ed., Bologna 1907); Patria e umanità, Bologna 1914; Antico sempre nuovo. Scritti vari di argomento latino, ivi 1925. – Antologie: (lat.) Lyra, Livorno 1895; Epos, ivi 1897; (ital.) Sul limitare, 1ª ed., Palermo 1889; Fior da fiore, la ed., ivi 1901. Cfr. la scelta di poesie e prose curata da Maria, Limpido rivo, Bologna 1912, e quella di Poesie, a cura di L. Pietrobono, ivi 1918. Interessante l’Albo pascoliano, canti di G. P., acqueforti di V. Viganò, ivi 1911.
Bibl.: Cfr. il Saggio di bibl., a cura di A. Valli Picardi, e gli Spogli di bibliografia biografica e critica (posteriore al 1912), a cura di G. Briganti e M. Ferrara, in Studi pascoliani, Bologna 1927, 1929, 1933; Marzocco, numero del 14 aprile 1912 (XVIII), dedicato al P.; Ronda, I (1919), II (1920; importante Discussione sul P.); L’Eroica, fasc. 3-4, aprile-maggio 1913; G. D’Annunzio, Contemplazione della morte, Milano 1912; G. L. Passerini, Vocabolario pascoliano, Firenze 1915; L. M. Cappelli, Dizionarietto pascoliano, Livorno 1916. Per la vita, soprattutto: A. Della Torre, in Rass. bibl. d. lett. ital., XX (1912) e passim; D. Bulferetti, G. P., Milano-Lodi 1914; A.G. Bianchi, G. P. nei ricordi di un amico, Milano 1922. – Sul poeta, essenziali o più recenti: B. Croce, G. P., Bari 1920 (raccoglie tutti gli scritti del Croce sul P.); R. Serra, Scritti critici, Firenze 1910; E. Cecchi, La poesia di G. P., Napoli 1912; G. A. Borgese, La vita e il libro, 3ª s., Torino 1912; F. Morabito, Il misticismo di G. P., Milano 1920; A. Galletti, La poesia e l’arte di G. P., 2ª ed., Bologna [1924]; A. Meozzi, La vita e la meditazione di G. P., Firenze 1924; A. Valentin, G. P. Les thèmes de son inspiration, Parigi 1925; E. Turolla, G. P. (profilo), Roma 1926; id., La tragedia del mondo nella poesia civile di G. P., Bologna [1926]; N. Benedetti, La formazione della poesia pascoliana, Firenze 1934; B. Giuliano, La poesia di G. P., Bologna 1934. Sul poeta latino: A. Gandiglio, G. P. poeta latino, Napoli-Genova 1924; J.J. Hartman, De latijnsche poëzie van G. P., Leida 1919 (trad. it., Bologna 1920); G. Fusai, Gius. Procacci e i suoi studi pascoliani, Benevento 1923 (contiene notevoli studî del Procacci, prima pubbl. sparsamente); A. Mocchino, L’arte di P. nei carmi latini, Firenze 1924. – Sul P. dantista: E. G. Parodi, in Bull. d. Soc. dantesca ital., n. s., XXIII (1916), p. 164 segg.; L. Valli, L’allegoria di Dante secondo G.P., Bologna 1922; id., Il segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia, ivi 1922. – Sui rapporti tra la poesia del P. e quella di altri poeti: L. Vischi e A. Gandiglio, in Critica, XI, e cfr. anche i voll. IX, XIX e XX della rivista; in particolare sulle fonti del Poemi conviviali, L. Siciliani, in Atene e Roma, 1906 (poi in Studi e saggi, Milano 1913, volume che contiene anche un saggio su La lirica o delle Odi e degli Inni di G. P., importante per la metrica del P.); E. Zilliacus, G. P. et l’antiquité, Helsingfors 1909 (trad. ital., con aggiunte di A. Gandiglio e L. Vischi, Pratola Peligna 1912).
copyright -Mary Cassatt, Bambino che raccoglie una mela, 1883-
Pianto antico è una poesia di Giosuè Carducci dedicata al figlio Dante.
Il testo autografo reca la data giugno 1871.
È il quarantaduesimo componimento della raccolta Rime nuove (1887).
Il 9 novembre 1870 il piccolo Dante morì a soli 3 anni di età, molto probabilmente di tifo, nella casa paterna di via Broccaindosso a Bologna.
Così Carducci descrive la morte improvvisa del figlio:
«Il mio povero bambino mi è morto; morto di un versamento al cervello. Gli presero alcune febbri violente, con assopimento; si sveglia a un tratto la sera del passato giovedì (sono otto giorni), comincia a gittare orribili grida, spasmodiche, a tre a tre, come a colpi di martello, per mezz’ora: poi di nuovo, assopimento, rotto soltanto dalle smanie della febbre, da qualche lamento, poi da convulsioni e paralisi, poi dalla morte, ieri, mercoledì, a ore due.»
(lettera di G. Carducci al fratello Valfredo, 10 novembre 1870)
Dante era stato il primo maschio, dopo Beatrice e Laura, nato dopo il matrimonio di Carducci con Elvira Menicucci. L’ultima figlia, Libertà, nascerà nel 1872.
Nel febbraio dello stesso anno il poeta aveva perso anche la madre, Ildegonda Celli, venendogli così a mancare in appena nove mesi quella che gli aveva dato la vita e quello a cui egli l’aveva trasmessa:
«…A febbraio la mia povera mamma; ora il mio bambino; il principio e la fine della vita e degli affetti.»
(Lettera di G. Carducci al fratello Valfredo, 10 novembre 1870)
Del primo grave lutto così scrisse al fratello:
«Ella riposa, e non sente più nulla. Pace! Pace! Ma non è finita, non finisce, non finirà mai, la memoria e il desiderio nostro di lei. Io, che tutti i giorni quasi e spesso nei sogni penso e riveggo il nostro fratello morto, io ricorderò sempre lei, la rivedrò sempre; la ricorderò, la rivedrò, anche, spero, all’ultimo punto della mia vita»
(lettera di G. Carducci al fratello Valfredo, 3 febbraio 1870)
Nella lettera sopra citata Carducci accenna ad un’altra tragica morte («…riveggo il nostro fratello morto…»): il suicidiodel fratello Dante nel 1857, appena ventenne, del quale il poeta aveva voluto mantenere il ricordo nel nome del proprio figlio.
Di questi giovani morti dallo stesso nome e così vicini Carducci celebrò ancora le vite interrotte prematuramente nel sonetto Funere mersit acerbo, inserito anch’esso in Rime nuove e scritto poco tempo dopo la morte del figlio.
«È il fanciulletto mio, che a la romita tua porta batte: ei che nel grande e santo nome te rinnovava, anch’ei la vita fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.»
(Funere mersit acerbo, vv. 5-8)
TESTO
L’albero a cui tendevi La pargoletta mano, Il verde melograno Da’ bei vermigli fior
Nel muto orto solingo Rinverdì tutto or ora, E giugno lo ristora Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta Percossa e inaridita, Tu de l’inutil vita Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda, Sei ne la terra negra; Né il sol piú ti rallegra Né ti risveglia amor.
METRO
Breve ode anacreontica in quartine di settenari, secondo lo schema abbc (il quarto verso sempre C, è sempre tronco).
Parafrasi
1. Quell’albero verso cui allungavi 2. la piccola mano, 3. quel melograno verdeggiante 4. dai bei fiori rossi
5. nel silenzioso giardino solitario 6. è rifiorito tutto da poco 7. e il mese di giugno lo nutre 8. di luce e di calore.
9. Tu, figlio, fiore della mia pianta 10. maltrattata e ormai secca, 11. tu della mia vita inutile 12. ultimo e unico fiore,
13. sei sepolto nella terra fredda, 14. sei sepolto nella terra nera, 15. e il sole non ti rende più felice 16. né il mio amore ti risveglia più.
Commento
L’apertura, come in molti testi carducciani, è sulla quotidianità autobiografica: un giardino primaverile, in cui un melograno “da’ bei vermigli fior” si sta aprendo alla nuova stagione vitale, che tuttavia ricorda al poeta, per brevi accenni, l’immagine del figlio scomparso: alla “pargoletta mano” che prima si tendeva all’albero corrisponde ora il “muto orto solingo”, non più rallegrato dalla presenza di Dante.
Agli indizi coloristici del ritorno della vita con la bella stagione contenuti nelle prime due quartine (“il verde melograno”, “vermigli fior”, “giugno lo ristora | di luce e di calor”) corrisponde – con calcolata simmetria e studiato effetto drammatico – il tono dolente con cui, nelle seconde due quartine, si commemora la perdita del figlio. Si susseguono così immagini di morte (“fior de la mia pianta | percossa e inaridita”, “de l’inutil vita | estremo unico fior”, “la terra fredda […] la terra negra”), sostenute da un ritmo anaforico (“tu”, “sei”, “né”; e si consideri che pure la struttura rimica dell’“anacreontica” conferisce al testo una sua musicalità) che indica l’ineluttabilità della sofferenza umana. Così, recuperando il tema per lui tipico dell’immersione sentimentale nella Natura, Carducci riesce a ribaltare lo stereotipo: alla ciclicità del tempo naturale, in cui le stagioni si susseguono senza soluzioni di continuità, si contrappone la fissità irrimediabile del dolore della morte. Non a caso, in una prima versione Pianto antico era introdotto, a mo’ di spiegazione e commento, da un distico del poeta greco Mosco, che compiangeva la scomparsa del maestro Bione.
Le Rime nuove seguono i metri tradizionali della poesia italiana, contemplano tutta la varietà dei temi carducciani e sono spesso ispirate dalle impressioni suscitate dalla lettura dei classici della letteratura o dalla rievocazione nostalgica di eventi storici del passato o di momenti della propria giovinezza per stigmatizzare la mediocrità del presente. Non mancano, inoltre, le note paesaggistiche, soprattutto maremmane, e la tematica amorosa.
