Poetica di Ungaretti

L’allegria di naufragi è la raccolta di poesie più conosciuta e nota di Giuseppe Ungaretti e viene pubblicata a Firenze, dall’editore Vallecchi, nel 1919. In essa, il poeta sviluppa il nucleo originario dei testi pubblicati ne Il porto sepolto nel 1916, in una rarissima edizione di sole ottanta copie, fatta stampare durante un congedo dal fronte. Una terza edizione del testo, con modifiche e varianti nei testi, è del 1923 quando l’autore recupera il titolo de Il porto sepolto.

Ulteriori modifiche ci sono nell’edizione del 1931, il cui titolo è solo L’Allegria: da questo momento Ungaretti non smette mai di rimaneggiare e modificare il volume, editandolo nuovamente nel 1931 (con il titolo L’Allegria), nel 1936 e nel 1942 (all’interno della raccolta Vita d’un uomo), fino ad arrivare alla versione del 1969, anno precedente a quello della morte del poeta.

Le tematiche: la guerra e il vitalismo

A causa della sua ampiezza, delle modifiche e delle aggiunte subite negli anni; L’allegria è un’opera abbastanza varia a livello tematico.

Riunisce al suo interno versi legati all’esperienza diretta della Prima Guerra Mondiale a poesie che ricordano alcuni momenti della vita privata dell’autore. Il titolo dell’opera esprime la gioia che l’animo umano prova nell’attimo in cui si rende conto di aver scongiurato la morte, drammaticamente contrapposto al dolore per essere uno dei pochi sopravvissuti al “naufragio”: questo sentimento si esprime con particolare intensità durante il periodo al fronte, ma attraversa tutta la raccolta e si concretizza nell’ossimoro del titolo. Lo spiega Ungaretti stesso nella Nota introduttiva alla Allegria di naufragi del 1919, spiegando d’aver voluto esprimere:

[…] quell’esultanza d’un attimo, quell’allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare.

In tal senso, una delle caratteristiche della poesia ungarettiana è quella del vitalismo, dell’ansia di vita che si manifesta anche e soprattutto nelle condizioni più difficili ed estreme, quali una notte in trincea accanto al cadavere di un compagno (come in Veglia), la percezione della precarietà della vita (si veda la celebre Fratelli) o il dolore indicibile per i lutti della guerra (San Martino del Carso). Altrove, la tensione vitalistica emerge nella riflessione su di sé e sul senso della propria esistenza (come ne I fiumi), nella malinconia dei pochi istanti di pace (come in Stasera) o nella riflessione sulla morte (Sono una creatura).

L’Allegria obbedisce così ad un proposito di poetica molto importante per Ungaretti: la ricerca, anche attraverso il dolore, del nucleo originario e assoluto dell’identità umana, attraverso cui riscoprire e ricostruire una fratellanza al di là della sofferenza. Metafora di questa ricerca si fa il “porto sepolto”, ovvero un fantomatico porto antico della città di Alessandria che per Ungaretti rappresenta “ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile”.

La poetica della “parola nuda” e la rottura delle convenzioni poetiche

L’elemento comune a tutti i componimenti è soprattutto quello autobiografico: Ungaretti stesso definiva L’allegria un diario. Prova ne è la scansione in capitoli dell’opera (rispettivamente: UltimeIl porto sepoltoNaufragiGirovagoPrime), come a narrare un romanzo in versi dell’autore dalle prime prove poetiche fino all’esperienza della guerra, che caratterizza contenuti e stile della prima stagione ungarettiana, contrapposta alle scelte più misurate e “classiche” del Sentimento del tempo.

Protagonista principale e indiscussa è sempre la parola, considerata dal poeta un veicolo fondamentale nella riscoperta dell’io. Per riconoscerle autonomia e libertà, Ungaretti sceglie di comporre sempre liriche molto brevi e “scarne”, inframmezzate da pause che tendono a focalizzare l’attenzione sul singolo vocabolo, per sottolinearne l’impatto semantico e la forza comunicativa; il superfluo viene costantemente accantonato.

La preferenza per la “parola nuda” 1 spiega così l’abolizione radicale della punteggiatura e il ricorso insistito allo spazio bianco sulla pagina, che isola i versi e spezza le misure strofiche classiche. L’uso del verso libero smonta dall’interno le strutture metriche tradizionali, modellando l’espressione poetica sull’urgenza comunicativa dell’io; questa urgenza poi fa spesso ricorso alla figura retorica dell’analogia per consegnare sulla pagina immagini particolarmente icastiche e pregnanti.

Si tratta di tecniche che Ungaretti mutua ampiamente dal Simbolismo francese (in particolare da Paul Valery e da Stephane Mallarmé) ma che costituiscono anche una importante novità nella lirica italiana e che quindi influenzeranno in maniera significativa la poesia dei decenni successivi.

Note

  1. Ungaretti spiega il senso dell’espressione in un articolo sulla rivista «La Fiera Letteraria» del 1955: “Se la parola fu nuda è […] era perché in primo luogo l’uomo si sentiva uomo, religiosamente uomo, e quella gli sembrava la rivoluzione che necessariamente dovesse in quelle circostanze storiche muoversi dalle parole. Le condizioni della poesia nostra e degli altri paesi allora non reclamavano del resto altre riforme se non questa fondamentale”.
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Meriggiare pallido e assorto

In questa poesia scritta probabilmente nel 1916 e tra le più significative del primo Montale, il paesaggio ligure, colto nel caldo meriggio estivo e ricco di particolari concreti, diventa trascrizione metaforica della vita inaridita e priva di senso: il frusciare delle serpi, il movimento incessante delle formiche, il suono quasi metallico del mare, sono tutte espressioni del brancolare privo di senso, dietro le quali si annida prepotentemente il nulla, così apertamente denunciato nella poesia dello scrittore genovese. Non a caso il componimento si chiude con l’immagine del muro che ha in cima “cocci aguzzi di bottiglia”, correlativo oggettivo dell’impossibilità di travalicare il limite della condizione umana e comprenderne il significato più profondo.

La poesia si compone di tre quartine e una strofa conclusiva di cinque versi (di varia misura, dall’endecasillabo al novenario) con rime secondo lo schema: AABB CDCD EEFF GHIGH (C è rima ipermetra, veccia: intrecciano; I, irrelato, è in consonanza con tutti i versi dell’ultima strofa).

Testo

  1. Meriggiare 1 pallido e assorto
  2. presso un rovente muro d’orto,
  3. ascoltare tra i pruni e gli sterpi
  4. schiocchi di merli, frusci di serpi.
  5. Nelle crepe del suolo o su la veccia 2
  6. spiar le file di rosse formiche
  7. ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
  8. a sommo di minuscole biche 3.
  9. Osservare tra frondi il palpitare
  10. lontano di scaglie di mare 4
  11. mentre si levano tremuli scricchi 5
  12. di cicale dai calvi picchi 6.
  13. E andando nel sole che abbaglia
  14. sentire con triste meraviglia 7
  15. com’è tutta la vita e il suo travaglio
  16. in questo seguitare una muraglia
  17. che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia 8.

Note

1.

Meriggiare: è il primo di una lunga serie di infiniti e forme impersonali (“ascoltare” “Osservare”, “andando”, “sentire”, “seguitare”) che ricorrono nel componimento, a dar conto di una situazione di desolante staticità nella quale l’io poetico è immerso, in impassibile e inerte contemplazione.

2 veccia: è una pianta rampicante.

3 biche: sono i mucchietti di terra, prodotti dal continuo scavare delle formiche. Nella descrizione dell’insensatezza di vivere che pervade il creato, questa descrizione sembra ricordare quella del “Giardino del dolore” che Leopardi aveva affidato alle pagine dello Zibaldone.

4 scaglie di mare: immagine che Montale ebbe modo di spiegare nel Quaderno genovese: “Un mare che si dibatte sulla riva fangosa e trema e splende in tutte le scaglie come un pesce gigantesco”. Caratteristica degli Ossi di seppia è propria questa capacità di cogliere nel dato paesaggistico le luci, i colori e le forme e nel tradurli nella manifestazione concreta di uno stato esistenziale, che in essi si oggettiva.

5 tremuli scricchi: il suono vibrante delle cicale è reso anche fonicamente. I suoni aspri, che ricorrono per tutta la poesia (fino a subire un’accentuazione nella strofa finale), ricordano le scelte stilistiche del Dante delle “rime petrose”.

6 calvi picchi: cime rocciose prive di qualsiasi forma di vegetazione (“calvi”), a ribadire l’immagine di aridità già suggerita nel primo verso. L’impressione di inquietudine esistenziale, oltre che dal paesaggio brullo e dal ricorso ai correlativi oggettivi, è data anche dal ricorso assai insistito e talora combinato a suoni aspri e secchi della – c – velare (“schiocchi”, “crepe”, “formiche”, “biche”, “scricchi”, “picchi”) della – s – e della – r – (“merli”, “frusci”, “serpi”, “s’intrecciano”, “frondi”, “triste”), del gruppo – gl – (“abbaglia”, “meraviglia”, “travaglio”, “muraglia”, “bottiglia”), oltre che ovviamente da alcune rime particolarmente evidenti, come quelle dell’ultima strofe.

7 triste meraviglia: è la consapevolezza dell’impossibilità (e dell’inutilità) di qualsiasi ribellione al “male di vivere”, per l’assenza di una qualsiasi spiegazione alla nostra esistenza di là del muro.

8 La poesia si chiude con l’immagine della muraglia con in cima cocci di vetro (“muraglia”, e non semplicemente “muro”: a suggerire l’idea di qualcosa di davvero invalicabile, quasi che si trattasse, più che di una barriera fisica, di una condizione metafisica ed esistenziale). Il muro è emblema del limite che non può in alcun modo essere superato e dell’insensatezza dell’esistenza in tanta produzione poetica novecentesca: si pensi, a titolo esemplificativo, all’eloquente titolo scelto da Giorgio Caproniper una delle sue ultime e più importanti raccolte poetiche, Il muro della terra.

Parafrasi

  1. Trascorrere il meriggio nella luce abbagliante e nella contemplazione,
  2. vicino al recinto arroventato di un giardino,
  3. ascoltare tra i pruni e le sterpaglie
  4. schiocchi di merli, frusci di serpi.
  5. Nelle crepe del suolo o sulla pianta della veccia
  6. spiare le file di formiche rosse
  7. che ora si dipanano ora si riavvicinano
  8. al di sopra di piccolissimi mucchietti di terra.
  9. Osservare tra le fronde il battito
  10. lontano di brandelli luminescenti di mare,
  11. mentre dalle cime rocciose e spoglie
  12. si levano i versi vibranti delle cicale.
  13. E avanzando nel sole abbagliante
  14. percepire con triste sgomento
  15. come la vita intera e il suo tormento
  16. assomiglino a camminare lungo una muraglia
  17. che ha sulla cima dei cocci aguzzi di bottiglia.

La poesia fa parte della raccolta Ossi di seppia. In questa raccolta, e soprattutto in questa poesia, Montale si distanzia dal modello dannunziano con cui è costretto a confrontarsi: utilizza gli scenari di D’Annunzio, ma con una diversa sensibilità e partecipazione all’esistenza che ricorda quella di Leopardi.

Meriggiare coglie il dramma della “vita strozzata” di Montale: l’uomo vive senza cogliere il senso vero della sua esistenza, ma è bloccato in questa sua ricerca, come il poeta camminando lungo un muro a secco è impossibilitato ad attraversarlo a causa di un mucchio di “cocci aguzzi di bottiglia”.

Aspetto che colpisce dell’intera poesia è la mancata partecipazione del soggetto alla scena che sta descrivendo, sintomatico è l’uso dell’infinito sostantivato, come se il soggetto fosse compresso e assente.

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Spesso il male di vivere

Questa poesia, databile attorno al 1924, fa parte della sezione Ossi di seppia dell’omonima raccolta, ed esplicita il concetto cardine del sistema filosofico montaliano, il “male di vivere” che si staglia icasticamente nella mente del lettore attraverso un susseguirsi di immagini che emblematicamente ne diventano l’espressione. Il bene non è in alcun modo ravvisabile, se non nella “divina Indifferenza”, intesa come unica evasione possibile.

È composta da due quartine di endecasillabi (a eccezione dell’ultimo verso, che è un doppio settenario. Schema metrico: ABBA CDDA).

Testo

  1. Spesso il male di vivere 1 ho incontrato:
  2. era il rivo strozzato che gorgoglia,
  3. era l’incartocciarsi della foglia
  4. riarsa 2, era il cavallo stramazzato 3.
  5. Bene non seppi, fuori del prodigio 4
  6. che schiude la divina Indifferenza 5:
  7. era la statua nella sonnolenza
  8. del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Note

1. il male di vivere: lo spunto è quello del pessimismo cosmico leopardiano, come definito al v. 104 del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “[…] a me la vita è male”.

2 foglia riarsa: l’elenco, la climax ascendente, delle manifestazioni concrete del “male” è ulteriormente sottolineato dal netto enjambement tra i vv. 3-4, duplicato nella seconda quartina ai vv. 7-8 (“nella sonnolenza | del meriggio”).

3 Lo stato sofferente della natura e il momento “negativo” della contemplazione della realtà da parte di Montale è ravvisabile in un ruscello ostacolato nel suo corso, in una foglia colta nel suo accartocciarsi, in un cavallo stramazzato, tutti correlativi oggettivi del “male di vivere”.

4 prodigio: come tipico della poetica degli Ossi di seppia, è l’inattesa salvezza che si può sprigionare da un istante casuale della nostra esistenza.

5 divina Indifferenza: è da intendersi come “atarassia” (dal greco ἀταραξία, “imperturbabilità”), termine che, dalla filosofia di Democrito in poi ma soprattutto per eredità delle scuole epicuree, stoiche e scettiche, designa l’atteggiamento di distacco e di liberazione dalle passioni che dovrebbe perseguire il saggio. Per Montale la disamina dei mali del mondo condotta nella prima quartina non può che condurre, come unica e precaria forma di felicità e bene, all’indifferenza rispetto ai propri tormenti interiori. Non a caso le immagini della seconda quartina sono statiche e nettamente contrapposte al dinamismo pur sofferente della natura, catturato in modo così efficace nella prima strofa. La contrapposizione si esprime anche nelle scelte foniche: ai suoni “rivo”, “foglia”, “cavallo”, si contrappongono i suoni aspri della serie “strozzato”, “gorgoglia”, “incartocciarsi”, “stramazzato”.

Parafrasi

  1. Spesso mi sono imbattuto nel male di vivere:
  2. era il torrente che gorgoglia, stretto nel suo fluire,
  3. era l’accartocciarsi della foglia
  4. inaridita, era il cavallo stramazzato.
  5. Non conobbi altra salvezza se non il prodigio
  6. che la divina Indifferenza ci spalanca
  7. era la statua nel meriggio sonnolento, e la nuvola,
  8. e il falco, levatosi in alto, nel cielo.

Questa poesia è una delle ultime della raccolta Ossi di seppia in ordine di composizione. Ci si trova di fronte a un Montale più maturo rispetto a quello di Meriggiare pallido e assorto. In questo componimento il soggetto è presente, le immagini si susseguono con molta densità, immagini su cui il poeta opera la sua ricerca. La metrica è parzialmente regolare: due quartine di endecasillabi, mentre l’ultimo verso è un doppio settenario.

Le immagini hanno un ruolo centrale in questa poesia. Montale opera una ricerca specifica sull’oggetto e sull’immagine, ispirata dalla poetica di Thomas Eliot e della sua teoria del “correlativo oggettivo”. Il “correlativo oggettivo” è definito da Eliot come “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare”. Montale usa un correlativo oggettivo proprio per il titolo della sua raccolta, Ossi di seppia. Il poeta ravviva questo concetto con una serie di riferimenti filosofici, soprattutto al pessimismo filosofico, come quello di Leopardi e Schopenhauer.

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POETICA DI EUGENIO MONTALE

OSSIA DI SEPPIA

Eugenio Montale ha saputo sin dalla raccolta d’esordio – gli Ossi di seppia del 1925 – mettere a fuoco, con termini che poi sarebbero diventati canonici e convenzionali, le grandi tematiche della letteratura novecentesca: il disagio esistenziale, la crisi delle certezze fondamentali, l’assenza di verità ultime cui fare affidamento. I testi montaliani qui antologizzati e commentati, sanno ricreare sia il paesaggio esterno contemplato dal poeta sia quel mondo interno che, quotidianamente, si confronta con quel “male di vivere” che proprio negli Ossi di seppia è stato diagnosticato per la prima volta con precisione e magistrale puntualità.

Ossi di seppia è la prima raccolta di Eugenio Montale. L’opera vede una prima pubblicazione nel 1925 per mano dell’amico editore Gobetti, ed è successivamente rieditata nel 1928 con l’aggiunta di alcune poesie, che non mitigano il tono esistenzialista e filosoficamente “negativo” della prima edizione.

Il titolo scelto dal poeta è espressione del sentimento di emarginazione ed aridità, nel rapporto con la realtà, che caratterizza la prima parte della sua opera poetica. Il rapporto dell’uomo con la natura non è più simbiotico; Montale rifiuta la tradizione a lui antecedente (quella di discendenza romantico-decadente, e ben rappresentata da Gabriele D’Annunzio) della fusione tra l’io poetico e il mondo naturale, così che il paesaggio ligure diventa nudo e desolato come un osso di seppia. Il sole è una presenza costante che secca tutto ciò che raggiunge coi suoi raggi, e l’aspro paesaggio naturale ed animale che l’occhio del poeta descrive è un trasparente simbolo di un suo profondo ed inestirpabile disagio esistenziale.
Ossi di seppia esprime l’impossibilità quasi filosofica da parte di Montale di scrivere di argomenti e valori ‘alti’, e la conseguente rinuncia alla prospettiva di diventare un poeta vate, come D’Annunzio prima di lui.

Non si riesce più ad utilizzare la poesia per spiegare realmente la vita e il rapporto dell’uomo con la natura: la realtà stessa appare incomprensibile e inesprimibile, ed il poeta non può che mettere in evidenza questa percezione negativa del suo stare al mondo, scegliendo volutamente un paesaggio aspro e scabro, e un linguaggio poetico che si modella su questa profonda inquietudine personale. Solo di tanto in tanto intravediamo qualche guizzo di speranza, in cui sembra che, per un breve momento, l’uomo possa scoprire la verità ultima che si cela dietro le apparenze del mondo. Questi toni pessimistici e il connesso “male di vivere” montaliano si riflettono nello stile prevalente delle poesie di Ossi di seppia, scritte all’insegna di un linguaggio anti-lirico e quotidiano, che privilegia un lessico non aulico, una sintassi tendenzialmente prosastica resa vivida da un’accurata ricerca fonico-simbolica sui termini prevalentemente usati.

Il recupero e la profonda rielaborazione formale e contenutistica della tradizione letteraria italiana fanno sì che la prima raccolta montaliana – come dimostrano emblematicamente alcuni testi, tra cui I limoni, Non chiederci la parola, Meriggiare pallido e assorto – sia un punto fermo tra i più noti e penetranti della nostra poesia novecentesca.

L’importanza di Eugenio Montale per la storia letteraria novecentesca è probabilmente senza pari, considerando i risultati altissimi dei lavori poetici e l’intensa carriera di intellettuale e pubblicista.

