Guido Gozzano

Poeta italiano (Torino 1883 – ivi 1916). Ritenuto il massimo esponente del crepuscolarismo, nelle sue opere riserva lo stesso commosso distacco e lo stesso sguardo ironico alla vacua fede letteraria, per la quale non si può non provare vergogna, e al personaggio autobiografico con cui racconta il dannunzianesimo vissuto nella grigia realtà quotidiana. Puntando su una poesia capace di assecondare l’andamento del parlato senza uscire dalla metrica tradizionale, persegue con una felicità proverbiale la rivalutazione estetica del reale già avviata proprio da D’Annunzio, e per questa via scopre che il fascino libresco, conferito dalla patina del tempo alle “buone cose di pessimo gusto”, del passato, non si distingue poi molto dalle attrattive dell’arte. Tra le sue opere si ricordano le raccolte di versi La via del rifugio (1907) e I colloqui (1911).

Di famiglia agiata, compì svogliati studî di giurisprudenza, angustiato dalla tisi che lo afflisse fin dai vent’anni. All’università, frequentando per diletto le lezioni di letteratura italiana di A. Graf, entrò in contatto con un gruppo di letterati e artisti (C. Calcaterra, G. Cena, C. Chiaves, G. Gianelli, S. Gotta, A. Momigliano, F. Pastonchi, E. Thovez, M. Vugliano) aperti alle novità europee e ostili al dannunzianesimo imperante, in nome di un ideale di solo apparente moderazione borghese che sarebbe approdato alla poesia “crepuscolare”. G. ne trasse l’impulso a liberarsi a sua volta dal dannunzianesimo, rinnegando enfaticamente l’infatuazione originaria (Invece di farmi gozzano/”>gozzano Un po’ scimunito, ma greggio, Farmi gabrieldannunziano: Sarebbe stato ben peggio!) e in realtà limitandosi a cercare altrove, nel prossimo Pascoli e nella più remota poesia del Settecento, ma prima ancora nel correttivo dell’ironia, una diversa autorizzazione per una poetica sempre tributaria dell’estetismo, nutrita fino all’eccesso di letteratura e impegnata a definire i proprî problematici rapporti con la tradizione. Ma, se autentica è la ripugnanza per le “nauseose” formule magniloquenti della vena patriottica e superomistica di D’Annunzio, meno alla lettera va intesa la condanna di un tipo intellettuale, con il quale il dandy G., lettore di Schopenhauer e Nietzsche, evidentemente si identifica e del quale anzi riesce a riscattare sul piano umano e sentimentale lo scetticismo, cogliendone la drammaticità e le moderne implicazioni letterarie.  Analogamente, la percezione dell’insensatezza che accomuna la vita dell’uomo a quella delle altre creature conduce G. a rifugiarsi nell’attenta e amorosa osservazione del mondo delle farfalle, da lui cantato, con la serietà del gioco e la memoria della poesia didascalica settecentesca, nelle Epistole entomologiche, che, scritte negli ultimi anni, furono rese note solo molto parzialmente. L’ispirazione libresca di G. risulta paradossalmente confermata dalle corrispondenze giornalistiche dall’India, raccolte postume nel volume Verso la cuna del mondo (1917), in cui il più impegnativo dei viaggi, ai quali il poeta si sottomise per motivi di salute, diventa un’occasione di fantasticherie in margine non a esperienze realmente vissute, ma alle sue molte letture d’argomento esotico. Scrisse anche novelle (L’altare del passato, post., 1918; L’ultima traccia, post., 1919), per le quali si veda l’edizione completa I sandali della diva (1983), a cura di G. Nuvoli, e fiabe per bambini (La principessa si sposa. Fiabe, post., 1917). Le sue Opere furono raccolte in un unico volume, a cura di C. Calcaterra e A. De Marchi (1948), mentre di Tutte le poesie esiste l’edizione critica a cura di A. Rocca (1980). A cura di S. Asciamprener sono apparse le Lettere d’amore di Guido G. e Amalia Guglielminetti (1951).

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Il Crepuscolarismo

La definizione di quella che nella poesia italiana del primo Novecento costituisce una tendenza più che una vera e propria scuola o teoria viene coniata da Giuseppe Antonio Borgese in un famoso articolo pubblicato nel 1910 sulla rivista «La Stampa», in cui il noto critico recensiva le liriche di alcuni giovani poeti, tra cui Marino Moretti. I crepuscolari elaborano una poesia dal tono particolarmente dimesso e nostalgico, che prende le mosse dalle piccole cose, dai sentimenti che nascono nel quotidiano, da un costante rimpianto per il tempo andato e dallo struggimento, venato di sottile ironia, che scaturisce dall’impossibilità di poterlo rivivere.

Il linguaggio riflette il carattere essenzialmente languido e malinconico della poesia crepuscolare, per cui, anche nel generale ricorso al verso libero, il dettato poetico assume spesso un andamento prosastico e collo- quiale (emblematico il frequente ricorso agli enjambement), risultando talvolta piatto e ripetitivo. Poeti crepuscolari sono Gozzano, Moretti e Corazzini.

Partendo da un’iniziale adesione al modello dannunziano (La via del rifugio, 1907), Guido Gozzano (1883-1916), il maggiore e più fortunato rappresentante del Crepuscolarismo, con le liriche della raccolta Colloqui (1911), in cui ricostruisce la sua esperienza autobiografica, riesce ad approdare, mediante l’azione corrosiva dell’ironia, a risultati decisamente originali. Particolarmente nota è la poesia L’amica di nonna Speranza, che proietta l’autore nella dimensione dei ricordi, in un ambiente piccolo-borghese ormai lontano, dove le «buone cose di pessimo gusto» ispirano attrazione e al contempo ripulsa.

Come si evince dalle raccolte Poesie scritte col lapis (1910)Poesie di tutti i giorni (1911), la produzione lirica di Marino Moretti (1885-1979), sempre pervasa da una sottile ma pregnante ironia, si incentra sul ricordo del passato e sulla descrizione della vita quotidiana, spesso caratterizzata da ansia e insoddisfazione. Lo stile si presenta fortemente prosastico, teso quasi a “mimetizzare” i modi del parlato e ad annullare la forma poetica.

Morto giovanissimo di tubercolosi, Sergio Corazzini (1886-1907) è autore della raccolta Piccolo libro inutile (1906), contenente Desolazione del povero poeta sentimentale, poesia-simbolo del Crepuscolarismo ed emblematico esempio di anti-dannunzianesimo. Ne proponiamo qui di seguito i versi (1-5) più noti.

Perché tu mi dici poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.

Vedi: non ho che lagrime da offrire al Silenzio.

Perché tu mi dici: poeta?

Altre esperienze Del tutto personali e quindi non riconducibili a nessun movimento in particolare sono i risultati della ricerca poetica di autori come Campana, Rebora e Sbarbaro.

Dino Campana (1885-1932), personaggio dalle tormentate vicende esistenziali, dovute a una cronica instabilità mentale, pubblica nel 1914Canti orfici, in cui perviene a un lirismo assolutamente nuovo, tutto proteso a voler riacquistare certe antiche valenze magico-incantatorie. Qui di seguito proponiamo alcuni versi (1-9 e 21-26) della lirica La Chimera.

Non so se tra rocce il tuo pallido viso m’apparve,

o sorriso
di lontananze ignote
fosti, la china eburnea

fronte fulgente e giovine
suora de la Gioconda:
o delle primavere
spente, per i tuoi mitici pallori
o Regina o Regina adolescente […]

Non so se la fiamma pallida fu dei capelli il vivente

segno del suo pallore,
non so se fu un dolce vapore, dolce sul mio dolore,
sorriso di un volto notturno.

Clemente Rebora (1885-1957), autore di raccolte come Frammenti lirici (1913) e Canti anonimi (1922), ricorrendo a un linguaggio dalle tinte fortemente espressionistiche, intende manifestare quell’ansia di ricerca della verità che connota anche la sua intensa esperienza autobiografica.

Camillo Sbarbaro (1888-1967), in Pianissimo (1914) e nelle prose poetiche Trucioli (1920), propone una poesia dal tono dimesso, fatto di un linguaggio scarno e disadorno, limitato all’essenziale, il tutto a sostenere una concezione fondamentalmente pessimistica della vita e un’intima sofferenza esistenziale che, riflesse talvolta nell’aspro paesaggio ligure, anticipano la poesia di Eugenio Montale.

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Il Decadentismo

Il decadentismo è una teoria estetico-morale sorta in Francia intorno al 1885-1886Decadenti, furono chiamati alcuni poeti dai loro avversarî ed essi dell’accusa si fecero un vanto e un programma. Poeta o artista decadente è quello che di certe sensazioni morbide ed estenuanti, di certe rinunce e abdicazioni morali, che prolungandosi sfibrano lo spirito, si compiace come di una superiorità, le rinnova e le eccita artificiosamente.

Questo appunto era uno dei caratteri più appariscenti dell’arte celebrata da quel gruppo di poeti e di critici che a Parigi, tra il 1885 e il 1888, presero a difendere in alcune modeste e semiclandestine riviste, come La Nouvelle Rive gaucheLa Revue indépendanteLa Revue wagnérienneLe DécadentLe SymbolisteLa Vogue, ecc., il principio mistico e le aspirazioni metafisiche del sentimento poetico contro la volgarità del naturalismo dominante. La spiritualità pareva ad essi rivelarsi principalmente in certi brividi, in certe voluttuose reazioni del senso di fronte al mistero, all’ignoto, a quanto l’uomo trova di enigmatico e di strano nella realtà in quei momenti d’abbandono nei quali non pensa né vuole, ma si lascia passivamente invadere dalle suggestioni della vita subcosciente. A modo delle altre scuole letterarie anche i decadenti si cercarono e trovarono famosi antenati nella storia letteraria: lo Chateaubriand, il Lamartine, il De Vigny, il Balzac, V. Hugo, il Sainte-Beuve, Gérard de Nerval, Ch. Baudelaire, Villiers de l’Isle-Adam. Ma il loro vero padre spirituale è Charles Baudelaire, che per il primo teorizzò lucidamente la decadenza, cioè la contraddizione e in certa misura anche la perversione morale come principio nuovo e fecondo di ispirazione, e nelle poesie dei Fiori del male, come nei Poemetti in prosa e nei Paradisi artificiali, segnò i temi fondamentali della nuova poesia, rilevò gli stretti legami che uniscono la lussuria e la crudeltà a certe forme di esperienza mistica; le segrete rispondenze ed equivalenze che corrono tra le sensazioni e rendono facile il trapasso da un ordine di sensazioni all’altro; la potenza del suono e del ritmo, sovrana generatrice dell’emozione lirica.

“Les parfums, les couleurs et les sons se répondent”, aveva detto il Baudelaire, e T. Gautier scriveva, in una prefazione composta per i Fiori del male, quell’apologia della parola per sé stante e operante, della parola come colore e come suono, che fu parte essenziale dell’estetica del simbolismo (v.), col quale il decadentismo ha stretti rapporti.

Del più antico gruppo di quei poeti che per ironia polemica si gloriarono del nome di decadenti, fecero parte Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé, René Ghil, Jules Laforgue, Anatole Baju, Noël Louma, e, per qualche tempo, anche Jean Moréas. Era con loro, idealmente, poiché lo riconoscevano ispiratore e maestro, anche Arthur Rimbaud, che allora (1885-87), abbandonata la poesia, trafficava nell’Harrar e sulla costa di Aden. Ma poi nuove reclute vennero ad accrescere la piccola schiera, la quale assunse anche nuovi nomi di battaglia (Les HydropathesLes HirsutesLes JeunesLes Zutistes, ecc.). La critica francese suole distinguerli in due gruppi: quelli che tengono più del Verlaine e della sua musicalità triste, rassegnata, pregante, e quelli che seguono la maniera ermetica, “conclusa” ed enigmatica del Mallarmé. Sarebbero tra i verlainiani il Rimbaud, il Maeterlinck, il Samain, il Rodenbach, il Le Cardonnel, il Mikhael, il Huysmans, il Jammes, il Corbières; tra gli “armonisti” alla Mallarmé, invece, il Ghil, Stuart Merril, Vielé-Griffin, Camille Mauclair, Albert Mockel, Émil Verhaeren, J. Laforgue, Gustave Kahn, Henri de Régnier, A. Retté, ecc.

Nel campo della critica e dell’estetica, la loro opera ha conseguito effetti duraturi. Essa ha discreditato irreparabilmente il naturalismo e il suo morboso amore per le cose vili o mediocri; ha rivendicato alla lirica il diritto di percorrere il vasto dominio dei ricordi, dei sogni e delle speranze; al realismo utilitario dei moderni ha ricordato che la poesia serba delle sue antiche origini religiose la fede in valori che trascendono la materia e aspira, come la musica, a liberare lo spirito dalle miserie della vita pratica.

In Inghilterra il rappresentante classico del decadentismo fu, sul finire del secolo, Oscar Wilde, ma, prima che dalla Francia se ne importasse il nome, già esso aveva, nella poesia inglese, una tradizione particolarmente lunga. A muovere da certe inflessioni sensualmente morbide che l’impressionismo coloristico del Coleridge e il misticismo estatico del Blake talvolta assumono, giù per tutto il periodo romantico – attraverso il fastoso “satanismo nero e oro, rosso e oro” del Byron, attraverso le sottili estasi di voluttà e di morte a cui il godimento della bellezza tende nella poesia di Keats (The Eve of StAgnesLa belle dame sans merciIsabella, ecc.) e di Shelley (The Sensitive PlantEpipsychidionCenei, ecc.) -; giù, e più tipicamente ancora, per il periodo che seguì – attraverso il morboso e visionario esotismo di De Quincey -, si scende per il corso del secolo senza che la tradizione s’interrompa mai. Anzi, in tutta Europa, lo stesso decadentismo della fine del secolo, troverà in tre poeti di lingua inglese i proprî maestri: Poe, la cui poesia allucinata e musicale, sensuale e mistica, realistica e simbolica fu tra le massime esperienze formatrici dello stesso Baudelaire; Swinburne, dalla cui esaltazione in fantasie fastose e voluttuosamente dolorose molto derivò il D’Annunzio; Rossetti, nella cui arte le immagini della bellezza sembrano sempre sorgere accompagnate da uno spasimo. Misticismo e sensualità, morbosità e raffinatezza, fusi in un estetismo che tende a disciogliere in estenuanti passività di godimento l’attività dello spirito, tutto ciò che costituisce il sostrato di “estetiche ebbrezze”, di cui il decadentismo si alimentò, aveva già trovato una sostanziale attuazione, quando Wilde comparve. Con Wilde, e con il determinarsi esplicito del decadentismo in scuola, il fenomeno si rinnovò soltanto in una tonalità nuova: con una più equivoca complicatezza di sensazioni, e al medesimo tempo con una più cosciente realistica brutalità di espressione; con una più cerebrale ricercatezza, per una parte, e per l’altra con un accento tutto proprio, di vita vissuta crudamente nella realtà. Accanto allo sviluppo di elementi derivati dalla precedente poesia inglese, è facile riconoscervi il preponderante riflesso della poesia decadente francese: sebbene più dei romanzi e dei drammi che delle liriche: più di Huysmans, di Péladan, di Lorrain, di Maeterlinck che di Verlaine o di Rimbaud. Tuttavia il movimento, che rapidamente si propagò, fu vasto, ebbe anche una sua rivista, The yellow book, illustrata, fra altri, dal Beardsley, e rappresentò, anche in Inghilterra, una delle manifestazioni più tipiche dello spirito e del gusto del tempo. Oltre a Wilde, numerosi poeti di varia origine e tendenza, come A. Machen, A. Douglas, R. Middleton, A. Symons, L. Johnson, J. E. Fletcher, E. Dowson, lo stesso G. Moore, in talune poesie lo stesso Yeats, andato poi per altre e assai diverse vie, crebbero e si formarono entro quest’atmosfera. Residui di questo mondo poetico si riscontrano nella poesia posteriore, come in quella di un Lawrence o di un Joyce, al decadentismo non più riducibili, ma che hanno nell’esperienza del decadentismo uno dei lolo precedenti immediati e necessarî.

Anche in Germania la tendenza rappresentata dal decadentismo aveva già una ricca e varia tradizione propria: a cominciare dalla tumultuosa e confusa ebbrezza di distruzione e di dissolvimento che si scatena nelle opere degli Stürmer und Dränger, particolarmente di Lenz; e continuando, nel periodo che subito vi susseguì, con l’estasi orante, in cui ogni senso d’individuale realtà si discioglie, di Wackenroder, o, e più chiaramente ancora, con quelle “nuziali ebbrezze d’amore e di morte, di voluttà e di martirio” che in toni più spirituali s’incontrano in Novalis, e con più acerba ossessionante sessualità in Kleist, e con più torbide esaltazioni mistico-sensuali in Brentano, in Werner e in altri romantici. Nel colorito patnos elegiaco che s’accompagna al pessimismo di Schopenhauer; nell’allucinata visionarietà di Hoffmann; nel dolce scoramento stanco di Grillparzer; nella “süsse Todesmüdigkeit” di Lenau; nella malata truculenza di Grabbe; nel fatalismo oscuro, ora stanco e stagnante, ora vulcanicamente erompente di Büchner; nell’impressionistica, sensualmente voluttuosa e morbida, ironicamente amara poesia di Heine, tale corrente romantico-decadente s’era poi bensì rinnovata in un più immediato contatto con la realtà; ma per tutto il secondo ventennio del secolo s’era ancora maggiormente accresciuta ed estesa, creando l’atmosfera, da cui doveva sorgere, poco dopo, l’arte di Wagner. Dopo di avere esaltato in Wagner il rigeneratore dell’umanità nello spirito eroico della tragedia antica, fu Nietzsche che – giunto a chiarezza di sé attraverso la propria crisi spirituale – per primo riconobbe nell’autore del Tristano e del Parsifal “il mago di tutte l’ebbrezze sensuali nelle quali è dolce sentirsi morire”, il “grande nevrotico della musica”, il “decadente per eccellenza e maestro di tutti i decadenti”. Nietzsche fu, del resto, in Germania, colui che del problema del decadentismo fissò nettamente i termini. Come dal suo iniziale estetismo romantico egli aveva preso soltanto le mosse per giungere a una critica dei valori etici della vita – con la formulazione d’un principio nuovo che, per il suo postularsi “al di là del bene e del male”, non perciò cessa di essere un nuovo concetto etico che intende sostituirsi all’antico – così Wagner gli apparve come impressionante segno di un “mal du siècle” generale, che nella musica aveva trovato bensì la sua culminante espressione, ma investiva in realtà tutta quanta la vita, individuale, sociale, politica. Mentre in Francia – e di riflesso in Italia – si proclamava “la décadence latine”, Nietzsche in Germania iniziava invece, con la sua spietata analisi della “decadenza di tutta la civiltà europea”, quel movimento di pensiero che, attraverso il “giornalismo a grande effetto” di Nordau e la tragica “impossibilità di vivere” di Weininger doveva conchiudersi infine nella clamorosa proclamazione del “tramonto dell’Occidente” di Spengler.