Il componimento Pianto antico, una delle più famose e intense di Carducci, fu composta nel 1871, in memoria del figlio Dante, morto l’anno precedente a soli tre anni. L’aggettivo “antico” del titolo rimanda ad un dolore che ha sempre colpito l’uomo, insieme all’interrogativo del perché si possa morire così giovani, cui la logica umana non può rispondere. Non c’è la Provvidenza a dare spiegazioni e senso alla morte e neanche il valore della poesia esternatrice che trovavamo in Manzoni o in Foscolo, solo il dolore intimo e inspiegabile di un laico.
Tutta la poesia si fonda su una forte opposizione vita-morte, attraverso l’antitesi, perfettamente simmetrica, tra immagini luminose e vitali, che popolano le prime due strofe (“verde melograno”; “bei vermigli fior”; “luce e calor”) e vogliono rappresentare, con note coloristiche, la grande vitalità della natura primaverile che rinasce dopo il lungo inverno, e immagini scure e desolate (“percossa e inaridita”; “de l’inutil vita / estremo unico fior”; “terra fredda”; “terra negra”), caratterizzanti le ultime due in cui predomina, al contrario, il tema dell’assenza di forza vitale e di amore. Carducci, dunque, tenta senza riuscirci di scacciare l’immagine ossessiva della morte ricorrendo a immagini primaverili e vitali: già al verso 5, infatti, la presenza del “muto orto solingo” anticipa il clima della seconda parte del componimento; inoltre, anche la menzione del melograno può rimandare alla morte, in quanto, nella mitologia classica, era la pianta cara a Persefone, la dea degli Inferi.
La tematica di Pianto antico, apparentemente solo autobiografica, in realtà si apre verso una dimensione più generale che riguarda la contrapposizione tra la morte inevitabile del singolo uomo e il continuo ed eterno ripetersi del ciclo della natura: anche se è tornata la bella stagione e la natura si è risvegliata, il figlioletto non potrà più risvegliarsi. Anche la struttura del componimento è solo apparentemente semplice e piana; in realtà, è ricca di richiami interni e, procedendo nella lettura, il ritmo si fa sempre più spezzato e costellato di suoni aspri, mentre lo stile diventa sempre più lapidario, facendo assomigliare la poesia ad un canto popolare.
Poeta italiano (Val di Castello, nella Versilia Toscana, 1835 – Bologna 1907). Crebbe “selvatico” nella Maremma toscana, dove il padre, Michele, un liberale già carbonaro, era medico condotto.
Andò poi a Firenze e a Pisa, dove si laureò nel 1856. Di questo stesso anno è la polemica antiromantica, d’impostazione moralistico-nazionalistica, degli Amici pedanti; dell’anno seguente l’insegnamento nel ginnasio di San Miniato e la pubblicazione, colà, del primo volumetto di Rime.
Oltre che alla poesia, il C. lavorò assiduamente in questi anni a pubblicare testi per la collezione “Diamante” dell’editore G. Barbera, alcuni con bellissime prefazioni. Nel 1859 sposò la parente Elvira Menicucci, da cui ebbe quattro figli: Bice, Laura, Libertà (Titti) e Dante.
Nel 1860 il ministro T. Mamianilo nominò, con felice intuizione, prof. di letteratura italiana all’univ. di Bologna, cattedra che tenne fino al 1903. A Bologna si configura pienamente la personalità del C.: zelantissimo insegnante, dotto erudito, geniale critico e storico e insieme poeta dei maggiori che l’Italia abbia avuto. La sua fama, dapprima alquanto ristretta e collegata anche al suo fiero anticlericalismo e alla sua impetuosa avversione al governo dei moderati, si andò via via consolidando: a partire dai primi anni dopo il 1870, cioè dalle Primavere elleniche e da un volumetto di Nuove poesie (del 1873), cioè da quando raggiunse la maturità dell’arte, la fama diventò gloria, sempre più piena e incontrastata.
Senatore nel 1890, socio corrispondente (1887) e poi nazionale (1897) dei Lincei, ebbe nel 1906 il premio Nobel per la letteratura.
Nel pubblicare la raccolta delle sue poesie, egli assegnò loro come termini estremi le date 1850-1900, e le ordinò così: Juvenilia (1850-60); Levia Gravia (1861-71); A Satana; Giambi ed epodi (1867-79); Intermezzo; Rime nuove (1861-87); Odi barbare; Rime e ritmi; Della “Canzone di Legnano“parte I.
Appare chiaro anche da questo ordinamento il disegno che il C. autocritico faceva della storia della sua poesia: a un periodo di preparazione, in cui, come scrisse egli stesso, fa lo “scudiero dei classici”, cioè fa la mano al mestiere letterario imitando (Juvenilia), o comincia a dar “colpi di lancia” ma ancora “incerti e consuetudinarî” (Levia Gravia), seguirebbero una prima decisa presa di posizione personale, con A Satana, e quindi il periodo in cui il cavaliere-poeta corre “le avventure a suo rischio e pericolo”, nei Giambi ed epodi, poesie di aspre invettive politico-morali contro la “vigliaccheria” dell’Italia nuova, che avrebbe, secondo il C., rinnegato la tradizione eroica del Risorgimento.
Poi l’ira si placa a poco a poco, sino al Canto dell’amore per tutte le creature, che il C. pose appunto a conclusione dei Giambi, sebbene composto più tardi. L’Intermezzo segnerebbe il passaggio dalla poesia giambica ad altra e più vera poesia, testimoniata dalle ultime tre raccolte. La costruzione autocritica è divenuta tradizionale e può essere accettata, solo che s’interpreti come storia ideale e non cronologica: A Satanaè del 1863, assai anteriore alla fase giambica; questa, in realtà, si restringe agli anni 1867-72 e ha sostanzialmente la sua fonte psicologica nelle reazioni del C. agli eventi della Questione romana, dalla delusione di Mentana alla non gloriosa occupazione della capitale. D’altra parte, alcune delle Rime nuove, e tra le più belle, sono contemporanee ai più furiosi dei Giambi.
Il fatto è che gli anni 1870-72 sono di crisi profonda, dalla quale il C. esce rinnovato. Forse la morte quasi contemporanea (1870) della madre e del figlioletto Dante ammonisce il C. a non sopravvalutare avvenimenti terreni anche grandi, ma di cui la meditazione sulla morte sofferta nel proprio sangue svela la sostanziale meschinità. Probabilmente non causa, ma effetto del mutato stato d’animo del C. è la passione turbinosa per Carolina Cristofori Piva (Lina o Lidia della poesia): cominciata nel 1871, divampata nel 1872, essa continuò veementissima nei due o tre anni successivi, poi declinò sino alla morte di Lina (1881). Il C. aveva eletto il disprezzo per i contemporanei a legge del suo agire e del suo poetare; amava passare per selvaggio e intrattabile, e poi soffriva di tutto ciò.
Lina riesce a sciogliere il groppo, a vincere la solitudine; il poeta è tutto preso dalla dolcezza che gli dà la sensazione non solo d’esser amato, ma d’aver conquistato la facoltà d’amare.
Le Rime nuove inaugurano la stagione della lirica “greca”: una poesia concreta, quale egli aveva sempre sognato, e in nome della quale aveva combattuto lo sfocato sentimentaleggiare dei romantici, e tuttavia non banale; realista, ma lavorata con la pazienza e la sapienza dei classici e della tradizione rinascimentale italiana, che il Romanticismo sembrava aver interrotto. Ma al di là della sua polemica antiromantica, spesso in verità non bene edotta della reale essenza del Romanticismo, il C. ha alcuni atteggiamenti spirituali schiettamente romantici, e taluno persino decadentistico. Romantica è soprattutto la sua stessa esigenza di concretezza, che trova nella poesia storica la sua conciliazione con l’altra esigenza d’un tono poetico alto e sostenuto, anche per l’impiego della nuova metrica “barbara” da lui stesso elaborata. Si ha così l’epica, insieme solenne e nervosa, che domina Odi barbare (1877-1889) e Rime e ritmi (1898), in quel molto di valido che anche queste raccolte contengono. Le quali poi son anche perfuse di eloquenza, nascente dalla passione, tutta propria del C., di ammonire, educare, elevare: eloquenza intima che è una sola cosa con la poesia. Certo, accanto a essa c’è anche un’eloquenza deteriore, esterna; un indulgere alla rievocazione meramente erudita (la “poesia da professore”), una certa macchinosità scenografica, lontana eredità del Monti. Proprio questi aspetti deteriori del C. finirono col piacere a troppi: donde il distacco, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, dei raffinati, anche per il clima ormai decadentistico.
Della sua operosità di erudito restano, tra le cose più notevoli, le ediz. delle poesie volgari del Poliziano, delle Rime di M. Frescobaldi, delle Cantilene e ballate, strambotti e madrigali dei secc. 13º e 14º, delle Cacce in rima dei secc. 14º e 15º, delle Rime del Petrarca (con commento, in collab. con S. Ferrari, 1899).
Come critico, si può dire che non ci sia campo della letteratura italiana che non abbia percorso e talvolta esplorato attentamente: ricordiamo i volumi sul Parini, gli studî sul Leopardi, Ariosto, Tasso, i discorsi su Dante, Petrarca e Boccaccio, e studî e discorsi su minori dei secc. 17º-18º. Anche se difetta di un pensiero organico e coerente, la sua critica è ricca d’intuizioni dell’anima e dei tempi dello scrittore studiato, felicissima nel rappresentare personaggi e ambienti, ricca di notazioni puntuali sulla parola e sulla tecnica letteraria, suggerite al C. dalla sua esperienza e dal suo gusto, le quali approdano alla definizione di valori estetici assai più spesso di quel che il C. stesso non pensasse. Piena di colore (anche al di fuori delle polemiche, ch’ebbe numerose e talvolta intemperanti, come la Rapisardiana) è sempre la prosa del C.: nervosa, tagliente, succosa, mobilissima, sapiente impasto di alta letteratura e di parlata viva.