Ciò è sicuramente dovuto alla raffinatezza dello stile, alla forza della sua visione del mondo che pervade ogni zona della sua produzione e alla tenacia militante con cui il poeta affrontò il lavoro culturale. La grande fama di Montale ha però un’altra radice, spesso più in ombra, ma egualmente determinante: fin dagli esordi, Montale seppe muoversi negli ambienti intellettuali con estrema dimestichezza. In ogni fase della sua lunga carriera il poeta ha dimostrato infatti una non comune capacità di amministrare socialmente il proprio “talento” poetico: potremmo definire Montale come un abile stratega di se stesso, sottolineando così l’abilità del poeta nel comprendere attivamente il proprio contesto intellettuale. 

Questo aspetto diventa lampante negli anni Venti, con l’uscita di alcuni componimenti in rivista (e altri interventi di critica letteraria su Sbarbaro e Cecchi), e poi con gli Ossi di seppia, pubblicati nel 1925 a Torino da Piero Gobetti, importante intellettuale antifascista.

È interessante allora notare come, ancor prima dell’uscita del libro, Montale si sia legato all’ambiente culturale torinese: collabora con le riviste letterarie vicine all’ambiente gobettiano, come «Primo Tempo» e soprattutto «Il Baretti»; conosce i maggiori critici e letterati che ruotano intorno a questa specie di scuola di pensiero, come Emilio Cecchi, Sergio Solmi, Giacomo Debenedetti.

L’orientamento comune è quello in favore di una letteratura sul valore della classicità e della tradizione, che sia però stimolo e modello di resistenza etica, in un frangente storico in cui il regime fascista minacciava sempre più le libertà fondamentali. Da qui il rifiuto della sterile nostalgia per il passato – anche sul piano letterario – e, contemporaneamente, il rigetto dell’estremismo delle avanguardie storiche (come il Futurismo, ormai istituzionalizzatosi come “scuola”), privilegiando un decoro formale che fosse anche una scelta di vita, personale e civile. Oltre a questa spiccata tensione morale, la “scuola” di Gobetti era intenzionata a superare il provincialismo radicato ed endemico della cultura italiana, aprendosi alle più aggiornate tendenze europee (determinante, anche per la futura poesia di Montale, è allora la conoscenza della grande letteratura europea da Proust a Kafka, passando per Musil e per Italo Svevo, altro autore della “crisi delle certezze” novecentesca).

Il 1925 è allora un anno cruciale per Montale: oltre alla pubblicazione degli Ossi, Montale firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, al cui pensiero filosofico e critico si richiama – anche se in modo originale e poco ortodosso – l’intero gruppo dei letterati vicini a Gobetti. Sempre nel 1925 Montale pubblica sul «Baretti» Stile e tradizione, un breve saggio in cui il pensiero gobettiano viene rielaborato in modo personale e acuto, esposto con la “sprezzatura” tutta tipica del poeta, che farà della pulizia del pensiero la cifra distintiva della sua vita artistica. Nell’articolo è infatti abbastanza netta la presa di distanza dai modelli poetici più eminenti (nell’ordine: Carducci, D’Annunzio e Pascoli), alle cui “bacature” si contrappone lo “stile” (e cioè l’attenzione scrupolosa alla forma poetica e alla sua originalità personale) e il “buon costume” (ovvero, la sostanza etico-morale con cui connotare il contenuto della propria poesia):

Lo stile, il famoso stile totale che non ci hanno dato i poeti dell’ultima illustre triade, malati di furori giacobini, superomismo, messianesimo e altre bacature, ci potrà forse venire da disincantati savi e avveduti, coscienti dei limiti e amanti in umiltà dell’arte loro più che del rifar la gente. In tempi che sembrano contrassegnati dall’immediata utilizzazione della cultura, del polemismo e delle diatribe, la salute è forse nel lavoro inutile e inosservato: lo stile ci verrà dal buon costume. Se fu detto che il genio è una lunga pazienza, noi vorremmo aggiungere ch’esso è ancora coscienza e onestà 1.

È questa un’ottima sintesi di quella che è la poetica degli Ossi di seppia, che si rifanno all’ideale della “salvezza nello stile” formulato da Piero Gobetti, e una proficua linea di lettura per alcuni dei testi più celebri della raccolta (tra gli altri I limoniMeriggiare pallido e assortoNon chiederci la parola). Tuttavia, lo spunto iniziale della riflessione montaliana è anche d’indole pratica, e strettamente legata al proprio gruppo culturale di riferimento: nella prima edizione degli Ossi, molte poesie sono dedicate esplicitamente a critici e intellettuali amici, come appunto Sergio Solmi e Giacomo Debenedetti. Gli stessi dedicatari saranno poi recensori degli Ossi di seppia, e a loro volta verranno recensiti da Montale nel vivace circuito di riviste che condividevano collaboratori e orientamenti culturali. Pietro Cataldi, un importante studioso montaliano, ha appunto rilevato “l’esistenza di un contesto filomontaliano ben definito fin dagli esordi” 2; e si può dunque ipotizzare una specie di comunanza di prospettive, sia formali sia contenutistiche, tra la poesia di Montale e il gruppo di lettori e critici cui essa è inizialmente destinata.

In tal senso gli Ossi di seppia si presentano come una raccolta caratterizzata da un’originale mescolanza di sperimentalismo e tradizione. Con un occhio al Simbolismo francese (Baudelaire, Mallarmé, Valery), Montale combina il meglio dei modelli italiani, dal binomio Pascoli-D’Annunzio (pure censurati in Stile e tradizione…) al crepuscolarismo di Corazzini e Gozzano, dalla poesia “ligure” di Camillo Sbarbaro (uno dei primi punti di riferimento per l’autore) fino al linguaggio dei libretti d’opera (che Montale conosceva direttamente, avendo studiato canto lirico con buoni risultati). Nonostante l’ampiezza dei modelli e la disponibilità sperimentale, gli Ossi di seppiarimangono un libro compatto, unificato dall’interno da una spinta etica coerente: dal crepuscolarismo stinto di Corno inglese al modernismo “esistenziale” di Arsenio, la tensione etico-conoscitiva che innerva lo stile – la stessa che si interroga sulla “parola” che può definire il nostro stare al mondo – rimane la stessa. Il rigore ideologico del primo Montale, combinato alla capacità di dialogare attivamente col proprio pubblico di riferimento, permette una felice sintesi dei modelli e la creazione di uno stile poetico originale ed efficace (e dall’influsso determinante su buona parte della poesia italiana del Novecento, al pari forse solo di Ungaretti). Montale combina allora “talento individuale” e “tradizione”, intesa non come “un morto peso di schemi, di leggi estrinseche e di consuetudini – ma un intimo spirito, un genio di razza, una consonanza con gli spiriti più costanti espressi dalla nostra terra” 3. E le successive grandi raccolte (come Le occasioni e La bufera e altro) confermeranno lo status dell’autore tra i più grandi poeti europei dell’ultimo secolo.

Bibliografia essenziale:

– P. Cataldi, Montale, Palermo, Palumbo, 1991.
– G. Contini, Una lunga fedeltà, Torino, Einaudi, 1974 (2002).
– P. V. Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale, in La tradizione del novecento. Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, pp. 15-115.
– E. Montale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d’Amely, Milano, Mondadori, 2003.

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Eugenio Montale

Vita e opere

Nacque a Genova il 12 ottobre 1896 da Domenico, detto Domingo, e da Giuseppina Ricci, ultimo di sei fratelli: gli altri cinque (Salvatore, Ugo, Ernesto, morto poco dopo la nascita, Alberto e Marianna) avevano visto la luce tra il 1885 e il 1894. Il 25 novembre ricevette il battesimo nella chiesa parrocchiale di S. Tomaso Apostolo da don F. Dellacasa. 

La Genova dei suoi anni infantili è stata così commemorata dal M. nel 1968, a quarant’anni dal definitivo congedo dalla città, nella importante prosa Genova nei ricordi di un esule: «Quando io venni al mondo Genova era una delle più belle e tipiche città italiane. Aveva un centro storico ben conservato e tale da conferirle un posto di privilegio tra le villes d’art del mondo; una circonvallazione più moderna dalla quale il mare dei tetti grigi d’ardesia lasciava allo scoperto incomparabili giardini pensili; e a partire dalla regale via del centro una ragnatela di caruggi che giungeva fino al porto» (cfr. E. Montale, Il secondo mestiere(d’ora in poi ISM), Prose 1920-1979, II, a cura di G. Zampa, Milano 1996, p. 2873).

Nell’ottobre 1902 venne iscritto alla scuola elementare maschile Ambrogio Spinola, che frequentò fino alla quarta classe trascorrendo le vacanze estive nella villa di Monterosso, fatta costruire dal padre Domenico, insieme con altri parenti, in località Fegina (la «casa delle due palme» cui si intitolerà una delle prose di Farfalla di Dinard primamente apparsa nel Corriere d’informazione il 9-10 febbr. 1948). All’inizio dell’anno scolastico 1906-07 si trasferì alla scuola Giano Grillo, dove conseguì la licenza elementare. Dal 17 genn. 1908 frequentò come convittore la prima tecnica presso l’istituto Vittorino da Feltre gestito dai barnabiti (rettore padre R. Trabattoni, vicerettore padre G. Semeria, in odore di modernismo non diversamente da padre G. Trinchero, amico di famiglia dei Montale).

Il 21 maggio 1908 ricevette la cresima dall’arcivescovo di Genova mons. E. Pulciano, il 5 maggio 1910 la prima comunione. Respinto, ripeté la terza tecnica nell’anno scolastico 1910-11. Conseguita la licenza delle scuole tecniche il 9 luglio 1911, si iscrisse all’istituto tecnico Vittorio Emanuele II. 

Il 25 giugno 1915 ottenne il diploma di ragioniere e incominciò a svolgere una discontinua attività impiegatizia presso la ditta G.G. Montale e C., che il padre conduceva insieme con i cugini Domenico e Lorenzo: l’azienda, che aveva sede in piazza Pellicceria, 5/10, si occupava del commercio di colori e altri prodotti chimici. 

Nel corso degli ultimi anni della scuola media superiore divenne più stretto il rapporto di complicità intellettuale stabilito con la sorella Marianna, studentessa di filosofia all’Università di Genova: «la prima – ha scritto Gianfranco Contini nella bandella editoriale del Diario del ’71 e del ’72 (Milano 1973) – delle tante figure protettive di donna che si chinarono su questo introverso»; certo la prima e la più congeniale lettrice delle più remote prove poetiche del Montale. 

Firmandolo con il nome dell’amico Vittorio Guerriero, il 28 apr. 1916 il M. pubblicò nel quotidiano genovese Il Piccolo il suo articolo di data più alta: una recensione alla prima rappresentazione del Mameli di R. Leoncavallo, andata in scena la sera precedente al teatro Carlo Felice. Tra il febbraio e l’agosto 1917 tenne un diario (trascritto e pubblicato postumo da L. Barile con il titolo Quaderno genovese, Milano 1983): superstite documento di una sua consuetudine con le varie forme delle scritture dell’io della quale non sono rimaste altre attestazioni. Strinse amicizia con lo scrittore e critico d’arte M. Bonzi, occasionalmente presente sulle pagine della rivista di M. Novaro La Riviera ligure (che il M. leggeva abitualmente senza tuttavia collaborarvi). 

Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, «mandato rivedibile» tre volte (il 19 ott. 1915, il 12 luglio 1916 e il 12 febbr. 1917) e infine arruolato il 31 ag. 1917 come «Soldato di leva 1ª categoria classe 1899 distretto Genova quale rivedibile per debolezza di costituzione delle classi 1896-97-98 in seguito a visita d’osservazione all’Ospedale militare principale di Genova» (così lo stato di servizio), fu chiamato alle armi l’8 settembre presso il 23° reggimento fanteria (distaccamento di Oleggio). «Allievo aspirante ufficiale di complemento nella Scuola d’applicazione fant.[eria]» di Parma, vi frequentò un corso accelerato come allievo ufficiale e incontrò S. Solmi, F. Meriano, C. Cerati, E.L. Crovella, M. Manni. «Giunto in territorio dichiarato in istato di guerra» il 14 apr. 1918, sottotenente di complemento dal 1° luglio, combatté in Vallarsa nel 158° reggimento fanteria (che con il 157° formava la brigata Liguria) ed entrò a Rovereto il 3 nov. 1918. Dopo un primo trasferimento a Kiens, in Val Pusteria, e un secondo presso il distaccamento prigionieri di guerra di Eremo di Lanzo (Torino), venne mandato al deposito di Genova e il 26 maggio 1920 fu congedato con il grado di tenente conferitogli il 22 sett. 1919 con anzianità 16 maggio. 

La partecipazione alla Grande Guerra sarà sottoposta dal M. a un pressoché ininterrotto processo di rimozione, o preterizione: non più che labili indizi offrono in tal senso l’osso «breve» Valmorbia, discorrevano il tuo fondo… (callidamente parafrasato in una intervista rilasciata dal M. a M. Cancogni, che la pubblicò su La Fiera letteraria il 7 nov. 1968, nel cinquantesimo anniversario della fine del conflitto) e alcune sparse «conversazioni» degli anni tardi. 

Tornato alla vita civile, il M. frequentò scrittori e artisti operanti a Genova o in Liguria (A. Barile, A. Grande, C. Sbarbaro, F. Messina, O. Saccorotti) e studiò privatamente canto con l’ex baritono E. Sivori.

Nel corso dell’estate 1920 incontrò a Monterosso la sedicenne Anna degli Uberti, che con la famiglia trascorreva le vacanze nella villa di proprietà del cugino del M., Lorenzo (quella del 1923 sarebbe stata l’ultima estate passata da Anna a Monterosso; a far data dal 1926 la costruzione del mito di Arletta-Annetta avrebbe indotto il M. ad alterarne lo stato civile collocandone la scomparsa all’uscita dall’adolescenza; Anna degli Uberti morì, in realtà, nel 1959). Nel quotidiano L’Azione di Genova, diretto da O. Raimondo, il 10 novembre recensì Trucioli di Sbarbaro. Il 15 giugno 1922 pubblicò sul n. 2 di Primo Tempo, la rivista torinese di G. Debenedetti, la poesia Riviere e la suite Accordi (sensi e fantasmi di una adolescente). Ancora in Primo Tempo (n. 4-5, agosto-settembre) uscirono, con il titolo L’agave su lo scoglio, le composizioni SciroccoTramontana Maestrale. Dal 1923 occuparono uno spazio molto rilevato nella vita e nell’opera del M. due donne meno giovani di Anna degli Uberti: Bianca Fochessati, già allora legata allo scultore F. Messina, e Paola Nicoli. La morte di E. Sivori (25 luglio 1923) pose fine all’apprendistato musicale del Montale. A dicembre stampò nel n. 9-10 di Primo Tempo un saggio su E. Cecchi. Nell’inverno 1923-24 incontrò a Genova il triestino Roberto (Bobi) Bazlen, che sottotraccia fu per più di quarant’anni uno dei suoi capitali interlocutori. A partire dal 1° maggio 1924 entrò a far parte delle firme sulla terza pagina de Il Cittadino, giornale cattolico di Genova. Con il titolo Ossi di seppia, il 31 maggio pubblicò cinque poesie (Meriggiare pallido e assorto…Non rifugiarti nell’ombra…Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida…Mia vita, a te non chiedo lineamenti…Portami il girasole ch’io lo trapianti…) nella rivista milanese Il Convegno di E. Ferrieri. Conobbe a Viareggio lo scrittore E. Pea, a Carrara il drammaturgo C.V. Lodovici. 

Nel gennaio 1925 il M. scrisse per Il Baretti di P. Gobetti l’articolo Stile e tradizione; dal 28 marzo collaborò al quotidiano Il Lavoro di Genova, dal febbraio-aprile a La Rassegna, dall’aprile a L’Esame. Il 10 maggio 1925 il nome del M. apparve su Il Mondo di A. Cianca e G. Amendola nel secondo elenco dei sottoscrittori del «contromanifesto» redatto da B. Croce in risposta al manifesto gentiliano degli intellettuali fascisti. Nella seconda metà di giugno, grazie alla mediazione di Lodovici e Solmi, nelle edizioni Gobetti vide la luce la prima raccolta poetica del M., con un titolo, Ossi di seppia, che sostituiva l’originario Rottami: nel quadro dell’accoglienza complessivamente tiepida riservata al libro dalla critica spicca l’apertura di credito concessagli da C. Linati (Il Convegno, 30 giugno – 30 luglio 1925), da A. Grande (Il Giornale di Genova, 15 agosto) e da E. Cecchi (Il Secolo, 31 ottobre; Il Secolo XX, novembre). 

A vent’anni dalla prima edizione di Ossi di seppia, il M. avrebbe chiarito il senso profondo del suo libro d’esordio nell’«intervista immaginaria» Intenzioni, ospitata nel gennaio 1946 in La Rassegna d’Italia di F. Flora: «Ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza» (ISM, Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano 1996, p. 1480).

Intorno alle implicazioni «filosofiche» della propria poesia il M. aveva osservato poco prima: «forse negli anni in cui composi gli Ossi di seppia (tra il ’20 e il ’25) agì in me la filosofia dei contingentisti francesi, del Boutroux soprattutto, che conobbi meglio del Bergson, Il miracolo era per me evidente come le necessità» (ibid., p. 1479). Di tale dialettica tra «miracolo» e «necessità», trascendenza e immanenza, che governa l’intera opera del M. la prima silloge poetica fornisce un sintomatico referto, coniugando «musica» e «idee» su una linea non immemore della lezione del simbolismo francese e dei modelli italiani cronologicamente e talora topograficamente finitimi, o meno distanti (come G. Pascoli, G. D’Annunzio, G. Gozzano, C. Govoni, G. Boine, Sbarbaro). Specialmente l’«attraversamento» di D’Annunzio (e, specificamente, del D’Annunzio di Alcione) appare come la stella polare di un esercizio poetico che, a specchio dell’aspro paesaggio della Liguria di Levante, sembra aspirare a rovesciare il paradigma dannunziano dando corso a un ininterrotto dialogo con i morti alla cui radicalizzazione nelle composizioni aggiunte alla seconda edizione del libro (Torino 1928), introdotta da A. Gargiulo, cospireranno anche le letture di L. Šestov e del J. Joyce di Dubliners

Il numero di novembre-dicembre dell’Esame accolse l’Omaggio a Italo Svevo che, firmato dal M., proiettava su uno scenario internazionale l’autore de La coscienza di Zeno anticipando di poco la parallela «promozione» del grande scrittore triestino condotta in Francia da B. Crémieux. Dal 30 genn. 1926 lavorò per Il Quindicinale, da giugno per L’Italia che scrive, dal 19 settembre per La Fiera letteraria, da dicembre per Solaria. Il 17 genn. 1927 incominciò a scrivere per il giornale milanese L’Ambrosiano.

Assunto come impiegato dall’editrice E. Bemporad, a febbraio si trasferì a Firenze nella pensione Colombini di via del Pratellino 7. A una prima faticosa approche al mondo culturale fiorentino seguì molto presto la stabile conquista, da parte del M., di una speciale, e per certi versi inopinata, autorevolezza, che gli conferì un «ruolo» centrale nel mondo letterario e artistico che faceva riferimento a Solaria. Dal 27 apr. 1928 ebbe inizio la corrispondenza del M. con l’amica Lucia Morpurgo, triestina, dal 1930 moglie del pittore ligure di origine greca P.S. Rodocanachi.