Ma anche per un altro riguardo, l’influsso di Nietzsche fu in Germania decisivo. Decadente egli stesso, nella sua più intima sostanza, esperto conoscitore di tutte le “mezze luci crepuscolari” dell’anima umana, di tutte “le occulte dolci e tristi cose che nella profondità delle sue pieghe la vita nasconde”, Nietzsche, pur cantando un suo sogno “di ebbrezza solare”, di salute, di giovinezza, di forza, compose un’opera in cui ogni decadente si riconobbe, e in cui trovò, con un nuovo linguaggio, il nuovo stile. Altri influssi vi si associarono. Già fra l’80 e il ’90, un’ondata di poesia decadente moderna era scesa sopra la Germania dalla Danimarca con il delicato impressionismo di Jacobsen e con le malate raffinatezze di Hermann Bang; e naturalmente più ancora, e soprattutto, influirono i Francesi – tradotti e ritradotti, da Verlaine a Verhaeren – e gl’Inglesi, da Swinburne a Wilde. Tutti i poeti più rappresentativi della tendenza postnaturalistica sul volger del secolo da George a Rilke, a Hofmannsthal, da Dehmel a Bahr, a Schnitzler, a Dauthendey, a Schaukal, ecc. – e anche nei paesi scandinavi da Jørgensen a Kinck, Fröding – ne trassero la loro prima ispirazione. Tuttavia nel mutare del loro atteggiamento verso un più pieno raggiungimento di sé medesimi, la vera guida spirituale fu, per tutti, sempre nuovamente Nietzsche, il cui spirito è riconoscibile tanto nella “voluttà di sentirsi puro” che contrassegna la religiosità estatica di Rilke, quanto, e in modo ancor più manifesto, nella “rinascita eroica” proclamata in nome del culto della bellezza dal George, o nell’amor fati che conduce Thomas Mann alla lucida serenità delle sue diagnosi delle malattie della spiritualità moderna.

In Italia invece la situazione era diversa e il decadentismo vi fu fenomeno d’importazione. Tutta la storia spirituale del secolo era stata dominata dallo sforzo verso il raggiungimento dell’unità e dell’indipendenza della nazione: e il suo naturale sbocco fu la poesia di Carducci; pieno e cosciente ritorno della letteratura alla classicità gloriosa delle sue più antiche tradizioni. Il decadentismo romantico della bohème milanese si esauri in sé stesso rapidamente.

Solo con D’Annunzio si stabilì un pieno e diretto contatto con le contemporanee correnti della poesia europea. Altri poeti si radunarono intorno a lui; e un’inflessione decadente si ritrova non di rado in De Bosis e negli altri collaboratori del Convito; come si ritroverà più tardi nei Crepuscolari, da Gozzano, a Corazzini, a Morselli, a Fausto Maria Martini.

Ma dall’Isotteo e la Chimera alla Contemplazione della Morte, fino a talune pagine dello stesso Notturno, il solo e grande maestro del decadentismo italiano resta il D’Annunzio: benché anche in lui, i motivi della poesia decadente trovino spesso impreveduti, personali sviluppi verso una “tropicale plenitudine di vita”, nella cui ardente sensualità, “come in un bagno di sole”, sembra talora – come in Alcione – rigenerarsi il mondo.

Nei paesi iberici e ibero-americani fu soprattutto per opera di Rubén Darío (v.), che, alla fine del secolo, sorse quel movimento letterario e paeudofilosofico ch’egli e i suoi seguaci chiamarono “modernismo“: insieme con i parnassiani e i simbolisti, i decadenti di lingua spagnola si dissero “modernisti”. Il rinnovamento lirico si opera più intensamente nel decennio che corre tra Azul (1888) e Prosas profanas (1896) del Darío, che traduce la nuova sensibilità in un ritmo poetico e in una prosa numerosa più raffinati, più delicati e antiaccademici. Quelle che erano state incerte aspirazioni a una poesia di stile europeo, che rompesse la tiaccia angusta della tradizione locale e fosse strumento più consono alle nuove esigenze spirituali, quali si erano delineate nel cubano Julián del Casal (v.), nei messicani Manuel Gutiérrez Nájera (v.) e Salvador Díaz Mirón (v.), e nel colombiano José Asunción Silva (v.), acquistarono nei “modernisti” piena consapevolezza; determinando, attraverso un rinnovamento di schemi ritmici e di forme stilistiche, un’abbondante fioritura lirica, in cui eccelsero, fra altri, gli argentini Leopoldo Díaz e Leopoldo Lugones (v.), il boliviano Ricardo Jaimes , Freyre (v.), l’uruguaiano Julio Herrera y Reissig (v.), il messicano Amado Nervo (v.), il peruano José Santos Chocano (v.), il colombiano Guillermo Valencia, ecc.

Il “modernismo” strettamente castigliano s’è mantenuto in un equilibrio di pensiero e di forme, rifacendosi sempre alla migliore tradizione nazionale, pur non mancando di attingere alle nuove correnti, e di assimilarle, come è avvenuto nei migliori: Salvador Rueda (v.), Antonio Machado (v.) e il fratello Manuel, e, Juan Ramón Jiménez (v.). Nel Portogallo il decadentismo e il simbolismo ebbero il loro propagatore in Eugenio de Castro e nella scuola che s’ispira alla sua ricca e sottile fantasia lirica.

Nei paesi slavi predomina un po’ dappertutto, tra il 1870 e il 1890, la letteratura tendenziosa e moraleggiante, con idealità sociali o patriottiche. Fu appunto per reagire contro questa schiavitù dell’arte, a fini nobili ma estranei, che sorsero nell’ultimo decennio del secolo in tutti i paesi slavi correnti nuove che, pure apparendo sotto denominazioni diverse (simbolismo, impressionismo, neoromanticismo, ecc.) rivelano strette affinnità col decadentismo occidentale. Infatti, se anche la reazione contro l’utilitarismo dell’arte era dovuta a condizioni indigene, i programmi e i modelli erano quasi esclusivamente di provenienza straniera: Baudelaire, Verlaine, Maeterlinck, Nietzsche, D’Annunzio, O. Wilde, ecc. Grande vantaggio ne trassero tutte le letterature slave sia per l’arricchimento del linguaggio letterario sia per le vere e proprie rivelazioni del mondo psichico a cui il movimento condusse. L’elemento distruttivo fu perciò nelle regioni slave superato più presto ancora che altrove, lasciando dietro di sé soltanto degli epigoni presso i quali (p. es. nel russo Arcybašev) il decadentismo, più che una corrente letteraria, è un atteggiamento psicologico.

I promotori e nello stesso tempo rappresentanti principali del decadentismo in Russia sono Minskij, Merežkovskij, Zenaide Hippius e Brjusov, i quali costituirono intorno al 1895 una chiesuola letteraria per reagire contro ogni borghesismo nella letteratura. Malgrado la loro posizione di aperto antagonismo alle tradizioni russe, in realtà, per il sentimento mistico della vita, per la sensazione del dissolversi nel caos della realtà terrestre, per il loro interesse per l’imponderabile, si ricongiungevano ai loro predecessori. Ed essi stessi infatti non tardarono molto a scoprire il loro rapporto col filosofo Vladimiro Solov′ev da un lato, e dall’altro con Dostoevskij e persino con Gogol’. Verso il 1900 tutti, ormai maturi di esperienza artistica, ritrovano, chi più chi meno, il contatto con la pienezza della vita e il loro decadentismo si risolve nella religiosità, nel culto dell’arte o nell’individualismo.

Più giustificata ancora che in Russia era la reazione contro il positivismo in Polonia. Ma le condizioni stesse della letteratura polacca non furono favorevoli a un forte sviluppo delle correnti decadenti. Infatti, in alcuni scrittori, quali lo Żeromski, vi è urto continuo fra decadentismo e tendenze sociali; in altri (Z. Przesmycki) il decadentismo non va molto più in là del culto della forma. Przybyszewski, invece, con la sua esaltata ricerca dell'”anima nuda”, col suo satanismo e pansessualismo, col suo mistico sentirsi al di là del bene e del male, è un decadente puro, ma il suo decadentismo appare più nelle prime opere scritte in tedesco che in quelle polacche. Nel suo programma polacco, Confiteor (1898), egli inneggia ancora, pur senza nominarlo, al decadentismo, ma si trova di già, sottolineando il carattere indigeno e nazionale dell’arte intesa come espressione totalitaria della vita, sulla via della conversione alle tradizioni più genuine della letteratura del suo paese.

Przybyszewski ha influito sulla letteratura cèca aiutandola a superare l’epigonismo della fine dell”800 e a introdurre le nuove correnti occidentali. Ma, fatta eccezione per Jiři Karásek, i principali innovatori di questo periodo si avvicinano ben poco al decadentismo il quale, più moda straniera che sostanza vissuta, trova soltanto qualche aderente presso scrittori secondarî che volentieri nascondono, sotto le spoglie di un tragico e sovrumano isolamento, la loro scarsa capacità creativa.

Antiborghesismo ed estetismo sono parole d’ordine anche dei riformatori della poesia presso gli stati meridionali: e più presso Sloveni e Croati che non presso Serbi e Bulgari. Il decadentismo vi s’inserisce spontaneamente, ma vi resta alla superficie ed è presto superato (Cankar, Begović) da una maggiore aderenza agli aspetti quotidiani della vita.

Bibl.: P. Verlaine, Les poétes maudits, Parigi 1884 e 1888; T. De Wyzewa, Nos Maîtres, Parigi 1895; S. Mallarmé, Divagations, Parigi 1897; Remy de Gourmont, Le livre des Masques, s. 1ª, Parigi 1896; s. 2ª, Parigi 1898; id., Esthétique de la langue francaise, Parigi 1899; G. Kahn, Symbolistes et décadents, Parigi 1902; A. Graf, Preraffaelliti, Simbolisti ed Esteti, in Foscolo, Manzoni e Leopardi, Torino 1898; V. Pica, Letteratura d’eccezione, Roma 1900; E. Raynaud, La mêlée symboliste, voll. 3, Parigi 1918-1922; Ch. Maurras, Barbarie et poésie, Parigi 1925. – Per i rapporti del decadentismo col simbolismo v.: A. Barre, Le Symbolisme; essai historique sur le mouvement symboliste en France de 1885 à 1900, Parigi 1902, con ricca bibliografia. Cfr. inoltre: per la Germania, E. Sydow, Die Kultur der Dekadenz, Dresda 1921; e per la Francia, l’Italia e l’Inghilterra il colorito e sostanzioso libro di M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letter. romantica, Milano-Roma 1930.

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Chi uccise Mussolini?

Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana e sperando ancora in un sussulto dei suoi con la possibilità di trattare un accordo di resa a condizione, Mussolini abbandonò il 18 aprile 1945 l’isolata sede di Palazzo Feltrinelli a Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda, e si trasferì a Milano, giungendovi in serata e prendendo alloggio presso la prefettura; il giorno precedente aveva discusso nell’ultimo consiglio dei ministri sulla possibile resistenza nel Ridotto della Valtellina.

Il 20 aprile, nei locali della prefettura ove era ormai rinchiuso, concesse un incontro al giornalista Gian Gaetano Cabella, direttore del giornale Popolo di Alessandria. Fu l’ultima intervista rilasciata da Mussolini, che la rilesse, corresse e siglò il 22 aprile.

Sempre il 22 aprile, nel cortile della prefettura pronunciò l’ultimo discorso a un centinaio di ufficiali della Guardia Repubblicana, concludendo: “Se la Patria è perduta è inutile vivere”. La sera incontrò Carlo Silvestri e gli consegnò una dichiarazione per il comitato esecutivo del PSIUP in cui chiedeva che la RSI finisse in mani repubblicane e non monarchiche, socialiste e non borghesi.

Nel pomeriggio del 25 aprile, con la mediazione del cardinale-arcivescovo di Milano Alfredo Ildefonso Schuster, si svolse nell’arcivescovado un incontro decisivo tra la delegazione fascista composta da Mussolini stesso, il sottosegretario Barracu, i ministri Zerbino e Graziani  e una delegazione del CLN composta dal generale Cadorna, dall’avvocato democratico-cristiano Marazza, dal rappresentante del Partito d’Azione Riccardo Lombardi e dal liberale Giustino Arpesani. Sandro Pertini arrivò in ritardo a riunione conclusa. A Milano era intanto in corso lo sciopero generale e l’ordine dell’insurrezione generale era imminente. Inoltre durante l’incontro Mussolini apprese che i tedeschi avevano già avviato trattative separate con il CLN: l’unica proposta che ricevette dai suoi interlocutori fu quindi la “resa incondizionata”.

Mussolini non volle espatriare in Svizzera. Ma in qualche modo fu come costretto a farlo.

Durante il viaggio, il furgone di coda del convoglio, che trasportava valori e documenti riservatissimi e di particolare importanza politica e militare, andò in panne nei pressi di Garbagnate. L’equipaggio, tra cui Maria Righini cameriera personale di Mussolini, raggiunse Como con mezzi di fortuna.

Alle 21:30 Mussolini raggiunse la prefettura di Como. Il giorno precedente nella città comasca era arrivata anche la moglie Rachele con i figli Romano e Anna Maria, ma Mussolini si rifiutò di incontrarli, limitandosi a scriver loro una lettera d’addio e a fare una telefonata con cui raccomandava alla moglie di portare i figli in Svizzera. Su indicazione del federale di Como Paolo Porta, si scelse di proseguire verso Menaggio.

Verso le quattro del mattino del 26 aprile, cercando invano di eludere la sorveglianza tedesca, il convoglio fascista abbandonò precipitosamente Como muovendosi verso nord, costeggiando il lato occidentale del lago di Como lungo la strada Regina e giungendo a Menaggio verso le cinque e trenta senza problemi.

Si scelse di allontanarsi da Menaggio e di temporeggiare, poi il convoglio deviò a ovest in Val Menaggio, per giungere a Cardano, frazione del piccolo comune di Grandola ed Uniti, presso la caserma della 53ª compagnia della Milizia Confinaria con sede all’ex albergo Miravalle. A Cardano Mussolini fu raggiunto dall’amante Clara Petaccia accompagnata dal fratello, e dalla scorta tedesca che aveva ricevuto l’ordine da Hitler di scortarlo verso la Germania. Nel frattempo la radio annunciava che anche Milano era stata completamente liberata e che i responsabili della disfatta nazionale trovati con le armi in mano sarebbero stati puniti con la pena di morte. Tutto volgeva al peggio e la disperazione aveva contagiato i presenti. Nell’impossibilità di proseguire in quella direzione e constatata l’indifendibilità della piccola guarnigione da un eventuale attacco partigiano, si fece ritorno a Menaggio.

Nella notte, assieme a Pavolini, giunse a Menaggio un convoglio militare tedesco in ritirata composto da trentotto autocarri e da circa duecento soldati della FlaK, la contraerea tedesca, al comando del tenente Willy Flamminger diretto a Merano attraverso il passo dello Stelvio. Mussolini, con i gerarchi fascisti e le rispettive famiglie al seguito, decise di aggregarvisi.

La colonna, lunga circa un chilometro, alle cinque del mattino partì da Menaggio, ma alle sette, appena fuori dall’abitato di Musso, fu fermata a un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a lunghe trattative, i tedeschi ottennero il permesso di proseguire a condizione che si effettuasse un’ispezione, e che fossero consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini, su consiglio del capo della sua scorta SS, il sottotenente Fritz Birzer, indossò un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finse ubriaco e salì sul camion numero 34 della Flak, occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare. A nessun altro italiano fu concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio.

Il parroco don Enea Mainetti, nella canonica di Musso, venne a conoscenza della presenza di Mussolini nella colonna e ne diede comunicazione a “Pedro”.

Verso le ore 16 del 27 aprile, durante l’ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, Mussolini fu riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri sotto una panca del camion n. 34. Fu perciò prontamente disarmato del mitra e di una pistola Glisenti, arrestato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro “Bill” che lo accompagnò nella sede comunale, ove gli fu sequestrata la borsa di cui era in possesso.

Tutti gli altri componenti italiani al seguito furono arrestati: si trattava di più di cinquanta persone, più le mogli e i figli al seguito. Il giorno seguente sedici di essi, tra gli esponenti più in vista del regime, furono sommariamente fucilati sul lungolago di Dongo; tra i restanti, rimasti agli arresti a Dongo e poi trasferiti a Como, nelle due notti successive fu prelevata e uccisa un’ulteriore decina di prigionieri.

Il fermo della colonna motorizzata tedesca e il successivo arresto di Mussolini e del suo seguito era stato effettuato dai partigiani del distaccamento “Puecher” della 52ª Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia “Pedro“.

Il suo commissario politico era Michele Moretti “Pietro Gatti”, vice-commissario politico Urbano Lazzaro “Bill”, il capo di stato maggiore Luigi Canali “Capitano Neri”.

Nello stesso tempo, i prigionieri rimasti a Dongo furono interrogati e schedati dal “capitano Neri” e separati in tre gruppi distinti: Bombacci, Barracu, Utimpergher, Pavolini e Casalinuovo furono anch’essi trasferiti a Germasino; i ministri rimasero rinchiusi nei locali del municipio; gli altri, autisti, impiegati, militari – tra cui l’agente dei servizi segreti Rosario Boccadifuoco – furono distribuiti nell’ex caserma dei Carabinieri e in case private. I Petacci, di cui non si era ancora scoperto la vera identità, furono alloggiati all’albergo Dongo. La partigiana “Gianna”, in collaborazione con l’impiegata comunale Bianca Bosisio, eseguì l’inventario di tutti gli ingenti valori e i beni sequestrati.

Nel tardo pomeriggio del 27 aprile il brigadiere Antonio Scappin “Carlo” era riuscito a comunicare su ordine di “Pedro”, telefonando attraverso una linea telefonica privata, la notizia dell’arresto a Milano. Una seconda comunicazione giunse alle 20:20, tramite fonogramma, con la quale si comunicava che Benito Mussolini si trovava sotto controllo a Germasino custodito da partigiani e Guardia di Finanza.

Già nella mattina del 25 aprile il CLNAI, riunitosi a Milano, aveva approvato un Decreto per l’amministrazione della giustizia ove, all’art. 5 si prevedeva che: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l’ergastolo”. Dello stesso tenore, il 19 aprile era stato emesso un Ultimatum “Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato”.

All’aeroporto di Bresso intanto si inviò un velivolo per prelevare il dittatore.

Tuttavia, non appena a conoscenza dell’arresto dell’ex capo del governo, il Comitato insurrezionale di Milano formato da Pertini, Valiani, Sereni Longo, riunitosi alle ore 23:00 del giorno 27, decise di agire senza indugio e di inviare una missione a Como onde procedere all’esecuzione di Mussolini.

Walter Audisio, “colonnello Valerio“, ufficiale addetto al comando generale del CVL e Aldo Lampredi “Guido” ispettore del comando generale delle Brigate Garibaldi e uomo di fiducia di Luigi Longo, furono incaricati di eseguire la sentenza. Il riluttante generale Raffaele Cadorna, per evitare che Mussolini cadesse nelle mani degli Alleati, rilasciò il salvacondotto necessario; Audisio, inoltre, fu munito di un secondo lasciapassare in lingua inglese, firmato dall’agente dell’OSS americano Emilio Daddario. Contemporaneamente, peraltro, Cadorna provvedeva a contattare il tenente colonnello Sardagna  rappresentante del CVL a Como, al fine di predisporre misure per recuperare Mussolini e trasferirlo in luogo sicuro.

Intanto alle 3 del mattino successivo, il servizio radio partigiano trasmise agli alleati un fonogramma a scopo di depistaggio, nel quale si asseriva l’impossibilità della consegna di Mussolini, in quanto già processato dal Tribunale popolare e fucilato “nello stesso luogo ove precedentemente fucilati da nazifascisti quindici patrioti”. Ci si riferiva alla Strage di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944.

In attesa di decisioni in merito, e temendo per la sua incolumità, il comandante Bellini delle Stelle, intorno alle 18:30 del 27 aprile, trasferì l’ex duce, insieme con Porta, nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, un paesino sopra Dongo. Prima di ritornare a Dongo “Pedroriceve la richiesta da Mussolini di portare i saluti alla signora che accompagna il console spagnolo, senza ricevere indicazioni sulla sua vera identità. Dopo l’interrogatorio della signora, Bellini delle Stelle scoprì che si tratta di Clara Petacci, che chiese di essere ricongiunta all’amante: il comandante acconsentì.