Scrittore (Catania 1840 – ivi 1922). Autore di novelle e romanzi, il cui stile e linguaggio hanno rinnovato profondamente la narrativa italiana, V. è considerato il più autorevole esponente del verismo. Raggiunse la notorietà con alcuni romanzi, Eva e Tigre reale (1873) e novelle (Nedda, 1874), nei quali espresse la sua predilezione per temi legati a diversi ambienti sociali e per il gusto per una scrittura asciutta e comunicativa. Tra il 1878 e il 1881 elaborò un progetto innovatore rispetto alle esperienze precedenti, quello di trasferire nei romanzi l’attenta osservazione del mondo circostante, ponendo l’accento sui desideri degli uomini e sul loro modo di parlare. Ne IMalavoglia (1881) V. perfezionò una tecnica narrativa caratterizzata dall’uso del discorso indiretto libero, che permette di inserire nel racconto le voci e i punti di vista dei personaggi, le loro parole semplici e la loro grammatica elementare. In Mastro don Gesualdo (1889) rispetto allo stile corale de I Malavoglia, V. raffigurò con distacco luoghi e paesaggi lividi e desolati, specchio della miseria umana che i personaggi del romanzo rappresentano.
VITA E OPERE
Di famiglia borghese ma che vantava antiche tradizioni nobiliari, fu allievo di un poeta di gusto romantico, A. Abate, e ne subì l’influsso nei suoi primi romanzi: Amore e patria(1857), rimasto inedito, e I Carbonari della montagna (4 voll., 1861-62), racconto storico sul periodo murattiano; ma già tra il 1862 e il 1863 pubblicava nel giornale fiorentino La nuova Europa un romanzo d’argomento contemporaneo: Sulle lagune. Si era iscritto (1858) alla facoltà di giurisprudenza di Catania, ma non proseguì gli studi. Dal 1860 al 1864 fece parte della guardia nazionale. Dopo un primo viaggio a Firenze (1865), nel 1866, con Una peccatrice, cominciò la serie dei romanzi passionali, che comprende Storia di una capinera(1871), Eva, Tigre reale, Eros(1875): la prima maniera di V., languidamente sentimentale nella Storia di una capinera, enfaticamente romantica negli altri racconti. Del 1876 è la prima raccolta di novelle (Primavera e altri racconti). Lo scrittore si era intanto stabilito a Firenze (1869-71), poi (1872) a Milano,dove prevalentemente visse fino al 1893. Nel 1869 aveva conosciuto a Firenze Giselda Foianesi che poco dopo (1872) sposò M. Rapisardi, ma ebbe in seguito un’intensa relazione con Verga. Il lungo soggiorno milanese diede a V. una maggiore esperienza dei problemi artistici e della vita italiana: il tardo romanticismo, la Scapigliatura, la crisi della società risorgimentale, le suggestioni degli ambienti mondani. Di qui il fondo letterario della sua prima maniera, e quell’infatuazione cupa e passionale che è insieme reminiscenza libresca e irrisolto residuo autobiografico. Preannunci del V. maggiore, poeta della realtà aspra che si deve affrontare con forza e con buon senso, sono nell’Erminia di Tigre reale, e soprattutto nella protagonista di Eva. Ma il deciso inizio della seconda maniera, se si esclude la novella Nedda, che ha sì per protagonista una povera contadina siciliana ma ha anche, per lo più, l’intonazione di una “pietosa istoria” raccontata da un borghese di buon cuore, è segnato dalle novelle di Vita dei campi (1880): un verismo asciutto, rapido, animato da sentimenti autentici e da vivo amore per il paese natio, eppure talvolta irrigidito da un presupposto sistematico in specie nell’eccessiva carica dialettale dello stile; ma sono qui alcune delle pagine più valide di V.: Fantasticheria e L’amante di Gramigna. Il motivo essenziale di Vita dei campi è la rappresentazione d’una umanità primitiva e istintiva: troppo ischeletrita in Cavalleria rusticana, e talora abbassata a osservazione caratteristica e folcloristica; meglio riuscita ne La Lupa, anche meglio in Ieli il pastore e soprattutto in Rosso Malpelo, che dà un’impressione lirica fondamentale di “leggenda popolare”. Qualche volta le pagine di queste novelle, come poi quelle culminanti dei due maggiori romanzi, si alzano a un canto desolato, che è come l’interpretazione lirica che V. fa del pathos dei derelitti, ed è la sublimazione lirica del verismo. Con I Malavoglia V. dà inizio a un ciclo narrativo, I vinti(inizialm. intitolato La marea), articolato in cinque romanzi: oltre I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso, e dunque la storia di cinque sfortunate ambizioni, da quelle della povera gente in cerca dei mezzi materiali per sostenersi a quelle del raffinato aristocratico (ma nella composizione del ciclo V. non andò oltre il primo capitolo del terzo romanzo, che fu pubbl. post. da F. De Roberto, 1922). I Malavoglia ritraggono la storia d’una poverissima famiglia di pescatori siciliani e la triste sorte di quello d’essi che ha tentato di sottrarsi all’umile e faticoso lavoro: il giovane ‘Ntoni. La forza poetica del romanzo sta nell’amara rassegnazione dei “vinti” dinanzi all’accanirsi del destino. La rassegnazione è dolorosissima ma nei cuori oppressi dall’angoscia splende il senso di una legge primitiva e insopprimibile: l’attaccamento alla famiglia e all’onestà tradizionale.
I Malavogliasono un poema più che un romanzo; in esso il linguaggio di V. rifugge dalla ben architettata composizione romanzesca, e trova la via della poesia in un ricco fluire d’immagini, di dialoghi spezzati e scabri, di toni di colore ora un po’ stanchi, ora fortemente messi a contrasto.
Subito dopo I Malavoglia V. pubblicò (1882) Il marito di Elena, che nasce dalla stessa filosofia della vita de I Malavoglia, ma preannuncia alcune psicologie femminili e la vena pittoresca del Mastro don Gesualdo; poi le Novelle rusticane (1883; ed. defin. 1920), dove, in racconti non di rado un po’ secchi o slegati, si continuano o si preannunciano motivi dei due romanzi maggiori; quindi Per le vie (1883), novelle dov’è ritratta, con la solita asciuttezza di tono e rapidità di ritmo, la vita dei bassifondi milanesi e nelle quali, come in una raccolta posteriore, Don Candeloro e C.i (1894), V. abbandona il regionalismo nativo per rientrare negli ambienti caratteristici del realismo straniero, rappresentando con ironica amarezza bozzetti di vita teatrale o piccolo-borghese. Stanno di mezzo fra quel regionalismo e questo realismo le novelle di Vagabondaggio (1887), mentre su un registro di più ironica rappresentazione si collocano I ricordi del capitano d’Arce (1891). Ma certo l’opera di maggiore impegno di quegli anni, come testimonia la sua lunga elaborazione (tre stesure: 1884, 1888, 1889), è il romanzo Mastro don Gesualdo, ove il verismo appare più felicemente risolto nell’indagine di un ambiente paesano da parte di un artista che vivamente vi partecipa e quasi s’immedesima coi personaggi maggiori e minori. Protagonista è un muratore siciliano, Gesualdo Motta, arricchito in mezzo ad avversità d’ogni sorta, circondato dalla malignità e dall’invidia dei rivali e dei beneficati, amareggiato anche dalla lontananza spirituale della moglie (Bianca Trao, di nascita troppo superiore alla sua) e infine dall’indifferenza della figlia.Sconfitto, egli muore dopo lunghe sofferenze, quasi abbandonato, nel palazzo dove la figlia e il genero scialacquano le ricchezze che egli ha guadagnato. Negli anni che corrono fra il 1881 e il 1889 V. ha conquistato una tecnica più potente, un fare più complesso, più sensibile, che si manifesta nella preparazione discreta e pietosa di alcuni episodi, nella costruzione dei capitoli. Di particolare vivezza anche il paesaggio, ove il protagonista porta tutta la sua sofferta inquietudine: paesaggio dei campi e della cittadina siciliana, popolata da tipi umani diversissimi. Il linguaggio è diventato a volte più sfumato, a volte più efficace ed energico che nei Malavoglia, ma a questa maggiore ricchezza di attitudini è venuta meno l’armonia che teneva insieme I Malavoglia, libro meno ricco ma più coerente. A completare l’esperienza letteraria di V. venne a inserirsi a un certo momento nell’attività narrativa una interessante produzione teatrale (sovente ispirata, nell’argomento, a trame di racconti dello stesso autore), che introducendo sulle scene un linguaggio scarno ed essenziale contribuì a combattere i residui sentimentali del teatro borghese del tempo: Cavalleria rusticana (1884); In portineria (1885); La Lupa (1896); La caccia al lupo (1902); La caccia alla volpe (1902); Dal tuo al mio (1903); Rose caduche (composta tra il 1873 e il 1875; pubbl. post., 1928). Anche nel teatro l’ispirazione più alta si attua nel vigoroso racconto di una dolente umanità, specialmente nell’opera più valida, Dal tuo al mio, che ha il suo centro poetico unitario nell’amara rappresentazione del crollo di tutto un passato dinanzi alle leggi brutali della vita moderna (dal dramma V. trarrà nel 1906 il romanzo omonimo). Tornato a Catania, V. visse in uno scontroso riserbo, dedicandosi, negli ultimi anni, all’amministrazione dei suoi beni; solo nel 1919 fu riconosciuto dalla più autorevole critica (L. Russo) il valore della sua opera. Due anni prima della morte gli giunse la nomina a senatore (1920). Del suo abbondante epistolario, oltre alle Lettere al suo traduttore (a cura di F. Chiappelli, 1980), indirizzate a É. Rod, andrà almeno ricordato il Carteggio con L. Capuana (a cura di G. Raya, 1984). Diverse le edd. complessive delle Opere e numerosi i commenti a opere singole; fondamentale l’ed. crit. del Mastro-don Gesualdo (a cura di C. Riccardi, 1979). Postuma (1980) è stata pubblicata la commedia giovanile
I nuovi tartufi. Dal 1987 ha preso avvio la pubblicazione dell’edizione nazionale delle opere di V., prevista in 22 volumi.
Tendenza letteraria italiana, corrispondente al naturalismo francese.