Il 26 marzo 1929 il M. fu nominato direttore del Gabinetto scientifico-letterario G.P. Vieusseux, in sostituzione di B. Tecchi, che lasciò la direzione un mese più tardi, il 30 aprile. A partire da giugno collaborò alla rivista mensile Pègaso diretta da U. Ojetti (sull’altro periodico di Ojetti, Pan, il M. avrebbe scritto dal 1° dic. 1933). Si trasferì quale ospite pagante nella casa del critico d’arte M. Marangoni e della moglie Drusilla Tanzi. Nel mese di agosto si recò a Chamonix, a settembre a Parigi. Tra il 1929 e il 1930 conobbe Maria Rosa Solari, la «giovane pantera peruviana» che il 9 luglio 1938 avrebbe sposato il segretario federale di Genova del Partito nazionale fascista (PNF), G. Molfino. Nel 1931 pubblicò a Lanciano la terza edizione di Ossi di seppia, con una copertina del pittore Scipione (G. Bonichi). Con la poesia La casa dei doganieri il 27 maggio vinse il premio dell’Antico Fattore. Il 9 giugno morì a Genova il padre del Montale. Nel 1932 stampò a Firenze La casa dei doganieri e altri versi. Ad agosto viaggiò tra Germania e Austria. Reca la data dell’8 giugno 1933 la prima lettera, che inaugurò un’amicizia di lunghissimo corso (quasi mezzo secolo), indirizzata dal M. a G. Contini per ringraziarlo del saggio Introduzione a E. M., apparso nella Rivista rosminiana del gennaio-marzo 1933. 

Trascorse in Inghilterra il mese di agosto del 1933 insieme con Drusilla Tanzi: qualche giorno prima della partenza, il 15 luglio, aveva incontrato nel palazzo di Parte Guelfa, allora sede del Gabinetto Vieusseux, la giovane studiosa statunitense Irma Brandeis, destinata a occupare uno spazio decisivo nella sua vita e nei suoi versi. Si rividero ancora, per brevissimi periodi, nel corso dell’estate del 1934 e, infine, del 1938. 

Dal gennaio 1937 collaborò alla nuova rivista Letteratura, fondata e diretta da A. Bonsanti, dal 1° ott. 1938 a Campo di Marte di A. Gatto e V. Pratolini. A pochi giorni dal definitivo distacco del M. da Irma Brandeis, ripartita alla volta degli Stati Uniti, il 15 ott. 1938 morì di cancro a Genova, a quarantaquattro anni, la sorella Marianna, evocata a sei anni di distanza nel secondo (11 agosto 1944) dei Due madrigali fiorentini poi accolti in La bufera e altro. Il 1° dicembre il consiglio di amministrazione del Gabinetto Vieusseux deliberò di dispensare il M. dal ruolo di direttore.

Nell’aprile 1939 si trasferì con Drusilla Tanzi in un appartamento all’ultimo piano di viale Duca di Genova (oggi viale Giovanni Amendola) 38/A. Tra maggio e giugno era intanto irreparabilmente fallito il progetto di raggiungere Irma Brandeis: si fonda anche su quello scacco esistenziale la straordinaria operazione mitopoietica che ha consentito al M. di «convertire» Irma in Clizia promovendola a protagonista assoluta delle Occasioni (la seconda raccolta poetica del M., pubblicata a Torino il 14 ott. 1939) e, in larga misura, della Bufera

Le Occasioni segnarono per il M. la fuoruscita dal simbolismo degli anni di formazione e l’approdo a una poesia allegorica mediato da Dante e da T.S. Eliot: il quale ultimo non è senza rapporto con l’attenzione sempre più viva rivolta dal M. a W. Blake, a R. Browning, a D.G. Rossetti, a G.M. Hopkins. Di là dalla trama foltissima dei riferimenti culturali, d’ordine iconico-figurale non meno che letterario, «la maggior novità del libro – ha scritto Mengaldo – è certo nel personaggio di Clizia: donna, molto più che angelica, numinosa, del nume concentra in sé i predicati opposti: luminosità, pulsione celestiale a salvare, estraneità al mondo, ma anche assenza, freddezza, durezza, tratti demoniaci. In questo personaggio Montale sviluppa potentemente il motivo, già accennato negli Ossi, della donna salvifica, ma senza alcun retrogusto neostilnovista o preraffaellita: sensibilità a parte, il fatto che Clizia non dispensa salvezza, è salvezza oltremondana che i mondani possono solo intravvedere e inseguire; la distanza dal mondo e dallo stesso deuteragonista, l’indeterminatezza – che può essere, letteralmente, fulminante – delle apparizioni e degli incontri, la chiusura in sé ecc., che la caratterizzano, significano anche questo» (P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino 2000, p. 85).

Tra il 1939 e il 1943 il M. collaborò a DomusCorrenteOggiTempoLa RuotaPrimatoProspettiveLettere d’oggiParallelo, svolgendo un’assidua attività di traduttore dall’inglese e dallo spagnolo inaugurata da La battaglia di J. Steinbeck (1940) e in parte confluita nelle antologie Teatro spagnolo di E. Vittorini, Narratori spagnoli di C. Bo (1941), Americana di E. Vittorini (1942). Tra il 1941 e il 1947 apparvero anche le versioni di Il mio mondo è qui di Dorothy Parker, La storia di Billy Budd di H. Melville, Strano interludio di E. O’Neill (che avrebbe procurato al M. una lunga vertenza giudiziaria con una traduttrice rivale, Bice Chiappelli), Al dio sconosciuto di Steinbeck, Il volto di pietra di N. Hawthorne. Nel 1941, sottoposto a visita medica nell’ospedale militare di Firenze, era stato intanto congedato per «sindrome neuropsicastenica costituzionale». Il 25 ott. 1942 morì a Monterosso la madre, che nella casa sul mare si era trasferita per mettersi al riparo dai bombardamenti che colpivano Genova (a pochi giorni dalla scomparsa il M. le dedicò la poesia A mia madre). Il 24 giugno 1943, giorno di S. Giovanni, per iniziativa dell’amico Contini, dal 1938 professore di filologia romanza all’Università di Friburgo, e dell’avvocato svizzero Pino Bernasconi, uscì a Lugano Finisterre

Nell’autointervista Intenzioni il M. ha nitidamente fissato l’orizzonte storico di Finisterre 1943: «Il libricino, con quell’epigrafe di d’Aubigné, che flagella i prìncipi sanguinarii, era impubblicabile in Italia, nel ’43. Lo stampai perciò in Svizzera e uscì poco prima del 25 luglio» (ISM, Arte…, cit., p. 1483), anche se non va dimenticato che quattordici delle quindici composizioni di Finisterre avevano visto la luce, tra il 1940 e il 1943, nei maggiori periodici italiani, Primato di G. Bottai non escluso. È, paradossalmente, la «somma» degli addendi a rendere potenzialmente trasgressiva la compagine del libretto dopo che la prima stampa dei singoli membri era stata tollerata senza problemi dalla censura fascista. 

Di Intenzioni non dovrà comunque essere perduta di vista l’anticipata illuminazione del retroterra della terza raccolta La bufera e altro (Venezia 1956), che proprio le quindici poesie di Finisterre apriranno: «Le Occasioni erano un’arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello del pedale, della musica profonda e della contemplazione. Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Il motivo era già contenuto e anticipato nelle Nuove Stanze, scritte prima della guerra. Non ci voleva molto a essere profeti. Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40/’42, forse le più libere che io abbia mai scritte, e pensavo che il loro rapporto col motivo centrale delle Occasioni fosse evidente. Se avessi orchestrato e annacquato il mio tema sarei stato capito meglio. Ma io non vado alla ricerca della poesia, attendo di esserne visitato. Scrivo poco, con pochi ritocchi, quando mi pare di non poterne fare a meno. Se neppur così si evita la retorica vuol dire ch’essa è (almeno da me) inevitabile» (ibid., pp. 1482 s.).

Nel terribile inverno 1943-44 il M. incontrò a Firenze, e fu loro fraternamente vicino, U. Saba e C. Levi, che nella casa-pensione di Anna Maria Ichino in piazza Pitti 14 attendevano, rispettivamente, alla prima redazione del grande saggio autocritico che sarebbe stato Storia e cronistoria del Canzoniere e alla stesura di Cristo si è fermato a Eboli. Nei giorni dell’«emergenza», alla vigilia della liberazione di Firenze (10-11 ag. 1944), partecipò alla lotta antifascista clandestina e fu nascosto da Pompeo Biondi nella sua abitazione di via Cavour 81.

Nel settembre 1944 Drusilla Tanzi venne colpita da una grave forma di spondilite che l’avrebbe costretta a ricoverarsi presso la clinica Palumbo (l’episodio è al centro di Ballata scritta in una clinica, compresa in La bufera e altro). Il 19-20 sett. 1944 ebbe inizio la collaborazione del M. a La Nazione del Popolo, quotidiano del Comitato toscano di liberazione nazionale, e, successivamente, ad altri giornali e periodici fiorentini come il Corriere del mattinoLa Patriail Corriere della radio. Il CLN toscano lo chiamò a far parte del Comitato per la cultura e l’arte. La sua domanda di iscrizione alla sezione fiorentina del Partito d’azione (PdA; garanti R. Ramat ed Eleonora Turziani) venne accolta il 29 novembre e registrata il 1° dic. 1944. Insieme con Bonsanti, A. Loria, L. Scaravelli (segretario di redazione G. Zampa) fondò a Firenze il quindicinale politico-letterario Il Mondo (7 apr. 1945), il cui primo numero riprodusse la conversazione dal titolo Il fascismo e la letteratura tenuta dal M. a Radio Firenze il 15 marzo; tra il 1944 e il 1946 ne accolsero versi e prose le riviste Mercurio di Alba de Céspedes, Poesia di E. Falqui, Il Ponte di P. Calamandrei e i settimanali Il Politecnico di E. Vittorini e La Lettura di F. Sacchi. Nell’aprile 1945 uscì a Firenze, per cura di G. Zampa, la seconda edizione aumentata di Finisterre

Durante le vacanze estive trascorse a Vittoria Apuana (Forte dei Marmi) riprese insieme con i pittori milanesi R. De Grada ed E. Treccani un’attività grafica e pittorica iniziata prima della guerra. Sfumato l’incarico di condirettore dell’edizione milanese del quotidiano del PdA, L’Italia libera (analogo esito ebbe l’ipotesi di affiancare a Roma il direttore dell’edizione nazionale del giornale C. Levi), il M. intervenne nel dibattito sulla Costituente con un editoriale (A proposito di referendum) apparso il 1° nov. 1945 su L’Italia libera romana. Dal 2 genn. 1946 cominciò a scrivere sul Corriere d’informazione (nuova denominazione assunta dal Corriere della sera, in coincidenza con la ripresa delle pubblicazioni, il 22 maggio 1945, poi cambiata, il 7 maggio 1946, in Il Nuovo Corriere della sera). Nel gennaio 1946 destinò a La Rassegna d’Italia la citata «intervista immaginaria» Intenzioni. Dopo il congresso di Roma del PdA (4-8 febbr. 1946) il M. si dimise dal partito (19 febbraio) e aderì all’effimero Movimento della democrazia repubblicana; nell’imminenza del referendum del 2 giugno sostenne con nettezza le ragioni della Repubblica. Nel settembre 1947 (e ancora nel settembre 1948 e nel settembre 1949) partecipò alle Rencontres internationales di Ginevra. In occasione della morte di Gandhi, scrisse, per incarico del direttore del Nuovo Corriere della sera G. Emanuel, l’anonimo editoriale Missione interrotta (31 genn. 1948). La lettera del 30 aprile che formalizzava la proposta di assunzione del M. come redattore del giornale («a far tempo dal 1° aprile» con anzianità lavorativa a decorrere dal 1° ott. 1947) lo indusse a rinunciare definitivamente al progetto, a lungo coltivato, di diventare direttore della sezione lettere e arti dell’UNESCO. 

Trasferitosi da Firenze a Milano, durante il 1948 risiedette per qualche mese all’albergo Ambasciatori. A marzo e a giugno si recò in Inghilterra con una delegazione di scrittori che comprendeva tra gli altri A. Moravia ed Elsa Morante. A settembre vide la luce a Milano il Quaderno di traduzioni. In dicembre il M. fu a Beirut, sede della seconda conferenza dell’UNESCO. Il 14 genn. 1949, al termine della conferenza-autopresentazione dal titolo Poeta suo malgrado tenuta al teatro Carignano di Torino, incontrò Maria Luisa Spaziani (Volpe), alla quale in La bufera e altro sono dedicati i Madrigali privati. Dell’originario progetto della terza opera poetica, che si sarebbe dovuta intitolare Romanzo (1940-1950), è traccia in una lettera a G. Macchia del 4 nov. 1949 alla quale è allegato l’indice. Nel luglio 1950 il M. venne inviato dal Nuovo Corriere della sera all’inaugurazione della linea aerea Roma-New York-Roma. Ad agosto seguì a Strasburgo i lavori del Consiglio d’Europa. A settembre soggiornò in Bretagna. L’ultimo giorno di quel mese la giuria attribuì il premio San Marino 1950 al dattiloscritto del M. 47 poesie (1940-1950), principalissimo tra gli incunabuli della Bufera solo di recente riemerso dalle carte di E. Falqui per merito di Silvia Morgani (se ne veda il saggio Di un archetipo della «Bufera» nel numero monografico a cura di U. Fracassa, dal titolo Mezzo secolo di «Bufera», della rivista Trasparenze, 2007, n. 30, pp. 7-28). Nell’autunno 1951 il M. si stabilì in via Bigli 11. Nel corso del Congresso internazionale per la libertà della cultura, compreso nella serie di manifestazioni dedicate a «L’opera del XX secolo», il 21 maggio 1952 tenne al Centre des relations internationales di Parigi la conferenza La solitudine dell’artista (in opuscolo, Roma 1952). Ritornò a Parigi nel marzo-aprile 1953. Nel corso del convegno Romanzo e poesia di ieri e di oggi: incontro di due generazioni, organizzato da G. Ravegnani a San Pellegrino Terme dal 16 al 19 luglio 1954, presentò la figura e l’opera poetica di L. Piccolo. Dal 15-16 sett. 1954 assunse l’incarico di critico musicale del Corriere d’informazione che avrebbe assolto fino all’11-12 marzo 1967. Nell’agosto 1955 si recò in Normandia. 

Il 15 giugno 1956 pubblicò a Venezia il suo terzo libro di versi, La bufera e altro, e il 29 settembre ricevette il premio Marzotto per la poesia. Il 20 dic. 1956, ancora a Venezia, uscì la raccolta di prose Farfalla di Dinard, poi significativamente ampliata nella seconda (Milano 1960) e nella quarta edizione (ibid. 1969). 

In una notevole intervista apparsa nel primo numero (autunno 1960) della rivista Quaderni milanesi il M. avrebbe rivendicato da una parte la novità costituita dal suo terzo volume di versi («Il mio libro del ’56, La bufera e altro, non ripete i precedenti») e insistito, dall’altra, su una frustrata aspirazione alla forma-romanzo della quale i «racconti» di Farfalla di Dinardcostituirebbero una sorta di versione tra ridotta e vicaria: «È vero che avrei voluto scrivere un romanzo: ma non l’ho mai neppure incominciato. Avrei bisogno di molto tempo libero, di molta meditazione e anche di molte ricerche (d’ambiente). Ho in me la cellula iniziale, ancora troppo oscura. Qualche approssimazione a pagine di ciò che potrebbe essere un mio romanzo (mai un antiromanzo) si potranno trovare nella mia Farfalla di Dinard, di cui uscirà presto da Mondadori un’edizione raddoppiata» (ISM, Arte…, p. 1604).

Il 9 nov. 1959 a Milano il ministro plenipotenziario di Francia J.-M. Soutou consegnò al M. la Legion d’onore. Nel maggio 1962 fu invitato in Grecia dall’Istituto italiano di cultura. Il 23 luglio sposò con rito religioso Drusilla Tanzi, sua compagna da oltre trent’anni, nella parrocchia di S. Ilario a Montereggi (Fiesole). Il 7 dicembre alla Piccola Scala di Milano gli venne consegnato il Premio internazionale Antonio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei. Cinque composizioni poetiche apparvero a Verona sotto il titolo Satura (con il volume del 1971 l’edizione non venale stampata per le nozze di Alessandra Fagiuoli e Gabriele Crespi, celebrate a Formia il 22 dic. 1962, condivide soltanto il titolo). In occasione del Natale 1962 – Capodanno 1963 il M. stampò a Milano Accordi & Pastelli. Il 30 apr. 1963 sposò a Firenze con rito civile Drusilla Tanzi, che in agosto a causa di una caduta si fratturò il femore e il 20 ottobre morì al policlinico di Milano. Rimase accanto al M. fino alla sua morte la fedele governante Gina Tiossi. Nei primi giorni del gennaio 1964 fu inviato dal Corriere della sera al seguito di Paolo VI in Terrasanta. Il 24 apr. 1965 tenne la relazione finale al Congresso internazionale di studi danteschi nel salone dei Cinquecento del fiorentino palazzo Vecchio. Il 28 ottobre celebrò il centenario di Dante a Parigi presso la Maison de l’UNESCO. Nel 1966 pubblicò a Milano il racconto autobiografico Il colpevole(già uscito nel 1947, con il sottotitolo Quasi una fantasia, sul numero unico triestino Ponterosso); a Bari le lettere inviate a e ricevute da Svevo (ristampate a Milano nel 1976); a Milano la raccolta di saggi e articoli sparsi di argomento etico-politico Auto da fé. Cronache in due tempi; a San Severino Marche, in cinquanta esemplari, Xenia, la serie di composizioni poetiche dedicate alla moglie morta successivamente riprese in Satura (all’allestimento del carteggio M.-Svevo, ad Auto da fé e a Xenia collaborò semisegretamente G. Zampa). 

Il 17 genn. 1967 il M. fu festeggiato a Parigi all’Istituto italiano di cultura in occasione dell’edizione francese delle sue poesie. Il 13 giugno venne nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica G. Saragat. A settembre traslocò dal civico 11 al 15 di via Bigli. Nel 1969 diede alle stampe una selezione di corrispondenze di viaggio intitolata Fuori di casa (Milano-Napoli ). Nel gennaio 1971 a Milano apparve Satura

In un’intervista concessa a M. Miccinesi per il periodico Uomini e libri dell’aprile 1971 il M. indicò con la consueta autoironica intelligenza la differenza specifica della sua quarta raccolta di versi: «Se il poeta Montale fosse morto dopo La bufera nessuno avrebbe parlato di immatura scomparsa. Ma non è morto, e quando ha ripreso a scriver versi, dopo molti anni di prosa-prosa la necessità di mostrare l’envers du décor gli si è imposta inesorabilmente. Così faceva Fregoli quando rivelava ciò che accadeva nel retroscena. Debbo però aggiungere che io non ero del tutto conscio di ciò che mi stava accadendo. Nel caso di Satura si può ben affermare che lo stile è stato “la cosa” intendendo per tale l’urgenza di una materia irriducibile a un colore unico, a un ritmo uniforme. Qualcuno noterà nel libro una composizione “diaristica”, l’urgenza di non trascurare alcun particolare. Tuttavia questa osservazione non esaurisce il libro. In un certo senso la spinta che mi sostenne nei pochi mesi di composizione (pochi anche se distribuiti in quattro anni) fu di ordine musicale. Volevo buttar fuori una costellazione di “armoniche” tale da rendere inutili gli alti e i bassi della lirica tradizionalmente alta. Ciò è presente anche in qualche lirica più fedele alla musica della Bufera e delle Occasioni. Ma si sente che anche queste poesie non sono quelle di ieri» (ISM, Arte…, pp. 1702 s.). 