Se al momento dell’arresto Mussolini sembrava oramai privo di energie, col passare delle ore iniziò a manifestare una certa serenità. Già a Dongo rispondeva volentieri alle domande che gli venivano rivolte, a Germasino si intrattenne con i suoi custodi discutendo su temi di politica, sulla guerra e sulla resistenza. Prima di coricarsi alle 23:30, su richiesta dei partigiani di guardia, Mussolini sottoscrisse questa dichiarazione: «La 52ª Brigata garibaldina mi ha catturato oggi, venerdì 27 aprile, sulla piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto. Mussolini». All’1:00 fu svegliato per essere trasferito di nuovo in un posto ritenuto più sicuro e, affinché non fosse riconosciuto, gli fu fasciato il capo. Di nuovo a Dongo, Mussolini fu riunito alla Petacci su richiesta di quest’ultima; poi, i due prigionieri furono fatti salire su due vetture, con a bordo, oltre ai due autisti, anche “Pedro”, il “Capitano Neri”, “Gatti”, la staffetta Giuseppina Tuissi “Gianna” e i giovani partigiani Guglielmo Cantoni “Sandrino Menefrego” e Giuseppe Frangi “Lino” e condotti verso il basso lago.

La notizia del trasferimento a Germasino si era oramai diffusa rapidamente: i partigiani temevano un colpo di mano fascista per tentare di liberare Mussolini, o qualche tentativo da parte degli Alleati per impossessarsene.

Si decise allora un ulteriore trasferimento in un luogo più distante. “Neri”, d’accordo con “Pietro”, era del parere di trasferire Mussolini in una baita a San Maurizio di Brunate, sopra Como. L’intenzione di “Pedro” era invece di porre in salvo Mussolini, essendo stato contattato dal tenente colonnello Sardagna, rappresentante del CVL a Como, su ordine del comandante generale Raffaele Cadorna, che aveva predisposto il traghettamento del prigioniero dal molo di Moltrasio sino alla villa dell’industriale Remo Cademartori a Blevio, sull’altra sponda del ramo comasco del Lario.

Lungo la strada, tuttavia, dopo aver superato con difficoltà diciotto posti di blocco partigiani, ci si rese conto che era troppo rischioso procedere oltre e non era possibile raggiungere la meta prefissata. “Pedro” convinse quindi il gruppo a fermarsi a Moltrasio ma, giunti sul molo, non fu rinvenuta nessun’imbarcazione pronta ad accoglierli. Intanto in lontananza furono uditi echi di una nutrita sparatoria, provenienti da una prima avanguardia della 34ª Divisione statunitense che entrava in città. Si decise quindi, su proposta di Canali, di ritornare sui propri passi e di trovare un sicuro rifugio alternativo. Intanto una decina di Jeep di un reparto agli ordini del Generale Bolty perlustravano la zona per cercare di assicurarsi la consegna di Mussolini.

Intorno alle ore 3:00 del 28 aprile, Mussolini e la Petacci furono quindi fatti scendere dalle vetture e alloggiati a Bonzanigo, una frazione del comune di Tremezzina, presso la famiglia De Maria, conoscenti di lunga data del “capitano Neri” e di cui il capo partigiano si fidava ciecamente.

Il piantonamento notturno fu effettuato dai partigiani Cantoni e Frangi; “Pedro” con l’autista Dante Mastalli ritornò a Dongo, mentre “Neri”, “Gianna” e “Pietro” con l’autista ”Andrea” (Giovanni Battista Geninazza) si diressero verso Como.

Della morte di Benito Mussolini esistono numerosi racconti e versioni, più o meno fantasiosi, che sono stati elaborati negli anni dopo gli avvenimenti. Spesso sono il frutto di campagne propagandistiche e di speculazione politica che non trovano sul terreno storiografico alcun serio riscontro.

La Versione storicaufficiale è la risultante delle testimonianze date sugli avvenimenti che riguardano l’uccisione di Mussolini e della Petacci rilasciate dai tre esecutori. Le versioni che hanno dato sono differenti tra loro, ma sostanzialmente concordano sulla modalità con cui fu eseguita, mentre divergono sugli atteggiamenti e le parole pronunciate.

Alle 7 del 28 aprile, “Valerio” e “Guido” partirono dalla scuola di Viale Romagna di Milano, con il supporto di un plotone di quattordici partigiani, agli ordini del comandante Alfredo Mordini “Riccardo”, ispettore politico della 3ª Divisione Garibaldi-Lombardia “Aliotta”, e di Orfeo Landini “Piero”.

Giunto a Como, Audisio esibisce il lasciapassare di Cadorna al nuovo prefetto Virginio Bertinelli e al colonnello Sardagna, assicurando loro che avrebbe trasferito i prigionieri a Como e, in un secondo momento, a Milano. Trattenuto a Como fino alle 12:15 in cerca di un camion per il trasporto, Audisio si sposta a Dongo, dove giungerà alle 14:10. Lampredi e Mordini intanto, viste le difficoltà a reperire un mezzo di trasporto, abbandonano Audisio in prefettura e vanno a cercare aiuto nella sede comunista. Accompagnati da Mario Ferro e Giovanni Aglietto della federazione comasca del P.C.I. lasciano Como verso le 10 e arrivano a Dongo poco dopo Audisio. Intanto giunsero da Como anche Oscar Sforni, segretario del CLN comasco e il maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare del CLNAI per la zona di Como, inviati dal CLN comasco col compito di far rispettare le decisioni prese in mattinata e di trasportare Mussolini a Como. I due però, intralciando i propositi di “Valerio”, saranno da questi fatti imprigionare e verranno rilasciati solo a operazione conclusa.

A Dongo “Valerio” trova un ambiente difficile e ostile, infatti i partigiani lariani temevano un colpo di mano dei fascisti per liberare i catturati. Si incontra con il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle comunicandogli di aver avuto l’ordine di fucilare Mussolini e gli altri prigionieri.

“Pedro” però non intende collaborare acriticamente, protesta vivamente, ma dopo aver preso visione delle credenziali, e ritenendole sufficienti, è costretto a ubbidire a un ufficiale di grado superiore.

Alle 15:15 Walter Audisio “Valerio” invia “Pedro” a Germasino a prendere gli altri prigionieri, e parte da Dongo con una Fiat 1100 nera in direzione di Bonzanigo, dove l’ex dittatore è tenuto prigioniero con la Petacci.

Sono con lui Aldo Lampredi “Guido“, Michele Moretti “Pietro”, che conosceva i carcerieri e il luogo essendoci già stato la notte prima, e l’autista Giovanni Battista Geninazza.

Moretti è armato di mitra francese MAS 38, calibro 7,65 lungo; Lampredi è armato di pistola Beretta modello 1934, calibro 9 × 17 mm. L’arma di Walter Audisio, un mitra Thompson, sarà successivamente riconsegnata al commissario politico della divisione partigiana dell’Oltrepò, Alberto Maria Cavallotti, senza essere stata utilizzata.

Le varie versioni dei fatti, fornite o riferite da Walter Audisio, pur differendo su particolari minori, descrivono la stessa meccanica dell’evento. L’ultima descrizione degli stessi, pubblicata postuma, a cura della moglie di Audisio, è sostanzialmente confermata dal memoriale di Aldo Lampredi, consegnato nel 1972 e pubblicato su l’Unità nel 1996.

Giunti a casa De Maria, sempre sorvegliata da “Sandrino” e “Lino”, sollecitano Mussolini, trovato stanco e dimesso, e la Petacci a lasciare rapidamente l’abitazione. In strada i prigionieri sono fatti sedere nei sedili posteriori della vettura e vengono accompagnati nel luogo precedentemente scelto per l’esecuzione poco distante: si tratta di un angusto vialetto, via XXIV Maggio a Giulino, in posizione assai riparata davanti a Villa Belmonte, una graziosa residenza di villeggiatura. Qui i due sono obbligati a scendere.

Moretti e Lampredi sono inviati a bloccare la strada nelle due direzioni, mentre a Mussolini viene fatto cenno di dirigersi verso il cancello. Sembra smarrito, Claretta piange. “Valerio” sospinge Mussolini verso l’inferriata e pronuncia la sentenza: “Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano” e, rivolgendosi a Claretta che si aggrappava all’amante: “Togliti di lì se non vuoi morire anche tu”. Tenta di procedere nell’esecuzione ma il suo mitra si inceppa; Lampredi si avvicina, estrae la sua pistola, ma anche da questa il colpo non parte, chiama allora Moretti che, di corsa, gli porta il suo mitra. Con tale arma il “colonnello Valerio” scarica una raffica mortale di cinque colpi su Mussolini. La Petacci, postasi sulla traiettoria del mitra, è colpita e uccisa anch’essa. Viene poi inferto un colpo di grazia al cuore di Mussolini con la pistola. Sul luogo dell’esecuzione furono poi rinvenuti proiettili calibro 7,65, compatibili con quelli del mitra francese del Moretti. Sono le ore 16:10 del giorno 28 aprile 1945.

L’edizione locale del l’Unità, il giorno seguente, riporta il fatto con questo titolo a tutta pagina: “Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti nel nome del popolo”; mentre l’edizione nazionale del 1º maggio riporta in prima pagina un’intervista col partigiano – di cui non viene fatto il nome – che “ha giustiziato il Duce”, intitolata: “Da una distanza di 3 passi sparai 5 colpi a Mussolini”.

Walter Audisio

era al tempo ufficiale addetto al Comando generale delle Brigate d’assalto Garibaldi e a quello del CVL. Essendo noto solo negli ambienti di militanza e non avendo mai dato modo di parlare di sé, non fu inizialmente identificato come l’uccisore di Mussolini: le cronache infatti, riferivano che l’ex duce era stato fucilato dal “colonnello Valerio”, senza conoscerne l’esatta identità.

La sua figura emerse direttamente, con riferimento a questi fatti, solo nel marzo 1947, quando il quotidiano l’Unità, organo del PCI, di cui Audisio fu poi deputato, diede notizia del suo coinvolgimento.

Nel volume “In nome del popolo italiano”, uscito postumo, Audisio sostenne che le decisioni prese nel primo pomeriggio del 28 aprile a Dongo, nell’incontro con il comandante della 52ª Brigata, Bellini delle Stelle, fossero equivalenti a una sentenza emessa da un organismo regolarmente costituito ai sensi dell’art. 15 del documento del CLNAI sulla costituzione dei tribunali di guerra. Non tutti sono d’accordo con questa interpretazione in quanto, nell’occasione, mancava la presenza di un magistrato e di un commissario di guerra. Dell’intera questione si occupò anche la magistratura penale ordinaria, investita dal giudice civile, cui si erano rivolti i familiari dei Petacci e di Pietro Calistri per risarcimento danni. Nei confronti di Audisio, all’epoca parlamentare, l’apposita Giunta concesse l’autorizzazione a procedere.

Il processo si chiuse definitivamente il 7 luglio 1967, quando il giudice istruttore assolse il “colonnello Valerio” dall’accusa di omicidio volontario pluriaggravato, appropriazione indebita e vilipendio di cadavere, perché i fatti erano avvenuti nel corso di un’azione di guerra partigiana per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo della occupazione nemica e come tali non furono ritenuti punibili.

Piazzale Loreto

A Dongo tutti i 16 cadaveri dei fucilati vengono caricati su un camion, sopra di loro viene steso un telo su cui siederanno i partigiani durante il viaggio.

Il veicolo parte per Milano verso le 18:00, fermandosi prima ad Azzano per recuperare anche i corpi di Mussolini e della Petacci lasciati nel frattempo sotto la pioggia. Durante il viaggio di ritorno la colonna è costretta a fermarsi in diversi posti di blocco partigiani che creano diversi problemi: in particolare a Milano, in via Fabio Filzi, all’altezza dello stabilimento della Pirelli, durante un controllo operato da una formazione della divisione “Ticino”, sorgono momenti di tensione quando i partigiani a bordo del camion si rifiutano di mostrare i corpi trasportati. Le due formazioni armate si fronteggiano sino all’intervento del comando generale che permette il proseguimento della colonna alla vicina destinazione finale.

Alle 3:40 di domenica 29 aprile la colonna giunge in Piazzale Loreto, meta che secondo Walter Audisio non fu casuale o improvvisata, ma meditata per il suo valore simbolico. Qui Valerio decide di scaricare i cadaveri a terra, proprio dove le vittime della strage del 10 agosto 1944 erano state abbandonate in custodia ai militi fascisti della Muti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l’intera giornata, impedendo ai familiari di portarli via.

In piazzale Loreto furono portati diciotto cadaveri: Benito Mussolini, Clara Petacci e i sedici giustiziati a Dongo.

Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme ancora dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Complice un passaparola che in poco tempo attraversò tutta Milano, la piazza si riempì velocemente. Non era stata prevista alcuna misura di contenimento: nella calca le prime file di folla vennero spinte verso i cadaveri, calpestandoli e sfigurandoli. Molti insultavano, dileggiavano, sputavano e prendevano a calci i cadaveri. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti in guerra. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi, a Mussolini per dileggio venne messo in mano un gagliardetto fascista. Qualcuno orinò sul cadavere della Petacci. Alle 11 la situazione non era più governabile neanche con scariche di mitra. Una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un’autobotte lavò abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi, orina e ortaggi.

A quel punto gli stessi pompieri trassero via dal centro della piazza i sette cadaveri più noti, issandoli per i piedi alla pensilina del distributore di carburante Standard Oil (poi Esso) che si trovava all’angolo tra la piazza e corso Buenos Aires e lasciandoli lì appesi a testa in giù. Si trattava dei corpi di Mussolini, di Claretta Petacci alla quale, essendo stata privata delle mutande, venne dapprima fermata la gonna con una spilla e infine assicurata meglio con la cintura che il cappellano partigiano don Pollarolo si sfilò appositamente, di Alessandro Pavolini, di Paolo Zerbino, di Ferdinando Mezzasoma, di Marcello Petacci e di Francesco Maria Barracu il cui cadavere però cadde subito a terra e verrà sostituito con quello di Achille Starace.

Arrivarono sul luogo anche numerosi fotografi e nel corso della mattinata arrivò anche una pattuglia di soldati americani assieme a una troupe di cineoperatori militari che filmò la scena, che successivamente sarà inserita in uno dei combat film prodotti nel corso del conflitto; un altro filmato venne girato da Carlo Nebbiolo, presente sul luogo assieme al fotografo Fedele Toscani dell’agenzia Publifoto, la pellicola del suo filmato fu sequestrata dalle truppe alleate e restituita in seguito con vistosi tagli, tra cui l’eliminazione della sequenza sulla fucilazione di Starace. Le numerose fotografie scattate in quelle ore animarono, nei giorni seguenti, un fiorente mercato venendo vendute come un ricercato “souvenir di un momento vissuto”, bloccato dopo due settimane dal nuovo prefetto cittadino che ordinò l’immediato sequestro delle fotografie dalle cartolerie e la loro rimozione da ogni luogo pubblico.

Verso mezzogiorno, con una camionetta, viene condotto sul luogo anche Achille Starace, ex segretario generale del Partito Nazionale Fascista, arrestato per le vie di Milano in zona ticinese, giudicato in un’aula del vicino Politecnico e fucilato da un plotone improvvisato di partigiani alla schiena, sul marciapiede a lato del distributore ove erano stati appesi gli altri cadaveri.

Nel primo pomeriggio una squadra di partigiani del distaccamento “Canevari” della brigata “Crespi”, su ordine del comando, entrò in piazza e rimosse i cadaveri[ trasportandoli nel vicino obitorio di piazzale Gorini.

In serata, il CLNAI riunito emanava un comunicato con il quale si assumeva la responsabilità dell’esecuzione di Mussolini quale conclusione necessaria di una lotta insurrezionale. La massima istituzione resistenziale affermava la volontà di rompere con il fascismo, segnando la fine di un periodo storico di vergogne e di delitti ed inaugurando l’avvento di una nuova Italia, fondata sull’alleanza delle forze che avevano preso parte alla lotta contro la dittatura.

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Morte di Benito Mussolini

I cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci, Nicola Bombacci, Alessandro Pavolini e Achille Starace a piazzale Loreto, Milano 29 aprile 1945


La morte di Benito Mussolini avvenne il 28 aprile 1945 a Bonzanigo, frazione del comune di Tremezzina, in provincia di Como, a colpi di arma da fuoco. Alcune ore più tardi avvenne la morte dell’amante Clarice Petacci, detta Claretta.

Il capo del fascismo e della Repubblica Sociale Italiana si trovava in stato di arresto, catturato a Dongo il giorno precedente dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi “Luigi Clerici” comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle.

In una serie di cinque articoli su l’Unità del marzo 1947, il comandante partigiano Walter Audisio, detto Colonnello Valerio, ha raccontato di essere stato l’unico autore dell’uccisione, nell’ambito di una missione cui avevano partecipato anche i partigiani Aldo Lampredi”Guido Conti” e Michele Moretti “Pietro Gatti” per dare esecuzione all’Ultimatum del 19 aprile 1945 e all’articolo 5 del Decreto per l’amministrazione della giustizia, approvato a Milano il 25 aprile dal CLNAI.

La responsabilità dell’esecuzione fu poi rivendicata dallo stesso Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia con il Comunicato del 29 aprile 1945.

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Vita di Benito Mussolini

Nacque il 29 luglio 1883 a Dovia, frazione di Predappio (Forlì), primogenito di Alessandro, fabbro, e di Rosa Maltoni, insegnante elementare.

Alessandro, figlio di un piccolo possidente di Montemaggiore (Forlì) caduto in rovina, aveva aperto una bottega di fabbro a Dovia nel 1876. Autodidatta, militante internazionalista, seguace dell’anarchismo di Andrea Costa e Amilcare Cipriani, sorvegliato dalla polizia, era una figura di spicco nel socialismo romagnolo. Nel 1882 sposò Rosa Maltoni, figlia di un veterinario e devota cattolica, che fece battezzare il primogenito, al quale però il padre ateo volle dare nomi di rivoluzionari: Benito, in omaggio all’eroe dell’indipendenza messicana Benito Juarez; Andrea e Amilcare in omaggio ai rivoluzionari italiani. Al secondogenito, nato nel 1885, diede il nome di Arnaldo in onore di Arnaldo da Brescia. Nel 1888 nacque la figlia Edvige.

La famiglia viveva modestamente in un casolare, dove Benito trascorse l’infanzia, manifestando presto un carattere esuberante. A nove anni fu messo in un collegio salesiano a Faenza. Insieme timido e orgoglioso, scontroso e violento, si urtò spesso con gli insegnanti e con i compagni di collegio. Durante una lite, ferì un convittore con un temperino e fu duramente punito. Dopo questo episodio, i genitori lo misero in un collegio laico a Forlimpopoli.

Vi rimase dal 1894 al 1901. Nonostante il carattere violento e indisciplinato, gli insegnanti lo stimavano per l’ingegno pronto, la vivace curiosità e la capacità di esprimersi. Influenzato dalle idee del padre, che era solito leggere ai figli pagine di un compendio del Capitale di Marx, a 17 anni si diceva socialista, leggeva assiduamente la stampa sovversiva e frequentava i circoli socialisti. 