Il Verismo nasce nel secondo Ottocento, quando l’aspetto del romanticismo che tendeva alla parola-musica si era ridotto a generico sentimentalismo; contro di esso il romanticismo stesso reagì puntando sull’altro suo aspetto, che tendeva alla parola-cosa, cioè sul realismo. Varie sono le vie di tale reazione: la poesia ‘maledetta’ degli scapigliati; quella familiare e borghese di V. Betteloni e di altri; quella stilisticamente sostenuta ma a suo modo anch’essa realistica di G. Carducci. In questo ambiente non poteva restare senza eco il naturalismo francese, che infatti fu accolto con grande favore, per es., dal massimo critico romantico, F. De Sanctis; anche L. Capuana se ne fece attivamente promotore, anche se talvolta in modo contraddittorio. Ma, a parte qualche pagina narrativa dello stesso Capuana, il naturalismo italiano, che preferì chiamarsi verismo, fu assai lontano da quello francese. Per es., il massimo scrittore verista d’Italia, G. Verga, che pure nella seconda e più importante fase della sua attività prese dichiaratamente l’avvio dai dettami naturalistici, se ne staccò, rifuggendo radicalmente dallo scientismo e dalla sperimentalità della narrativa di É. Zola e seguaci. Verga interpretò il naturalismo essenzialmente come regionalismo; e così fecero anche, oltre Capuana, F. De Roberto, S. Di Giacomo, M. Serao, R. Fucini, il primo D’Annunzio, G. Deledda e tanti altri. Tutti individuarono nel mondo popolare e borghese delle varie regioni (Sicilia, Napoli, Toscana, Abruzzi, Sardegna ecc.) una miniera di osservazioni non ancora sfruttate dalla narrativa italiana, e in ogni modo lontanissime dal sentimentalismo convenzionale della narrativa tardo-romantica.
Contemporaneamente, nel campo della poesia, O. Guerrini con i suoi Postuma (1877) diede l’avvio a una rumorosa polemica in difesa di una poesia che, di contro alle svenevolezze sentimentali, cantasse l’amore e in genere la vita senza ‘idealizzazioni’ né veli. In effetti tale poesia, dopo quella degli scapigliati, non era una novità, anche se parve tale per la vivacità polemica di Guerrini. In musica con il termine verismo si indica in musica un filone dell’opera lirica italiana affermatosi nell’ultimo decennio dell’Ottocento con sue precise caratteristiche, in sintonia con la parallela tendenza verista nella letteratura e nel teatro. Segni distintivi di tale corrente musicale furono il ricorso a stilemi popolari e di estrazione quotidiana (stornelli, barcarole, danze, serenate, cerimonie collettive), la citazione o la reinvenzione in stile di ogni manifestazione musicale legata alla vita reale, l’utilizzo di un declamato lirico non immune da una serie di efficaci espressioni sonore (grida, richiami, lamenti, pianti, singhiozzi), una orchestrazione che sottolinea la forza drammatica del racconto scenico, esaltando i moti dell’animo. Opera spartiacque risultò nel 1890 la Cavalleria rusticanadi P. Mascagni,desunta dall’omonima novella di G. Verga, mentre il manifesto più esplicito della nuova tendenza musicale è ravvisabile nel prologo de I Pagliacci (1892) di R. Leoncavallo, opera ispirata a un fatto di cronaca.
Si intende per naturalismo, più che un movimento, una corrente di opinione, nata in Francia durante la grande rivoluzione industriale, per l’influenza del pensiero scientifico e filosofico (positivismo) e delle nuove ideologie politiche e sociali. Il maggiore rappresentante del naturalismo fu Émile Zola, il quale si vantava di avere adottato nello scrivere gli stessi metodi di indagine degli scienziati; prodotto di questa scelta fu il grande ciclo di romanzi dei Rougon-Macquart. Il naturalismo è forse soprattutto una reazione al romanticismo idealistico, la stessa che provocò il realismo e il parnassianesimo, nonché il positivismo. Il legame tra naturalismo e positivismo appare evidente proprio per la fiduciosa alleanza con la scienza e per il ripudio del romanticismo inteso come fuga dalla realtà. I “naturalisti” ripudiano la metafisica, non acconsentono al realismo, che si limita a riprodurre un’immagine fedele della natura, affondano in una visione pessimistica e materialistica del mondo e, abbandonando anche le posizioni del naturalismo classico, lucreziano e filosofico di tipo deterministico, si spingono a studiare clinicamente i problemi umani nella loro evoluzione, avvalendosi di rigorose misurazioni su dati forniti dalla realtà. I “naturalisti” inoltre non si arrestano davanti agli aspetti meno poetici del reale, usano un linguaggio estremamente realistico e per questo furono accusati di un certo compiacimento nella scelta di situazioni sordide e volgari. La dottrina, o piuttosto i dogmi del naturalismo, furono più volte esposti da Zola: Le roman expérimental (1880), Les romanciers naturalistes (1881). Precursori del naturalismo si possono considerare Balzac, Champfleury, Duranty e soprattutto i fratelli Goncourt e Flaubert. Tra il 1880 e il 1890 si ebbe in Francia il trionfo del naturalismo: vi aderirono E. de Goncourt (che col fratello Jules aveva fatto un primo tentativo in teatro nel 1865 rappresentando Henriette Maréchal, la cui crudezza urtò il pubblico borghese), Daudet, Jules Renard e altri, sulla scia di L. Hennique, H. Céard, P. Alexis e dello stesso Zola che nelle Soirées de Médan avevano lasciato una specie di manifesto del naturalismo. Poco dopo, però, cominciarono le defezioni che si conclusero con il manifesto, detto dei cinque, contro La terre di Zola: P. Bonnetain, J. H. Rosny, L. Descaves, P. Margueritte e G. Guiches. Zola aveva cercato di portare il naturalismo anche nel teatro (Le naturalisme au théâtre, 1881) dove la vittoria fu però ardua per la mancanza di opere di grande rilievo, se si esclude Henry Becque (Les corbeaux, La parisienne) e il Théâtre-Libre di A. Antoine che, peraltro, affrettarono la scomparsa del vecchio gusto teatrale. In Germaniail naturalismo giunse più tardi, nel 1885, con la rivista fondata a Monaco da Michael Georg Conrad, ma già da qualche anno i fratelli Heinrich e Julius Hart, a Berlino, si erano schierati a favore del naturalismo. La formulazione teorica del naturalismo tedesco venne data più tardi da Arno Holz (naturalismo coerente) che insieme al poeta J. Schlaf scrisse la raccolta di novelle Papa Hamlet(1889). Quanto al teatro, finalità analoghe a quelle del Théâtre-Libre ebbe la Freie Bühne di Berlino, fondata nel 1889. Alieni dall’accogliere lo scientifismo del naturalismo francese, certi drammaturghi tedeschi (si pensi a G. Hauptmann) non tennero presenti solo i modelli parigini, ma anche quelli ibseniani, maturando dentro di sé la svolta in senso simbolistico, cioè antinaturalistico. Naturalismo e simbolismo sono poli tra cui oscilla l’arte nordica di Ibsen, di Strindberg. In Russia il più cospicuo esempio del naturalismo teatrale è La potenza delle tenebre di Tolstoj. Notevole fu l’influenza del naturalismo sulla prima fase dell’attività del teatro di Mosca di Stanislavskij e di Nemirovič-Dančenko. In Italia il naturalismo attecchì col nome di verismo e rinunciò quasi subito a quel distacco scientifico che avrebbe dovuto essere la caratteristica fondamentale della corrente. In definitiva il naturalismo fu in tutti i Paesi d’Europa piuttosto un punto di partenza per nuove esperienze che un vero e proprio traguardo, oppure offrì casi isolati, come Gissing e Bennett in Inghilterra, Palacio Valdés e la Pardo Bazán in Spagna, Eça de Queiroz in Portogallo. Negli Stati Uniti il naturalismo fu introdotto da E. Watson Howe e accompagnò lo sviluppo della giovane letteratura americana (il primo James, Upton Sinclair, Th. Dreiser, J. Dos Passos, S. Anderson, Hemingway, Faulkner, Caldwell) rifluendo poi in Europa.
Dal punto di vista letterario gli anni del secondo Ottocento rappresentano un periodo di crisi. Si sviluppa una scuola manzoniana, ma di modesta levatura, mentre l’isolata lezione leopardiana non trova seguaci; mancano figure di spicco in grado di orientare e caratterizzare questa fase storico-culturale. In alcuni scrittori è percepibile il prevalere di un sentimentalismo languido e flebile, un riproporsi fiacco di temi e moduli che in precedenza avevano avuto risonanze più profonde.
L’avvento dell’industria libraria e gli avvenimenti politico-sociali cambiano la funzione del poeta e il suo rapporto con il pubblico. Alla figura del poeta romantico, che si era sentito espressione di una voce collettiva, portatore di un messaggio indirizzato all’universalità degli uomini, subentra quella del poeta moderno, il quale ha una coscienza del proprio ruolo molto più inquieta e vive con disagio i fenomeni che vede attorno a sé: l’ascesa della borghesia, l’ampliamento del pub- blico dei lettori, l’avanzare del proletariato, il progresso tecnologico e industriale.
Nella seconda metà del secolo la cultura filosofica egemone è il Positivismo, i cui aspetti salienti sono la reazione agli esiti irrazionalistici a cui era giunto il Romanticismo e la ripresa di alcune istanze dell’Illuminismo, come la fiducia nella ragione e nella scienza, la volontà di estendere il metodo sperimentale, tipico delle scienze naturali, ad altri campi del sapere, la fondazione di nuove discipline (ad esempio la sociologia); esso deve al francese Auguste Comte il nome e l’esposizione teorica.
In Italia la dottrina positivista si diffonde ampiamente tra la borghesia laica dopo il raggiungimento dell’Unità. Tra le maggiori figure di pensa- tori in questo periodo vanno ricordati Andrea Angiulli (1837-1890) e soprattutto Roberto Ardigò (1828-1920), che scrive numerosi volumi nei quali illustra aspetti e problemi dell’evoluzionismo filosofico.