Sempre nel 1971 videro la luce a Milano La poesia non esisteSeconda maniera di MarmeladovDiario del ’71; nel 1972 a Milano Nel nostro tempo, a Verona Il poeta. Diario; nel 1973 a Milano Trentadue variazioni e Diario del ’71 e del ’72

Il 23 ott. 1975 venne diffusa la notizia dell’assegnazione al M. del Nobel per la letteratura. Il 10 dicembre fu insignito del premio a Stoccolma. Il 12 dicembre pronunciò all’Accademia di Svezia il discorso È ancora possibile la poesia? (Stockholm-Roma 1975). Per il Natale 1975 – Capodanno 1976 fece uscire a Milano 8 poesie. Nel 1976 furono stampati a Bologna, a cura di A. Brissoni, il saggio Michelangelo poeta e a Milano, per cura di G. Zampa, gli scritti Sulla poesia. Il 28 apr. 1977 il M. incontrò a Milano J.L. Borges. Dello stesso anno, ancora impressi a Milano, sono Quaderno di quattro anni e Tutte le poesie. Il 29 ottobre al M. fu conferita la cittadinanza onoraria di Firenze. Il 29 marzo 1978 a Milano nella sede dell’USIS (United States Information Service) ricevette dall’ambasciatore degli Stati Uniti R.N. Gardner la nomina a membro onorario della American Academy and Institute of art and letters. Trascorse l’estate del 1980 a Forte dei Marmi. Il 29 novembre è la data dell’Opera in versi, edizione critica delle poesie e traduzioni poetiche del M. varata a Torino dalla Einaudi per la cura di Rosanna Bettarini e G. Contini: in assoluto la prima che a un autore vivente sia stata consacrata. Cinque anni avanti, ricorrendo il cinquantesimo anniversario di Ossi di seppia, il M. aveva in un certo senso prefigurato l’explicit della storia confidando all’amico G. Zampa: «ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il recto, ora do il verso» (Il Giornale nuovo, 27 giugno 1975). A Firenze nel 1981 G. Spadolini raccolse, del M., I miei scritti sul «Mondo» (Da Bonsanti a Pannunzio); a Milano G. Zampa organizzò Altri versi e poesie disperse

Ricoverato ai primi di agosto 1981 nella casa di cura S. Pio X di Milano, il M. vi morì il 12 settembre. 

Il 14 settembre si svolsero in Duomo i funerali di Stato alla presenza del presidente della Repubblica S. Pertini. Il 15 settembre fu sepolto nel cimitero di San Felice a Ema (Firenze), accanto alla moglie Drusilla Tanzi. Pochi giorni dopo, a ottobre, con il titolo Prime alla Scala apparve a Milano, per cura di G. Lavezzi, un’ampia scelta dei suoi articoli di argomento musicale. 

Edizioni: L. Barile aveva offerto un sistematico censimento degli scritti in versi e in prosa (e delle conferenze, interviste, prefazioni, opere grafiche e pittoriche, traduzioni in lingue straniere…) nella sua Bibliografia montaliana (Milano 1977): a oltre trent’anni dalla prima (e unica) uscita, quel libro, certo passibile di rettifiche e «aggiunte», continua a costituire un punto di riferimento fondamentale. Dopo la morte del M., le poesie ordinate da R. Bettarini e G. Contini sono state oggetto di una sistemazione un poco diversa, che ha comportato anche l’addizione di qualche ulteriore specimen «ritrovato», da parte di G. Zampa nel volume dal titolo Tutte le poesie (ibid. 1984), primo dei «Meridiani» Mondadori dedicati al Montale. Non sono comprese, nelle due raccolte citate, le versioni parziale e totale del cosiddetto Diario postumo (prima parte: 30 poesie), a cura e con una postfazione di Annalisa Cima, testo e apparato critico di R. Bettarini, ibid. 1991; 66 poesie e altre, sempre a cura di A. Cima, prefazione di A. Marchese, testo e apparato critico di R. Bettarini, ibid. 1996, la cui autenticità, oppugnata da D. Isella (in Dovuto a M., ibid. 1997), è stata strenuamente asserita dalla curatrice; le composizioni dedotte dal fondo che Gina Tiossi ha generosamente destinato al Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia (La casa di Olgiate e altre poesie, a cura di R. Cremante – G. Lavezzi, ibid. 2006). Antologie di opere del M. hanno curato, tra gli altri, M. Forti (Per conoscere M., ibid. 1976 e successive ristampe accr.), A. Marchese (E. M., Torino 1978; Poesie, Milano 1991) e S. Morando (La casa sul Magra e altri passaggi montaliani, Bocca di Magra 1996). 

Dopo i Mottetti (a cura di D. Isella, Milano 1980, 1982, 1988), sillogi poetiche del M. o loro porzioni sono state e sono oggetto di commenti di diverso taglio e qualità. In ordine cronologico: Le occasioni, a cura di Id., Torino 1996; Finisterre (versi del 1940-42), a cura di Id., ibid. 2003; Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi – F. D’Amely, Milano 2003; Satura, a cura di R. Castellana, ibid. 2009; Diario del ’71 e del ’72, a cura di M. Gezzi, ibid. 2010. Due commenti senza testi si devono a T. Arvigo (M. Ossi di seppia, Roma 2001) e a F. Ricci (M. Diario del ’71 e del ’72, ibid. 2005). 

Con qualche omissione e almeno un errore di attribuzione (ma resta impregiudicato l’accertamento delle singole, personali responsabilità autoriali nel caso di quei testi che il M. ha redatto avvalendosi della collaborazione di H. Furst o di M.L. Spaziani), le prose hanno trovato posto in quattro «Meridiani»: Prose e racconti, a cura e con introduzione di M. Forti, note ai testi e varianti a cura di L. Previtera, Milano 1995; Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, I-II, a cura di G. Zampa, ibid. 1996; Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Id., ibid. 1996. In Prose e racconti confluiscono, giusta l’ultima edizione: Farfalla di DinardFuori di casaLa poesia non esisteTrentadue variazioni, nonché, a cura di L. Previtera, una serie di Prose varie di fantasia e d’invenzione; in Il secondo mestiere. Arte, musica, società: Auto da féPrime alla ScalaQuaderno genovese, una selezione di Altri scritti musicali a cura di G. Lavezzi, gli Scritti sull’arte, una essenziale antologia di Monologhi, colloqui. I due volumi de Il secondo mestiere. Prose 1920-1979 dispongono in ordine cronologico gli innumerevoli scritti in prosa residui, smontando e disarticolando la raccolta Sulla poesia e cancellando (non illegittimamente) una silloge di ambiguo statuto come Nel nostro tempo. A Il secondo mestiere. Arte, musica, società sono allegati gli Indici delle opere in prosa, a cura di F. Cecco – L. Orlando con la collaborazione di P. Italia (Milano 1996). F. Soldini ha curato l’antologia Ventidue prose elvetiche (ibid. 1994); N. Scaffai una raccolta commentata di Prose narrative (ibid. 2008). 

Le versioni poetiche del M. sono raccolte in Quaderno di traduzioni (ibid. 1948; nuova ed., ibid. 1975): le si veda, infine, in L’opera in versi, cit., pp. 709-754 (note ai testi, pp. 1154-1164). 

Non sembra imminente la possibilità che le centinaia di lettere inviate e ricevute dal M. possano vedere la luce anche solo antologicamente. Un provvisorio censimento dei carteggi ha tentato E. Gurrieri, Per l’epistolario di E. M. Indice delle lettere pubblicate (1946-2004), in Studi italiani, XVI-XVII (2004-05), 32-33, pp. 245-260 (poi in Letteratura, biografia e invenzione. Penna, M., Loria, Magris e altri contemporanei, Firenze 2007, pp. 287-303). Di particolare rilievo sono i seguenti volumi: E. Montale – I. Svevo, Lettere con gli scritti di M. su Svevo, Bari 1966 (poi I. Svevo – E. Montale, Carteggio con gli scritti di M. su Svevo, a cura di G. Zampa, Milano 1976); Lettere a S. Quasimodo, a cura di S. Grasso, premessa di M. Corti, ibid. 1981; Lettere a Pugliatti. M. e la critica nel carteggio con S. Pugliatti e tre lettere di E. Vittorini, a cura di S. Palumbo, prefaz. di C. Bo, ibid. 1986; Il carteggio Einaudi – M. per «Le occasioni» (1938-39), a cura di C. Sacchi, Torino 1988; Lettere e poesie a B. e F. Messina 1923-1925, a cura di L. Barile, Milano 1995; E. Montale – S. Penna, Lettere e minute 1932-1938, introd. di E. Pecora, testo, apparato critico e postfazione di R. Deidier, ibid. 1995; Eusebio e Trabucco. Carteggio di E. M. e G. Contini, a cura di D. Isella, ibid. 1997; Giorni di libeccio. Lettere ad A. Barile (1920-1957), a cura di D. Astengo – G. Costa, ibid. 2002; «Le sono grato». Lettere di E. M. e A. Marchese (1973-1979), a cura di S. Verdino, Genova 2002; Caro Maestro e Amico. Carteggio con V. Larbaud (1926-1937), a cura di M. Sonzogni, Milano 2003; Lettere a Clizia, a cura di R. Bettarini – G. Manghetti – F. Zabagli, con un saggio introduttivo di R. Bettarini, Milano 2006; Lettere da casa Montale (1908-1938), a cura di Z. Zuffetti, con una prefaz. di R. Vignolo, Milano 2006. Del carteggio intercorso tra il M. e S. Solmi si conoscono, purtroppo, soltanto alcuni frammenti resi noti da G. Zampa. Importante è il Catalogo delle lettere di E. M. a M.L. Spaziani (1949-1964) depositate presso il Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia: lo ha curato G. Polimeni, con una premessa di M. Corti (Pavia 1999). 

Interviste a E. M. (1931-1981) è il titolo della monumentale tesi che Francesca Castellano ha discusso nel XXII ciclo del Dottorato di ricerca internazionale in italianistica presso l’Università di Firenze il 21 apr. 2010 (tutor Anna Nozzoli, coordinatore del Dottorato di ricerca G. Tellini). 

Degli autocommenti sollecitati al M. da S. Guarnieri ha dato conto L. Greco, M. commenta M., Parma 1980 (nuova ed. accr.,1990). 

Fonti e Bibl.: Autografi del M. hanno trovato posto in vari archivi pubblici e privati, tra i quali vanno segnalati almeno il Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia e l’Archivio contemporaneo «A. Bonsanti» del Gabinetto scientifico-letterario G.P. Vieusseux di Firenze: sulle carte pavesi si veda Autografi di M. Fondo dell’Università di Pavia, a cura di M. Corti – M.A. Grignani, Torino 1976, da integrare con Da M. a M. Autografi, disegni, lettere, libri (catal.), a cura di R. Cremante – G. Lavezzi – N. Trotta (Pavia 2004; Bologna 2005), che accoglie i materiali esposti nelle mostre di Pavia (Salone Teresiano della Biblioteca universitaria, 13 dic. 2004 – 15 genn. 2005) e di Lugano (Biblioteca comunale, 25 nov. 2005 – 21 genn. 2006). 

Lo Stato di servizio del M. è presso il Distretto militare di Genova (ne dà brevemente conto C. Cencetti, Gli «ossi brevi» di E. M. I «veri» significati, analisi metrico-stilistica, commento, presentazione di M. Martelli, acquarelli e disegni di L.M. Soriani, Corazzano 2006, p. 171); le carte relative al M. e al Partito d’azione sono all’Istituto storico della Resistenza in Toscana (Firenze); i documenti riguardanti il suo lavoro giornalistico nella sezione Carteggio, f. 744, ad nomen, dell’Archivio storico del Corriere della Sera

I libri donati dal M. alla Biblioteca comunale Sormani di Milano sono descritti nel Catalogo del Fondo M., a cura di V. Pritoni, presentazione di P. Florio, Milano 1996. 

G. Nascimbeni, con E. M., Milano 1969, ha inaugurato la serie delle ricognizioni biografiche intorno al M.: l’ultima edizione di quel saggio capostipite del genere è apparsa nel 1986 con il titolo M. Biografia di un poeta, ed è ovviamente affrancata dal gioco delle obbedienze che la prima di necessità presupponeva. Si vedano anche la Cronologia premessa da G. Zampa a Tutte le poesie, cit., pp. LV-LXXIX; la fotobiografia E. M. Immagini di una vita, a cura di F. Contorbia, introduzione di G. Contini, Milano 1985 (poi ibid. 1996); il volumetto in forma di lettera di F.M. Gibelli, Una domanda infinita. Ricordi intorno a E. M., Genova 1989; l’album di figure e testi M. a Forte dei Marmi, a cura di D. Papi, fotografie di G. Cipriani, Firenze-Siena 1997; i saggi di P. De Caro, Journey to Irma. Una approssimazione all’ispiratrice americana di E. M. Parte prima. Irma, un «romanzo», Foggia 1996 (nuova ed. accr., 1999), e Irma politica: l’ispiratrice di E. M. dall’americanismo all’antifascismo, ibid. 2001; di F. Merlanti, Da Firenze alla Liguria, «passando per Trieste». E. M. e L. Rodocanachi, e di F. Contorbia, Una Donna Velata tra Lucia e Irma, in L. Rodocanachi: le carte, la vita, a cura di F. Contorbia, Firenze 2006, pp. 37-100 e 101-128; e, ancora di P. De Caro, Invenzioni di ricordi. Vite in poesia di tre ispiratrici montaliane, Foggia 2007. 

La bibliografia critica che intorno al M. ha preso forma dal 1925 a oggi è quantitativamente sterminata e tipologicamente molto varia. In attesa della pubblicazione, ormai imminente, del repertorio di F. Castellano e Sofia D’Andrea, che copre gli anni 1925-2008, ci si può continuare ad avvalere della Bibliografia che a pp. 617-624 segue il profilo di E. M. redatto da R. Scrivano per I classici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, III, Da Fogazzaro a Moravia, Firenze 1977, pp. 553-616, e della Nota bibliografica che accompagna la storia e antologia della critica di P. Cataldi, M., Palermo 1991, pp. 183-194. Sugli scritti critici degli anni più recenti si vedano il Repertorio bibliografico ragionato (1994-1998), a cura di T. de Rogatis – F. Nosenzo – R. Castellana, nella sezione Bilanci: M. 1994-1998 di Moderna, I (1999), 1, pp. 225-286, e di P. Senna, Linee per una rassegna montaliana (1999-2004) con appendice bibliografica, in Testo, n.s., XXVI (2005), 50, pp. 109-137, e Rassegna montaliana. Aggiornamento (2005-2006)ibid., XXVIII (2007), 54, pp. 121-143. 

L’introduzione al M. più utilmente fungibile è la voce di P.V. Mengaldo, L’opera in versi, in Letteratura italiana (Einaudi), diretta da A. Asor Rosa, Le opere, IV, Il Novecento, t. 1, L’età della crisi, Torino 1995, pp. 625-666 (e Aggiornamento bibliografico, a cura di G. Macciocca, pp. 666-668), ripubblicata in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., pp. 66-120. 

Monografie: R. Lunardi, E. M. e la nuova poesia, Padova 1948 (rist. accr., Roma 1977); S. Ramat, M., Firenze 1965 (nuova ed., 1968); M. Forti, E. M. La poesia. La prosa di fantasia e d’invenzione, Milano 1973 e 1983; B. Mapelli, M. a Milano, Milano 1983; R. Luperini, Storia di M., Roma-Bari 1986; F. Croce, Storia della poesia di E. M., Genova 1991 (nuova ed. agg., Milano 2005); G. Marcenaro, E. M., Milano 1999; A. Marchese, M.: la ricerca dell’Altro, Padova 2000; E. Testa, M., Torino 2000 (vi è allegata la videocassetta, allestita con materiali d’archivio RAI, M. racconta M., a cura di G. Sica, regia di G. Barcelloni); G. Ioli, M., Roma 2002; A. Casadei, M., Bologna 2008; E. Gioanola, M. L’arte è la vita di chi veramente non vive, Milano 2011. 

Raccolte di studi: A. Jacomuzzi, Sulla poesia di M., Bologna 1968 (nuova ed., La poesia di M. Dagli «Ossi» ai «Diari», Torino 1978); d’A.S. Avalle, Tre saggi su M., Torino 1970; U. Carpi, M. dopo il fascismo. Dalla «Bufera» a «Satura», Padova 1971; G. Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su E. M., Torino 1974; A. Marchese, Visiting angel. Interpretazione semiologica della poesia di M., Torino 1977; M. Martelli, Il rovescio della poesia. Interpretazioni montaliane, Milano 1977; G. Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su M., Bologna 1980; R. Luperini, M. o l’identità negata, Napoli 1984; G. Orelli, Accertamenti montaliani, Bologna 1984; G.P. Biasin, Il vento di Debussy. La poesia di M. nella cultura del Novecento, Bologna 1985; M.A. Grignani, Prologhi ed epiloghi. Sulla poesia di E. M., Ravenna 1987; G. Ioli, E. M. Le laurier e il girasole, introduz. di M. Guglielminetti, Paris-Genève 1987; L. Barile, Adorate mie larve. M. e la poesia anglosassone, Bologna 1990; M. Forti, Nuovi saggi montaliani, Milano 1990; O. Macrí, La vita della parola. Studi montaliani, Firenze 1996; A. Marchese, Amico dell’invisibile. La personalità e la poesia di E. M., Torino 1996 (poi, a cura di S. Verdino, Novara 2006); F. Croce, La primavera hitleriana e altri saggi su M., a cura di N. Baccino – P. Zublena, Genova 1997; R. Scrivano, Metafore e miti di E. M., Napoli 1997; C. Scarpati, Sulla cultura di M. Tre conversazioni, Milano 1997; L. Barile, M., Londra e la luna, Firenze 1998; M.A. Grignani, Dislocazioni. Epifanie e metamorfosi in M., Lecce 1998; L. Surdich, Le idee e la musica. M. e Caproni, Genova 1998;  F. Contorbia, M., Genova, il modernismo e altri saggi montaliani, Bologna 1999; G. Zazzaretta, Studi su M., Ancona 2000; L. Blasucci, Gli oggetti di M., Bologna 2002; G. Lonardi, Il fiore dell’addio. Leonora, Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di M., Bologna 2003; A. Parronchi, Quaderno per M., con due dipinti di M. Marcucci, Novara 2003; S. Bozzola, Seminario montaliano, Roma 2006; R. Bettarini, Scritti montaliani, a cura di A. Pancheri, introd. di C. Segre, Firenze 2009. 