Conseguito il diploma magistrale nel luglio 1901, fu nominato nel febbraio 1902 maestro supplente a Gualtieri Emilia, dove rimase fino a giugno, svolgendo attività politica come segretario del locale circolo socialista. A luglio emigrò in Svizzera e per quasi due anni soggiornò a Losanna, Berna, Ginevra e per brevi periodi anche ad Annemasse, in Francia, guadagnandosi da vivere con lavori saltuari come manovale, muratore, garzone e commesso. Aiutato dai compagni socialisti, collaborò a vari periodici e svolse attività di conferenziere e agitatore, facendosi notare per l’intransigenza rivoluzionaria, l’esaltazione della violenza, le virulenti polemiche contro il socialismo riformista, il parlamentarismo, il militarismo, la monarchia, e per il suo ostentato ateismo anticristiano e paganeggiante. 

Il periodo trascorso in Svizzera fu importante per la formazione del giovane Mussolini, mettendolo a contatto con la cultura europea. Studiò il francese e il tedesco, e pubblicò traduzioni da queste lingue con l’aiuto di Angelica Balabanoff, che gli fece conoscere i testi fondamentali del marxismo. Autodidatta eclettico, capace di rapida assimilazione e rielaborazione personale, ma senza disposizione all’approfondimento teorico, si interessò non solo di socialismo, di marxismo, di anarchismo, di sindacalismo rivoluzionario, ma anche di storia, di filosofia, di sociologia, di letteratura. 

Nel 1904 pubblicò a Lugano il suo primo opuscolo, L’uomo e la divinità, in cui negava l’esistenza di Dio con argomenti tratti dalle scienze naturali, dall’antropologia e dall’evoluzionismo, mentre tacciava di viltà la morale cristiana, echeggiando motivi della filosofia di Nietzsche. In quello stesso anno si iscrisse alla facoltà di scienze sociali di Losanna, e forse frequentò le lezioni di Vilfredo Pareto, di cui lo affascinò la teoria della circolazione delle élites: «forse la più geniale concezione sociologica dei tempi moderni», la definì nel 1908, e se ne avvalse per sostenere la sostituzione inevitabile della borghesia da parte del proletariato, «la nuova élite sociale» che si stava formando nei sindacati, nelle leghe e nelle camere del lavoro, «i nuclei della futura organizzazione economica a basi comuniste» (Opera omnia, I, p. 128). 

Sorvegliato come anarchico, più volte arrestato e due volte espulso, nel novembre 1904, accantonato il proposito di emigrare a New York, rientrò in Italia, approfittando di un’amnistia che includeva il reato di diserzione al quale era stato condannato dal Tribunale militare di Bologna per non essersi presentato alla chiamata di leva. Dopo aver prestato servizio militare, nel novembre 1906 ebbe un incarico di insegnamento a Tolmezzo nella Carnia, dove rimase fino all’estate del 1907, suscitando scandalo per la convivenza con una donna sposata, la condotta eccentrica e le polemiche anticlericali. Continuò a studiare il francese e il tedesco, e alla fine del 1907 conseguì l’abilitazione all’insegnamento di francese nelle scuole medie. Nel marzo 1908 ebbe l’incarico di insegnare francese a Oneglia (Imperia), Comune amministrato dai socialisti, che gli affidarono la direzione del settimanale La Lima. Con lo pseudonimo «Vero eretico», polemizzò contro i bersagli consueti: militarismo, parlamentarismo, clero, cristianesimo e soprattutto contro i socialisti riformisti, in quel periodo alla guida del Partito socialista italiano (PSI). Finito l’anno scolastico, tornò a Predappio e partecipò alle lotte dei braccianti contro i proprietari e i mezzadri, subendo una condanna a tre mesi di reclusione per minacce di violenza. 

In quello stesso anno pubblicò un saggio su Nietzsche, esaltandone la concezione anticristiana della volontà di potenza e l’idea del superuomo come simbolo di «questo periodo angoscioso e tragico di crisi che attraversa la coscienza europea nella ricerca di nuove fonti di piacere, di bellezza, d’ideale» e di una «vita vissuta con tutte le energie in una tensione continua verso qualche cosa di più alto, di più fine, di più tentatore …» (ibid., pp. 174-184). 

Trasferitosi a Trento il 6 febbraio 1909, come segretario della Camera del lavoro e direttore del suo organo, L’avvenire del lavoratore, collaborò anche a Il Popolo, diretto da Cesare Battisti e, al solito, si fece notare per la virulenza delle sue polemiche, specialmente contro il clero e il giornale cattolico Vita trentina, diretto da Alcide De Gasperi.

Si cimentò anche in tentativi letterari e continuò a seguire i nuovi movimenti culturali, subendo l’influenza del pragmatismo e dell’attivismo. Entusiasta della modernità come epoca di energie umane in espansione attraverso le conquiste della scienza e della tecnica, inneggiava all’avvento di una nuova civiltà pagana. Già assiduo lettore del Leonardo, la rivista di Giovanni Papini che aveva esaltato l’irrazionalismo, nel 1909 entrò in contatto con La Voce di Giuseppe Prezzolini, approvandone il programma di rinnovamento culturale e morale, l’avversione per Giovanni Giolitti e il giolittismo. Prezzolini gli propose di scrivere un saggio sul Trentino, pubblicato nel 1911 col titolo Il Trentino (visto da un socialista), in cui irrideva alle teorie razziste del pangermanismo e negava l’esistenza di un irredentismo trentino, inteso come movimento «antiaustriaco tendente a separare violentemente il Trentino» dall’Impero per ricongiungerlo all’Italia. Decisamente antinazionalista e antipatriottico, condivideva con i giovani della sua generazione la credenza in una missione italiana nel nuovo secolo: «L’Italia attuale – scriveva nel luglio 1909 – va perdendo le caratteristiche di un cimitero. Dove un tempo sognavan gli amanti e cantavan gli usignoli, oggi fischiano le sirene delle officine. … L’Italia si prepara a riempire di sé una nuova epoca nella storia del genere umano» (Opera omnia, II, p. 172). 

Per le polemiche contro il clero e per l’attività di agitatore subì varie condanne, finché il 27 settembre fu espulso dal Trentino. Tornato a Forlì, accettò la proposta di diventare segretario della Federazione socialista forlivese e direttore del suo nuovo settimanale, che volle intitolare La lotta di classe.

All’inizio del 1910 si unì con Rachele Guidi, figlia della donna con la quale il padre gestiva un’osteria a Forlì, e a settembre nacque la figlia Edda. Si sposarono civilmente nel 1915 e con matrimonio religioso nel 1925. 

Dalla loro unione nacquero altri quattro figli: Vittorio, Bruno, Romano e Annamaria. Mussolini ebbe qualche altro figlio o figlia dalle relazioni amorose con altre donne, ma l’unico di cui riconobbe la paternità fu Benito Albino, nato l’11 novembre 1915 da Ida Dalser, conosciuta a Trento. La loro relazione era finita burrascosamente dopo il matrimonio civile con Rachele, ma Ida continuò per anni, specialmente dopo l’ascesa di Mussolini al potere, a sostenere di averlo sposato con rito religioso, finché nel 1926 fu fatta rinchiudere in manicomio, dove morì nel 1937. Benito Albino, tolto alla madre dopo il suo internamento, non ebbe mai rapporti né con la madre né col padre, ma fu seguito dal fratello di Mussolini, Arnaldo, e dopo la morte di questi nel 1931, fu adottato da un nuovo tutore. Arruolato in Marina durante la seconda guerra mondiale, anche Benito Albino, che pare si vantasse d’esser figlio del duce, finì in un istituto psichiatrico, dove morì il 26 agosto 1942.

Fra il 1910 e il 1912, Mussolini visse poveramente a Forlì con la sua nuova famiglia, cercando di guadagnare col giornalismo, le traduzioni, i proventi del saggio sul Trentino e di un romanzo anticlericale Claudia Particella l’amante del cardinale, pubblicato a puntate sul giornale di Battisti tra il gennaio e il maggio 1910. Ma soprattutto si impegnò per migliorare l’organizzazione della federazione, facendo aumentare le sezioni e gli iscritti con un’abile propaganda, e partecipò attivamente alle lotte bracciantili.

Nello stesso periodo elaborò la sua concezione rivoluzionaria del socialismo mescolando il materialismo storico e l’idealismo attivista; le teorie di Georges Sorel sulla violenza e il mito e il darwinismo sociale; l’esaltazione della minoranza rivoluzionaria di Auguste Blanqui e la teoria delle élites; l’ideale del superuomo e la psicologia delle folle di Gustave Le Bon; la rivoluzione sociale del proletariato con la missione rigeneratrice degli ‘uomini nuovi’. Nelle polemiche contro i riformisti, che privilegiavano le organizzazioni economiche, affermava il primato del partito come organizzazione rivoluzionaria antiparlamentare, che doveva inculcare nelle masse la fede nella rivoluzione sociale e prepararle allo scontro inevitabile contro lo Stato borghese.

Nell’ottobre 1910, partecipò per la prima volta a un congresso nazionale del PSI a Milano, dove espose le sue idee rivoluzionarie, ma pochi lo notarono. Deciso a emergere, nell’aprile 1911 fece approvare dal PSI l’autonomia della Federazione forlivese, guadagnandosi una certa notorietà fuori dall’ambito locale, accresciuta da una condanna a un anno di reclusione comminatagli in novembre per aver incitato alla violenza i lavoratori durante uno sciopero generale contro la guerra di Libia. Uscito dal carcere dopo cinque mesi, partecipò al XIII congresso del PSI (Reggio Emilia, 7-10 luglio 1912): con un discorso di grande effetto, chiese e ottenne l’espulsione di alcuni riformisti di destra, come Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, rilanciando la sua concezione rivoluzionaria del socialismo. Il suo successo personale fu decisivo per la vittoria della frazione rivoluzionaria, che conquistò la guida del PSI.

Così, a 29 anni, balzò improvvisamente sulla scena nazionale, diventando il personaggio più noto e fascinoso della corrente rivoluzionaria. Fin dai commenti sul congresso nella stampa sovversiva e nei giornali nazionali, la sua figura di focoso rivoluzionario, capo riconosciuto degli ultra-intransigenti, fu circondata di un alone mitico. Ammirato dai giovani rivoluzionari, adorato dalle masse, rispettato anche dai riformisti che condannavano le sue teorie rivoluzionarie, era elogiato dagli intellettuali democratici antigiolittiani, come Prezzolini e Gaetano Salvemini, per il suo carattere intransigente. Salvemini lo definì «uomo di fede», «forte e diritto», «di quelli che parlano come pensano, e operano come parlano, e perciò portano in sé tanta parte dei futuri destini d’Italia» (cit. in Gentile, 2003, p. 121).

Nominato direttore dell’Avanti!, nel dicembre 1912 si trasferì a Milano. In pochi mesi rinnovò il giornale, aprendolo alla collaborazione di militanti sovversivi d’ogni tendenza e agli intellettuali de La Voce e de L’Unità di Salvemini. In due anni, l’Avanti! aumentò la tiratura da 20.000 a circa 100.000 copie giornaliere, mentre gli iscritti al PSI passarono da 28.000 a 45.000. Con questi risultati, ebbe un nuovo successo personale al XIV congresso del PSI (Ancona, 26-29 aprile 1914), che approvò la sua linea integralista e intransigente. Forte di questo consenso, volle dare una funzione decisamente rivoluzionaria al partito, che concepiva come una ‘chiesa’ di militanti votati alla causa della rivoluzione sociale. Con una martellante campagna antiparlamentare, antipatriottica e antimilitarista, inneggiò all’azione diretta delle masse incitando il proletariato alla lotta violenta contro lo Stato borghese, come fece durante la rivolta della ‘settimana rossa’ nel giugno 1914.

Giornalista di grande talento e oratore efficacissimo, dal 1912 al 1914 fu il capo effettivo del PSI. Tuttavia, come confidò a Prezzolini, si sentiva «spaesato» anche fra i compagni rivoluzionari: «la mia concezione religiosa del socialismo è molto lontana dal rivoluzionarismo filisteo dei miei amici», tanto che un riformista gli aveva profetizzato «un non lontano esodo dalle schiere ufficiali» (M. e la Voce …, 1974, p. 57). I riformisti accusavano il rivoluzionarismo mussoliniano d’essere intriso di irrazionalismo, di superomismo, di estremismo avventuriero, e perciò fuori della tradizione marxista. Mussolini stesso si considerava un socialista eretico, «un homme qui cherche», secondo lo pseudonimo adottato per collaborare a La folla dopo il congresso di Reggio Emilia. Nel novembre 1913, fondò una propria rivista, Utopia, per promuovere una revisione rivoluzionaria del socialismo, ospitando articoli di sovversivi di vario orientamento, dai sindacalisti rivoluzionari agli anarchici. Nello stesso anno, pubblicò Giovanni Huss il veridico, dove, alludendo forse alla propria posizione nel partito, scrisse che Huss «non pensò mai a creare un movimento scismatico, volle solo un movimento riformatore, sempre nel senso della Chiesa» (Opera omnia, XXXIII, p. 281).

Ma nel novembre 1914, a causa della Grande guerra, il movimento riformatore in senso rivoluzionario avviato da Mussolini nel PSI sfociò in movimento scismatico. Allo scoppio del conflitto, nell’agosto 1914, si era dichiarato per la neutralità assoluta con il consenso unanime del partito, ma nei mesi successivi cominciò a dubitare della scelta. Pungolato dagli interventisti democratici e dagli interventisti rivoluzionari, che sostenevano la guerra contro il militarismo e l’autoritarismo degli Imperi centrali, mutò posizione. Nell’articolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante (Avanti!, 18 ottobre 1914) sostenne che i socialisti non potevano estraniarsi da un conflitto che avrebbe deciso l’avvenire dell’Europa e dell’Italia. Il 20 ottobre, in una riunione a Bologna, la svolta mussoliniana fu respinta dalla dirigenza del partito e Mussolini si dimise dalla direzione dell’Avanti! Il 15 novembre usciva nelle edicole Il Popolo d’ItaliaQuotidiano socialista, che recava nella testata un motto di Blanqui, «Chi ha del ferro ha del pane» e un motto di Napoleone Bonaparte, «La rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette»: fondatore e direttore era Mussolini, che concludeva l’articolo di prima pagina con un saluto «ai giovani d’Italia» appartenenti «alla generazione cui il destino ha commesso di “fare la storia”», incitandoli all’azione con «una parola paurosa e fascinatrice: guerra!».

Il progetto del nuovo giornale, deciso dopo le dimissioni dall’Avanti!, fu realizzato con finanziamenti procurati da un gruppo di industriali; successivamente ebbe contributi anche dai socialisti francesi e belgi e dai governi francese e inglese. Tuttavia la scelta interventista non fu dovuta a questi finanziamenti, ma fu il risultato di una decisione autonoma e travagliata, alla quale era giunto dopo essersi convinto che la guerra contro gli Imperi centrali avrebbe potuto creare le condizioni per una rivoluzione sociale. Sulla sua decisione influì molto l’entusiasmo col quale le folle accolsero la dichiarazione di guerra nei paesi belligeranti e il fallimento della II Internazionale socialista, perché quasi tutti i partiti socialisti europei si schierarono a sostegno dei loro paesi in guerra.

Il 24 novembre, a conclusione di una tumultuosa assemblea in cui Mussolini intervenne, la sezione socialista milanese decretò la sua espulsione dal PSI. Dopo essere stato per due anni l’idolo delle masse socialiste, divenne immediatamente il ‘traditore’ venduto al capitalismo bellicoso per denaro e per ambizione personale.

Invece gli interventisti democratici lo salutarono come un uomo di fede e di carattere, che aveva saputo rinunciare a una posizione di prestigio e di autorità per seguire la via delle proprie convinzioni. «Partito socialista ti espelle. Italia ti accoglie» gli telegrafò Prezzolini con altri collaboratori de La Voce.

Alla fine di dicembre, Mussolini si fece promotore dei Fasci di azione rivoluzionaria per patrocinare l’intervento dell’Italia contro l’Austria e «riaffermare le idealità socialiste rivedendole al lume della critica sotto l’attuale terribile lezione dei fatti» (Opera omnia, VII, p. 71). Dai Fasci interventisti nacque l’espressione «movimento fascista» usata da Mussolini nel 1915.

Pur continuando a dichiararsi un socialista, Mussolini assunse toni sempre più accesamente patriottici, esaltando la prima guerra d’Italia come una grande prova per la nazione : «La guerra – scrisse il 14 febbraio 1915 – deve rivelare l’Italia agli italiani. Deve anzitutto sfatare l’ignobile leggenda che gli italiani non si battono, deve cancellare la vergogna di Lissa e di Custoza, deve dimostrare al mondo che l’Italia è capace di fare una guerra, una grande guerra» (ibid., p. 197).

Protagonista delle agitazioni di piazza per costringere il governo Salandra a dichiarare la guerra, cosa che avvenne il 24 maggio 1915, nell’agosto fu richiamato alle armi. Si comportò da buon soldato, meritando la promozione a caporale. Dal dicembre 1915 al febbraio 1917, raccontò le sue esperienze al fronte nel Diario di guerra, pubblicato su Il Popolo d’Italia. Congedato nel giugno 1917 per le ferite causate dall’esplosione accidentale di un mortaio, riprese la campagna giornalistica con articoli bellicisti, nei quali, soprattutto dopo la rotta di Caporetto, invocò la più dura disciplina e il ricorso a una dittatura militare, per giungere alla vittoria.

Abbandonato definitivamente il socialismo internazionalista, delineò come sua nuova concezione politica un nazionalismo rivoluzionario, incentrato sulla convinzione che nelle trincee si era formata una nuova aristocrazia di combattenti, la «trincerocrazia» (come la definì su Il Popolo d’Italia il 15 dicembre 1917), alla quale spettava il diritto di assumere la guida del paese per realizzare una rivoluzione nazionale. Il 1° agosto 1918, dalla testata del giornale scomparve il sottotitolo «quotidiano socialista», sostituito da «quotidiano dei combattenti e dei produttori».

Finita la guerra, in un primo momento tentò di proporsi come guida dell’eterogeneo combattentismo di sinistra, unificandolo sotto la bandiera della Costituente. Fallita questa iniziativa, il 23 marzo 1919 diede vita ai Fasci italiani di combattimento, in una riunione che si svolse a Milano, in un palazzo di piazza S. Sepolcro (da cui il neologismo «sansepolcrista»), cui partecipò una cinquantina di militanti della sinistra interventista: ex socialisti, repubblicani, sindacalisti, arditi, futuristi.

Nei propositi di Mussolini, il fascismo doveva essere un movimento temporaneo, un ‘antipartito’, per mobilitare i reduci in difesa della vittoria. Il fascismo ‘diciannovista’, come fu poi definito, si proclamava libertario, repubblicano e anticlericale, con un programma di radicali riforme istituzionali, economiche e sociali. I fascisti disprezzavano il liberalismo, praticavano la violenza e la politica della piazza per sostenere le rivendicazioni territoriali dell’Italia e per combattere il bolscevismo, cioè il Partito socialista. La loro prima azione pubblica fu la devastazione della sede dell’Avanti! a Milano, il 15 aprile 1919.

Fino alla fine del 1920, il fascismo fu un movimento marginale. Nel mondo dei reduci, Mussolini fu oscurato da Gabriele D’Annunzio, che nel settembre 1919 occupò la città di Fiume, proclamandone l’annessione all’Italia. L’insuccesso dei Fasci fu confermato dalla disfatta nelle elezioni politiche del novembre di quell’anno. Mussolini ebbe meno di 5000 voti, mentre il PSI, divenuto il primo partito nel Parlamento italiano, inneggiava alla rivoluzione sociale per instaurare la dittatura del proletariato sul modello della rivoluzione bolscevica, insultando i reduci, denigrando il patriottismo e minacciando una fine violenta per la borghesia.