La Scapigliatura ( il termine è usato per la prima volta da Cletto Arrighi, 1830-1906, nel romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio, del 1862), estrema propaggine del Romanticismo, è la corren- te letteraria che domina il panorama italiano nei primi anni dell’Unità nazionale: indica una schiera di giovani anticonformisti, avversi a ogni forma di vita borghese, ribelli, insofferenti, bohémien. Il movimento ruota attorno al gruppo di letterati milanesi di cui fanno parte Arrigo (1842- 1918) e Camillo Boito (1836-1914), Emilio Praga (1839-1875), Igino Ugo Tarchetti (1839-1869), Carlo Dossi (1849-1910), e successivamente attorno al gruppo piemontese che annovera Giovanni Faldella (1846- 1928), Giovanni Camerana (1845-1905), Giuseppe Giacosa (1847- 1906), Roberto Sacchetti (1847-1881). Alle radici della Scapigliatura si pongono la delusione per gli esiti del Risorgimento, un contraddittorio rapporto con l’industrializzazione e l’opposizione alla mentalità borghese. Sul piano letterario i temi prevalenti sono l’abnorme e il patologico, il patetico e l’orroroso, l’onirico e il fantastico, l’ironia e l’umorismo acre.
In Francia, sulla scia del Positivismo, si sviluppa il Naturalismo ( anche Glossario): Honoré de Balzac, Gustave Flaubert e i fratelli Edmond e Jules Goncourt sono gli esponenti di punta; ma, certo, Émile Zola, con la teoria del roman experimental ne è il caposcuola. Il metodo scientifico viene trasferito alla letteratura, che si caratterizza come una scienza capace di cooperare allo sviluppo sociale e culturale. Ulteriore novità è il canone dell’impersonalità della narrazione, che liqui- da la formula del narratore onnisciente dominante nel primo Ottocento.
Il Verismo italiano si muove nell’ambito della medesima cultura scientista del Naturalismo francese: si accetta la concezione deterministica dell’agire umano, respingendo quella metafisica e moralistica tradizionale. L’oggetto della letteratura, affer- ma Giovanni Verga ( I grandi autori) nella Prefazione alla novellaL’amante di Gramigna, sono i «documenti umani», cioè fatti veri, storici; e l’analisi di tali documenti deve essere condotta con «scrupolo scien- tifico»; il romanzo trionferà, dice, quando «la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé». È la dottrina dell’impersonalità, secondo la quale l’autore nell’analisi della realtà deve evitare accuratamente di inserire e manifestare il suo
punto di vista. Ma alla visione negativa della realtà sociale, comune ai naturalisti francesi, non si accompagna nei veristi una fiducia nella scienza come efficace strumento per l’emancipazione dell’uomo e per la soluzione di problemi, che appaiono quasi fatalisticamente legati a dati oggettivi e perenni della natura umana e della società.
Tra il 1880 e il 1886 un gruppo di letterati francesi, facenti capo a Paul Verlaine, anima la vita culturale e letteraria parigina, dando vita al cosiddetto Decadentismo, di cui era stato precursore Charles Baudelaire. Il termine designa un’intera fase storico-culturale europea che si estende fino al primo decennio del No- vecento. Il movimento nasce come reazione al Positivismo-Naturalismo, riprendendo molte delle esperienze di segno irrazionalistico, spiritualistico, soggettivistico del moto romantico. La realtà vera non è più quella che appare, ma quella che si cela dietro le apparenze; un rinnovato senso del mistero avvolge la natura e l’uomo. Il linguaggio della realtà e della natura è misterioso, oscuramente simbolico, e l’essere umano lo deve interpre- tare e svelare. Al poeta è affidato il compito di farsi “veggente”, cioè di svelare l’enigma della vita. Fare della propria esistenza un’opera d’ar- te, vivere nel culto esasperato della bellezza, o totalmente in funzione dell’arte diviene un credo per molti letterati. È la genesi dell’Estetismo, che ha in personaggi come Dorian Gray di Oscar Wilde e Andrea Sperelli di Gabriele D’Annunzio gli esempi più celebri. Della letteratura e dell’arte si evidenzia la sostanziale autonomia: non più subordinate a qualsivoglia fine pratico, ma poesia e arte per sé stesse. Eccezione a questa ten- denza è la concezione dannunziana del letterato trascinatore di folle e politicamente impegnato; ma sotto questo atteggiamento c’è anche una sorta di onnipotenza, che ha radici nel superomismo di Nietzsche,
nella teoria cioè di un uomo superiore, con le capacità per dominare la realtà e le masse.
Dopo l’unificazione nazionale si discutono diverse tesi formulate sulla questione della lingua nel primo Ottocento, in particolare quella manzoniana. È Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) che dirime, sul piano teorico, la questione. Egli sostiene che per affrontare il problema bisogna analizzarne le cause, che consistono nella divisione politica, nella scarsa diffusione della cultura, nel formalismo e nella retorica. Non il fiorentino del popolo, come aveva proposto Manzoni, ma il patrimonio di esperienze linguistiche e culturali comuni a tutta Italia, deve costituire, per Ascoli, la base per lo sviluppo di una lingua uni- taria, che si sarebbe avuta quando anche i ceti subalterni avrebbero partecipato a momenti di vita collettiva e attinto alle fonti della cultura. Tra le condizioni che favoriscono l’unificazione linguistica si possono ricordare: l’incremento della scolarizzazione; l’unificazione ammini- strativa e la diffusione della burocrazia; il servizio militare che porta al nord i giovani meridionali e al sud i settentrionali; la stampa a diffu- sione nazionale; l’urbanizzazione, l’industrializzazione e la migrazione interna, che cooperano nel permettere a masse di ceto e provenienza geografica diversi di comunicare tra loro.
Il romanzo sociale
Nella seconda metà dell’Ottocento il romanzo storico entra in crisi sia per il tramonto degli ideali risorgimentali sia per la progressiva dis- soluzione dei tradizionali registri narrativi. A poco a poco si affermano nuovi generi attraverso i quali gli scrittori approfondiscono gli aspetti psicologici dei loro personaggi, o effettuano indagini relative ai flussi di coscienza, ai contrasti tra sentimento e ragione, ai tormenti esistenziali. Un esempio è il romanzo sociale, che nasce in concomitanza con lo sviluppo delle scienze antropologiche, mediche ed economiche. Sicché diviene indispensabile, anche nella letteratura, che il narratore non
si fermi semplicemente a ritrarre il mondo così com’è, cioè nei suoi aspetti reali, ma si ponga lo scopo della denuncia, assumendo magari i metodi delle scienze. Questo genere ha il suo momento migliore nella narrativa degli scapigliati democratici, con i quali si presta a essere un’acuminata arma di polemica e di contestazione. Tra coloro che scrivono specificatamente romanzi sociali è opportuno ricordare autori quali Cletto Arrighi, Achille Bizzoni (1841-1904), Cesare Tronconi (1842-1890) e Paolo Valera (1850-1926).
Il romanzo d’appendice nel secondo Ottocento diviene la più diffusa merce di consumo. Quasi tutti i quotidiani e i periodici pub- blicano romanzi a puntate, bozzetti, novelle, racconti, e sostengono una narrativa d’appendice al femminile, in cui le scrittrici si rivolgono direttamente alle donne per inculcare loro i valori della famiglia e della maternità: è il caso di Anna Radius Zuccari (1846-1918), nota come Neera, e di Maria Antonietta Torriani (1846-1920) o Marchesa Colombi. Ma è soprattutto vero che la pubblicistica attira la gran parte degli autori italiani rimasti famosi, come Edmondo De Amicis (1846- 1908), Carlo Collodi (1826-1890), Matilde Serao (1856-1927), Luigi Capuana (1839-1915), Giovanni Verga, Antonio Fogazzaro (1842- 1911) ed Emilio De Marchi (1851-1901), per i quali i giornali sono il mezzo più celere per diffondere il loro pensiero, le loro poetiche e le loro riflessioni critiche.
Il romanzo regionale documenta, invece, particolari condizioni sociali degradate, tradizioni e costumi locali, modi di pensare e di vivere propri di un determinato ambiente. La narrativa regionale è implicitamente sollecitata dalle pregresse differenze sociali, econo- miche e politiche che lo Stato unitario non è riuscito a eliminare. Tra gli autori da ricordare ci sono Renato Fucini (1843-1921), Achille Giovanni Cagna (1847-1931), Nicola Misasi (1850-1923), Remigio Zena (1850-1917) ed Emilio De Marchi. In particolare di quest’ultimo si ricorda il Demetrio Pianelli (1890), che mostra persistenti venature tardo-romantiche e scapigliate.
Nell’ambito della narrativa per ragazzi si distinguono Collodi e De Amicis, rispettivamente con Le avventure di Pinocchio (1883) e Cuore (1886). Il testo di Collodi, che penetra capillarmente nelle scuole e nelle famiglie, contribuisce con la sua vivacità espressiva a dare un solido sostegno alla formazione della lingua nazionale; Cuore è invece legato alla qualità del suo messaggio pedagogico e alla sua concezione della vita associata.
Il panorama della produzione lirica attorno alla metà del secolo è assai variegato, ma nel contempo privo di grandi personalità, ad eccezione di Carducci: ciò che risulta evidente sul piano tematico è l’enfatizzazione sentimentale, la compiaciuta predilezione per storie di amori infelici, per le facili effusioni suggerite dagli spettacoli naturali o dalla meditazione sulla condizione umana, che si concretizza sul piano formale in una versificazione facile e corriva. Tra le figure più rappresentative di questo periodo abbiamo Giovanni Prati (1814-1884) e Aleardo Aleardi (1812-1878), i quali accolgono le suggestioni del Romanticismo europeo: del primo, la cui attività letteraria è piuttosto eterogenea, rammentiamo i Canti per il popolo e ballate (1843), la no- vella in versi Edmenegarda (1841), i poemi Rodolfo (1853), Armando (1868), le raccolte Psiche (1876) e Iside (1878); del secondo, dotato di una disciplina formale maggiore rispetto a Prati, citiamo Il Monte Cir- cello (1856), Le antiche città italiane marinare e commercianti (1856), Poesie complete (1863).