Volumi collettanei e atti di convegni: Omaggio a M., a cura di S. Ramat, Milano 1966; Contributi per M., a cura di G. Cillo, Lecce 1976; E. M. Profilo di un autore, a cura di A. Cima – C. Segre, Milano 1977 (poi Milano 1996); Letture montaliane in occasione dell’80° compleanno del poeta, Genova 1977; La poesia di E. M. Atti del Convegno internazionale… 1982, Milano-Genova 1983; La poesia di E. M. Atti del Convegno internazionale, Genova… 1982, a cura di S. Campailla – C.F. Goffis, Firenze 1984; Corriere della Sera 1876/1986. Dieci anni e un secolo. M. e il Corriere, a cura di F. Roncoroni, Milano 1986; Per la lingua di M. Atti dell’incontro di studio… 1987 (con appendice di liste alla concordanza montaliana), a cura di G. Savoca, Firenze 1989; Quaderno montaliano, a cura di P.V. Mengaldo, Padova 1989; Milano per M., tra via Bigli, via Solferino e la Scala, a cura di V. Scheiwiller, con un saggio introduttivo di M. Forti, Milano 1991; La Liguria di M. Atti del Convegno, La Spezia-Monterosso… 1991, a cura di F. Contorbia – L. Surdich, Savona 1996; ll secolo di M.: Genova 1896-1996Congresso internazionale per il primo centenario della nascita di E. M., Genova, … 1996 a cura della Fondazione Mario Novaro, Bologna 1998; M., la musica e i musicisti, a cura di R. Iovino – S. Verdino, Genova 1996; Atti del Seminario sul «Diario postumo» di E. M.Lugano… 1997, Milano 1998; Strategie di M. Poeta tradotto e traduttore (con una appendice sul M. in Spagna), Atti del Seminario internazionale di Barcellona su «La costruzione del testo in italiano» …1996, a cura di M. de L.N. Muñiz Muñiz – F. Amella Vela, Firenze 1998; M. e il canone poetico del Novecento, Giornate di studio su M., Pontignano-Siena… 1996, a cura di M.A. Grignani – R. Luperini, Roma-Bari 1998; M. a teatro (Milano… 1997), a cura di R. Tordi Castria, Roma 1999; Verdi e M. Musica e parole, a cura di A. Beverini, prefaz. di M. Ferrari, La Spezia 2001; M. dopo M. Persistenze e discontinuità a 50 anni dalla «Bufera», a cura di U. Fracassa. Atti delle giornate di studio… 2007, Genova 2008; Letture montaliane. In memoria di F. Croce (Genova, foyer del Teatro della Corte, novembre 2008 – febbraio 2009), a cura di V. Pesce, Genova 2009. 

Numeri integralmente o parzialmente monografici di periodici. Galleria degli scrittori italiani. E. M., a cura di G. Soavi – V. Sereni, in La Fiera letteraria, 12 luglio 1953, pp. 3-7; Stagione, a cura di M. Costanzo, II (1955), 6, pp. 3-6; Letteratura, a cura di S. Ramat, XXX (1966), 79-81 (poi, «con alcune aggiunte e sostituzioni», Omaggio a M., cit.); La Rassegna della letteratura italiana, a cura di W. Binni, s. 7, LXX (1966), 2-3; E. M., a cura di G. Tedeschi, in Chevron Club, V (1972), pp. 1-13; Dedicato a M., in Antologia Vieusseux, XVI (1981), 64, pp. 13-25; M.: una dolcezza inquieta, in La Regione Liguria, X (1982), pp. 25-64; M. Un decennio di oltrevita, in La Fortezza, II (1991), 2; Annuario della Fondazione Schlesinger, 1994; M. e gli altri, in Sigma, XX (1995) [ma 1996], 3; Poetiche, a cura di F. Curi, I (1996), 1, pp. 3-95; E. M. et la poésie ligurienne du XXème siècle, a cura di B. Rombi – M. Porcu, in Les cahiers de poésie-Rencontres, 1996, n. 41; Testimonianza per E. M., in Antologia Vieusseux, n.s., II (1996), 6; E. M. Il poeta e l’uomo nel centenario della nascita, in Boll. della Società letteraria di Verona, 1997, pp. 71-122; M. poeta, prosatore e critico a un secolo dalla nascita, in Sincronie, I (1997), 1; M. tradotto dai poeti, a cura di A. Francini, Semicerchio, XVI-XVII (1997), 1-2; Dedicato a E. M., in La Fortezza, VI (1995), 2; VII (1996) [ma ottobre 1998], 1; Sur E. M., inRevue des études italiennes, n.s., XLIV (1998), 3-4; Mezzo secolo di «Bufera», a cura di U. Fracassa, in Trasparenze, 2007, n. 30; Montaliana, in La Riviera ligure, XX (2009), 58, pp. 3-47; M. e il tempo delle «Occasioni», a cura di V. Crescente, preludio di F. Gurrieri, La casa dei doganieri, II (2009), 2-3. 

Cataloghi. Mantova per M. Immagini e documenti, a cura di V. Scheiwiller, Milano 1983; Una dolcezza inquieta. L’universo poetico di E. M., a cura di G. Marcenaro – P. Boragina, Milano 1996; I fogli di una vita. Le carte, i libri, le immagini di E. M., a cura di L. Barile – F. Contorbia – M.A. Grignani, Milano 1996. In particolare sull’opera grafica e pittorica del M.: La tavolozza color foglia secca di E. M., a cura di G. Marcenaro, Genova 1991; E. M. Parole e colori (catal., Cernobbio…), a cura di L. Cavadini, Lipomo 2002. 

«Omaggi» poetici: I poeti a M., Genova 1976 (poi I poeti per M., Genova s.d. [ma 1977]); 18 poeti per M. 1981-1991. Poesie inedite, presentazione di C. Bo, a cura di G. Ioli, Milano 1991. 

Concordanze. Concordanza di tutte le poesie di E. M. Concordanza, liste di frequenza, indici, I-II, a cura di G. Savoca, Firenze 1987; Concordanze del «Diario postumo» di E. M. Facsimile di manoscritti, testo, concordanze, a cura di G. Savoca, Firenze 1997. 

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Giuseppe Ungaretti

Nacque l’8 febbraio 1888, ad Alessandria d’Egitto, da Antonio e da Maria Lunardini, entrambi di origine contadina, provenienti dai dintorni di Lucca. 

Antonio, insieme con un fratello, era emigrato in Egitto prima del 1869, per lavorare nei cantieri del canale di Suez. Preceduto da un fratello, Costantino, nato nel 1880, Giuseppe crebbe con l’aiuto di una balia sudanese, di nome Bahita, e di un’anziana donna di nome Anna, delle Bocche di Cattaro. 

Dal 1897 Ungaretti frequentò l’Istituto don Bosco; poi, dal 1904, l’École suisse. Nel collegio salesiano affrontò le prime letture di Giacomo Leopardi; nella scuola svizzera, invece, ebbe i primi contatti con il Mercure de France, dove poté conoscere Baudelaire, Poe, e soprattutto Mallarmé e Nietzsche, tradotto da Henri Albert. Con lui studiava un giovane alessandrino di origine libanese, Moammed Sceab, di un anno più grande: entrambi simpatizzarono per l’idea anarchica, molto diffusa ad Alessandria. Ungaretti collaborò al Risorgete! Settimanale di propaganda atea, già attivo tra il 1907 e il 1909, e fu redattore per L’Unione della democrazia, dal gennaio 1908 al dicembre 1910. 

Appassionato alla storia e alla multipolarità culturale di Alessandria, Ungaretti divise i suoi primi interessi con due fratelli, Jean-Léon e Henri Thuile e nella biblioteca della loro casa poté immergersi in lunghe letture e meditazioni: i Thuile collaboravano alle ricerche su un porto di età pre-tolemaica, presso Pharos: nell’immaginario di Ungaretti, più tardi, il «porto sepolto». 

Trasferitosi al Cairo verso la fine del 1909, cominciò a collaborare con il Messaggero egiziano scrivendo di lettere italiane, per lo più, segnalando – tra l’altro – le Revolverate di Gian Pietro Lucini e appassionandosi a Giovanni Papini e all’attività della Voce. I primi scritti creativi, due novellette che definì Bizzarrie, apparvero il 9 e il 15 gennaio 1910; sempre per il Messaggero cominciò anche l’esperienza di traduttore, con la novella Silence di Edgar Allan Poe. 

Nell’autunno del 1912 Ungaretti partì da Alessandria per Brindisi, con destinazione finale Parigi: a Firenze incontrò Giuseppe Prezzolini e Piero Jahier; a Milano il pittore Carlo Carrà. Lasciò l’Italia con una lettera di raccomandazione scritta da Prezzolini a Salvatore Piroddi, incaricato di guidarlo nella capitale francese. A Parigi fu accolto da Moammed Sceab, che vi si era stabilito due anni prima, e da Christian Zervos, già nel gruppo della rivista letteraria Grammata. Iscritto alla Sorbona, apprezzò le lezioni di letteratura di Gustave Lanson e quelle del filologo Joseph Bédier. Conobbe, fuori dall’Università, molti artisti e letterati, soprattutto grazie a Louise Ricou, che teneva un salotto in boulevard Raspail, tra cui lo scultore Constantin Brancuşi e, soprattutto, Guillaume Apollinaire

Ai primi del 1913 Ungaretti aveva già conosciuto Francis Jammes, Paul Fort e il futuro genero di quest’ultimo, il pittore Gino Severini, nonché Charles Péguy, direttore dei Cahiers de la Quinzaine, Georges Sorel e il filosofo Confucio Cotti; poté ammirare Picasso e Henri Rousseau, e frequentare le Soirées de Paris, il mensile diretto da Apollinaire e da André Salmon; nel salotto di Elémir Bourges incontrò anche Marcel Proust. 

Il 9 settembre 1913 Moammed Sceab si tolse la vita: la prima poesia del Porto sepoltoIn memoria, segnò l’irreparabilità di quella cesura. Sempre nel 1913, in Italia, Papini e Ardengo Soffici, entrambi già in rapporti con gli ambienti parigini, si separarono dalla Voce di Prezzolini per fondare Lacerba. Soffici incontrò Ungaretti a Parigi nella primavera del 1914, durante l’esposizione dei futuristi italiani, cui parteciparono Filippo Tommaso Marinetti, Aldo Palazzeschi, Soffici, Umberto Boccioni, Carrà e Alberto Magnelli; in questa occasione, Ungaretti mostrò a Palazzeschi i suoi primi versi. 

Laureatosi alla Sorbona discutendo una tesi su Maurice de Guérin, tornò quindi in Italia per abilitarsi all’insegnamento nelle scuole; preparò l’esame in Versilia, dove aveva ritrovato un gruppo di anarchici capitanato da Enrico Pea (tra cui il pittore Lorenzo Viani e il poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi); ma fu a Milano che trovò un impiego come insegnante di francese. Nel novembre del 1914 manifestò a Prezzolini l’intenzione di arruolarsi; scriveva intanto a Papini, proponendogli una traduzione francese delle sue opere da affidare a Jean-Léon Thuile; e gli inviava alcune poesie – le prime pubblicate in Italia – che uscirono su Lacerba tra il 7 febbraio e l’8 maggio 1915. 

Il 22 maggio 1915 fu chiamato alle armi e assegnato al 53° reggimento di fanteria Vercelli: fu però inviato all’ospedale militare di Biella «per inabilità ai servizi militari». Il 23 ottobre si unì alla 2ª compagnia del reggimento, e arrivò in zona di guerra con il 19° fanteria, 8ª compagnia, brigata Brescia, alle pendici del monte San Michele, sul Carso. Il 31 marzo 1916 uscì sulla Voce la poesia Lindoro di deserto

Dal fronte Ungaretti stabilì rapporti epistolari con Gherardo Marone, ispanista, editore, promotore culturale e traduttore, che aveva fondato a Napoli una rivista letteraria mensile, La Diana, attiva dal 1915 al 1917; il 14 luglio gli confidò il progetto di pubblicare «un migliaio di versi», trascrivendogliene appena sette, intitolati Il Porto sepolto. Il libro fu stampato però a fine 1916 grazie all’interessamento del tenente Ettore Serra, classe 1890, conosciuto da Ungaretti in un turno di riposo a Versa; da lui ritirò le 80 copie del libro, il 16 dicembre, portandole con sé nella licenza di Natale trascorsa a Napoli, ospite di Marone. 

La prima recensione al Porto sepolto uscì il 4 febbraio 1917 nel Resto del Carlino, per l’autorevole firma di Papini; nello stesso mese Marone elogiò il libretto sul mensile Cronache letterarie; ancora Papini, in marzo, lo presentò sul Mercure de France; e sulla rivista Nord-SudApollinaire tradusse una poesia. 

Nel frattempo i soldati in possesso di un titolo di studio furono obbligati, nella primavera del 1917, a frequentare un corso per allievi ufficiali: Ungaretti fu trasferito alla 43ª compagnia presidiaria, 58ª divisione, XIII Corpo d’armata, per l‘addestramento; ma poiché il suo titolo di studio era stato conseguito all’estero, la frequenza del corso era facoltativa, e pertanto rimase un semplice fante. 

A ottobre 1916 La Riviera ligure, la rivista di Ceccardi, Mario Novaro e Camillo Sbarbaro, pubblicò Giugno, seguita da una sezione intitolata Intagli, con nuovi testi. Ancora, l’Antologia della Diana, in circolazione a fine 1917, ospitò Il ciclo delle 24 ore, dedicato a Papini. Sempre a Papini, Ungaretti aveva anticipato, a ottobre, un’idea narrativa dal titolo Le avventure di Turlurù: ma la ritirata di Caporetto, tra il 24 ottobre e il 9 novembre, non gli permise di portarla a termine. 

Nel febbraio-marzo 1918, fu dapprima a Brescia, poi a Parma e infine a Roma, presso l’ospedale militare del Celio; per tornare poi al fronte, sul versante francese. Di qui scrisse, a maggio, a Giuseppe Raimondi, direttore della rivista La Raccolta, dicendogli di voler mettere insieme nuove sezioni di testi e su quella rivista pubblicò Atti primaverili e d’altre stagioni. Durante la battaglia di Bligny, culminata nella notte tra il 14 e il 15 luglio, Ungarettti fu sfiorato da una scheggia alla tempia, rischiando la vita; Soffici, che allora era un ufficiale distaccato presso il comando d’armata, agevolò il suo trasferimento fuori dalla zona di guerra, a Parigi. 

Insignito della Croix de guerre, a cavallo dell’armistizio del 9 novembre, Ungaretti si unì al Sempre Avanti…, periodico delle truppe italiane in Francia. Nel giorno dei festeggiamenti per la fine della guerra, apprese la notizia della morte di Apollinaire. 

A Parigi continuò a lavorare a un nuovo libro, pubblicandone alcuni testi in diverse riviste, e collaborando con Littérature, fondata da Philippe Soupault, Louis Aragon e André Breton, e L’Action di Florent Fels e Marcel Sauvage.

In questi mesi il giornalista militante Benito Mussolini lo assunse come corrispondente del Popolo d’Italia, ove lavorò per circa un anno, prima di curare, dall’aprile del 1920, la rassegna stampa francese per l’ambasciata italiana. In primavera si consolidò il progetto della nuova raccolta destinata all’editore Vallecchi, con il titolo definito a fine anno di Allegria di naufragi. Il 12 agosto 1919 Ungaretti fu congedato dall’esercito con il grado di caporale. 

Dopo un breve soggiorno a Lucca, in agosto, e l’incontro con la redazione del Popolo d’Italia a Milano – Mussolini incluso –, Ungaretti riprese a Parigi la sua vita, piena di stimoli, ma anche di difficoltà economiche. Nel palazzo dove abitava conobbe una giovane insegnante, Jeanne Dupoix, con cui si unì in matrimonio il 3 giugno 1920 (e che sposò, poi, anche con rito religioso poco prima che morisse, il 10 gennaio 1958); nello stesso palazzo risiedevano Bernard Groethuysen e Jean Paulhan e aveva lo studio Giorgio de Chirico. 

Quando, all’inizio del 1921, Jeanne rimase incinta, cambiarono casa: in estate il nascituro, chiamato Jean-Claude, morì soffocato dal cordone ombelicale. Ebbero in seguito altri due figli: Anna Maria (detta Ninon), nata il 17 febbraio 1925, e Antonio, nato il 9 febbraio 1930 e morto il 20 novembre 1939 a causa di un’appendicite diagnosticata in ritardo. 

Alla fine dell’anno i coniugi si trasferirono a Roma, dove Ungaretti fu impiegato presso l’ufficio stampa del ministero degli Esteri; iniziò la collaborazione con Emilio Cecchi e con La Ronda; nell’estate del 1923 pubblicò il Porto sepolto, curato da Serra; nel marzo del 1924, da Jacques Rivière, direttore della Nouvelle Revue française, ebbe l’incarico di ricevere Paul Valéry a Roma. 

Nella primavera successiva, Ungaretti fu designato quale rappresentante in Italia della Nouvelle Revue française; nel febbraio del 1926, il poeta e traduttore belga Franz Hellens, direttore del Disque vert, gli organizzò un ciclo di letture nelle Fiandre e nei Paesi Bassi. In aprile divenne consulente del trimestrale letterario Commerce, finanziato dalla contessa Marguerite Caetani e curato da Valéry, Léon-Paul Fargue e Valery Larbaud (alla rivista, multinazionale e multilingue, collaboravano anche Paulhan, Saint-John Perse, Thomas Stearns Eliot, Hugo von Hofmannsthal e Dimitri Mirskij). Ungaretti vi contribuì con una sorta di antologia della letteratura italiana, dal Trecento alla contemporaneità, e vi fu inserito come autore, nella primavera del 1925 e nell’estate del 1927. 

Al 1926 data una foto che ritrae Ungaretti in duello, con tanto di pubblico e padrini, di fronte a Massimo Bontempelli, fondatore di 900, con il quale il poeta era venuto alle mani nel caffè Aragno, a Roma, dopo avere criticato un suo progetto di rivista italo-francese. 

Ai primi di dicembre, ad Alessandria d’Egitto, morì la madre. Alla fine di giugno del 1927 il poeta, sempre in difficoltà economiche per l’insistita precarietà nel lavoro, si trasferì con la famiglia a Marino, in una casa più grande ed economica. La visita compiuta al monastero di Subiaco, durante la settimana santa del 1928, ospite dell’amico Francesco Vignanelli, già anarchico poi frate benedettino, segnò l’iniziò della conversione di Ungaretti al cattolicesimo, di cui fu prima testimonianza l’Hymne à la Pitié, uscito nel dicembre del 1928 nella Nouvelle Revue française

Per tutto il 1929, Ungaretti continuò a collaborare con diversi quotidiani e periodiciIl Tevere, soprattutto, ma anche Il Resto del CarlinoIl Popolo d’Italia e L’Italia letteraria. Tradusse, inoltre, l’Anabase di Saint-John Perse, pubblicata due anni dopo su Fronte, e pubblicò sul Tevere alcune traduzioni tratte da William Blake. Tra aprile e giugno lavorò sull’opera di Lautréamont per L’Italia letteraria, e a fine anno iniziò la collaborazione con La Gazzetta del popolo, che dette vita a numerosi viaggi e reportages, confluiti poi nel Povero nella città (Milano 1949) e nel Deserto e dopo (Milano 1961). 

L’editore milanese Preda pubblicò nel 1931 un suo nuovo libro di poesieL’Allegria. Fu l’anno del ritorno in Egitto, raccontato nella Gazzetta del popolo in dodici articoli. Seguirono nel 1932 i viaggi in Corsica, a Montecassino, poi a Pompei e a Napoli. Come traduttore, Ungaretti si accostò a Luís de Góngora: tale attività fu poi raccolta in Traduzioni (Roma 1936) e Da Góngora e da Mallarmé (Milano 1948). Alla fine dell’anno arrivò invece un libro nuovo di poesie, Sentimento del tempo, edito nel 1933 da Vallecchi a Firenze, e da Novissima a Roma. 

Nello stesso 1933, Ungaretti divenne traduttore e curatore per la collana Quaderni di Novissima, cominciando a tentare la via dell’insegnamento accademico. In primavera, tenne una lezione presso la Scuola Normale superiore di Pisa che lo riempì di soddisfazione, mentre la nuova rivista Mesures, fondata da Henri Michaux, Groethuysen e Paulhan, lo accoglieva nella direzione. Seguì un viaggio in Puglia; poi, nel giugno del 1935, in Etruria. Nel 1936 i Quaderni di Novissima pubblicarono una nuova edizione dell’Allegria e del Sentimento del tempo. Poco dopo, Ungaretti accolse l’invito del governo argentino a partecipare agli Incontri Europa-America Latina di Buenos Aires. Durante quel viaggio gli venne offerta una cattedra di letteratura italiana da parte dell’Università di San Paolo del Brasile. Sempre nel 1936 morì ad Alessandria il fratello Costantino, rimasto in Egitto ad amministrare una fabbrica di prodotti chimici. 