Nel dicembre 1919 in tutta Italia c’erano 37 Fasci con 800 iscritti. Mussolini pensò per un momento di lasciare la politica e di emigrare, ma da questo proposito subito fu distolto dall’ambizione e dalla convinzione che il Partito socialista non avrebbe saputo conquistare il potere.

All’inizio del 1920 iniziò la conversione a destra del fascismo, sancita nel II congresso nazionale dei Fasci a Milano (24-25 maggio 1920). Abbandonato il programma repubblicano, radicale e anticlericale del 1919, Mussolini presentò il fascismo come un movimento difensore dei reduci, della borghesia produttiva e dei ceti medi contro il ‘pericolo bolscevico’. 

La svolta provocò la scissione dei futuristi, mentre Mussolini si distanziava anche da D’Annunzio, approvando il trattato di Rapallo fra l’Italia e la Iugoslavia (12 novembre 1920), col quale era riconosciuto a Fiume lo statuto di territorio libero.

Il fascismo diventò movimento di massa dopo il 1920, quando la sua organizzazione paramilitare di squadre armate (lo squadrismo) divenne lo strumento della reazione della borghesia e dei ceti medi contro il Partito socialista e le leghe ‘rosse’, nelle province della Valle Padana dove i socialisti avevano un controllo quasi totale sulla vita politica ed economica, esercitandolo con prepotenza nei confronti dei ceti borghesi. La crescita dei Fasci, accolta favorevolmente dall’opinione pubblica conservatrice, liberale e cattolica, fu rapida: gli iscritti aumentarono da 20.165 del dicembre 1920 a 187.588 nel maggio 1921, superando i 200.000 due mesi dopo.

Mussolini non ebbe un ruolo diretto nella crescita del fascismo come movimento di massa, composto principalmente da reduci e giovani dei ceti medi e finanziato dagli agrari. Tuttavia, pur senza avere la carica di massimo dirigente nell’organizzazione dei Fasci, essendo solo uno dei componenti della Commissione esecutiva, dal suo giornale tracciava l’orientamento politico del movimento, adattandolo alle circostanze, senza avere ancora una meta precisa, al di là della lotta violenta contro il Partito socialista e le organizzazioni del proletariato, accolta allora favorevolmente dalla borghesia e dall’opinione pubblica conservatrice, liberale e cattolica.

Nel maggio 1921 i Fasci parteciparono alle elezioni politiche con i Blocchi nazionali promossi da Giovanni Giolitti per contrastare il Partito socialista e il Partito popolare. Dopo una campagna elettorale funestata da scontri violenti, i fascisti ottennero 35 seggi. Mussolini fu eletto a Bologna e a Milano con oltre 300.000 voti. Entrato alla Camera, si dissociò subito da Giolitti, provocando la fine del suo governo nel giugno 1921, mentre lo squadrismo imperversava in gran parte dell’Italia settentrionale e centrale, favorito dall’inerzia o dalla simpatia delle forze dell’ordine e delle autorità locali.

Maturò allora in Mussolini il progetto di trasformare il movimento fascista in un ‘partito del lavoro’, proponendo la cessazione delle violenze squadriste. «Noi – scriveva il 2 luglio – pensiamo che la guerriglia civile si avvia all’epilogo … Dire che un pericolo ‘bolscevico’ esiste ancora in Italia significa scambiare per realtà certe oblique paure. Il bolscevismo è vinto. Di più: è stato rinnegato dai capi e dalle masse» (Opera omnia, XVII, pp. 20 s.).

Il 3 agosto 1921 firmò un ‘patto di pacificazione’ con i socialisti, patrocinato dal nuovo governo di Ivanoe Bonomi (4 luglio 1921-26 febbraio 1922). Accettando il patto, si proponeva anche di imporre la sua autorità di duce sull’eterogenea massa degli squadristi delle varie province, rivendicando, come fondatore e capo del fascismo, il potere di dettare la condotta politica del movimento: «se il fascismo non mi segue nessuno potrà obbligarmi a seguire il fascismo», scrisse il 3 agosto (ibid., p. 82). Ma i capi dello squadrismo padano, Dino Grandi, Italo Balbo, Roberto Farinacci, rifiutarono di disarmare il fascismo e non solo contestarono a Mussolini l’autorità di capo, ma non gli riconobbero neppure la paternità del fascismo, che attribuirono allo squadrismo emiliano. 

La rivolta antimussoliniana culminò con una grande adunata di squadristi a Bologna il 16 agosto. Mussolini reagì dimettendosi dalla Commissione esecutiva dei Fasci: «Chi è sconfitto, deve andarsene. E io me ne vado dai primi posti. Resto, e spero di poter restare, semplice gregario del Fascio Milanese», scrisse il 18 agosto (ibid., p. 105). Circolò allora fra gli squadristi antimussoliniani la frase «chi ha tradito, tradirà», con allusione all’epilogo della militanza socialista di Mussolini. Il fascismo parve sul punto di disgregarsi. Ma dopo poche settimane, fallito il tentativo dei capi squadristi di convincere D’Annunzio ad assumere la guida del movimento, la crisi fu sanata nel III congresso nazionale dei Fasci, che si svolse a Roma dal 7 al 10 novembre e deliberò la trasformazione del movimento in Partito nazionale fascista (PNF). 

Mussolini si riconciliò con i ribelli, che lo riconobbero come ‘duce’, ma dovette sconfessare il patto di pacificazione e accettare che lo squadrismo divenisse parte integrante del PNF conferendogli la caratteristica inedita di ‘partito milizia’, l’unico partito italiano che disponeva di un esercito privato per combattere gli avversari. Alla carica di segretario generale del PNF fu eletto Michele Bianchi. In Mussolini, tuttavia, l’esperienza della rivolta squadrista lasciò una profonda diffidenza nei confronti del suo stesso partito, dovuta al timore che dal suo interno potessero nuovamente emergere figure antagoniste.

Con l’organizzazione del fascismo in partito, fu rielaborata anche la sua ideologia, utilizzando idee del nazionalismo e del sindacalismo. L’ideologia del PNF affermava il primato assoluto della nazione e una concezione antidemocratica, autoritaria e gerarchica dello Stato, e proponeva un assetto corporativo dell’economia per imporre la collaborazione fra le classi, salvaguardando il predominio sociale del capitalismo produttivo. In politica estera, il fascismo era genericamente espansionista, considerando l’imperialismo una legge di vita per le nazioni. Decisivo fu il contributo di Mussolini all’elaborazione dell’ideologia fascista. A questo scopo, fondò all’inizio del 1922 la rivista Gerarchia, affidandone la direzione a Margherita Sarfatti, da anni sua amante e donna di grande cultura che molto influì sulla rappresentazione del fascismo come rinascita della romanità, come avanguardia della nuova Italia nata dalla Grande guerra e milizia civile che difendeva la nazione contro i suoi nemici interni, arrogandosi il monopolio del patriottismo, e, infine, come movimento politico dotato di una propria religiosità laica, con i suoi riti, i suoi simboli e i suoi miti. Fra questi, Mussolini diede massimo risalto al mito di Roma, non come culto del passato ma come incitamento alla conquista di una nuova grandezza imperiale italiana.

Con oltre 200.000 iscritti, nel 1922 il PNF era il più forte partito di massa, dominando incontrastato in gran parte delle regioni settentrionali e centrali. Lo squadrismo riprese l’offensiva violenta contro i partiti avversari, mentre sfidava lo Stato liberale, proclamando la volontà di conquistare il potere per via elettorale o insurrezionale. L’idea di una ‘marcia su Roma’ maturò nell’agosto 1922, dopo il fallimento dello ‘sciopero legalitario’, proclamato dall’Alleanza del lavoro, che riuniva i sindacati antifascisti, per protestare contro le violenze squadriste ed esigere dal governo il ripristino della legge e della libertà. Il PNF scatenò una rappresaglia, pubblicamente annunciata contro le organizzazioni operaie e contro le amministrazioni socialiste, costringendole alle dimissioni, come avvenne a Milano. Intanto Mussolini promuoveva spettacolari occupazioni di città, da parte di migliaia di squadristi, per manifestare contro le autorità governative, come avvenne a Bolzano e a Trento (1-3 ottobre), in moda da rendere sempre più evidente l’impotenza del governo, presieduto dal giolittiano Luigi Facta (26 febbraio-31 ottobre 1922), a contenere l’offensiva del PNF, che agiva ormai come uno Stato nello Stato.

Il 3 ottobre Il Popolo d’Italia pubblicò il regolamento della «milizia fascista», ostentando l’istituzione di un esercito di partito, che aveva sottratto allo Stato il monopolio della forza, seminando il terrore fra gli avversari, fra i quali il fascismo includeva ora non solo socialisti, comunisti e anarchici, ma anche liberali, repubblicani e popolari.

Nello stesso periodo, Mussolini delineò in articoli e discorsi i caratteri del nuovo Stato antidemocratico che il PNF intendeva instaurare, dichiarando che il fascismo al potere avrebbe negato la libertà a chiunque si fosse opposto al suo predominio. Al contempo, però, ostentava rispetto verso le istituzioni tradizionali, la monarchia, l’esercito, la Chiesa, e si schierò a difesa del sistema capitalistico, proponendo la collaborazione fra le classi attraverso un nuovo corporativismo, per incrementare la produzione nel supremo interesse della nazione, e riservando alla borghesia produttiva il predominio sociale.

Nell’ottobre 1922, mentre minacciava pubblicamente una conquista rivoluzionaria del potere, sollecitata da Bianchi, da Balbo, nuovo capo della milizia fascista, e dai capi squadristi, condusse separatamente trattative segrete con esponenti della classe dirigente liberale, lasciando credere a ognuno di loro di essere disposto a partecipare a un governo di coalizione con alcuni incarichi ministeriali. Giolitti, Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra, Facta caddero nella rete mussoliniana, ciascuno immaginando di poter assurgere a ‘salvatore della patria’, formando un governo di coalizione con il PNF per restaurare nel paese la legalità e l’ordine. Il piano militare della marcia su Roma fu effettivamente deciso da Mussolini il 16 ottobre, insieme con Bianchi, Balbo, Cesare Maria De Vecchi e il generale Emilio De Bono. Il 24 ottobre a Napoli, durante una grande adunata fascista per il Consiglio nazionale del PNF, la mobilitazione fu fissata per il 28 ottobre.

L’insurrezione fascista, voluta con decisione da Bianchi, che prevalse su un Mussolini all’ultimo momento esitante, fu attuata in molte città dell’Italia settentrionale e centrale con l’occupazione di edifici governativi, poste e stazioni ferroviarie. Contro una reazione dell’esercito, la ‘marcia su Roma’ non avrebbe avuto possibilità di successo, ma la sua efficacia fu di seminare confusione ai vertici dello Stato, mentre Mussolini, a Milano, proseguiva le trattative con gli esponenti liberali e i rappresentanti del mondo economico. Da questo punto di vista, l’insurrezione fascista conseguì il massimo risultato col minimo rischio, perché fece fallire l’ipotesi di un governo Salandra o Giolitti, auspicata dalla monarchia, dagli industriali e dagli stessi fascisti moderati, e aprì la via del potere a Mussolini, dopo il rifiuto del re, la mattina del 28, di firmare lo stato d’assedio proposto da Facta.

Il 29 ottobre, Mussolini ricevette con un telegramma l’incarico di formare il governo. Giunto a Roma il giorno successivo, presentò al re la lista dei ministri, comprendente, con i fascisti, nazionalisti, popolari, liberali, democratico-sociali, e due generali; per sé tenne i ministeri dell’Interno e degli Esteri. Il 31 ottobre decine di migliaia di fascisti, convenuti nella capitale da ogni parte d’Italia, celebrarono con una grandiosa sfilata l’ascesa al potere del loro duce. Era la prima volta, nella storia degli Stati parlamentari europei, che la guida del governo era affidata al capo di un partito armato, giunto al potere esercitando la violenza contro tutti gli altri partiti. 

Il 16 novembre, presentò il governo alla Camera dei deputati, con un discorso sprezzante: «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto» (Opera omnia, XIX, p. 17). Nonostante ciò, Camera e Senato, a larghissima maggioranza, gli diedero la fiducia e i pieni poteri per un anno allo scopo di realizzare riforme fiscali e amministrative, ricevendone in cambio la promessa del governo di ristabilire nel paese la legalità, l’ordine e il rispetto della legge anche da parte dei fascisti.

Apparentemente con questo proposito Mussolini legalizzò la milizia fascista inquadrandola come Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, agli ordini del capo del governo. L’istituzione della MVSN fu decisa da un nuovo organo dirigente del PNF, il Gran Consiglio del fascismo, costituito nel dicembre 1922 per volontà di Mussolini, che lo presiedeva come capo del governo, e composto dai ministri e sottosegretari fascisti, dal segretario generale e da altri dirigenti del partito. Il Gran Consiglio fu lo strumento con il quale Mussolini esercitò il suo ruolo di duce per imporre la disciplina all’interno del PNF. Questo, cresciuto enormemente dopo l’ascesa al potere con un’ondata di nuove iscrizioni, fu squassato per alcuni mesi da una grave crisi interna, causata dalla dissidenza di Fasci autonomi, e soprattutto dai conflitti fra gli ‘intransigenti’, capitanati dai capi squadristi come Farinacci, e i ‘revisionisti’, propensi a smilitarizzare il fascismo per inserirlo come forza riformatrice dello Stato, pur senza rinunciare alle pretese di predominio nei confronti degli altri partiti. Il duce si barcamenò fra le due tendenze mirando a sottomettere il partito al suo controllo, contrastando le pretese dei capi fascisti delle province, denominati ‘ras’, di opporsi ai suoi ordini. 

Per accrescere il suo prestigio e la sua autorità, volle conquistarsi direttamente il consenso delle masse e in pochi mesi visitò gran parte dell’Italia, tenendo discorsi alle folle che accorrevano numerose, attratte dalla novità del primo presidente del Consiglio che girava per il paese e soprattutto affascinate dal nascente mito del giovane, dinamico e vigoroso capo del governo, figlio del popolo assurto al vertice del potere.

In realtà, pur promettendo continuamente la restaurazione della legalità, tollerò, incoraggiò e talvolta comandò direttamente l’uso della violenza per ridurre gli oppositori all’impotenza e per estendere il potere del fascismo in tutto il paese, descrivendo il suo governo come un nuovo regime, deciso a ‘durare’ anche con il ricorso alla forza. In una delle prime riunioni del Consiglio dei ministri, il 15 dicembre 1922, affermò la «assoluta irrevocabilità del fatto compiuto nell’ottobre col trapasso di regime» (Opera omnia, XIX., p. 66) e il 15 luglio 1923 ribadiva alla Camera: «Il potere lo abbiamo e lo teniamo. Lo difenderemo contro chiunque. Qui è la rivoluzione, in questa ferma volontà di mantenere il potere» (ibid., p. 317). Siffatte dichiarazioni confermavano e incoraggiavano la pretesa del partito fascista di identificarsi con la nazione e con lo Stato, trattando i suoi avversari politici come nemici dell’Italia. Fu proprio in riferimento a queste pretese e al metodo violento per realizzarle nei primi mesi del governo Mussolini, che alcuni antifascisti, come Giovanni Amendola e Luigi Sturzo, coniarono e diffusero il nuovo termine «totalitario», dal quale derivò subito «totalitarismo», per definire la nuova dittatura di fatto, lo ‘Stato-partito’, instaurato dopo la ‘marcia su Roma’ dal PNF, usando la propria milizia armata per distruggere i partiti avversari e per imporre agli italiani la sua ideologia come una religione politica integralista e intollerante.

Per garantirsi una propria maggioranza parlamentare – il PNF aveva appena una trentina di deputati – Mussolini fece approvare il 23 luglio 1923 una riforma elettorale (la cosiddetta ‘legge Acerbo’) che assegnava due terzi dei seggi alla lista di maggioranza relativa, col 25% dei voti. Le elezioni, che si tennero il 6 aprile 1924 in un clima di intimidazioni e di violenze da parte fascista, assicurarono a Mussolini una larghissima maggioranza. Ma l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, compiuto il 10 giugno da sicari squadristi su mandato di stretti collaboratori del duce, suscitò una profonda emozione in tutto il paese e inferse un duro colpo al prestigio di Mussolini. Esplose così una crisi politica che avrebbe potuto travolgerlo: parlando al Consiglio nazionale del PNF il 7 agosto, il duce riconobbe che il suo mito era in declino. I partiti di opposizione abbandonarono il Parlamento (‘secessione dell’Aventino’), sperando nell’intervento del re per rimuovere dalla carica di presidente del Consiglio un uomo sospettato di essere il mandante dell’assassinio di Matteotti. Ma il re non ritenne di dover intervenire perché Mussolini, dopo un rimpasto del governo con la nomina di ministri vicini alla monarchia, come Luigi Federzoni all’Interno, ottenne ancora la fiducia parlamentare.

La protesta antifascista ridiede vigore all’iniziativa violenta dei fascisti intransigenti, che volevano la conquista integrale dello Stato. Questi fecero forti pressioni sul duce per indurlo a istituire una dittatura di partito. Dopo che la sera del 31 dicembre un gruppo di comandanti della MVSN gli aveva ingiunto di agire per annientare le opposizioni, il 3 gennaio 1925 Mussolini, con un discorso alla Camera, si assunse tutta la responsabilità di quanto il fascismo aveva compiuto e avviò una decisa politica dittatoriale.

Nel febbraio, Farinacci fu nominato segretario generale del PNF. Il 22 giugno 1925, al V congresso del partito fascista, Mussolini proclamò: «Abbiamo portato la lotta sopra un terreno così netto che ormai bisogna essere o di qua o di là, non solo, ma quella meta che viene definita la nostra feroce volontà totalitaria sarà perseguita con ancora maggior ferocia … Vogliamo insomma fascistizzare la nazione, tanto che domani italiano e fascista, come presso a poco italiano e cattolico, siano la stessa cosa» (Opera omnia, XXI, p. 362). Fu subito intensificata la persecuzione degli antifascisti, con arbitrari interventi polizieschi e aggressioni squadriste, di cui furono vittime, fra gli altri, Amendola e Piero Gobetti. Gran parte dei dirigenti e migliaia di militanti dei partiti antifascisti abbandonarono l’Italia.

Dal 1925 al 1945, la biografia di Mussolini coincide con la storia d’Italia. Per venti anni, qualsiasi settore dello Stato e della società italiana − dalla politica interna alla politica estera, dall’economia alla cultura, dall’organizzazione militare al tempo libero, dall’urbanistica all’ambiente, dalla religione al costume, dalla vita collettiva alla vita privata – fu trasformato, condizionato e influenzato dalla sua volontà.

Di conseguenza, non potendo trattare di tutta la sua attività nel corso di un ventennio, la narrazione della sua biografia si concentrerà sugli aspetti della sua politica, interna e internazionale, che più direttamente appaiono connessi con la sua personalità. 

Fra il 1925 e il 1927, attuò la demolizione del regime parlamentare e costruì le fondamenta di quello fascista, mediante la serie delle leggi ‘fascistissime’, che concentrarono il massimo dei poteri nella sua persona come capo del governo. Alla fine del 1926 furono soppressi i partiti, i sindacati e le associazioni non fasciste. La stessa sorte toccò ai giornali. Inoltre, in seguito a quattro falliti attentati contro Mussolini, fu reintrodotta la pena di morte per gli attentatori alla vita del re e del capo del governo, e fu istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato per giudicare chi svolgeva in Italia o all’estero attività antifascista. Nel 1928, una riforma della rappresentanza politica istituì il collegio unico nazionale e attribuì al Gran Consiglio il compito di approntare una lista di deputati designati, che gli elettori avrebbero potuto approvare o respingere in blocco. Il Gran Consiglio divenne organo dello Stato fascista, con competenze in materia costituzionale, compresa la facoltà di intervenire nella successione al trono: il re protestò invano contro tale disposizione che menomava gravemente le prerogative della monarchia. Nel febbraio 1929, Mussolini coronò il consolidamento del suo potere con la firma dei Patti lateranensi, che posero fine alla Questione romana, e conquistarono al regime fascista il riconoscimento della Chiesa e il consenso delle masse cattoliche.