Il poeta per antonomasia del secondo Ottocento è, però, senza ombra di dubbio Giosue Carducci (1835-1907). Nato a Valdicastello in provincia di Lucca, fin dalle prime prove letterarie manifesta un’in- discutibile tensione verso l’impegno etico e sociale. Il Romanticismo, secondo l’ottica carducciana, è destinato a essere presto superato, poiché il poeta moderno deve rendersi indipendente dalle mode e dalle esigenze del tempo e perseguire una propria ricerca capace di elevarsi al di sopra della storia per assurgere all’eternità della grande poesia. La sua battaglia antiromantica è pienamente giustificata dagli esiti di una cultura che va esaurendo la potente carica ideologica con cui si era rivelata a inizio secolo. Come rimedio a questa degenera
zione egli propone allora un ritorno ai classici, che si sostanzia di una fortissima carica polemica destinata a tradursi immediatamente in impegno civile, che trova riscontro, alle soglie dell’Unità d’Italia, negli autori risorgimentali. Carducci esorta all’eroismo e alla passione patriottica ed è particolarmente attratto da quei momenti della storia universale in cui queste forze si evidenziano in tutta la loro irruenza; ma la rievocazione della storia antica tocca i momenti più intensi e delicati quando muove da una malinconica consapevolezza che quel passato non tornerà mai più.
Cresciuto a contatto con una natura ancora semiselvaggia come quella della Maremma, il poeta porta sempre nell’animo l’impronta sana e vigorosa di quel mondo. La dolcezza di quelle atmosfere campestri ritorna in tanta parte della sua produzione, facendo da contraltare sen- timentale e malinconico alla passione civile; in liriche come Davanti San Guido tale afflato intimistico tocca uno dei vertici più commoventi.
Alcuni fattori della posizione ideologica carducciana subiscono un sensibile mutamento nei decenni successivi all’Unità d’Italia: l’entu- siasmo democratico e l’atteggiamento ribellistico (che toccano il loro culmine nel polemico Inno a Satana del 1863, vibrante apologia della ragione, del progresso e del pensiero laico) lasciano il passo a posizioni indubbiamente più moderate, per approdare infine all’accettazione convinta della monarchia di Umberto I.
La varietà dei temi e dei sentimenti, la presenza niente affatto re- torica del dolore, della morte, della forza e della fragilità, sono i moti più sottili e inquietanti dell’animo umano, espressi nella sua vastissima produzione, nella quale si toccano i momenti più delicati e moder- namente nostalgici della poesia italiana della seconda metà del XIX secolo. Tra le opere maggiori possiamo indicare le raccolte poetiche Juvenilia (1860; sia i contenuti che le scelte metriche rivelano l’imitazio- ne dei classici amati dal poeta in gioventù, da Dante e Petrarca a Monti e Foscolo), Levia Gravia (1868; già il titolo, di derivazione ovidiana, indica la compresenza di liriche di impegno politico-civile e altre più leggere), Giambi ed Epodi (1882; si inserisce nella fase democratica e giacobina dell’autore), Rime nuove (1887; le poesie di questa raccolta, tra le più belle composte da Carducci, spaziano dai motivi più intimistici
e sentimentali a quelli più civilmente impegnati e polemici, e i temi trattati sono le memorie autobiografiche e le grandi memorie storiche; celeberrima è la lirica San Martino), Odi barbare (1877; 1882; 1889; ricorrono gli stessi motivi ampiamente presenti nelle Rime nuove, con alternanza di ricordi interiori, sottili e nostalgici moti dell’animo, sogni di evasione in un passato nazionale mitico e lontano. Nella raccolta il poeta sperimenta l’applicazione della metrica latina e greca nella lingua italiana, il che spiega la definizione di «barbare» data alle odi), Rime e ritmi (1899; orientato verso la monarchia e le posizioni di Crispi, Car- ducci propone un’immagine falsamente eroica e positiva dell’Italia); la raccolta di articoli critici Confessioni e battaglie (1882; 1883; 1884; l’autore è anche un critico militante e interviene polemicamente nel dibattito culturale del tempo); l’Epistolario (postumo; 1938; nel quale si scopre un Carducci diverso dal poeta “ufficiale”, che ripercorre le tappe principali della sua vita in uno straordinario esempio di autoanalisi).
Il classicismo di Carducci, che intende la classicità come età di vitalistico rapporto con la vita, come laica razionalità da cui nascono gli atteggiamenti anticristiani, favorisce una florida produzione poetica rappresentata da Giacomo Zanella (1820-1888), che nei suoi compo- nimenti affronta problemi di notevole interesse, come il rapporto fra scienza e fede; Pietro Cossa (1830-1881); Domenico Gnoli (1838- 1915), che a Carducci si riferisce definendolo «poeta d’Italia tutelare»; Enrico Nencioni (1837-1896), che nelle sue poesie non è scevro da novità simboliste; Giuseppe Chiarini (1833-1908), del quale ricordiamo alcuni componimenti collegati alle disgrazie familiari che lo colpirono; Severino Ferrari (1856-1905), che in alcune sue liriche coniuga l’amore per la terra romagnola con suggestioni mitologiche.
Negli ultimi anni del XIX secolo si afferma la poesia simbolista grazie ad autori come Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli ( Parte Quarta, I grandi autori), che hanno una funzione essenziale nella sprovincializzazione della cultura letteraria italiana e nel rinnovamento linguistico-stilistico.
L’avvicinamento dello scrittore e poeta Alessandro Manzoni alla religione cattolica fu determinato da un episodio avvenuto durante la sua giovinezza, quando egli era unito in matrimonio – con rito calvinista – ad Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere svizzero. Si è sostenuto che la rinascita spirituale del giovane Manzoni sia legata al drammatico episodio avvenuto a Parigi in occasione delle nozze di Napoleone e Maria Luisa D’Austria: l’esplosione di alcuni mortaretti aveva gettato nel panico la folla – della quale facevano parte i coniugi Manzoni – causando alcuni morti. Tra il fumo e le grida lo scrittore aveva perso di vista la moglie e, in preda all’angoscia, aveva varcato il portale della Chiesa di San Rocco, dove era stato placato da un senso improvviso di requie grazie al quale era poi stato in grado di riprendere le ricerche della consorte e di rintracciarla. Nel 1810 Manzoni decise di celebrare nuovamente il matrimonio con Enrichetta, questa volta con rito cattolico; a questo evento seguì il ripudio del Calvinismo da parte di lei. Nell’opera Osservazioni sulla morale cattolicaegli cerca di approfondire il discorso religioso e di argomentare la sua idea di fondo, ovvero che non può esistere un’arte positiva che non sia portatrice di un contenuto ispirato al buono e all’utile, essendo essa illuminata dalla forza della verità e della poesia. Il sentimento religioso si fa, in questi anni, non meno rigoroso, ma più aperto e più confidente nel tentativo di abbracciare, nella sua complessità, l’intero popolo cristiano, guardando, secondo lo spirito evangelico, più in basso che in alto, più alle prospettive rassicuranti delle fede che alla crisi della mondanità e del potere. Le Osservazioni sulla morale cattolica sono un trattato apologetico destinato, come scrisse Manzoni stesso, a difendere la morale della Chiesa cattolica dalle accuse che le furono mosse da Sismondi ne La Storia delle Repubbliche Italiane del Medioevo in cui è detto che la morale cattolica è ragione di corruzione per l’Italia. La composizione delle riflessioni manzoniane in merito sono anche da connettere con la lettura del Saggio Sull’indifferenza in materia di religione del Lamennais, edito nel 1817. Alla tesi calvinista del Sismondi, Manzoni risponde che la corruzione dei costumi italiani non deriva dalla morale cattolica genuina, santa e ragionata, bensì dal trasgredirla, dal non conoscerla e dall’interpretarla alla rovescia; il trattato si articola in diciannove capitoli nei quali vengono esaminate alcune situazioni etiche tra le più dibattute nella storia del Cristianesimo come l’odio religioso, le indulgenze e le elemosine. L’approfondimento di molti tra questi temi fornirà materia morale alla composizione de I promessi sposi. Per la sua realizzazione, lo scrittore si documenta con lo scrupolo di uno storico, prediligendo come protagonisti dei personaggi umili; il tema centrale del romanzo è la concezione della divina provvidenza ma, mentre i due protagonisti della trama, Renzo e Lucia, la interpretano in modo quasi infantile, credendo che nel corso della storia i buoni saranno premiati e i malvagi puniti, l’autore ne ha una più alta concezione teologica e sostiene che virtù e felicità possono coincidere solo nella prospettiva dell’eterno: solo alla fine dei tempi, infatti, vi sarà la certezza che i virtuosi saranno premiati e i malvagi puniti. Secondo la visione manzoniana, sulla Terra la Provvidenza può anche infliggere sventure e sofferenze ai giusti, senza garantire il loro risarcimento; proprio la sventura, per lo scrittore, porta alla maturazione della virtù e a una profonda consapevolezza, e questo anche in relazione ai suoi vissuti personali che lo videro protagonista di innumerevoli lutti (della moglie, della madre, di molti dei suoi figli) e di dolore per la cattiva condotta dei figli di maschi.
Siamo nel 1628, durante il periodo della dominazione spagnola in Italia; Don Abbondio, un modesto prete di campagna del territorio di Lecco, viene fermato durante una passeggiata da due bravi al soldo di un signorotto locale, Don Rodrigo. I due lo minacciano con la celebre espressione: “questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai” per dissuaderlo dal celebrare il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Don Abbondio, che è un uomo pavido, conferma la sua obbedienza e torna a casa in preda al terrore. Qui però non riesce a nascondere il turbamento alla sua curiosissima serva, Perpetua, e finisce per raccontarle l’accaduto, intimandole tuttavia il silenzio.
Capitolo II:
Don Abbondio decide di rimandare le nozze in modo da arrivare al periodo tra l’Avvento e l’Epifania in cui non si celebrano i matrimoni. Quando Renzo si reca da lui per definire gli ultimi dettagli della cerimonia, Don Abbondio riesce a posticiparlo di quindici giorni. Renzo, dopo aver parlato in confidenza con Perpetua, riesce a far confessare tutto al prete. Il protagonista corre quindi a casa di Lucia, dove racconta tutto alla promessa sposa e alla madre di lei, Agnese. Dalla disperazione di Lucia si intuisce che la ragazza è a conoscenza di ulteriori elementi.