Il 20 febbraio 1937 Ungaretti, con la sua famiglia, si imbarcò per San Paolo; a marzo iniziò i suoi corsi all’Università trattando di letteratura medioevale, Dante, Petrarca; e poi, di Manzoni e Leopardi, e della metrica. All’inizio del 1939 Ungaretti tornò in Italia: fu probabilmente durante quel breve soggiorno che venne arrestato per avere pubblicamente criticato le leggi razziali fasciste. Rilasciato per intervento di Mussolini, poté ripartire verso San Paolo. Seguirono mesi di doloroso e profondo silenzio, dopo la prematura scomparsa del figlio. Poi alcune conferenze di letteratura a San Paolo, a partire dall’ottobre del 1941. Nel 1942, quando il Brasile entrò in guerra a fianco degli alleati, Ungaretti fece ritorno a Roma. 

Nel 1942 concordò con Mondadori la pubblicazione della sua opera completa, con il titolo Vita d’un uomo, curata dall’amico e commentatore Giuseppe De Robertis. Il 29 ottobre diventò professore di letteratura italiana moderna e contemporanea, «per chiara fama», all’Università di Roma. Prese servizio in dicembre e tenne la prolusione inaugurale il 29 gennaio 1943. Tra il 1943 e il 1944 i corsi si interruppero, e il 31 luglio 1944 Ungaretti venne sospeso dall’insegnamento, per effetto dei decreti di epurazione antifascista. Riassunto il 1° agosto 1945, rimase a insegnare fino al 1958. 

Nel dopoguerra uscirono altre traduzioni: da poeti brasiliani e dai sonetti di Shakespeare; nell’agosto del 1946, progettò per Vallecchi una nuova opera, definita «melodramma», su spunti elaborati fin dagli anni Trenta e riveduti senza sosta; l’anno dopo pubblicò, per Mondadori, Il dolore (Milano 1947), nel quale riversò i lutti, i silenzi e le meditazioni di dieci anni. Nel 1950 uscirono altri due libri: La terra promessa. Frammenti (Milano; libro-cantiere intorno ai motivi del viaggio, della maturità, del ritorno a un’origine ritrovata), e quello che può considerarsi il vertice delle traduzioni ungarettiane: la Fedra di Racine (Milano). 

Alla fine del 1951, Ungaretti scrisse il Monologhetto, destinato al Terzo programma della radio (e uscito a stampa in Paragone); subito dopo pubblicò Un grido e paesaggi (Milano 1952) presso l’editore Schwarz, con disegni di Giorgio Morandi; a luglio del 1953 partì per la Spagna, su invito dell’Università di Salamanca, insieme con Carlo Emilio Gadda; a maggio del 1954 si fecero concrete le possibilità di una candidatura al premio Nobel, caldeggiata anche da Eliot. 

Fu intanto pubblicata una nuova edizione francese delle opere, intitolata Les cinq livres, per cura di Jean Lescure e verso la fine dell’anno Ungaretti partecipò a un convegno di poeti annesso al premio San Pellegrino, dove presentò Andrea Zanzotto. L’anno dopo partecipò a un’iniziativa dell’editore Vanni Scheiwiller in sostegno di Ezra Pound, detenuto al St. Elizabeths Hospital di Washington. In quei giorni Ungaretti lavorò a un libretto commissionatogli da Luigi Nono, tratto dal Diario di Anna Frank, destinato a essere però sostituito dai Cori di Didone, sempre musicati da Nono. 

Nel dicembre del 1958 il poeta incontrò a Cervia una giovane traduttrice forlivese, Jone Graziani, con cui tenne una corrispondenza erudita e amorosa fino al 1964. Nel 1959 tornò in Egitto insieme a Leonardo Sinisgalli, direttore di Civiltà delle macchine. Poi, con Paulhan e Jean Fautrier – presentatogli dallo stesso Paulhan – fece un viaggio intorno al mondo, passando per il Giappone e per Hong Kong. Tra i progetti di quegli anni che videro la luce Il taccuino del vecchio (Milano 1960). 

Nel 1962 gli Ultimi cori per la Terra promessa uscirono nella rivista francese Tel Quel per iniziativa di Francis Ponge; nel 1963 Ungaretti fu eletto presidente della Società europea di cultura e in quella veste visitò l’Unione Sovietica, pellegrino alla tomba di Boris Pasternak; nel 1964 partì per New York, invitato dalla Columbia University a parlare di Leopardi. 

Nel 1965 uscì a Parigi la traduzione delle prose di viaggio, intitolate À partir du désert, tradotte da Philippe Jaccottet; l’anno dopo Ungaretti tornò sul Carso, pronunciando il discorso Il Carso non è più un inferno; visitò poi la Biennale di Venezia, entusiasmandosi per l’opera di Alberto Burri; tornò quindi in Brasile, dove conobbe Bruna Bianco, poetessa ventiseienne di origini piemontesi, con la quale tenne un epistolario amoroso fino al 1968; all’inizio del 1967 andò in Israele con Leone Piccioni, riportandone suggestioni poi confluite nelle lettere a Bruna; nel 1968 tradusse per la RAI – Radio televisione italiana alcuni passi dell’Odissea, che recitò in televisione tra aprile e giugno; tornò ancora, quell’anno, in Brasile, quindi andò in Perù, per ricevere le lauree honoris causa a San Paolo e a Lima. 

Nel maggio del 1969 Ungaretti si recò presso l’Università di Harvard, per leggere e commentare la propria poesia («nessuna università italiana me lo ha mai chiesto», aveva scritto a Prezzolini) e visitò ancora New York.

Il 20 luglio seguì con i giornalisti di Epoca lo sbarco sulla Luna. Qualche mese prima aveva incontrato un nuovo amore, la giovane «capricciosa» di origine croata Dunja Glamuzina Belli, da lui accostata, in Croazia segreta, al ricordo di Anna, la donna delle Bocche di Cattaro conosciuta da bambino ad Alessandria. Dunja fu la dedicataria dell’ultima poesia di Ungaretti, L’impietrito e il velluto, composta a Capodanno del 1970 e uscita in una plaquette illustrata da Piero Dorazio. All’inizio dell’anno Ungaretti tornò negli Stati Uniti, per ricevere un premio dall’Università dell’Oklahoma. Una broncopolmonite lo costrinse a un ricovero a New York. 

Tornato in Italia, dopo una convalescenza a Salsomaggiore, si trasferì a Milano, dove morì improvvisamente nella notte tra il 1° e il 2 giugno 1970. 

I funerali furono celebrati il 4 giugno a Roma, nella chiesa di San Lorenzo fuori le Mura. La salma fu tumulata nel cimitero del Verano. 

Opere. Il volume Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, inaugurò la collezione I Meridiani Mondadori nel 1969. Seguirono: Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono – L. Rebay, Milano 1974; Album Ungaretti, a cura di P. Montefoschi, con un saggio biografico di L. Piccioni, Milano 1989; Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di P. Montefoschi, Milano 2000; la riedizione Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura e con un saggio introd. di C. Ossola, Milano 2009; Vita d’un uomo. Traduzioni poetiche, a cura di C. Ossola – G. Radin, Milano 2010. 

Per le edizioni critiche si vedano: L’Allegria, a cura di C. Maggi Romano, Milano 1982; Aggiornamento dell’ed. critica dell’Allegria, a cura di C. Maggi Romano, Firenze 1990; Sentimento del tempo, a cura di R. Angelica – C. Maggi Romano, Milano 1988; il saggio preliminare in D. De Robertis, Per l’ed. critica del «Dolore» di Ungaretti, in Studi di filologia Italiana, XXXVIII (1980), pp. 310-323; i 40 sonetti di Shakespeare, a cura di R. Terreni, Bologna 2009. 

Per le concordanze: Concordanza delle poesie di Giuseppe Ungaretti, a cura di G. Savoca, Firenze 1993; Concordanza delle traduzioni poetiche di Giuseppe Ungaretti, a cura di G. Savoca – A. Guastella, Firenze 2003. 

Tra le opere riproposte, oltre ai Meridiani, si segnalano: Vita d’un uomo. 106 poesie, a cura di G. Raboni, Milano 1966; Il Porto sepolto, a cura di C. Ossola, Milano 1981; Per conoscere Ungaretti. Antologia delle opere, a cura di L. Piccioni, Milano 1986; Poesie e prose liriche. 1915-1920, a cura di C. Maggi Romano – M.A. Terzoli, Milano 1989; Il povero nella città, a cura di C. Ossola, Milano 1993; Filosofia fantastica. Prose di meditazione e d’intervento (1926-1929), a cura di C. Ossola, Torino 1997; Il Porto sepolto (1922). Un libro inedito, a cura di F. Corvi, Milano 2005; Conversazioni radiofoniche con J. Amrouche (in francese: Propos improvisés, Paris 1972), a cura di H. Zirem – F. Calabrese, Potenza 2017. 

Fonti e Bibl.: Per una introduzione generale: L. Piccioni, Per conoscere U., Milano 1971; C. Ossola, G. U., Milano 1975; A. Cortellessa, U., Torino 2000; A. Saccone, U., Roma 2012; Id., G. U., in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Letteratura, Roma 2018, pp. 630-636. 

Sulla biografia: L. Piccioni, Vita di U., Milano 1979; Id., Ungarettiana. Lettura della poesia, aneddoti, epistolari inediti, Firenze 1980; W. Mauro, Vita di G. U., Milano 1990; S. Zoppi Garampi, Le lettere di U. Dalle cartoline in franchigia all’inchiostro verde, Roma 2018. 

Per una bibliografia su Ungaretti in particolare si vedano: R. Frattarolo, Lungo tempo ungarettiano. Materiali di studio, Roma 1989; Bibliografia, a cura di A. Cortellessa, in Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di P. Montefoschi, cit., pp. 1565-1632; M. Migliorati, U. per il terzo millennio. Bibliografia 2000-2005, in Testo, XXVIII (2007), 53, pp. 101-124. 

Per la corrispondenza: Lettere a un fenomenologo, Milano 1972 (dirette a Enzo Paci); Lettere a Soffici 1917-1930, a cura di P. Montefoschi – L. Piccioni, Firenze 1981; Lettere a Enrico Pea, a cura di J. Soldateschi, Milano 1983; G. Ungaretti – G. De Robertis, Carteggio 1931-1962, introd., testi e note a cura di D. De Robertis, Milano 1984; la raccolta, a cura di F. Livi, U., Pea e altri. Lettere agli amici egiziani. Carteggi inediti con Jean-Léon e Henri Thuile, Napoli 1988; Lettere a Giovanni Papini, 1915-1948, a cura di M.A. Terzoli, Milano 1988. E inoltre: la corrispondenza con Jean Paulhan (Correspondance 1921-1968, a cura di J. Paulhan – L. Rebay – J.Ch. Vegliante, Paris 1989); Lettere a Giuseppe Prezzolini, a cura di M.A. Terzoli, Roma 2000; Lettere a Giuseppe Raimondi (1918-1966), a cura di E. Conti, Bologna 2004; il Carteggio con Alessandro Parronchi, curato dallo stesso Parronchi, Napoli 1992; la Correspondance tra Ungaretti e Philippe Jaccottet, a cura di J.F. Tappy, Paris 2008; e ancora, quella con J. Lescure, Carteggio (1951-1966), a cura di R. Gennaro, Firenze 2010; l’epistolario con Carlo Betocchi, Lettere 1946-1970, a cura di E. Lima, Firenze 2012; le Lettere a Marguerite Caetani, a cura di S. Levie – M. Tortora, Roma 2012. Si segnalano, infine: L’allegria è il mio elemento. Trecento lettere con Leone Piccioni, a cura di S. Zoppi Garampi, Milano 2013; Lettere dal fronte a Mario Puccini, a cura di F. De Nicola, Roma 2014; Da una lastra di deserto. Lettere dal fronte a Gherardo Marone, a cura di F. Bernardini Napoletano, Milano 2015; Lettere a Bruna, a cura di S. Ramat, Milano 2018. 

Tra gli approfondimenti critici: L. Rebay, Le origini della poesia di G. U., Roma 1962; L. Anceschi, Da U. a D’Annunzio, Milano 1976; G. Cambon, La poesia di U., Torino 1976; G. Guglielmi, Interpretazione di U., Bologna 1989; M. Barenghi, U.: un ritratto e cinque studi, Modena 1999; F. Livi, Un “Affricano a Parigi”. Saggi sulla poesia di G. U., Roma 2016; G. Savoca, Naufragio senza fine. Genesi e forme della poesia di U., Firenze 2019. 

Tra i volumi miscellanei e i periodici si vedano almeno: gli Atti del Convegno internazionale… 1979, a cura di C. Bo et al., Urbino 1981; U. e la cultura romanaAtti del Convegno… 1980, a cura di R. Tordi, Roma 1983; G. U. 1888-1970Atti del Convegno internazionale di studi, Roma… 1989, a cura di A. Zingone, Napoli 1995; U. La biblioteca di un nomade, a cura di A. Andreoli, Roma 1997; Il verri, 2000, n. 13-14, numero speciale: Su U.La Revue des études italiennes, 2003, n. 1-2, numéro spécial: G. U. Culture et poésieTra grido e sogno. Forme espressive e modelli esperienziali nell’«Allegria» di G. U. Atti del Convegno, Friburgo… 2014, a cura di U. Motta, Bologna 2015.

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L’Ermetismo

Corrente letteraria fiorita in Italia, con epicentro a Firenze, intorno al 1930 e notevole soprattutto nel campo della poesia e della critica, anche se non mancarono significative influenze sul lavoro dei narratori. 

L’importante ruolo giocato dalla critica, e in particolare dalle riviste Frontespizio e Campo di Marte, conferì talora ai poeti ermetici i connotati di un gruppo fortemente omogeneo, quasi una scuola, sulla falsariga di uno spiritualismo di matrice cattolica e di un atteggiamento vagamente esistenzialista. Questa letteratura come vita’, secondo la celebre formula di C. Bo, valse a caratterizzare più di qualunque orientamento estetico la cultura letteraria di fatto egemone per oltre un ventennio in Italia, precisamente dalla fortunata circolazione delle opere di G. Ungaretti ed E. Montale, eletti a capiscuola, alla lunga querelle che, immediatamente dopo la guerra, contrappose gli ermetici e i fautori dell’impegno politico e sociale. 

Il tratto letterariamente più rilevante della poesia ermetica, e l’argomento più persuasivo dei suoi detrattori, rimase tuttavia una programmatica inclinazione all’oscurità, tipica della poesia moderna e solo contingentemente adibita alla illustrazione di una posizione filosofica precisa. Più dello spiritualismo e dell’agnosticismo politico, concepito peraltro come una reazione all’invadenza della dittatura fascista, contò dunque il proposito di aggiornare in senso antiaccademico, antipascoliano e antidannunziano una poesia che aveva vissuto l’esperienza delle avanguardie primonovecentesche da protagonista, ma non aveva mai assimilato davvero la grande lezione del simbolismo francese. Della immutata validità di tale lezione e della possibilità di restaurare una moderna koinè poetica all’insegna della ‘poesia pura’, si fecero promotori poeti allora giovanissimi, come S. Quasimodo, L. de Libero, A. Gatto, L. Sinisgalli, M. Luzi, P. Bigongiari, e critici come Bo, considerato il teorico dell’e., O. Macrì e G. Contini. A riprova della natura più latamente novecentesca del fenomeno, all’e. sono state accostate in seguito le linee di ricerca poetica che negli anni 1930 sembravano più nettamente volersene distinguere (A. Bertolucci, V. Sereni, G. Caproni, ma anche S. Penna e persino U. Saba, l’irriducibile avversario dell’oscurità ermetica), come pure le recenti riprese di una vocazione all’assolutezza poetica in tutto conforme all’estremismo letterario del secolo (A. Zanzotto). Il gusto per un linguaggio iniziatico e l’adesione incondizionata alle difficili ragioni della poesia contemporanea, che già furono della critica ermetica, sono state ereditate dalla critica di orientamento formalista.

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Filippo Tommaso Marinetti

Nacque il 22 dic. 1876, ad Alessandria d’Egitto, da Enrico e da Amalia Grolli.

I genitori, che vivevano more uxorio, si erano trasferiti in Egitto qualche anno prima della nascita del M. (preceduta nel 1874 da quella del primogenito Leone). Il padre, avvocato civilista originario di Voghera, inizialmente impiegato presso gli uffici commerciali della Società del Canale di Suez, aveva aperto studi anche a Ramleh, al Cairo e a Khartum e, soprattutto, era il legale personale del chedivè, Muhammad Tawfiq pascià; la sua frenetica operosità e l’abilità professionale gli permisero di accumulare un cospicuo patrimonio cui poi il M. avrebbe attinto per organizzare la sua futura attività cultural-imprenditoriale. A fronte del vorticoso ed esuberante attivismo paterno, la dolcezza comprensiva, la tenerezza della madre costituirono il punto alternativo di riferimento, e di abbandono, del M. ragazzo, il quale non tardò a manifestare la sua esplosiva vitalità nell’atmosfera sovreccitata di Alessandria.

I primi anni di vita del M. non hanno una precisa documentazione in quanto le rievocazioni autobiografiche (Scatole d’amore in conserva, Roma 1927; La grande Milano tradizionale e futurista – Una sensibilità italiana nata in Egitto, a cura di G. Ferrata, Milano 1969 – da lui scritti negli ultimi anni) si presentano in un’aura di suggestiva mitizzazione.

Se il racconto del M. risulta perciò parzialmente inaffidabile ai fini di una attendibile ricostruzione di eventi biografici, esso mette comunque in evidenza alcune costanti psicologico-esistenziali del personaggio: «la disponibilità alla lotta e alla guerra; il nazionalismo esasperato; l’individualismo presuntuoso; l’orgogliosa esaltazione delle invenzioni estetiche e vitali; il gusto del teatrale, del retorico, del barocco; il compiaciuto lirismo; la mitizzazione erotica, espressa soprattutto come volontà conquistatrice; la coloritura esotica» (Paglia, p. 32).

Di certo il M., nel 1888, iniziò a frequentare, ad Alessandria, il collegio St. François-Xavier dei padri gesuiti francesi.

Alle sollecitazioni ambientali e familiari, che condizionarono la struttura psicologica e la formazione umana e letteraria del M. – per esempio, le letture di Dante, volute dalla madre a parziale correttivo di un’istruzione scolastica prevalentemente francese, seguite da quelle di G. D’Annunzio, il Giovanni Episcopo, e di F. Petruccelli della Gattina, Il Re dei re –, si aggiunsero gli stimoli e le rivelazioni che gli provenivano dagli studi, suscitando in lui un acceso amore per la letteratura in generale e aprendogli, nello specifico, la possibilità di scoperte personali nell’ambito della letteratura francese. Inoltre, in questi anni dette una prima dimostrazione della sua abilità di organizzatore culturale fondando, con lo pseudonimo di Hespérus, una rivistina letteraria, Le Papyrus.

Nel 1893 il M. fu espulso dal collegio, fra l’altro per avervi introdotto alcune opere di É. Zola, autore all’Indice. Mentre il resto della famiglia rientrava a Milano, il M., per conseguire il baccalauréat – che ottenne col minimo dei voti il 13 luglio 1894 –, si stabilì a Parigi, approdando in una città che sarebbe rimasta suo costante punto di riferimento.