Fin dal 1920 aveva abbandonato l’anticristianesimo e l’anticlericalismo, esaltando il cattolicesimo come erede della romanità, come espressione della civiltà italiana, e come una istituzione con milioni di fedeli in tutto il mondo, che poteva essere utile alle ambizioni imperiali del fascismo. Al governo fu prodigo di concessioni al Vaticano, che accolse favorevolmente l’avvento al potere di un partito che, pur usando metodi violenti, avversava gli stessi movimenti politici, dal liberalismo al comunismo, che la Chiesa considerava suoi nemici. Tuttavia, Mussolini non esitò a entrare in conflitto con la Chiesa, come accadde subito dopo la firma del Concordato, poi nel 1931 e di nuovo nel 1938, per rivendicare il primato dello Stato fascista e il suo monopolio nell’educazione delle nuove generazioni secondo i principî e i valori dell’ideologia totalitaria e bellicista del fascismo. Pio XI condannò la «statolatria pagana» del fascismo (enciclica Non abbiamo bisogno, 29 giugno 1931), ma neppure nei momenti di maggior tensione con il regime fascista, come avvenne alla fine degli anni Trenta, giunse a rimettere in discussione il Concordato.

Il consolidamento del regime fascista fu sancito dalle elezioni del 24 marzo 1929, in cui quasi il 99% dei votanti approvò la lista proposta dal Gran Consiglio. In quello stesso anno, un nuovo statuto del PNF gli toglieva ogni autonomia, trasformandolo in un milizia civile al servizio dello Stato fascista e agli ordini del duce.

Durante la segreteria di Augusto Turati (1926-30), di Giovanni Giuriati (1930-31) e soprattutto di Achille Starace (1931-39), consenziente il duce, il partito ampliò la sfera del suo potere sia all’interno dello Stato, con l’espansione della propria presenza negli organi politici e amministrativi, sia nella società, attraverso l’irreggimentazione delle masse, fin dall’infanzia, in una rete organizzativa, estesa su ogni settore della vita pubblica e privata.

Come capo del governo e duce del fascismo, Mussolini concentrò nelle sue mani un potere immenso e incontrastato, mentre il re, come capo dello Stato, fu ridotto a simbolica funzione istituzionale. 

Per un ventennio, Vittorio Emanuele III assistette inerte, acquiescente o consenziente alla demolizione dello Stato liberale edificato dai suoi predecessori, sottoscrivendo tutte le decisioni di Mussolini in politica interna ed estera, dall’instaurazione del regime a partito unico nel 1926, all’emanazione della legislazione razzista e antisemita nel 1938, dall’aggressione militare all’Etiopia nel 1935 e all’Albania nel 1939, all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. Dopo la sua caduta, negli anni della Repubblica sociale, per ridurre le sue responsabilità, Mussolini descrisse il rapporto fra il duce e il re come una diarchia, ma la formula non corrispondeva affatto alla realtà: fino al 25 luglio 1943, il potere effettivo dello Stato fascista fu concentrato nelle mani del duce. Nel 1946, lo stesso Vittorio Emanuele ammise: «Allora non si poteva avversare il Capo del Governo» (P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Bologna 1993, p. 321).

L’incontrastata dittatura mussoliniana, saldamente fondata su un capillare apparato poliziesco, sul PNF e sulla MVSN, derivava anche dalla funzione di mediatore e di arbitro che svolgeva, nella duplice veste di capo del governo e capo del partito fascista, fra le diverse istituzioni dello Stato e del regime e fra le varie componenti economiche, sociali e culturali della società italiana, riservandosi comunque la decisione finale e risolutiva nelle scelte fondamentali della politica interna ed estera. Tutto ciò lo costringeva a occuparsi quotidianamente di innumerevoli questioni, con una meticolosità burocratica, accresciuta da un’ossessiva volontà di controllare e dominare tutto personalmente.

Tuttavia, nel primo decennio al potere, oltre a valersi di esperti e di tecnici anche non fascisti in particolari settori come l’economia, le finanze e i lavori pubblici, fu propenso a coinvolgere nell’azione di governo altre personalità del partito fascista, affidando la gestione di ministeri importanti a giovani come Dino Grandi (ministro degli Esteri dal 1929 al 1932), Italo Balbo (ministro dell’Aeronautica dal 1929 al 1933) e Giuseppe Bottai (ministro delle Corporazioni dal 1929 al 1932). Invece, dopo il 1932, accentrò nelle sue mani, contemporaneamente, vari ministeri, assumendo definitivamente, dopo il 1933, anche i tre militari ed estendendo così il suo comando sulle Forze armate.

Il potere personale di Mussolini fu accresciuto dalla diffusione del suo mito di superuomo dotato di eccezionali qualità fisiche e intellettuali, un mito che egli per primo promosse esibendo la sua persona fisica in diversi ruoli: duce, statista, condottiero, pensatore, educatore, mecenate delle arti, della cultura e della scienza, bonificatore di paludi, fondatore e ricostruttore di città, atleta, sportivo, aviatore, nuotatore, pilota e buon padre di famiglia. Il mito era potenziato da un’efficiente macchina propagandista, che per mezzo della stampa, della radio e del cinema, esaltava i successi, veri o presunti, della politica mussoliniana in Italia e all’estero, e soprattutto eccitava nelle masse una fede nel duce sconfinante nell’idolatria.

I discorsi di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia (dal 1929 sede del suo ufficio) e i frequenti incontri con le folle in ogni parte d’Italia divennero riti di fusione emotiva fra il duce e gli italiani, come una mistica rappresentazione dell‘unità della nazione. Così, al mito di Mussolini si aggiunse il culto del duce, collocato al centro di un sistema di riti e di simboli, che accentuarono i caratteri del fascismo come una religione politica, divenuta parte essenziale e integrante del regime totalitario. La cultura accademica, gli artisti e gli scienziati, per convinzione o per convenienza, parteciparono attivamente alla celebrazione del mito, godendo anche della promozione, voluta da Mussolini per dare impulso alla fascistizzazione della cultura, di istituzioni come l’Accademia d’Italia e l’Enciclopedia italiana, e della molteplicità di stili estetici consentiti purché convergessero nell’esaltazione del duce e del fascismo.

Ad alimentare il mito di Mussolini in Italia contribuì l’ammirazione che la sua figura riscuoteva all’estero, soprattutto da parte dei governi conservatori e dell’opinione pubblica anticomunista, che gli attribuivano il merito di aver salvato l’Italia dal bolscevismo, e di essere uno statista responsabile, che in politica estera, pur ostentando una ideologia bellicosa, ricercava la collaborazione con le grandi potenze democratiche.

All’inizio degli anni Trenta, lo Stato totalitario era compiuto nelle sue strutture fondamentali, costituite dagli apparati polizieschi e militari tradizionali, cui erano stati aggiunti la MVSN e l’OVRA (Opera vigilanza repressione antifascista), e soprattutto dall’immenso apparato organizzativo del partito unico, per l’irreggimentazione e la mobilitazione delle masse.

In campo economico, dopo aver assecondato nei primi anni una politica liberista, dopo il 1926 Mussolini adottò una politica protezionista, soprattutto nel settore dell’agricoltura (‘battaglia del grano’) al fine di garantire al paese l’autosufficienza alimentare. Nel 1927 promulgò la Carta del Lavoro per definire gli orientamenti economici e sociali del regime, la subordinazione dei sindacati allo Stato, la collaborazione fra le classi attraverso le corporazioni, l’istituzione di una magistratura del lavoro, la preminenza della produzione sul consumo al fine di accrescere la potenza della nazione. Negli anni Trenta, il corporativismo fascista, oggetto di grandi dibattiti, ebbe grande notorietà all’estero, ma scarsa efficacia nell’effettiva organizzazione dell’economia italiana. L’interventismo statale nel settore produttivo fu accentuato attraverso nuovi istituti, come l’Istituto mobiliare italiano (IMI, 1931) e l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI, 1933), creati per fronteggiare le conseguenze della crisi economica mondiale del 1929, che Mussolini interpretò come ‘crisi del sistema’, perché coinvolgeva tutti gli aspetti economici, sociali, politici, culturali e morali del capitalismo liberale.

Suggestionato dalle teorie di Oswald Spengler sul «tramonto dell’Occidente» (Der Untergang des Abendlandes, 1918-22), riteneva che la civiltà europea corresse il rischio di essere trascinata nella decadenza del capitalismo, del liberalismo e della democrazia, mentre era contemporaneamente minacciata dal comunismo. Dal 1932 in poi proclamò che, fra capitalismo e bolscevismo, l’unica via di salvezza era la «terza via» che il fascismo stava costruendo, cioè lo Stato totalitario, il corporativismo e una concezione spirituale e austera della vita, basata sulla totale dedizione dell’individuo alla nazione e allo Stato.

La proliferazione di movimenti e regimi autoritari che imitavano il fascismo convinse Mussolini di poter diventare il fondatore di una nuova civiltà fascista, universale come la civiltà romana. Per questo volle fissare i fondamenti teorici della concezione fascista dell’uomo e della vita, scrivendo nel 1932 il testo della Dottrina del fascismo (dovuto in parte al filosofo Giovanni Gentile), pubblicato nell’Enciclopedia italiana: «per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo» (Opera omnia, XXIV, p. 119).

All’insegna del motto «andare verso il popolo», negli anni Trenta promosse una politica sociale e assistenziale per i ceti più disagiati, mentre per riassorbire la disoccupazione fece varare grandi lavori pubblici, come la bonifica delle paludi Pontine, vasti rinnovamenti urbanistici, specialmente nella capitale, e la fondazione di nuove città, come Littoria (oggi Latina). Inoltre, intensificò la campagna per l’incremento demografico, sostenendo che la potenza di una nazione consisteva nel numero dei suoi abitanti, e cercò di scoraggiare l’emigrazione dalla campagna alla città, esaltando i contadini come «elementi di prima classe nella comunità nazionale» (4 luglio 1933; Opera omnia, XXVI, p. 17), condannò il celibato ed esaltò la prolificità perché preservava la vitalità della razza.

Pur senza professare il razzismo come ideologia fino al 1938, considerava la salvaguardia della razza un fattore fondamentale per poter realizzare le sue ambizioni imperiali: «Bisogna vigilare seriamente sul destino della razza – affermava nel 1927 – bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia» (ibid., XXII, pp. 363 s.). E nel 1934 ribadiva la centralità della razza in tutta la politica del regime: «lo sfollamento delle città, la bonifica rurale, l’Opera della Maternità e infanzia, le colonie marine e montane, l’educazione fisica, le organizzazioni dell’igiene, tutto concorre alla difesa della razza» (ibid.,XXVI, p. 191).

La crescita demografica e la rigenerazione della razza italiana erano condizioni indispensabili per una politica estera di potenza e di espansione, che fu la massima ambizione di Mussolini, il quale, tuttavia, fino alla metà degli anni Trenta, in politica estera mantenne una condotta pacifica, salvo un’iniziale esibizione di forza nel 1923, con l’occupazione temporanea di Corfù per esigere dalla Grecia riparazioni dopo l’assassinio dei componenti una missione militare italiana al confine greco-albanese.

In tutto quel periodo, malgrado i toni bellicosi di alcuni discorsi, e sempre mirando ad accrescere il prestigio dell’Italia e a estendere la sua influenza nell’Europa orientale, nel Mediterraneo e in Africa, il duce perseguì un orientamento volto a garantire la pace in Europa attraverso l’accordo con le grandi potenze, compresa l’Unione Sovietica.

Non accolse con simpatia l’avvento del nazismo al potere in Germania nel gennaio 1933, anche se Hitler lo venerava come un maestro e sollecitò un incontro, che si svolse a Venezia il 14 giugno 1934, senza intaccare la diffidenza del duce. In quel periodo derideva pubblicamente l’antisemitismo e il razzismo tedesco, mentre lo allarmava la possibilità di annessione dell’Austria alla Germania. Quando, nel luglio 1934, i nazisti tentarono un colpo di Stato a Vienna, che fallì ma provocò l’assassinio del cancelliere Engelbert Dollfuss, il duce dichiarò che avrebbe difeso l’indipendenza dell’Austria e mobilitò l’esercito ai confini. Nell’aprile dell’anno successivo ospitò a Stresa una conferenza fra Italia, Francia e Gran Bretagna per definire una politica comune contro il rinascente militarismo tedesco.

La svolta decisiva avvenne nel 1935, con l’aggressione all’Etiopia. Le operazioni militari iniziarono il 3 ottobre 1935, senza formale dichiarazione di guerra, dopo l’annuncio dato dal duce la sera precedente dal balcone di Palazzo Venezia .

Mussolini riteneva di avere l’assenso tacito della Francia e della Gran Bretagna, che invece condannarono l’aggressione, mentre la Società delle Nazioni decretò sanzioni contro l’Italia. La campagna etiopica fu combattuta con un massiccio impiego di uomini e di armi moderne, contro un esercito inferiore per numero, poco organizzato e malamente armato. Il duce autorizzò anche l’uso di armi chimiche per annientare il nemico e terrorizzare la popolazione.

Conseguita la vittoria dopo sei mesi, il 9 maggio 1936 il duce annunciò «la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma» davanti a una folla delirante di entusiasmo. La conquista dell’Etiopia segnò l’apoteosi di Mussolini e l’inizio di una nuova fase della sua vita politica. Convinto, dopo la vittoria, di essere un grande genio non solo politico ma anche militare, divenne prigioniero del suo stesso mito, fino ad assumere persino fisicamente una posa di distaccata superiorità, come un monumento vivente al di sopra dei comuni mortali.

Bottai così lo descriveva dopo la conquista dell’Etiopia (Diario 1935-1944, a cura di G.B. Guerri, Milano 1982, pp. 109 s.): «Non l’uomo, ma la statua stava dinnanzi a me. Dura, pietrosa statua da cui una voce fredda uscì in martellanti parole». Il politico e diplomatico Giuseppe Bastianini osservò l’involuzione della personalità mussoliniana, chiusa in se stessa: «Sul culmine che ha raggiunto è ritornato il solitario dei tempi duri. Il calore dell’immaginazione ha acceso la esaltazione psichica che lo possiede ed egli si è distaccato dagli uomini con negli occhi una visione abbagliante di grandezza e nel cuore un’aspirazione superumana sempre più ardente» (Uomini, cose, fatti. Memorie di un ambasciatore, Milano 1959, pp. 38 s.).

Circondato da gerarchi che non osavano contraddirlo, dopo la morte del fratello Arnaldo, suo unico amico e confidente, Mussolini divenne più chiuso e sospettoso, geloso della popolarità che altri gerarchi, come Balbo con le sue trasvolate atlantiche, riscuotevano in Italia e all’estero. Solo nei confronti di Galeazzo Ciano, marito di Edda, manifestò fiducia, nominandolo ministro degli Esteri nel 1936. Nello stesso periodo, forse per compensare la solitudine e illudersi di contrastare con una rinnovata virilità l’avanzare dell’età, strinse il legame affettivo con la giovane amante Claretta Petacci, conosciuta nel 1932.

Esaltato dalla conquista dell’Impero, mentre la moglie Rachele lo esortava a lasciare la politica da trionfatore e molti speravano in una liberalizzazione del regime, decise di intensificare il dominio totalitario per fascistizzare lo Stato e la società, e per accelerare la rivoluzione antropologica di rigenerazione della razza. Volle inoltre accrescere il suo potere estendendolo anche sulle Forze armate, con l’istituzione del grado di primo maresciallo dell’Impero (30 marzo 1938), conferito sia al duce sia al re.

Fu, questo, un altro colpo inferto al prestigio del re da Mussolini, che in privato vagheggiava la soppressione della monarchia. Intanto, continuò a demolire i pilastri del vecchio Stato monarchico: nel 1939 fu abolita la Camera dei deputati, sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni, che eliminava definitivamente ogni forma di partecipazione elettorale dei cittadini, mentre era quasi completata la fascistizzazione del Senato.

Nello stesso periodo il duce impegnò l’Italia in una nuova avventura militare, partecipando alla guerra civile spagnola a sostegno dei nazionalisti ribelli del generale Francisco Franco contro la Repubblica. Pur ristabilendo accordi con Francia e Gran Bretagna, dopo la conquista dell’Etiopia si avvicinò sempre più alla Germania nazista, a partire dall’intesa dell’ottobre 1936 (cosiddetto Asse Roma-Berlino), cui seguì nel settembre 1937 una visita ufficiale in Germania, dove ebbe accoglienze trionfali e poté constatare la crescente potenza militare tedesca. Nel dicembre 1937 decise l’uscita dell’Italia dalla Società delle Nazioni, e il 12 marzo 1938 accettò senza riserve l’annessione dell’Austria al Reich nazista. Nel maggio successivo, con la visita di Hitler in Italia, i rapporti fra i due regimi divennero più stretti. Due mesi dopo, Mussolini dava l’avvio alla legislazione razzista e antisemita, varata nel novembre 1938.

Il razzismo e l’antisemitismo erano i nuovi strumenti della rivoluzione antropologica che Mussolini voleva accelerare per creare l’italiano nuovo, insieme con la campagna antiborghese, con la riforma del costume (abolizione della stretta di mano e del ‘lei’, militarizzazione dei funzionari pubblici, potenziamento e irrigidimento del controllo del PNF) e con l’accentuazione degli aspetti populistici e anticapitalistici del corporativismo. 

Il coinvolgimento nella guerra civile spagnola, il rafforzamento dei rapporti con la Germania nazista, un nuovo conflitto con la Chiesa nel 1938 a proposito della ricostituzione dell’Azione cattolica, l’inasprimento dell’apparato repressivo del regime totalitario, l’inefficienza e la corruzione circolanti nelle organizzazioni del PNF, e soprattutto la paura di una nuova guerra europea che avrebbe coinvolto l’Italia, minarono il consenso della popolazione al regime, anche se il mito mussoliniano rimaneva ancora abbastanza saldo.

Nel settembre 1939, al suo ritorno dal convegno di Monaco, dove per sua iniziativa era stato scongiurato il pericolo di una guerra, il duce fu acclamato «salvatore della pace», ma l’entusiasmo pacifista degli italiani lo irritò profondamente. Nell’aprile 1939, approvò l’occupazione militare dell’Albania, voluta da Ciano, e la sua annessione all’Italia con il conferimento della corona albanese a Vittorio Emanuele III, e il 22 maggio decise la firma dell’alleanza militare con la Germania (‘Patto d’acciaio’). Tuttavia, quando Hitler invase la Polonia, il 1° settembre 1939, dando inizio alla seconda guerra mondiale, dichiarò la ‘non belligeranza’, consapevole dell’impreparazione militare italiana.

Nonostante le incertezze e le esitazioni del periodo precedente, il 10 giugno 1940 trascinò il paese in guerra, illudendosi su una rapida conclusione con la vittoria della Germania. 

Gli obiettivi di conquista che Mussolini si proponeva di conseguire furono illustrati in un memoriale al re nel marzo 1940: «L’Italia non sarà veramente indipendente sino a quando avrà a sbarre delle sua prigione mediterranea la Corsica, Biserta, Malta, e a muro della stessa prigione Gibilterra e Suez […]. L’Italia non può rimanere neutrale per tutta la durata della guerra, senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci» (Opera omnia, XXIX, p. 366).