Capitolo III:
Lucia racconta di essere stata avvicinata da Don Rodrigo e dal cugino Attilio e di aver capito di essere diventata oggetto di una scommessa tra i due. Preoccupata, la ragazza ne aveva parlato con Fra Cristoforo, un frate cappuccino che le aveva consigliato di affrettare le nozze per scongiurare ogni pericolo. Renzo va a Lecco dall’avvocato Azzeccagarbugli per risolvere la faccenda per vie legali: quest’ultimo prima lo scambia per un bravo ma poi, dopo aver sentito il nome di Don Rodrigo, intuisce la verità e lo caccia in malo modo. Nel frattempo arriva a casa di Lucia Fra Galdino, del convento di Pescarenico, che sta raccogliendo noci presso i fedeli: le due donne lo mandano a chiamare Fra Cristoforo.
Capitolo IV:
Viene raccontata la storia di Fra Cristoforo, il cui vero nome è Ludovico: cresciuto come un nobile (pur essendo di origine borghese), era stato coinvolto in un fatto di sangue generato da futili motivi che aveva visto la morte di un suo servo e l’uccisione per sua mano del nobile implicato nell’omicidio. Dopo il drammatico pentimento e la crisi di coscienza, Ludovico è diventato Fra Cristoforo, schierandosi spesso dalla parte dei deboli e degli oppressi.
Capitolo V:
Renzo cerca senza successo aiuto dai suoi amici per vendicarsi di Don Rodrigo. Fra Cristoforo si reca da Lucia e, udita la storia decide di andare da Don Rodrigo. Qui viene invitato a unirsi a tavola con Don Rodrigo (che spera di evitare di doverci parlare privatamente) Attilio, il dottor Azzeccagarbugli, e il podestà. Fra Cristoforo, risoluto, sopporta gli spiacevoli discorsi dei commensali. Il banchetto divetna il simbolo dell’ipocrisia e del potere violento della classe nobiliare del Seicento.
Capitolo VI:
Don Rodrigo riesce a far precipitare la discussione in rissa verbale accusando il frate di nutrire interesse per Lucia. Fra Cristoforo se ne va amareggiato senza aver concluso nulla, ma viene avvicinato da un vecchio servo di Don Rodrigo, che si offre di scoprire quali sono i piani del padrone e riferirglieli. Nel frattempo Agnese elabora un piano: Lucia e Renzo si dovranno presentare da Don Abbondio con due testimoni, gli amici di Renzo Tonio e Gervaso, e pronunciare ad alta voce i voti. A quel punto il matrimonio sarà valido, nonostante la volontà del parroco..
Capitolo VII:
Fra Cristoforo racconta quanto accaduto e Renzo va fuori di sé. Il giorno dopo Agnese manda un ragazzino, Menico, a chiedere notizie da Fra Cristoforo. Durante il giorno dei bravi travestiti da viandanti gironzolano intorno a casa di Lucia e uno riesce anche ad entrare all’interno. Don Rodrigo infatti ha comandato al Griso, il capo dei suoi bravi, di rapire Lucia. Renzo incontra all’osteria tre bravi ma questi, a parte osservarlo, non fanno nulla. Poi Renzo, Agnese, Lucia e i due amici si recano da don Abbondio.
Capitolo VIII:
I quattro si introducono in casa di don Abbondio (che viene ingannato dalla presenza di Tonio, che gli deve un debito) mentre Agnese tiene impegnata Perpetua. Renzo e Lucia entrano nella stanza per pronunciare la formula di giuramento, ma il curato, sconvolto dalla paura, interrompe la giovane con la forza e scappa in un’altra stanza, invocando aiuto. Il sagrestano allora suona le campane per far accorrere gente: la confusione che si genera fa fuggire anche i bravi che nel frattempo si sono introdotti in casa di Lucia per rapirla. Menico riferisce che Fra Cristoforo li ha richiamati al convento; qui il frate spiega ai giovani e ad Agnese il piano per la fuga dal paese: si tratta della celebre scena dell’addio ai monti.
Capitolo IX:
Giunti a Monza da Pescarenico, Renzo si dirige verso Milano mentre Agnese e Lucia chiedono ospitalità a Monza, presso il monastero della potente monaca Gertrude. Il narratore si sofferma sulla storia di Gertrude: figlia di un nobile, la giovane è stata costretta a farsi monaca per salvaguardare il patrimonio del padre. Dopo essersi rifiutata di prendere il velo, Gertrude è stata vittima di una persecuzione psicologica e morale tra le mura di casa, che l’ha infine spinta ad accettare i voti.
Capitolo X:
Continua la storia di Gertrude: una volta diventata monaca suo malgrado, la donna fatica a sopportare la nuova condizione ed è dilaniata tra diversi stati d’animo e sentimenti. Sfoga l’odio che prova sulle converse e si innamora di un signorotto perverso e senza scrupoli, Egidio. Scoperta e minacciata da una conversa, Gertrude la uccide e ne seppellisce il corpo nel cortile affinché non venga mai trovato.
Capitolo XI:
Don Rodrigo riesce a scoprire dove sono Renzo e Lucia mandando i suoi bravi a informarsi tra i popolani. Attilio promette di occuparsi di Fra Cristoforo con l’aiuto del conte zio, potente milanese, mentre il Griso viene mandato a Monza sulle tracce di Lucia. Renzo intanto arriva a Milano, dove è il corso la rivolta del pane (il “tumulto di San Martino”) e la popolazione assalta i forni per avere da mangiare. Arrivato al convento, Renzo scopre che padre Bonaventura, da cui doveva recarsi, non è lì e quindi si accoda ai tumulti.
Capitolo XII:
Manzoni si sofferma sulle cause storiche della rivolta, tra cui si possono elencare la perdurante carestia, l’impreparazione della classe politica, gli sprechi e l’eccessiva pressione fiscale. Il cancelliere Antonio Ferrer decide prima di calmierare il prezzo del pane, ma poi è costretto a riportarlo al prezzo di mercato, facendo scoppiare la sommossa. Renzo segue i moti ma in cuor suo critica le azioni del popolo.
Capitolo XIII:
Viene descritto l’assalto alla casa del vicario di provvigione, in cui in mezzo alla folla si distinguono le voci dei più violenti e fanatici, che vorrebbero giustiziare coloro che ritengono il responsabile della carestia. Renzo si ribella a questi propositi assassini, ma rischia di venire ammazzato dalla folla. L’arrivo di Ferrer, che promette pane alla folla, seda la rivolta e permette il salvataggio del vicario.
Capitolo XIV:
Renzo fa un’arringa pubblica contro i soprusi dei potenti, passando per un pericoloso sobillatore delle folle. Si avvicina a lui informatore della polizia in incognito, che vuole condurlo in carcere. Fermatosi con quest’ultimo all’Osteria della Luna piena e non sapendo chi ha davanti, Renzo si lascia andare in preda all’ubriachezza a discorsi contro i potenti che abusano della loro posizione. Con un tranello, l’informatore riesce a farsi dare da Renzo le sue generalità; il giovane, del tutto ubriaco, è preso in giro da tutti.
Capitolo XV:
Renzo, ubriaco fradicio, resta a dormire negli alloggi dell’oste che, nel frattempo, insospettito dal suo comportamento ed intimorito dalla presenza dell’informatore, va a denunciare il protagonista al palazzo di giustizia, dove è già giunta notizia del comizio di Renzo all folla. il giorno successivo due poliziotti lo vanno ad arrestare. Durante il tragitto per strada, però, Renzo riesce ad attirare la folla in tumulto e i poliziotti, sentendosi minacciati, lo liberano.
Capitolo XVI:
Renzo scappa da Milano per raggiungere il cugino Bortoloa Bergamo. Sceglie le strade più tortuose per paura di essere inseguito: quindi, passa prima da Gorgonzola dove si ferma presso un osteria. Qui, ascoltando le conversazioni dei commensali, scopre di essere stato scambiato per uno dei capi della rivolta e decide di raggiungere il più velocemente possibile l’Adda, che segna il confine tra il Ducato di Milano e i territori di Bergamo.
Capitolo XVII:
Renzo vaga per il bosco di notte, spaventato dall’oscurità e dai rumori, e si rifugia in una capanna deserta fino alla mattina dopo quando attraversa l’Adda grazie al passaggio di un barcaiolo. Giunto infine nel bergamasco, arriva così al paese del cugino Bartolo che lo fa assumere come lavorante in un filatoio.
Capitolo XVIII:
Attilio si reca a Milano dal conte zio, il quale, grazie ai suoi con la dirigenza dei cappuccini riesce a far mandare Fra Cristoforo a Rimini, allontanandolo da Lucia e Agnese. Nel frattempo viene diramata a Lecco l’ordinanza di arresto per Renzo, ritenuto il capo della rivolta a Milano.
Capitolo XIX:
Si racconta l’incontro tra il conte zio e il padre provinciale dei cappuccini: i due, politici esperti, si sfidano a colpi di diplomazia, mettendo sul tavolo il prestiio delle rispettive casati e dei propri ordini. Il padre provinciale acconsente infine a trasferire Fra Cristoforo. Don Rodrigo, venendo a sapere dal Griso che Lucia è protetta dalla potente monaca di Monza, ma anche che è ormai sola poichéAgnese è tornata a Lecco, decide di chiedere aiuto all’Innominato, un uomo potente e malvagio, per commissionargli il rapimento della sua preda. Don Rodrigo e il Griso partono così per il castello dell’Innominato.
Capitolo XX:
Don Rodrigo, a colloquio con l’Innominato, gli spiega la faccenda e questi accetta di aiutarlo, sicuro dell’appoggio di Egidio, l’amante di Gertrude. Una volta partito Don Rodrigo, l’Innominato vacilla, ormai schiacciato dal peso degli anni e delle crudeltà commesse e immaginandosi la punizione di Dio. Egidio convince però Gertrude, ancora succube di lui, ad assecondarlo nel piano: la monaca fa uscire Lucia dal convento con la scusa di una finta ambasciata e la giovane viene rapita dal Nibbio, capo dei bravi dell’Innominato. Una volta giunta al castello l’Innominato, colto da pietà, manda una vecchia serva a farle compagnia.