Ottenuto il diploma, raggiunse la famiglia nell’appartamento di via Senato 2 e prese quindi a seguire, insieme con lo sfortunato fratello Leone (morto nel 1895 per le complicazioni cardiache di un’artrite trascurata), i corsi di giurisprudenza dapprima nell’Università di Pavia e poi in quella di Genova dove si laureò, il 17 luglio 1899, discutendo una tesi su «La Corona nel governo parlamentare» col prof. A. Ponsiglioni. Contemporaneamente il M. aveva dato inizio alla sua attività di poeta e scrittore: nella rivista italo-francese Anthologie-Revue, stampata a Milano e diretta da E. Sansot-Orland, uscirono, nel 1898, sul n. 6 (20 marzo) la poesia L’échanson e, sul n. 12 (20 settembre), il poemetto Les vieux marins, in «versi liberi», con il quale vinse il concorso bandito nell’ambito dei Samedis populaires (o Samedis de poésie ancienne et moderne), pubbliche letture organizzate a Parigi dai simbolisti C. Mendès e G. Kahn. Nella rivista fiorentina Il Marzocco apparve poi un altro poema, La tour d’amour (19 nov. 1899, n. 43).

Le opere del periodo iniziale del M., che può definirsi di «incubazione futurista», sono scritte in francese e della ricerca letteraria all’epoca in atto in Francia principalmente si alimentano: in primis dell’esperienza del decadentismo ma soprattutto di quella della poesia simbolista, con un insistito utilizzo di metafore e procedimenti analogici che privilegiano le figure di «maggiore carica dialettica» (Paglia, p. 55), in funzione di linee tematiche aderenti principalmente al mondo della natura (sere, tramonti, vento, alberi, prati, luna).

Conclusi gli studi, il M. proseguì quindi, e intensificò tra Parigi e Milano, in veste di autore e promotore, l’attività culturale: il temperamento vulcanico e le notevoli disponibilità economiche, garantite dalla ricchezza paterna, gli consentirono di inserirsi con una certa facilità negli ambienti letterari e nella buona società della metropoli lombarda, dove venne a contatto con gli scrittori più noti (da M. Praga a E.A. Butti, da Guido da Verona a S. Benelli, da G. Botta a L. Capuana, da A. Colautti a U. Notari). Si dedicò anche a un’intensa collaborazione con importanti riviste francesi (La PlumeLa VogueLa Revue blanche, il Mercure de France) e cominciò a prodursi come conferenziere.

In Italia, in particolare, si ritagliò il ruolo di «difensore e profeta» del simbolismo francese, tenendo non solo conferenze ma anche vere e proprie esibizioni, in cui manifestò doti di buon declamatore al servizio di composizioni di Ch. Baudelaire, S. Mallarmé, P. Verlaine, A. Rimbaud. Contemporaneamente valorizzava e metteva a fuoco la propria immagine in un costante e riuscito esercizio di autopromozione che praticò di fatto per tutta la vita.

Nel 1902 il M. perse la madre, cui era molto legato e, nello stesso anno, apparve il suo primo volume, La conquête des étoiles (Paris; trad. it. di D. Cinti La conquista delle stelle, Milano 1920), cui seguirono, oltre a un volumetto su D’Annunzio intime (Milano 1903) – autore che per il M. fu oggetto sempre di un ambiguo sentimento di amore-odio –, La momie sanglante (ibid. 1904), Destruction (Paris 1904; trad. it. di D. Cinti Distruzione, Milano 1920) e la tragedia ilare Le roi Bombance (Paris 1905; trad. it. di D. Cinti Re Baldoria, Milano 1910; prima rappresentazione Parigi, théâtre de l’Oeuvre, 3 apr. 1909, direzione di A. Lugné-Poë; prima rappresentazione italiana, Roma, teatro del 2000, 4 apr. 1929).

Il trittico iniziale riecheggia ancora motivi e modalità della poesia simbolista i quali però, espressi con un ritmo accelerato e barocco, accompagnati da una stupefacente quantità di immagini analogiche e da un’accentuata semplificazione delle strutture sintattiche, preludono ai folgoranti accostamenti delle «parole in libertà». In questi primi lavori, non infrequenti figurazioni di derivazione romantica si pongono spesso a contrasto con raffigurazioni prefuturiste, secondo una linea di sviluppo che conduce alla doppia polarità dell’amore e della sensualità da una parte e del vitalismo e dell’esaltazione dell’universo tecnologico dall’altra. In La conquête des étoiles, poema epico in 19 canti per complessivi tremila versi, si racconta un sogno in cui il Mare tenta la conquista delle Stelle descrivendo «i due eserciti di acque oceaniche che si scavalcano per addentare gli spalti della Via Lattea» (La grande Milano…, p. 62); La momie sanglante è l’apocalittica descrizione della «resurrezione» di una mummia, ancora immersa in un clima macabro e fantastico di chiara ascendenza tardoromantica; infine, in Destruction, uno fra gli esiti maggiori del primo periodo del M., si raffigura, in stretto rapporto con quanto narrato nella Conquête, «lo scatenamento contro i Continenti, contro le Città e contro la donna» degli «eserciti simbolici del Mare che dovevano poi scagliarsi alla Conquista delle stelle», in una spirale vorticosa di immagini plastiche e figurali, fortemente deformate dalla carica visionaria, dalla violenza espressionistica e dall’aggressività linguistica del Marinetti.

Alle stesse leggi espressive delle opere di poesia rispondono i lavori teatrali di questo primo periodo: nel giovanile Dramma senza titolo (dramma storico di «amore e morte» ambientato a Venezia, scritto tra Otto e Novecento, ripudiato dal M. e pubblicato per la prima volta nel 1960 in Teatro, a cura di G. Calendoli, nella trad. it. di Benedetta Marinetti) si incontra la torrenziale carica retorica tipica del M. presente anche nella pantagruelica metafora gastronomica Le roi Bombance, in cui la fame inesauribile che muove tutta l’azione costituisce e rappresenta una sorta di violenta energia primordiale di stampo oramai futurista.

Nel 1905 il M. fondò la rivista internazionale Poesia, diretta per i primi sette numeri con Benelli e V. Ponti, quindi da solo fino al 1910.

L’ampia rete di rapporti che il M. aveva saputo stabilire e una linea programmatica iniziale di vaga intonazione estetizzante, tale da permettere la convivenza di personalità anche diverse, ne fecero subito un polo di attrazione per scrittori e poeti di varia collocazione artistica, di cui venivano pubblicati testi inediti; tra gli altri: D’Annunzio, C. Roccatagliata Ceccardi, G. Pascoli, Mendès, Kahn, Trilussa (C.A. Salustri), R. Bracco, G. Gozzano. In seguito, il M. ne accentuò il carattere innovativo soprattutto con la pubblicazione di un’inchiesta internazionale sul verso libero (1907) che rappresentò l’antecedente immediato dei manifesti futuristi.

Nel 1908 il M. pubblicò il libello Les dieux s’en vont, d’Annunzio reste (Paris) e la raccolta poetica La ville charnelle (ibid.; in parziale trad. it.: Lussuria-Velocità, Milano 1921).

Il primo, ispiratogli dalla partecipazione, nel 1907, ai funerali di G. Carducci, affermava la superiorità di quest’ultimo, in nome di una sua «virilità» poetica, sulla «femminile leggiadria» di D’Annunzio (ma, a ulteriore testimonianza dell’ambivalente rapporto che il M. ebbe sempre con il pescarese, se ne veda la commossa rievocazione, pubblicata dal M. in Gazzetta del popolo di Torino il 3 marzo 1938). Il secondo, ben più significativo, raccoglie una serie di liriche ispirate alla città moderna, il cui tratto comune è rappresentato dall’esaltazione della modernità, della velocità, della macchina, con particolare riguardo all’«Automobile da corsa», immagine dinamica del progresso.

L’evoluzione dell’estetica marinettiana – secondo una prospettiva che fu sempre globale, implicando sia l’attività letteraria o genericamente artistica sia quella politica – si alimentò, e giunse a maturazione, nel clima di intenso fervore produttivo e tecnologico, ma anche di presentimenti di guerra che si respirava in quegli anni in Italia. In quello stesso 1908, a Trieste, con un gesto rivelatore delle sue posizioni politiche, il M. partecipò ai funerali della madre di G. Oberdan e successivamente intervenne alla Società ginnastica triestina in merito ai gravi incidenti occorsi a Vienna agli studenti italiani, provocando tumulti che gli costarono l’arresto.

L’anno dopo, nel 1909, pubblicò l’azione teatrale Poupées électriques (Paris; rappresentata in italiano col titolo La donna è mobile: Torino, teatro Alfieri, 15 genn. 1909) e nel 1910 il romanzo Mafarka le futuriste (Paris; trad. it. di D. Cinti Mafarka il futurista, Milano 1910). Fu a causa di questo romanzo che il M. subì, in Italia, un processo per oltraggio al pudore per cui venne inizialmente assolto l’8 ott. 1910, quindi condannato in appello e in Cassazione.

Ambedue le opere sono testimonianza di una fase sperimentale di transizione: la pièce alterna modi e situazioni del teatro tradizionale borghese (un intreccio amoroso tra due coppie) a strutture e idee anticipatrici del teatro di avanguardia, collocate particolarmente nel secondo atto che il M. avrebbe più tardi rappresentato isolatamente col titolo di Elettricità sessuale. Nel romanzo è evidente lo squilibrio tra la modulazione artisticamente controllata di alcuni passi e la proliferazione, altrove, delle più diverse modalità stilistiche e narrative.

Ma il 1909 riveste particolare significato nella biografia del M. soprattutto per la pubblicazione, il 20 febbraio, di Fondazione e Manifesto del futurismo – apparso in francese, in forma di articolo accompagnato da una breve presentazione, in Le Figaro e preceduto da almeno altre 11 versioni, a cominciare da quella originale sulla Gazzetta d’Emilia di Bologna del 5 febbraio –, comunemente considerato l’atto fondativo del movimento futurista: movimento concepito dal M., e dai suoi numerosi adepti, non solo come fenomeno artistico globale, concernente, quindi, tutti i linguaggi espressivi, ma anche come attivo fattore politico. In effetti Fondazione e Manifesto fu immediatamente accompagnato da un primo manifesto politico, di tono violentemente anticlericale, diffuso in volantini lanciati in occasione delle elezioni generali del marzo 1909 (vedi in M. e il futurismo, Roma-Milano 1929, pp. 39 s.); seguì, nello stesso 1909, Uccidiamo il Chiaro di Luna! (del successivo aprile, in Poesia, V, n. 7-8-9; poi in volume, Milano 1911). 

Il «manifesto», in quanto scritto programmatico e teorico che imposta, definisce e indirizza un movimento artistico e/o politico, fu di fatto «reinventato» dal M. che riuscì «a trasformare un’arida presentazione teorica, in una vivace rappresentazione artistica, quasi una prerealizzazione, speculare, delle linee programmatiche» (Paglia, p. 64), creando in pratica un nuovo genere letterario.

E, in effetti, il Manifesto del futurismo del 1909 presenta un vero e proprio andamento narrativo, carico di immagini barocche e sfarzose alternate a passaggi incisivi che impongono una velocizzazione al ritmo del discorso: si apre con la descrizione della notte insonne dei pionieri del futurismo, continua con quella della corsa turbinosa in automobile e del bagno nell’acqua fangosa del fossato dell’officina, simboleggiante la rinascita dell’uomo dalla «grande madre industriale», e, quindi, prosegue presentando il quadro programmatico globale della nuova civiltà futurista, sintetizzabile nelle polarità tematico-espressive comuni alle avanguardie del Novecento – l’attivismo-vitalismo, l’antagonismo a ogni ordine costituito, il nichilismo violento e distruttivo, l’agonismo spinto fino al superamento di ogni limite (cfr. R. Poggioli, Teoria dell’arte di avanguardia, Bologna 1962) –, cui si aggiungono le idee più proprie al M.: l’esaltazione del mondo industriale e della velocità; il disprezzo della donna collegato alla glorificazione della guerra, del militarismo, del patriottismo; la polemica contro i passatisti, nella proiezione verso il futuro e nella prefigurazione dell’«uomo meccanico e moltiplicato e del regno della macchina». Altrettanto torrenziale e violento risulta lo svolgimento narrativo di Uccidiamo il Chiaro di Luna!, in cui il discorso allegorico vede protagonisti i Podagrosi e i Paralitici, a rappresentare i passatisti, contrapposti ai Pazzi e alle Belve, le forze istintive e vergini della natura, e l’uccisione del «Chiaro di Luna», sostituito da trecento lune elettriche, esprime l’avvento della civiltà tecnologica.

Il M., con intuizione autenticamente precorritrice, aveva afferrato il nesso che collega i metodi pubblicitari dell’industria alla diffusione delle idee, sia nel campo dell’arte sia in quello della politica, e la fondamentale influenza delle «diverse forme di comunicazione, di trasporto, d’informazione, per cui arte e industria si scambiano di continuo le parti»; si lanciò, dunque, in una frenetica attività di propaganda del movimento, procurando nuove e numerose adesioni che trovavano ottimo terreno di coltura negli ambienti dell’avanguardia protonovecentesca italiana. Tra il 1909 e il 1911 entrarono a farne parte, tra gli altri, A. Palazzeschi, E. Cavacchioli, C. Govoni, L. Altomare, L. Folgore, il musicista F.B. Pratella, i pittori U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla e G. Severini.

Si susseguirono così, fra i primi e più significativi manifesti relativi alle diverse espressioni artistiche: Manifesto dei musicisti futuristi dell’11 ott. 1910 e il Manifesto tecnico della musica futurista dell’11 marzo 1911, entrambi redatti da Pratella; per la pittura, Manifesto dei pittori futuristi dell’11 febbr. 1910, firmato da Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini; per la scultura, Manifesto tecnico della scultura futurista dell’11 apr. 1912, firmato da Boccioni oltre ai manifesti politici (per tutti e anche per quelli a seguire si rimanda in breve a: Manifesti proclami interviste e documenti teorici del futurismo 1909-1944, rist. anast., Firenze 1980; nonché Archivi del futurismo, Milano-Roma 1986).

Altra manifestazione originale e caratteristica della prima fase del movimento furono le serate futuriste che ebbero inizio il 12 genn. 1910, al politeama Rossetti di Trieste, e proseguirono poi in numerose altre città italiane.

Tenute in teatri, ritrovi letterari, gallerie d’arte, sin dall’inizio si configurarono secondo un «copione» che prevedeva lo scontro dialettico – con corollario di proteste e discussioni che spesso degeneravano in rissa – tra i futuristi, i quali dal palco, ma anche dalla platea, propugnavano in vario modo il loro credo e dissacravano l’arte tradizionale e gli spettatori dissenzienti. Per il M. rappresentarono l’opportunità di dare sfogo al lato istrionico del suo carattere improvvisando discorsi, declamando versi, presentando quadri o esecuzioni musicali.

Nel 1911 il M. – da poco trasferita la sua residenza milanese da via Senato alla «casa rossa» di corso Venezia 61 – accolse entusiasticamente lo scoppio della guerra italo-turca e si recò in Libia come osservatore, inviato del giornale francese L’Intransigeant (le sue corrispondenze, raccolte in volume, furono pubblicate come La battaglia di Tripoli, Padova 1912).

Proprio la conquista di Tripoli gli dette occasione per scrivere il secondo manifesto politico, datato 11 ott. 1911, in cui compare la celebre definizione della guerra «sola igiene del mondo» (cfr. Archivi del futurismo, cit., p. 31). In sintonia con l’esaltazione bellica di questo periodo, uscì in Francia il «romanzo profetico» Le monoplan du pape (Paris 1912; trad. it. L’aeroplano del papa, Milano 1914), una dilungata fantasticheria grottesca, ferocemente antipacifista, dominata dalla figura dello scrittore-protagonista in veste di aviatore. 

Nel biennio 1912-14, comunque, il M. si adoperò fondamentalmente sul versante delle enunciazioni teoriche di poetica e tecnica letteraria pubblicando – dal 1913 spesso anche nel periodico fiorentino Lacerba, allineatosi al futurismo, con i suoi più importanti collaboratori, G. Papini, G. Prezzolini, A. Soffici – Manifesto tecnico della letteratura futurista (11 maggio 1912) con le conseguenti, chiarificatrici, Risposte alle obiezioni (11 ag. 1912) e con, alla stessa data, il primo esempio di scrittura paroliberaBattaglia Peso+Odore (tutti inseriti nell’Antologia dei poeti futuristi, Milano 1912); Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà (Milano, 11 maggio 1913); e Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica (ibid., 18 marzo 1914). Questi fondamentali documenti, stilisticamente lineari, incisivi e, a differenza dei primi manifesti, raramente percorsi da accensioni liriche, inaugurano una nuova fase dell’attività del M. quella, appunto, delle parole in libertà e delle tavole parolibere, intesa a delineare il quadro delle modalità «tecniche» poste a fondamento della letteratura futurista, articolate principalmente intorno a tre poli.

Il primo è focalizzato sulla velocità di registrazione del reale da raggiungersi attraverso una rivoluzione linguistica – di fatto la prima radicale rivoluzione linguistica del nuovo secolo di cui il M. ebbe, al solito, una precoce intuizione – attuata attraverso la distruzione della sintassi tradizionale per il tramite, soprattutto, dell’uso del verbo all’infinito, della sistemazione a caso dei sostantivi, dell’eliminazione di aggettivi, avverbi, congiunzioni e della punteggiatura, sostituita, per le indicazioni di movimento e di direzione, con segni matematici e grafici e, per regolamentare la velocità dello stile, con indicazioni musicali (presto, più presto, ecc.). Il secondo polo prendeva in considerazione le molteplici modalità della percezione del reale, che andava collegata, anche in letteratura, a stimoli inerenti a tutti e cinque i sensi (visivo, olfattivo, auditivo, tattile e gustativo) e alla diversità delle prospettive atte a moltiplicarla; la scomposizione degli oggetti che ne derivava doveva essere ricondotta a unità, sulla pagina, attraverso gli strumenti di trascrizione utilizzando la deformazione delle parole, che confluisce nell’onomatopea – dal M. suddivisa in diverse tipologie in rapporto al grado più o meno alto di rarefazione realistica, di precisione imitativa e di complessità figurativa –, cui corrisponde una rivoluzione tipografica operata attraverso la diversità dei caratteri tipografici e la colorazione delle lettere. Il terzo polo, di sicura derivazione simbolista, si riferisce all’ampiezza e alla concatenazione del sistema analogico.

Attraverso questa complessa teorizzazione il M., mosso da una sorta di ossessione lirica della materia, mirava a cancellare dall’ambito della letteratura l’Io come oggetto di analisi e come soggetto ordinatore e filtro del reale, nell’aspirazione di «penetrare l’essenza della materia e distruggere la sorda ostilità che la separa da noi».

Zang Tumb Tumb (Milano 1914; cui si può aggiungere Dune, in Lacerba, n. 4, 15 febbr. 1914) trasferisce sul piano della realizzazione artistica le teorie del Marinetti.

Diviso in dieci settori, il poema ha per centro tematico la prima guerra balcanica alla quale il M. aveva assistito come inviato del francese Gil Blas. La scrittura dell’opera, fondata sulle modalità stilistiche teorizzate nei Manifesti, è caratterizzata dall’addizione vorticosa del narrato e dal senso di sforzo che nasce appunto dalla volontà di costruirla secondo tali modalità. La scomposizione in segmenti minimi del reale, così come risulta nelle tavole parolibere, spinge il M. a tentare poi una tessitura di infiniti collegamenti per ricostituirne la globalità, tentativo spesso non riuscito a causa dell’automatismo analogico troppo ricercato e arbitrario. Anche la moltiplicazione del significante (l’espressione sintagmatica, la rappresentazione iconica, l’estensione fonica e onomatopeica), che appare la soluzione più suggestiva attuata dal M., risulta viziata da una certa meccanicità di composizione e non sempre giunge a realizzare l’invenzione risolutiva.