Il fallimento della strategia di una ‘guerra parallela’, palesato già durante la campagna di Grecia nell’ottobre 1940, rese l’Italia definitivamente subordinata alla Germania nel corso successivo della guerra, fra l’alternarsi di disfatte e speranze di vittoria. Il 5 maggio 1941 le truppe britanniche riportarono a Addis Abeba l’imperatore d’Etiopia, ma a giugno, dopo l’aggressione della Germania all’URSS, Mussolini volle mandare un corpo di spedizione anche in Russia. Nel luglio 1942, attese invano in Libia che le truppe dell’Asse comandate dal generale tedesco Erwin Rommel lo portassero vittorioso ad Alessandria d’Egitto, ma l’avanzata italo-tedesca fu arrestata definitivamente dall’offensiva britannica ad El Alamein il 23 ottobre.

L’invasione della Sicilia da parte degli Alleati il 10 luglio 1943 segnò la fine del regime fascista, già in piena crisi per le disfatte militari e la perdita di consenso da parte della grande massa degli italiani, sopraffatti dalle restrizioni alimentari e dai continui bombardamenti alleati. Convinto di avere sempre ragione, negli sfoghi privati Mussolini copriva di insulti gli italiani, rigettando sulla loro debolezza di carattere il fallimento delle sue ambizioni di grandezza militare. Il regime fascista crollò all’indomani del 25 luglio 1943, quando il duce, sconfessato dalla maggioranza dei gerarchi del Gran Consiglio, fu destituito dal re, arrestato e trasportato prima a Ponza, poi alla Maddalena e infine sul Gran Sasso, dove il 12 settembre, quattro giorni dopo la resa dell’Italia agli Alleati, fu liberato dai tedeschi e condotto in Germania.

Pur considerandosi ormai politicamente defunto, pressato da Hitler, che minacciava spietate rappresaglie sull’Italia, accettò di rientrare in Italia e mettersi a capo di un nuovo Stato fascista, la Repubblica sociale italiana (RSI), nota come Repubblica di Salò, tentando di conservare una qualche autonomia all’Italia occupata dai tedeschi e continuare la guerra come loro alleati. Ma sul piano sia politico sia militare, la RSI fu subordinata al potente alleato, che agiva da padrone e governava direttamente ampie porzioni del territorio italiano del Nord-Est.

Per volontà di Hitler, uno dei primi atti del nuovo Stato fascista fu la condanna a morte dei gerarchi che la notte del 25 luglio avevano votato contro Mussolini, fra i quali Ciano, fucilato l’11 gennaio 1944. Nei 600 giorni di Salò, Mussolini cercò di esercitare il ruolo di capo e di arbitro nel coacervo di gruppi antagonisti che aderivano alla RSI, dai patrioti moderati come Giovanni Gentile agli spietati estremisti come Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano. Fece anche un ultimo tentativo propagandistico per rilanciare un fascismo anticapitalista, varando un progetto di socializzazione delle imprese. L’ultimo suo incontro con la folla, che parve per un momento rianimare il mito caduto, avvenne dopo un discorso a Milano il 16 dicembre 1944.

Incapace d’ogni autocritica, che non fosse una patetica commiserazione di sé come vittima di un destino avverso e non della sua sfrenata ambizione, continuò a imprecare contro gli italiani che non erano stati all’altezza deloro duce. Nelle lettere a Claretta Petacci, che aveva voluto seguirlo nella sua ultima avventura si definiva un «sognatore naufragato» e accusava gli italiani del fallimento suo: «Non è il fascismo che ha guastato gli italiani – le scriveva il 29 marzo 1944 – ma gli italiani che hanno guastato il fascismo» (A Clara …, 2011, p. 150).

La fine di Mussolini avvenne con la vittoria degli Alleati e delle forze di Resistenza, che portarono a termine la liberazione dell’Italia il 25 aprile 1945. Dopo aver tentato invano di trattare la resa con i rappresentanti della Resistenza, il 27 aprile fu catturato dai partigiani mentre era in fuga verso la Valtellina nascosto in un camion di tedeschi. Il giorno successivo fu fucilato insieme con l’amante a Giulino di Mezzegra.

Sugli ultimi giorni di Mussolini, sulla modalità della sua morte, su chi volle l’uccisione immediata, e su chi materialmente lo uccise, ci sono ipotesi e interpretazioni controverse. Il 29 aprile, il suo cadavere e quello della Petacci furono trasportati a Milano, in piazzale Loreto, e dopo essere stati brutalmente ingiuriati dalla folla furono esposti, insieme ai corpi di altri gerarchi, fra una massa di gente plaudente, impiccati per i piedi a un distributore di benzina.

Dopo varie vicissitudini, volte anche a impedire che diventassero oggetto di culto, i resti di Mussolini furono restituiti alla famiglia nel 1957 e tumulati nel cimitero di Predappio.

Opere: Scritti e discorsi di B. M. Edizione definitiva, 13 voll., Milano 1934-40; Opera omnia di B. M., a cura di E. e D. Susmel, 36 voll., Firenze 1951-63; Appendici, 8 voll., Roma 1978-80. Carteggi: Geheimer Briefwechsel M.-Dolfuss, a cura di K.H. Sailer, Wien s.d. [ma 1949]; Carteggio Arnaldo – B. M., a cura di D. Susmel, Firenze 1954; Carteggio D’Annunzio – M. (1919-1938), a cura di R. De Felice – E. Mariano, Milano 1971; Lettere di B. M. e Giuseppe Prezzolini, in M. e La Voce, a cura di E. Gentile, Firenze 1974, pp. 35-79; L. Rafanelli, Una donna e M.: la corrispondenza amorosa, a cura di P.C. Masini, Milano 1975; A Clara. Tutte le lettere a Clara Petacci 1943-1945, a cura di L. Montevecchi, Milano 2011.

Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Archivi fascisti; Archivio storico del ministero degli Affari esteri, Carte GrandiHitler e M. Lettere e documenti, a cura di V. Zincone, Milano 1946; Documenti diplomatici italiani, Serie VII-X, Roma 1952-2000. Per le opere su Mussolini pubblicate fino al 1984 si rinvia alla sezione «Mussolini» nella Bibliografia orientativa del fascismo, a cura di R. De Felice, Roma 1991. Si vedano poi: G.A. Fanelli, Perché disobbedimmo a M. Appunti di uno squadrista, Roma 1984; D. Grandi, Il mio paese. Ricordi autobiografici, a cura di R. De Felice, Bologna 1985; F. Perfetti, La ‘conversione’ all’interventismo di M. nel suo carteggio con Sergio Panunzio, in Storia contemporanea, 1986, n. 2, pp. 9-67; F. Guarneri, Battaglie economiche fra le due guerre, a cura di L. Zani, Bologna 1988; E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Bari 1989; F. Andriola, Appuntamento sul lago: l’ultimo piano di B. M., Milano 1990; Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna 1990; S.  Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime1929-1943, Roma-Bari 1991; L. Passerini, M. immaginario. Storia di una biografia, 1915-1939, Roma-Bari 1991; E. Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari 1993; Ph.V. Cannistraro – B.R. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’altra donna del Duce, Milano 1993; A. Soffici, I miei rapporti con M., a cura di G. Parlato, in Storia contemporanea, 1994, n. 10, pp. 731-858; R. De Felice, Rosso & Nero, a cura di P. Chessa, Milano 1995; G. Pisanò, Gli ultimi cinque secondi di M., Milano 1996; M. Canali, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo M., Bologna 1997; R. De Felice, M. l’alleato, II, La guerra civile. 1943-1945, Torino 1997; R. Lamb, M. e gli inglesi, Milano 1998; A. Lepre, M., Roma-Bari 1998; S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino 1998; L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Milano 1999; A.M. Imbriani, Gli italiani e il Duce. Il mito e l’immagine di M. negli ultimi anni del fascismo, Napoli 1999; P.C. Masini, M. La maschera del dittatore, Pisa 1999; E. Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, in collaborazione con N. Labanca e T. Sala, Firenze 2000; P. Milza, M., Roma 2000; E. Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze 2000; P. Milza, M., Roma 2000; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000; S. Luzzatto, L’immagine del duce. M. nelle fotografie dell’Istituto Luce, Roma 2001; L. Garibaldi, La pista inglese. Chi uccise M. e la Petacci, Milano 2003; S. Bigazzi, L’orchestra del duce. M., la musica e il mito del capo, Torino 2003; M. Franzinelli – M. Sanfilippo, Il Duce proibito. Le fotografie di M. che gli italiani non hanno mai visto, Milano 2003; E. Gentile, M.: i volti di un mito, in Id. Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari 2003, pp. 113-146; R. Mallet, M. and the origins of Second world war, 1933-1940, New York 2003; D. Musiedlak, Lo Stato fascista e la sua classe politica1922-1943, Bologna 2003; R. Moseley, M. I giorni di Salò, Torino 2006; G. Fabre, M. razzista, Milano 2005; P. O’Brien, M. in the First world war: the journalist, the soldier, the fascist, Oxford 2005; G.S. Rossi, M. e il diplomatico. La vita e i diari di Serafino Mazzolini, un monarchico a Salò, Soveria Mannelli 2005; E. Gentile, Fascismo di pietra, Roma-Bari 2007; Id., La via italiana al totalitarismo. Partito e Stato nel regime fascista, Roma 2008; P. Nicoloso, M. architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino 2008; M. Fioravanzo, M. e Hitler. La repubblica sociale sotto il Terzo Reich, Roma 2009; D. Musiedlak, Il mito di M., Firenze 2009; P. Colombo, La monarchia fascista 1922-1940, Bologna 2010; E. Gentile, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismi nell’era dei fascismi, Milano 2010; Id., Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Bologna 2011; P. Milza, Gli ultimi giorni di M., Milano 2011.

Fonte: Dizionario Treccani, biografie

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Il testo poetico

Comprendere un testo poetico significa innanzitutto prendere atto della sua natura polisemica, per cui in ogni poesia sarà sempre riscontrabile un significa- to di base oggettivamente valido; al di là di esso, tuttavia, ogni lettore potrà scovarvi tanti altri significati, diversi a seconda della propria cultura, dei propri sentimenti, del proprio modo di pensare.

Le ragioni di tale polisemia risiedono nel carattere specifico del linguaggio poe- tico: un linguaggio assolutamente “fuori della norma”. Pertanto, risulta estre- mamente facile distinguere un testo poetico da un altro che non lo è: non è il contenuto a fare la differenza, ma la forma in base alla quale esso viene pla- smato. Partendo dalla lingua comune, il poeta sfrutta le parole sia sul piano del significato sia su quello del significante e, attraverso una serie di elementi tec- nici e stilistici, dà corpo a una dimensione espressiva iconsueta e immediata- mente distinguibile da ogni altra.

Per cogliere integralmente il valore di una poesia, dunque, il lettore dovrà analiz- zare il suo linguaggio poetico, prendendone in esame gli aspetti più importanti.

1. I campi semantici e le parole-chiave

Le parole che compongono una lingua non vivono “scucite”, anzi si richiamano l’una all’altra: o perché hanno in comune il significato (i sinonimi), o perché hanno in comune la forma, ma non il significato (gli omonimi), o perché sono in opposizione (i contrari), o per associazione di idee ecc.

Tale rete di relazione fra le parole crea un campo semantico, in cui ogni parola può introdurre altre relazioni e, quindi, un altro campo.
La parola attorno a cui ruota un campo semantico si chiama parola-chiave. Nei testi poetici la parola-chiave è quella che racchiude l’argomento stesso della poe- sia: individuare la parola-chiave significa, perciò, capire il significato della poesia.

2. Il verso

Il carattere distintivo di ogni testo poetico è costituito dal fatto, immediata- mente visibile, di essere composto in versi.
I versi non sono tutti uguali: possono essere lunghi come nelle poesie-racconto di Cesare Pavese oppure brevi come nelle liriche dell’Allegria di Giuseppe Ungaretti.

Il verso, inoltre, non marca solo una diversità di tipo visivo rispetto ai testi in prosa, ma costituisce anche l’unità di base del ritmo di una poesia. Esso è costituito dalla successione armonica e alternata di sillabe toniche e sillabe atone. Le sillabe delle parole di un verso, infatti, non vengono pronunciate tutte con la stessa intensità: alcune sono pronunciate con più forza e assumono un partico- lare rilievo. Bisogna fare attenzione, d’altro canto, a non confondere l’accento tonico della parola con l’accento ritmico del verso. L’accento tonico interessa la sillaba singola su cui la voce, nel pronunciarla, batte con maggior forza; l’accento ritmico (o ictus) si ricava, invece, dalla combinazione di più parole. Ne consegue che sillabe fornite di accento grammaticale non hanno l’accento rit- mico e sono considerate, da un punto di vista metrico, atone.

In base all’accento dell’ultima parola, i versi si dicono:

  • piani, se terminano con una parola piana cioè accentata sulla penultima sillaba (ad esempio: sospìro);
  • sdruccioli, se terminano con una parola sdrucciola cioè accentata sulla ter-zultima sillaba (ad esempio: piràmidi);
  • tronchi, se terminano con una parola tronca cioè accentata sull’ultima silla-ba (ad esempio: starà).
    Per contare il numero delle sillabe che costituiscono un verso vanno presi inconsiderazione i gruppi vocalici, tenendo presente che:
  • il dittongo è costituito da due vocali, una forte (a – e – o) e una debole (i – u) non accentate (e viceversa) oppure da due deboli, la prima delle quali non accentata; il dittongo si pronuncia con un’unica emissione di voce e vale una sola sillaba (ia, ie, io; ai, ei, oi; ua, ue, uo; au, eu, ou; iu, ui);
  • il trittongo è formato da tre vocali, una sola delle quali è una vocale forte, e vale anch’esso una sillaba;
  • lo iato è l’insieme di due vocali forti o di una vocale debole accentata e una forte (e viceversa) oppure di due vocali deboli di cui la prima accentata (ea, ae, eo, ao, oe, oa, ìu, ùi, e le stesse dei dittonghi con la debole accentata).Contare esattamente le sillabe non è tuttavia sufficiente a individuare in maniera corretta la tipologia del verso; per farlo bisogna prendere in considerazione anche le figure metriche o poetiche:• la sinalefe si verifica quando la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola seguente si fondono in una sola sillaba;
  • la dialefe, contrariamente alla sinalefe, avviene quando la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola seguente non si fondono, ma forma- no sillabe a sé;
  • la dieresi si ha quando due vocali, che dovrebbero costituire dittongo, rap- presentano due sillabe diverse (si segnala con due punti posti sulla vocale debole del dittongo);
  • la sineresi, al contrario della dieresi, è il fenomeno per cui due vocali all’in- terno di una parola non costituiscono iato e valgono una sillaba;
  • la tmesi si verifica quando una parola viene tagliata a metà solitamente tra la fine di un verso e l’inizio di quello successivo.In base al numero delle sillabe, i versi italiani possono essere ricondotti a due grandi categorie: i versi parisillabi (bisillaboquaternariosenarioottonariodecasillabo), dove l’ultimo accento ritmico cade su posizione dispari, e i versi imparisillabi (quinariosettenarionovenarioendecasillabo), dove l’ultimo ac- cento ritmico cade su posizione pari.A queste tipologie di base sono inoltre da aggiungere i cosiddetti versi doppi, formati da due versi fondamentali uniti in uno solo (doppio quinariodoppio senario dodecasillabodoppio settenariodoppio ottonario).
    versi sciolti sono versi legati ad altri presenti nella strofa soltanto dalla lun- ghezza predeterminata (senarisettenariendecasillabi ecc.), ma sciolti da qual- siasi legame di rima.I poeti del Novecento prediligono invece il verso libero, non organizzato in un numero fisso di sillabe né tanto meno vincolato a particolari schemi di rime, e quindi non riconducibile a una tipologia precisa.

  • Il ritmo, altro elemento fondamentale del testo poetico, non è prodotto a caso, ma è il risultato di scelte precise. Esso è determinato in primo luogo dalle cesure, cioè dalle pause che in punti precisi interrompono i versi.
    La pausa più evidente è detta pausa ritmica primaria e coincide con la fine di ogni verso; pausa più debole di quella primaria, ma non per questo meno im- portante ai fini del ritmo, è quella che divide il verso in due parti, dette emisti- chi. Questo tipo di cesura interessa solo i versi più lunghi (dall’ottonario in su) e coincide di solito con la fine di una parola.

Quando la pausa ritmica di fine verso non corrisponde a una pausa logica l’enjambement si verifica: in questo caso la frase non termina alla fine del verso, ma continua al verso successivo. L’enjambement riduce al minimo la pausa ritmica primaria: unendo insieme due versi consecutivi, crea un’intensa fluidità ritmica e pone in forte rilievo i termini che coinvolge.

Gli aspetti ritmici di un testo poetico sono rafforzati e amplificati dalla rima, identità di suono di due o più parole a partire dall’ultima sillaba accentata. A seconda delle parole coinvolte, la rima si dice perfetta quando interessa parole identiche a partire dall’accento tonico (amòre / dolòre), imperfetta quando le desinenze non sono identiche (cupo muto), equivoca se riguarda parole che hanno lo stesso suono – sono cioè omofone – ma diverso significato (sole sole).

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La poesia nel ‘900

Negli anni presi in esame la produzione lirica appare fortemente influenzata dal Decadentismo. A cavallo tra i due secoli è la poesia di Gabriele D’Annunzio, con i suoi toni altisonanti e declamatori, a costituire un imprescindibile punto di riferimento, ma il Novecento si apre all’insegna della radicale rottura con la linea dannunziana, espressa da Crepuscolarismo e Futurismo, sebbene entrambe le tendenze siano ancora collocabili nel solco della sensibilità decadente.

Il Futurismo Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista (1910) Filippo Tommaso Marinetti suggerisce di rompere ogni lega- me con le forme poetiche tradizionali, inaugurando la formula delle «parole in libertà», disposte nel cosiddetto «verso libero» senza vincoli di sorta, «senza alcun ordine convenzionale, senza fili sintattici e senza le soste forzate della punteggiatura». I futuristi mostrano una particolare predilezione per l’analo- gia, che consente di associare immagini apparentemente estranee e lontane creando suggestive corrispondenze; ricorrono, infine, a una vera e propria “rivoluzione tipografica”: attraverso l’utilizzo di diffe- renti caratteri intendono evidenziare alcune parole rispetto ad altre o dispongono le parole stesse in modo da riprodurre visivamente le immagini descritte. Vero e proprio maestro di tali espedienti è Guil- laume Apollinaire, autore della nota raccolta Calligrammi (Calligrammes, 1918). Tra i poeti futuristi ricordiamo Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), autore della raccolta Zang Tumb Tumb (1914), definita «poema parolibero»; Aldo Palazzeschi (1885-1974), pseudonimo di Aldo Giurlani, che pubblica la famosa raccolta di poesie dal titolo L’incendiario (1910) per poi distaccarsi decisamente dal Futurismo; Corrado Govoni (1884-1965), la cui adesione alla poetica futurista è evidente in raccolte come Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915) e Rarefazioni e parole in libertà (1915).

Il Crepuscolarismo La definizione di quella che nella poesia italiana del primo Novecento costituisce una tendenza più che una vera e propria scuola o teoria viene coniata da Giuseppe Antonio Borgese in un famoso articolo pubblicato nel 1910 sulla rivista «La Stampa», in cui il noto critico recensiva le liriche di alcuni giovani poeti, tra cui Marino Moretti. I crepuscolari elaborano una poesia dal tono particolarmente dimesso e nostalgico, che prende le mos- se dalle piccole cose, dai sentimenti che nascono nel quotidiano, da un costante rimpianto per il tempo andato e dallo struggimento, venato di sottile ironia, che scaturisce dall’impossibilità di poterlo rivivere. Il linguaggio riflette il carattere essenzialmente languido e malinconico della poesia crepuscolare, per cui, anche nel generale ricorso al verso libero, il dettato poetico assume spesso un andamento prosastico e collo- quiale (emblematico il frequente ricorso agli enjambement), risultando talvolta piatto e ripetitivo. Poeti crepuscolari sono Gozzano, Moretti e Corazzini.