Capitolo XXI:
Il Nibbio riferisce all’Innominato che le parole di Lucia che implorava pietà lo hanno turbato; l’Innominato, in preda a sentimenti sempre più contrastanti si convince ad andare a parlare con la giovane. Lucia lo prega di liberarla in nome di Dio e, vedendolo vacillare, insiste a parlargli della grazia divina, che può toccare tutti i cuori umani. Finito il colloquio, Lucia passa una notte di tormenti, decidendo di fare voto di castità se Dio le concederà di essere liberata. Anche l’Innominato trascorre una notte insonne, dopo la quale si convince potere della misericordia divina e decide di liberare la giovane. Quando è ormai arrivata l’alba l’Innominato, si affaccia alla finestra e vede una folla di pellegrini, accompagnata dal suono delle campane a festa.
Capitolo XXII:
La processione è dovuta alla visita parrocchiale del Cardinale Federigo Borromeo. L’Innominato, che sente la necessità di confessare la propria inquietudine interiore, decide di andare a colloquio col Cardinale. Egli esce dal castello e si mischia al popolo senza scorta e, prima di uscire, comanda alla serva di informare Lucia che è libera.
Capitolo XXIII:
Si assiste alla conversione dell’Innominato, che abbandona ogni orgoglio dinanzi alla bontà d’animo del Cardinale Borromeo. L’Innominato confessa al Cardinale il rapimento di Lucia, e il Borromeo decide di intervenire, convocando Don Abbondio al proprio cospetto. Il curato anche questa volta tergiversa e cerca di sfuggire alle sue responsabilità, e manda a chiamare Agnese. Quindi la comitiva si dirige al castello dell’Innominato.
Capitolo XXIV:
Lucia accorda il perdono all’Innominato e viene liberata. Una volta in paese può ricongiungersi con la madre Agnese, a cui racconta tutto fuorché il voto di castità. Le due donne vengono ospitate da un sarto e riferiscono poi al Cardinale Borromeo la loro storia e i loro tormenti; il Cardinale promette di occuparsi anche della situazione di Renzo. Nel frattempo l’Innominato convoca i suoi bravi, rende nota a tutti la sua conversione e li informa che coloro che vogliono restare con lui devono cambiare vita e abbandonare le azioni empie. Dà ai bravi una notte per decidere e si ritira a pregare.
Capitolo XXV:
La voce della vicenda dell’Innominato giunge anche al paese di Renzo e Lucia, dove finalmente Don Rodrigo e Azzeccagarbugli vengono sbugiardati. Don Rodrigo, saputo della liberazione di Lucia, parte per Milano. Il Cardinale Borromeo, messo a parte da Lucia del rifiuto di Don Abbondio a celebrare il matrimonio lo rimprovera duramente. Nel frattempo, sempre a casa del sarto, Lucia conosce due nobili milanesi, Don Ferrante e Donna Prassede che, convinti che la giovane oltre ad aver bisogno d’aiuto si sia messa sulla cattiva strada, le offrono protezione. Lucia accetta.
Capitolo XXVI:
Don Abbondio dinnanzi alle parole del Cardinale capisce che avrebbe dovuto celebrare il matrimonio e si pente del proprio egoismo. Il giorno dopo Agnese si reca alla villa di donna Prassede, dove è ospitata Lucia, per darle una dote ricevuta dall’Innominato. Lucia comunica alla madre di aver fatto un voto di castità e la prega di farlo sapere a Renzo. Del giovane però non si riescono ad avere notizie certe; infatti Bortolo, per salvare il cugino, ricercato anche dal governatore di Milano Don Gonzalo, lo ha mandato a lavorare nella filanda di un altro paese sotto lo pseudonimo di Antonio Rivolta.
Capitolo XXVII:
Vengono descritte le guerre di successione per il ducato di Mantova e del Monferrato. Vi è un difficoltoso scambio di lettere fra Agnese e Renzo: il giovane, pur venendo informato del voto di castità dell’amata, decide di non rinunciare a Lucia. Da parte sua Lucia cerca di dimenticare Renzo, ma le continue calunnie di Donna Prassede che è convinta che l’uomo sia un delinquente fanno sì che la giovane lo difenda e ne ricordi le virtù. Viene qui descritta la biblioteca di Don Ferrante.
Capitolo XXVIII:
Passa un anno, siamo nell’autunno del 1629, Milano è caduta in preda della carestia, che porta, anche a causa delle dure e insalubri condizioni di vita, un alto tasso di mortalità. Con la stagione del raccolto la situazione migliora, ma subito scoppia la guerra per il ducato di Mantova e Monferrato. La guerra porta i Lanzichenecchi e i Lanzichenecchi portano la peste, che imperversa tra la popolazione..
Capitolo XXIX:
Temendo il passaggio dei Lanzichenecchi, Agnese, Don Abbondio e Perpetua cercano rifugio presso il castello dell’Innominato. Una volta arrivati scoprono che l’Innominato ha aperto le sue porte a tutti gli esuli ed è pronto a difenderli.
Capitolo XXX: Il passaggio dei Lanzichenecchi per fortuna non tocca la fortezza dell’Innominato, che regala ad Agnese un’altra somma di denaro e un corredo di biancheria. Una volta tornati a casa Agnese, Don Abbondio e Perpetua, scoprono che il paese è stato devastato e che molti loro averi sono stati rubati.
Capitolo XXXI:
La cattiva gestione della città da parte di Ambrogio Spinola, impegnato nella guerra, fa sì che Milano sia isolata troppo tardi e il contagio si propaghi rapidamente anche all’interno delle mura. La popolazione non vuole arrendersi all’evidenza dell’epidemia e così si crea la leggenda degli untori, su cui riversare la colpa e la paura della pestilenza.
Capitolo XXXII:
La peste si propaga in tutta la città e la popolazione di Milano finisce per ridursi di due terzi; il lazzaretto è affollato di cadaveri, che vengono seppelliti in gigantesche fosse comuni.. La diceria degli untori diventa nel frattempo una certezza appoggiata anche dalle istituzioni, che non sono più in grado di controllare la situazione e di garantire l’ordine, e si assiste così a processi ed esecuzioni di innocenti accusati di aver portato la peste.
Capitolo XXXIII:
Attilio muore di peste e due giorni dopo anche a Don Rodrigo spunta un bubbone sotto l’ascella sinistra. Non volendo andare al Lazzeretto dice al Griso di convocare un medico ma questi, per impossessarsi dei suoi tesori lo tradisce. Mentre Don Rodrigo viene trascinato via, il Griso nelle sue ruberie tocca i suoi vestiti infetti e il giorno dopo muore anche lui. Anche Renzo e don Abbondio si ammalano, ma entrambi riescono a guarire. Il giovane, dopo essere tornato nel paese natale devastato dalla guerra e dalla pestilenza, si reca a Milano per convincere Lucia ad abbandonare il voto. Perpetua è mortae Agnese è da alcuni parenti in Valsassina, lontano dalla zona del contagio.
Capitolo XXXIV:
Renzo arriva a Milano dove lo accolgono scene di disperazione straziante, come quella della madre di Cecilia o quella di una donna bloccata in casa con i figli, cui il protagonista dona il proprio apne. Giunto da Donna Prassede, Renzo scopre che Lucia è al Lazzaretto. Scambiato erroneamente per un untore, Renzo è circondato dalla folla inferocita che vuole linciarlo. Scappa saltando su un carro carico di cadaveri e giunge quindi al Lazzaretto.
Capitolo XXXV:
Nel lazzaretto Renzo ritrova Fra Cristoforo, visibilmente malato ma impegnato a curare i moribondi. Il frate gli dice dove potrebbe trovare Lucia, ma lo mette in guardia rispetto a possibili brutte notizie. Renzo si infiamma e inveisce contro Don Rodrigo, ma Fra Cristoforo lo convince a perdonare lo sventurato, ormai in fin di vita e fuori di senno. I due si recano al suo capezzale e pregano per lui.
Capitolo XXXVI:
Renzo ritrova finalmente Lucia che, pur trovandosi ancora nella zona delle infette è ormai guarita. Lucia però non vuole mancare di rispetto al voto fatto alla Madonna, malgrado Renzo faccia di tutto per convincerla che non è valido. Siccome Lucia non cede dal suo proposito vanno a chiedere consiglio a Fra Cristoforo, che le spiega che, essendosi promessa in matrimonio a Renzo, non doveva fare un voto che riguardava anche lui senza rispettarne la volontà. Cristoforo aggiunge che, essendo egli un vicario di Cristo, ha la facoltà di sciogliere il voto della giovane. Renzo lascia il Lazzaretto per andare a cercare Agnese.
Capitolo XXXVII:
Mentre un temporale provvidenziale spegne l’epidemia, Renzo raggiunge Agnese nel paese di Pasturo ed insieme decidono di vivere nel bergamasco. Il protagonista si reca così al paese del cugino Bartolo a comprare una casa. Torna poi al suo paese ad aspettare Lucia con Agnese. Lucia passa il periodo di quarantena a casa di una mercantessa conosciuta al Lazzaretto. Scopre che la monaca di Monza a causa dei suoi disfatti è stata fatta trasferire a Milano e vive una vita di privazioni. Si viene a sapere che Fra Cristoforo è morto, così comeDonna Prassede e Don Ferrante, strenuo difensore dell’inesistenza della peste.
Capitolo XXXVIII:
Lucia torna al paese ma Don Abbondio di nuovo accampa scuse per non sposare i due giovani. Una volta scoperto che Don Rodrigo è morto e che la sua casa è occupata da un marchesesuo parente, Don Abbondio accetta di celebrare le nozze. Il marchese, per rimediare al torto del parente decide di comprare le case di Renzo e Agnese e di far annullare il mandato di cattura ancora pendente su Renzo. I tre si trasferiscono al paese di Bortolo, ma diventano delle malelingue del paese sul conto di Lucia. Allora Renzo, in società con Bortolo, acquista comprano un filatoio nei pressi di Bergamo, dove lui e Lucia potranno mettere al mondo la prima figlia, Maria. Chiude la vicenda il “sugo di tutta la storia”, ovvero la necessità della fiducia nella Provvidenza di Dio.