Partendo da un’iniziale adesione al modello dannunziano (La via del rifugio, 1907), Guido Gozzano (1883-1916), il maggiore e più for- tunato rappresentante del Crepuscolarismo, con le liriche della raccolta Colloqui (1911), in cui ricostruisce la sua esperienza autobiografica, riesce ad approdare, mediante l’azione corrosiva dell’ironia, a risultati decisamente originali. Particolarmente nota è la poesia L’amica di nonna Speranza, che proietta l’autore nella dimensione dei ricordi, in un ambiente piccolo-borghese ormai lontano, dove le «buone cose di pessimo gusto» ispirano attrazione e al contempo ripulsa.

Come si evince dalle raccolte Poesie scritte col lapis (1910) e Poe- sie di tutti i giorni (1911), la produzione lirica di Marino Moretti (1885-1979), sempre pervasa da una sottile ma pregnante ironia, si incentra sul ricordo del passato e sulla descrizione della vita quoti- diana, spesso caratterizzata da ansia e insoddisfazione. Lo stile si presenta fortemente prosastico, teso quasi a “mimetizzare” i modi del parlato e ad annullare la forma poetica.

Morto giovanissimo di tubercolosi, Sergio Corazzini (1886-1907) è autore della raccolta Piccolo libro inutile (1906), contenente Desolazione del povero poeta sentimentale, poesia-simbolo del Crepuscolarismo ed emblematico esempio di anti-dannunzianesimo. Ne pro- poniamo qui di seguito i versi (1-5) più noti.

Perché tu mi dici poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta?

Altre esperienze Del tutto personali e quindi non riconducibili a nessun movimento in particolare sono i risultati della ricerca poetica di autori come Campana, Rebora e Sbarbaro.

Dino Campana (1885-1932), personaggio dalle tormentate vi- cende esistenziali, dovute a una cronica instabilità mentale, pubblica nel 1914 i Canti orfici, in cui perviene a un lirismo assolutamente nuovo, tutto proteso a voler riacquistare certe antiche valenze magi- co-incantatorie. Qui di seguito proponiamo alcuni versi (1-9 e 21-26) della lirica La Chimera.

Non so se tra rocce il tuo pallido viso m’apparve, o sorriso
di lontananze ignote
fosti, la china eburnea

fronte fulgente e giovine
suora de la Gioconda:
o delle primavere
spente, per i tuoi mitici pallori
o Regina o Regina adolescente […]

Non so se la fiamma pallida fu dei capelli il vivente

segno del suo pallore,
non so se fu un dolce vapore, dolce sul mio dolore,
sorriso di un volto notturno.

Clemente Rebora (1885-1957), autore di raccolte come Frammenti lirici (1913) e Canti anonimi (1922), ricorrendo a un linguaggio dalle tinte fortemente espressionistiche, intende manifestare quell’ansia di ricerca della verità che connota anche la sua intensa esperienza autobiografica.

Camillo Sbarbaro (1888-1967), in Pianissimo (1914) e nelle prose poetiche Trucioli (1920), propone una poesia dal tono dimesso, fatto di un linguaggio scarno e disadorno, limitato all’essenziale, il tutto a sostenere una concezione fondamentalmente pessimistica della vita e un’intima sofferenza esistenziale che, riflesse talvolta nell’aspro paesaggio ligure, anticipano la poesia di Eugenio Montale.

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Il testo narrativo

Ogni testo narrativo presenta una struttura-tipo, articolata sostanzialmente in cinque momenti:

– situazione iniziale;
– complicazione e rottura dell’equilibrio iniziale;
– evoluzione della vicenda attraverso un suo miglioramento o peggioramento; – conclusione della vicenda e ricomposizione dell’equilibrio;
– situazione finale.

Ogni vicenda, infatti, deve necessariamente partire da una situazione iniziale, il cui equilibrio si rompe a causa di un evento che spinge i personaggi a entrare in azione. Attraverso la naturale evoluzione della vicenda, che si può svolgere nei modi più diversi e articolati, si giungerà a un’inevitabile ricomposizione dell’e- quilibrio, migliore o peggiore di quello iniziale, ma da quest’ultimo sicuramente differente. Tale equilibrio costituirà la situazione finale e cioè la conclusione della storia.

1. La successione degli eventi

• Fabula e intreccioEsistono due modi fondamentali per narrare una storia: in base all’ordine naturale degli eventi, cioè riferendo gli eventi secondo l’or- dine in cui si sono verificati nella realtà, oppure in base a un ordine artificia- le, che ne modifica la successione reale, presentando prima gli eventi che cronologicamente o logicamente verrebbero dopo. Si distinguono pertanto due diversi piani narrativi: la fabula (o storia), che rispetta l’ordine naturale degli eventi, e l’intreccio (o narrazione), che invece li dispone secondo la scelta arbitraria dell’autore.

  • I nuclei narrativiIn ogni testo narrativo troviamo una serie di informazio- ni: alcune sono indispensabili per capire lo svolgimento della storia, altre in- vece aggiungono particolari meno importanti, e tuttavia utili a comprendere meglio determinate situazioni. Le prime costituiscono gli eventi essenziali, le seconde gli eventi accessori. Ogni evento essenziale, in concorso ai relativi eventi accessori, forma un nucleo narrativo, cioè una porzione di testo più o meno completa, che sviluppa una parte ben precisa del racconto.
  • Le sequenzeUn altro sistema di scomposizione del testo narrativo è attua- bile mediante l’individuazione di sequenze, che sono dei segmenti di testo, inferiori rispetto ai nuclei narrativi per estensione e complessità, forniti di senso logico compiuto. Le sequenze cambiano quando entra in scena un nuovo personaggio o c’è una variazione di tempo e di luogo.2. Tempo e spazioNell’economia (ordine che regola la disposizione delle varie parti) di un testo narrativo grande importanza assume la dimensione temporale: gli eventi nar- rati si collocheranno naturalmente in una determinata epoca storica (il tempo della storia) e la narrazione stessa si snoderà in un certo arco di tempo (la du- rata della storia). È chiaro che la durata narrativa degli eventi narrati (corri- spondente grosso modo al tempo necessario per la lettura del testo) non coin- cide quasi mai con la loro durata reale, cioè quella che essi avrebbero se acca- dessero realmente (fatta eccezione per le sequenze dialogate scene nelle qua- li durata narrativa e durata reale coincidono).Il narratore, la voce che racconta gli avvenimenti (→ Tecniche di lettura, pag. 109), per ovvie ragioni narrative, contrae o altera il tempo reale e per farlo si avvale di un ampio numero di espedienti tecnici, riconducibili a quattro tipolo- gie fondamentali:
  • il sommario: periodi più o meno lunghi vengono sintetizzati in poche righe;
  • l’ellissi: interi periodi di tempo, anche molto lunghi, vengono del tutto igno- rati (in tal caso, si potranno trovare espressioni come «l’anno successivo…», «dieci anni dopo…», «terminato l’esilio…» ecc.);
  • l’analisi: periodi di tempo perlopiù molto brevi vengono dilatati, abbraccian- do un tempo narrativo più ampio di quello reale;
  • la digressione: la narrazione s’interrompe per dare modo al narratore di sof- fermarsi sulla descrizione dei personaggi, dei luoghi o del contesto storico della vicenda.

Il narratore, inoltre, potrà interrompere il racconto dei fatti per narrare qualcosa che è accaduto prima (analessi flash-back) oppure per anticipare quanto av- verrà in seguito (prolessi).

La scelta dei luoghi in cui inserire le idee e le azioni dei personaggi di un testo narrativo non è casuale; essa piuttosto è il frutto di una precisa scelta funzionaleall’economia generale della narrazione: un luogo ha una funzione narrativa quan- do non funge da semplice sfondo alla vicenda ma interagisce con essa oppure una funzione simbolica se viene utilizzato per esprimere un’idea o un concetto in rela- zione alla situazione narrativa e ai personaggi. Gli stessi luoghi intervengono spes- so in funzione della caratterizzazione psicologica di questi ultimi, riflettendone un modo d’essere o rappresentandone una particolare situazione emotiva.

3. I personaggi: ruolo, funzione e caratteristiche

Ogni testo narrativo presenta generalmente un vero e proprio sistema di perso- naggi, all’interno del quale ognuno di essi ricopre un determinato ruolo, più o meno importante. A seconda del ruolo, i personaggi di un testo narrativo si di- stinguono in:

  • personaggi principali, che svolgono un ruolo centrale nella vicenda e sui quali si concentra maggiormente l’attenzione;
  • personaggi secondari, che hanno un ruolo di secondo piano e quindi una rilevanza minore rispetto ai personaggi principali, ma talvolta possono inci- dere sensibilmente sulla situazione o sul comportamento di questi ultimi;
  • comparse, che servono solo a definire un ambiente o una situazione e non incidono minimamente sullo sviluppo della vicenda narrata.Oltre ad avere un ruolo, i personaggi ricoprono, nell’ambito della vicenda narra- ta, anche una specifica funzione, in base alla quale si possono riconoscere:
  • il protagonista (o eroe soggetto): il personaggio principale, che si pone al centro della narrazione anche quando non compare direttamente in scena. Gli eventi che lo riguardano prendono avvio dalla rottura dell’equilibrio ini- ziale in cui vive, a causa di un mutamento esterno oppure di un suo bisogno o desiderio;
  • l’antagonista: il personaggio che contrasta il protagonista e gli si oppone concretamente o sul piano psicologico. Spesso è l’artefice della rottura dell’equilibrio iniziale, ma può comparire anche a vicenda iniziata: in ogni caso, è sempre il motore dello sviluppo dell’azione;
  • l’oggetto: il personaggio che incarna, talvolta inconsapevolmente, lo sco- po dell’impegno o del desiderio del protagonista, contrastato in ciò dal- l’antagonista;
  • l’aiutante: il personaggio che assiste, aiuta e protegge il protagonista, soste- nendolo nella realizzazione delle sue imprese;
  • l’oppositore: il personaggio che di solito è l’aiutante dell’antagonista e vi si unisce nel tentativo di ostacolare il protagonista. L’oppositore, tuttavia, può agire di sua iniziativa e addirittura schierarsi dalla parte di quest’ultimo;
  • il destinatore: il personaggio che propone al protagonista lo scopo da con- seguire (si pensi, nelle fiabe, al re che spinge l’eroe a compiere un’impresa in cambio di un premio);
  • il destinatario: è il personaggio in cui si materializza l’oggetto del conten- dere tra protagonista e antagonista (nella stessa fiaba potrebbe essere la principessa che il re concede in moglie all’eroe, se questi avrà realizzato la propria impresa).Un ultimo modo di classificare i personaggi è quello di distinguerli tra perso- naggi statici e dinamici.
  • personaggi statici sono quelli che nel corso della storia non subiscono mutamenti di alcun tipo, né fisici, né psicologici, né di condizione sociale.
  • personaggi dinamici sono quelli che si modificano o dal punto di vista fi- sico o dal punto di vista psicologico o ancora passano da uno stato sociale a un altro.

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I generi letterari e gli autori “minori”

La prosa

Le riviste

Le riviste si affermano generalmente come espressione di un particolare programma culturale o schieramento politico-ideologico.

«Il Marzocco» (1896-1932). Fondata a Firenze da Angelo Orvieto, ha come suo principale animatore Gabriele D’Annunzio. Partendo dal rifiuto del Positivismo e della cultura accademi- ca in generale, la rivista si ispira al vitalismo e all’individualismo di stampo decadente, e appoggia, a partire dal 1911, la politica nazionalista e imperialista.

«Il Regno» (1903-1906). Dal carattere fortemente antidemocratico e antisocialista, questa testata viene fondata da Enrico Corradini, scrittore fortemente nazionalista.

«Il Leonardo» (1903-1907). Papini e Prezzolini avviano la rivista poco più che ventenni. Di spirito antigiolittiano e nazionalista, ha interessi prevalentemente filosofici e contribuisce, in particolare, a diffondere il pensiero di Nietzsche, Bergson e James.

«Hermes» (1904-1906). Promossa da un giovanissimo Giuseppe Antonio Borgese, si mostra sensibile al pensiero estetizzante di D’Annunzio e all’imperante nazionalismo del tempo, ma si interessa preminentemente all’arte e alla letteratura (divulga l’estetica crociana).

«La Critica» (1903-1944). Direttamente impegnata nella diffusione dell’idealismo crociano, è la testata cui dà vita a Bari lo stesso Benedetto Croce. Lo studioso abruzzese è un insigne esponente europeo della rinascita dell’Idealismo; tra i suoi scritti più noti i Problemi di estetica (1910), l’Estetica in nuce (1929) e la Poesia (1936), opera quest’ultima in cui riconosce come «poesia» unicamente l’«espressione del sentimento», definendo «non poesia» o «struttura» tutto quanto contenga implicazioni di altra natura.

Croce ricopre un posto di enorme rilievo nella storia della critica letteraria novecentesca.

«La Voce» (1908-1916). È senza dubbio la rivista più importante del primo Novecento. Nasce a Firenze per iniziativa di Papini e Prezzolini. Convinzione di base dei principali collaboratori (tra cui spiccano i nomi di Salvemini, Slataper, Amendola, Croce, Gentile, Einaudi) è che l’azione culturale debba avere la priorità su quella politica, offrendole precise direttive e contribuendo a promuovere la formazione di una nuova classe dirigente. «La Voce» vive quattro fasi che vedono avvicendarsi alla direzione Prezzolini, Papini, ancora Prezzolini e Giuseppe De Robertis, che dirigerà «La Voce bianca», di taglio più spiccatamente letterario.

«Lacerba» (1913-1915). Venuti in contrasto con «La Voce», Papini e Ardengo Soffici fondano insieme questa nuova testata, che si propone quale strumento di sostegno e di diffusione del Futurismo.

«L’Unità» (1911-1920). Fondata da Salvemini in seguito alla rottura con «La Voce», è l’unica rivista antinazionalista, interessata in particolare alla questione meridionale.

Il romanzo

Il Decadentismo segna con differente intensità numerosi romanzieri, ma la narrativa di inizio secolo assimila e riconverte velocemente le suggestioni decadenti in nuove forme di scrittura. Il genere romanzesco, dopo un’iniziale coesistenza di vecchio e nuovo (tante opere inseriscono in un impianto ancora naturalistico situazioni e personaggi ormai “novecenteschi”), rompe definitivamente con gli schemi della tradizione. Il romanzo del Novecento tende a essere soggettivo: non rappresenta più la realtà, ma descrive il mondo interiore dei personaggi. È la grande narrativa di Pirandello e Svevo.

Senz’altro condizionati dalla poetica decadente, ma meritevoli di essere approdati a risultati decisamente originali sono Grazia Deledda e Federigo Tozzi.

Assegnataria del premio Nobel nel 1926, Grazia Deledda (1871- 1936) muove da canoni veristici per approdare a una piena adesione al Decadentismo. Così nei suoi romanzi più noti, tra cui La via del male (1896), Elias Portolu (1903), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), Cosima (1937), dove l’attenzione minuziosa ai processi psicologici dei personaggi e la visione epica e drammatica ma anche intuitiva e lirica della vita si innestano sullo sfondo di una Sardegna selvaggia e magica.

Senese di nascita e autodidatta di formazione, Federigo Tozzi (1883-1920), pressoché ignorato dai contemporanei, è stato note- volmente rivalutato dalla critica più recente e addirittura affianca- to, per gli evidenti meriti della sua produzione, a Pirandello e Sve- vo. Nei romanzi Con gli occhi chiusi (1919), Tre croci (1920), Il podere (1921) lo scrittore dà corpo, attraverso i suoi tormentati personaggi, alla “malattia” del secolo: l’inettitudine, l’assoluta inca- pacità dell’uomo di relazionarsi in maniera costruttiva agli altri, l’irrimediabile incomunicabilità tra il suo mondo interiore e la real- tà esterna; il tutto sullo sfondo del doloroso contrasto tra una fetta d’Italia ancora legata alle tradizioni e il mondo accelerato e ag- gressivo della modernità. Il passo che proponiamo, tratto dal capi- tolo X di Tre croci, descrive efficacemente la condizione di inetti- tudine del protagonista.

[…] istantaneamente Giulio si sentì invadere come da un delirio senza scampo. Chi lo avrebbe trattenuto perché non andasse in mez- zo alla cognata e alle nipoti gridando? Come avrebbe potuto fare a non buttarsi a capofitto contro il muro? Chi lo poteva tenere, nella strada, che non corresse per tutta Siena? Bisognava, dunque, che egli si preparasse a commettere chi sa quale stravaganza, che avrebbe fatto effetto a tutti. “Ecco – egli pensava – come un uomo può cam- biarsi! È lo stesso di una malattia, che viene quando non ci si pensa né meno!”. Ma egli restava a sedere; e nessuno, vedendolo, avrebbe potuto sospettare di niente.

Nel frattempo, a partire dal primo decennio del Novecento, si diffonde il gusto per la scrittura diaristica e l’autobiografismo lirico,

caratterizzati da uno stile decisamente espressionista. Protagonisti principali sono “vociani” come Jahier, Serra, Boine e Slataper.

Tra le opere di Piero Jahier (1884-1966) ricordiamo le Risultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi (1915), Ragazzo (1919), Con me e con gli alpini (1919); il testo più rappresentativo di Renato Serra (1884-1915), invece, è l’Esame di coscienza di un lette- rato (1915), composto prima di partire per il fronte, da dove lo scrit- tore non farà più ritorno; Giovanni Boine (1887-1917) scrive Il pec- cato (1914); Scipio Slataper (1888-1915), infine, è autore del roman- zo autobiografico Il mio carso (1912).

“Epigoni” dell’esperienza vociana possono considerarsi Sibilla Ale- ramo e Giuseppe Antonio Borgese. Sibilla Aleramo (1876-1960), pseudonimo di Rina Faccio, si distingue in particolare per la lotta a fa- vore della causa femminista, rinvenibile sin dal primo dei suoi scritti, Una donna (1906), romanzo autobiografico; nelle righe che seguono, tratte dal capitolo XII, l’autrice denuncia con grande lucidità l’ipocrisia esistente alla base dei rapporti umani e riflette acutamente sul ruolo attribuito in genere alla figura materna.

Chi osava ammettere una verità e conformarvi la vita? Povera vi- ta, meschina e buia, alla cui conservazione tutti tenevan tanto! Tutti si accontentavano: mio marito, il dottore, mio padre, i socialisti come i preti, le vergini come le meretrici, ognuno portava la sua menzo- gna, rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o dannose: quelle collettive troppo deboli ancora, ridicole, quasi, di fronte alla paurosa grandezza del mostro da atterrare! E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male so- ciale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio, deve essere una donna, una persona umana.

Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), scrittore, saggista e critico militante, è autore del romanzo Rubè (1921), il cui omonimo protagonista, un intellettuale piccolo-borghese siciliano, incarna, dietro i riferimenti scopertamente autobiografici, il destino dell’uomo contemporaneo, privo di certezze e continuamente minato nella sua integrità psicologica. Filippo Rubè, infatti, appare vittima della sua stessa cronica incapacità di affrontare la vita: dopo una lunga serie di fallimenti si ritrova per caso nel mezzo di uno scontro tra fascisti e socialisti, e rimane ucciso.

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