Nel vasto ambito della teorizzazione futurista anche il teatro, luogo deputato di molte serate futuriste, medium e genere letterario di vasta diffusione, fu oggetto dell’azione rivoluzionaria e contestatrice animata dal M. e concretata, al solito, nei manifesti accompagnati dalla relativa sperimentazione. Già nel gennaio 1911 era comparso (Milano) un primo Manifesto dei drammaturghi futuristi firmato dal M., ma più significativo fu Il teatro di varietà (in Lacerba, n. 19, 1° ott. 1913) dove un articolato e argomentato attacco era portato al teatro tradizionale «che ondeggia stupidamente tra la ricostruzione storica […] e la riproduzione fotografica della […] vita quotidiana» (Paglia, p. 95), seguito da Il teatro futurista sintetico in due volumetti, curati con B. Corra (B. Corradini) ed E. Settimelli (I, Milano s.d. [ma 1915] e II, Suppl. teatrale alla rivista Avvenimenti, 2-9 apr. 1916, pp. 3-30), i quali raccolgono, nel primo, la parte propriamente critica e programmatica del Manifesto(datato 11 genn. 1915) più 36 esemplificazioni (sintesi); nel secondo 43 sintesi del M. e di altri scrittori futuristi.

Nella pars destruens del Manifesto venivano ribadite pesanti accuse alla prolissità, all’insignificanza degli svolgimenti teatrali tradizionali e alla regola della verosimiglianza dell’intreccio cui erano contrapposte la rapidità, la sinteticità dell’azione drammatica futurista in cui dovevano «concentrarsi innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli» e che «non somiglierà che a se stessa, pur traendo dalla realtà elementi da combinarsi a capriccio» (Paglia, p. 96). Per raggiungere la finalità di «divertire» e di meravigliare cui il teatro futurista avrebbe dovuto tendere, la ricerca sperimentale del M. si sviluppò in molteplici direzioni: la caricatura, il ridicolo, il grottesco, la satira e l’assurdo; vennero realizzate nuove concrete sperimentazioni relative agli elementi fondativi del linguaggio teatrale: la luce, il suono, il rumore, la parola. Carattere specifico del teatro futurista doveva essere quello della imprevedibilità, dello shock emotivo prodotti dalla alogicità e irrealtà dell’assunto, come teorizzò qualche anno dopo, procedendo lungo questa linea di sviluppo, il manifesto Il teatro della sorpresa (1° ott. 1921) firmato dal M. e da F. Cangiullo. Nell’ambito della sperimentazione tecnico-linguistica delle sintesi del M. – del resto strettamente correlata a quella letteraria –, proposte particolarmente originali e significative furono quella della compenetrazione di ambienti diversi, due abitualmente, e della «simultaneità» delle azioni che a questi ambienti corrispondevano; e quella tesa a rendere esplicita la «vitalità» narrativa insita negli oggetti inanimati. Di fatto il M. imponeva alle sue pièces una «forma binaria, di contrapposizione più che di sintesi […] che si può far ascendere all’istanza polemologica» (Paglia, p. 104), o più semplicemente dissacratoria e polemica, insita in tutta la sua produzione, e le sintesi, pur essendo indubbiamente originali e innovative, non riuscirono comunque a definirsi come coerente linguaggio drammatico. Affrontarono, comunque, tematiche nuove (come quella dello sdoppiamento della personalità), rivoluzionarono la concezione dello spazio scenico, moltiplicandolo e stabilendo connessioni fra la scena e la platea, e in definitiva aprirono la strada alle realizzazioni di autori contemporanei o posteriori al M.: il «teatro dell’assurdo o del grottesco» di L. Chiarelli e L. Antonelli, le «tragedie in due battute» di A. Campanile, le azioni sceniche dello stesso L. Pirandello e, nel secondo Novecento, il teatro di E. Jonesco e S. Beckett.

La prospettiva della confluenza o interazione delle arti, che il M. aveva mutuato dal decadentismo (Gesamtkunstwerk), e la visione globalizzante imposta al movimento fin dagli inizi comportarono che, nel corso degli anni, altre espressioni artistiche fossero prese in esame e reinterpretate in chiave futurista (La danza futurista, 1917; Il grande manifesto della fotografia futurista, 1931); né il M. si peritò successivamente di occuparsi di sport e di cucina (Mie proposte di nuovi sports, 1928; Il manifesto della cucina futurista, in collab. con Fillia [L.E. Colombo], 1930; Verso una imperiale arte cucinaria, 1938), antropologicamente parificati alle altre manifestazioni della vita e dell’arte. Meno estrinseco e casuale il rapporto con le nuove forme espressive, significativamente a cavaliere fra arte e tecnologia, nate e velocemente sviluppatesi in quegli anni: la radio (Perché mi piace la radio, 1932; Manifesto futurista della radio, in Futurismo, n. 55, 1° ott. 1933) e, soprattutto, il cinema.

Benché non si possa parlare in senso stretto di un cinema futurista, il mezzo era comunque vicinissimo alla sensibilità e alla visione poetica del movimento. Si possono quindi evidenziare l’interesse costante e le momentanee convergenze: in particolare il manifestoLa cinematografia futurista (in L’Italia futurista, n. 9, 11 sett. 1916) in cui il M. (firmatario con Corra, Settimelli, A. Ginna [A. Ginanni Corradini], Balla e R. Chiti) pone un’ipoteca sul nuovo linguaggio e, corrispettivo concreto del manifesto, il film Vita futurista (1916; la pellicola, a eccezione di alcuni fotogrammi, è perduta, ed ebbe scarsissima diffusione), diretto e prodotto da Ginna cui il M. dette un contributo anche come attore. Lo stesso M. fu, inoltre, soggettista del film Velocità di A.G. Bragaglia (1917) e, più tardi, avrebbe dedicato al cinema altri manifesti e articoli (La cinematografia, 1938; I poeti e la cinematografia, 1938).

Nella prima fase del movimento si registrarono importanti, anche se temporanee, adesioni al gruppo futurista e il suo influsso, rivoluzionario e stimolante, si fece sentire anche fuori dalla Francia, seconda patria culturale del M., e dall’Italia: in Russia, in Catalogna, in Inghilterra, fino al Brasile e al Giappone.

Con l’approssimarsi della guerra il M. – la cui accesa ideologia nazionalista, antiparlamentare e antidemocratica, era mutuata dai teorici dell’Action française, quali L. Daudet e Ch. Maurras si diede a un’intensa campagna interventista organizzando, con i compagni futuristi, una serie di dimostrazioni: dalla manifestazione milanese del settembre 1914 a quelle romane del febbraio e dell’aprile 1915, cui fu presente, tra gli altri, B. Mussolini; tutte corredate, per il M., da fermo e arresto. Arruolatosi, fin dall’agosto 1914, nel battaglione lombardo volontari ciclisti, all’ingresso dell’Italia nel conflitto vi prese parte come alpino.

Partecipò ai combattimenti sul monte Altissimo, in particolare alla presa delle alture di Doss Casina (ottobre 1915); alla battaglia del monte Cucco (Kuk) – dove, il 14 marzo 1917, fu ferito all’inguine e alle gambe e ricoverato all’ospedale di Udine, si guadagnò la promozione a tenente e la medaglia di bronzo –; quindi, all’offensiva finale di Vittorio Veneto, nel corso della quale ottenne la seconda medaglia di bronzo, entrando, il 4 nov. 1918, a Tolmezzo con la sua autoblinda.

L’esperienza bellica del M., in base alla conclamata identificazione tra speculazione teorica, arte e vita vissuta, ebbe un immediato riflesso sul piano dell’attività culturale: a fini propagandistici furono pubblicati, cofirmati da altri esponenti futuristi, documenti e manifesti.

In particolare, in data 20 sett. 1914: Sintesi futurista della guerra e nel gennaio 1915: L’orgoglio italiano (Manifesto futurista) (due volantini, il primo contenente un diagramma realizzato da Carrà, ambedue diffusi dalla «Direzione del movimento futurista»); sempre nel 1915, il volume Guerra sola igiene del mondo (Milano, raccolta di articoli e saggi, molti dei quali in traduzione da Le futurisme, Paris 1911).

Nel contempo, non si interrompeva la sua produzione letteraria. Furono pubblicati la traduzione dei Versi e prose di S. Mallarmé (Milano 1916); una Scelta di poesie e Parole in libertà (ibid. 1918); e, in collaborazione con Corra, L’isola dei baci. Romanzo erotico-sociale (ibid. 1918), un divertissement scritto a due mani durante un periodo di riposo trascorso nell’isola di Capri. Il tema del sesso e, in generale, del rapporto con la donna è ripreso in Come si seducono le donne (Firenze 1917; poi, rivista e ampliata, Milano 1920).

Il volume è una sorta di ars amatoria, «in bilico tra il romanzo autobiografico ed il trattato psicologico» (Paglia, p. 93), in cui il M., argomentando l’antitesi tra libero amore e istituzione matrimoniale, ripropone la sua classica formulazione teorica sulla morte della famiglia. Il disprezzo per la donna (per la dimensione «naturale» che la contraddistingue, per la sua forza stabilizzatrice e fecondatrice) in antitesi all’esaltazione della guerra, è uno dei caratteri fondanti del pensiero del M., almeno in questa fase: per l’uomo futurista la donna rappresenta «una conquista da moltiplicare infinitamente per sottolineare il suo dominio e la sua forza» (ibid., p. 148). Sulla stessa lunghezza d’onda il Manifesto contro il lusso femminile (11 maggio 1920) e il Manifesto del tattilismo (11 genn. 1921), in cui la designazione di una vasta orchestrazione di sensazioni tattili sembra adombrare la tendenza a una «erotizzazione di tutto il corpo» in contrasto col «primato genitale della sessualità» (De Maria).

L’Italia del dopoguerra – un paese scosso da una profonda inquietudine sociale e morale, in cui covava un diffuso risentimento per la «vittoria mutilata» – offrì al M. e al suo movimento ampie prospettive di intervento nella vita pubblica e, di fatto, l’azione politica dei futuristi si espresse in molteplici iniziative. Sul piano teorico il Manifesto del Partito politico futurista (11 febbr. 1918) anticipò, a guerra non ancora conclusa, l’itinerario futurista. Il futurismo, più come movimento culturale che politico, durante il conflitto si era appoggiato al fiorentino L’Italia futurista (1916-18), ma nel settembre 1919, a Roma – fondato e diretto dal M., Settimelli e M. Carli – nacque Roma futurista, prima decadario poi settimanale, come giornale di un partito al momento ancora in fieri. Inoltre i futuristi furono i primi che, insieme con gli arditi, riuscirono a costituire formazioni da combattimento, fondando, dal dicembre 1918, i fasci politici futuristi (un anno dopo, erano già una ventina diffusi in parecchie città italiane); alla stessa data, aderirono al progetto mussoliniano della Costituzione dell’interventismo.

Il futurismo politico di anteguerra si era limitato a un generico assemblaggio di idee provenienti soprattutto dal nazionalismo, accompagnate da motivi anarchici e da vaghe suggestioni di progresso politico e sociale. Il nuovo Manifesto, di cui il M. fu il principale estensore, oltre all’intenzione di scendere in piazza e usare senza remore la violenza contro i propri avversari (mai fino ad allora esplicitata con tale evidenza), presentava significativi e specifici elementi caratterizzanti: una assoluta avversione all’istituto monarchico, sentito come espressione tradizionalista e passatista, e un altrettanto assoluto anticlericalismo; un nazionalismo diverso da quello tradizionale, meno chiuso e retorico, clericale e imperialista; punti programmatici di indirizzo progressista tra cui: contratti di lavoro collettivi, le otto ore lavorative, previdenza e assistenza per gli operai – nell’intenzione di favorire l’inserimento della classe operaia nel sistema produttivo necessario allo sviluppo della civiltà tecnologica e industriale cui il futurismo mirava –, la socializzazione progressiva della terra; il suffragio universale esteso alle donne, giustizia gratuita e giudici elettivi, l’introduzione del divorzio. Proprio alcuni di questi caratteri fecero sì che la coincidenza delle formule futuriste con la prassi fascista non durasse a lungo, anche se indubbiamente il futurismo all’inizio ebbe un notevole peso sull’evoluzione politica di Mussolini.

Gli anni 1919-20 sul piano della teoria e dell’azione segnarono comunque il periodo di maggiore vicinanza tra futurismo e movimento fascista e l’adesione del M. si realizzò anche come partecipazione alle «azioni» del fascismo e piena collaborazione alla formazione delle sue strutture.

L’11 genn. 1919 il M. partecipò a fianco di Mussolini alla manifestazione tenuta alla Scala contro L. Bissolati; il 23 marzo fu presente all’atto fondativo dei Fasci di combattimento a piazza S. Sepolcro e fu eletto nel comitato centrale del nuovo partito. Il 15 aprile, insieme con altri futuristi, prese parte attiva alla «battaglia di via dei Mercanti» che si concluse con l’assalto e l’incendio della redazione dell’Avanti!; si presentò, infine, alle elezioni politiche del novembre 1919, ma non risultò eletto.

A conclusione del periodo eroico del suo impegno politico il M. pubblicò Al di là del comunismo (Milano 1920), insieme con Democrazia futurista (ibid. 1919), la sua elaborazione più importante dal punto di vista della visione ideologica e politica. 

Le due opere configurano un progetto visionario, una sorta di «città del sole» tecnologica, la cui linea di progresso si alimenta di violente contraddizioni sociali, della dialettica tra sfruttatori e sfruttati; ma se è impossibile risolvere il permanente conflitto sociale («La rivoluzione futurista […] non potrà certo sopprimere il tormento umano che è la forza ascensionale della razza», Al di là del comunismo: cfr. Paglia, p. 154) esiste comunque la via di fuga dell’arte («un grandioso miraggio: la trasformazione della città divisa in città riconciliata dall’arte», ibid.). In definitiva il M. chiude la fase costruttiva della sua teorizzazione politica sotto il segno dell’ambiguità, se non addirittura della cosciente mistificazione, accettando per un verso lo statu quo della struttura capitalistica, rifugiandosi, per l’altro, nell’illusione e nel miraggio della creazione artistica.

Questa sostanziale resa teorica del M. si concretò in un iniziale e momentaneo distacco dal modus operandi del fascismo, quello sì assolutamente politico, emerso con chiarezza nel comportamento di Mussolini in rapporto all’avventura fiumana, e trovandosi di fronte all’impossibilità di imporre alla maggioranza fascista la discriminante antimonarchica e anticlericale. Dopo il II congresso dei Fasci di combattimento (Milano, 24-25 maggio 1920) il M., con altri futuristi, uscì dal movimento; vi sarebbe rientrato tra il 1923 e il 1924 (il volume di scritti politici Futurismo e fascismo, Foligno 1924, ne dà testimonianza), accettando il sostanziale mutamento di rotta e il nuovo corso del fascismo considerato, in ogni caso, come «la realizzazione del programma minimo futurista».

Il M., comunque, anche negli anni a venire, sarebbe sempre rimasto ai margini della vita del regime e il movimento da lui creato, malgrado le pretese e i tentativi, non ebbe mai un ruolo ufficiale nell’ambito dell’arte fascista, saldamente inquadrata nelle istituzioni statali e da queste ben controllata. Sopportato, più che accettato, per le sue benemerenze della prima ora – e in questa cornice sarebbe rientrato anche il suo ingresso all’Accademia d’Italia, nel 1929 –, il M., per il suo atteggiamento anarcoide mai completamente dismesso, fu piuttosto fonte di preoccupazione e di fastidio per le autorità fasciste.

Tra il 1919 e il 1920, a intervalli ravvicinati, uscirono anche i tre romanzi che si è soliti designare come la «trilogia della guerra» e che, sul piano narrativo, ugualmente segnarono la conclusione del periodo più innovativo, preludendo, anche nello stile, a una fase di riflusso e recupero, almeno parziale, di modalità stilistiche più fluenti e discorsive.

Il «romanzo esplosivo» 8 anime in una bomba (Milano 1919) rievoca gli eventi bellici alternandoli a illustrazioni erotiche in una chiave autobiografico-psicologica che, al solito, coniuga erotismo e aggressività. Un ventre di donna (ibid. 1919), scritto in collaborazione appunto con una donna, Enif Robert, registra a due voci, nelle forme abbinate del diario e dello scambio epistolare, un’esperienza ospedaliera vissuta dalla signora la quale, nel corso della degenza, riceve le lettere del M. dal fronte: si alternano, quindi, le impressioni e le sensazioni del tutto private e personali della malata, al di fuori di ogni definizione medica, e le cruente descrizioni del teatro di guerra, elaborate dal M. con una tecnica in presa diretta, quasi cinematografica, polifonica e simultanea, da lui concepite in funzione terapeutica per indurre la malata a reagire mediante le rievocazioni-shock. Infine, L’alcova d’acciaio (ibid. 1921) è nuovamente una sorta di diario costruito anch’esso per sequenze di stampo cinematografico, con «primi piani» che ripropongono l’abituale antitesi tra vita militare e vita amorosa.

Nel corso dei primi anni Venti l’attività letteraria postbellica del M. proseguì lungo la linea di un recupero, almeno parziale, delle strutture espressive tradizionali, secondo un processo che, nonostante il diverso parere del M., rappresentò di fatto una sorta di riconversione del paroliberismo del periodo eroico.

Così nel romanzo Gli indomabili (ibid. 1922), visionaria descrizione di un mondo fluttuante tra surreale (le fosforescenti aeree visioni della città dei Cartacei) e crudo realismo (l’istintualità animalesca degli Indomabili e la barbarica repressione dei negri custodi). E ancora nei racconti Gli amori futuristi (Cremona 1922; poi ristampati, con quelli di Scatole d’amore in conserva e nuovi racconti, nelle Novelle con le labbra tinte, Milano 1930), «“programmi futuristi di vita con varianti a scelta” che propongono soluzioni finali alternative all’iter narrativo» (Paglia, p. 111), realizzando una tecnica di scioglimenti multipli che anticipa, per certi versi, le «finzioni» di J.L. Borges.

In campo teatrale si avverte, altresì, un riflusso verso forme drammatiche più distese. Anche se, come indicato nel manifesto Teatro antipsicologico astratto di puri elementi e il teatro tattile (in Noi, s. 2, II [1924]), i personaggi, privi di una definizione psicologica, acquistano un rilievo esclusivamente metaforico e simbolico, e si caratterizzano come proiezioni mitiche o ideologiche, il più ampio contesto di scrittura fa sì che la forma teatrale, liberata dalle rigide strettoie delle «sintesi», riacquisti una definizione narrativa più tradizionale.

Si veda la serie di azioni teatrali: Il tamburo di fuoco (Pisa, teatro Verdi, 11 maggio 1922; poi Milano 1923), metafora della volontà di emancipazione dell’Africa, in cui sono inseriti l’accompagnamento intermittente di rumori, musiche (di F.B. Pratella), colori (attraverso l’uso di toni cromatici dominanti); Prigionieri (Roma, teatro di Villa Ferrari, 22 maggio 1925; Milano 1927), oscura parabola della condizione umana in quanto estensione progressiva della condizione di prigionia a tutti i personaggi del dramma; Vulcano (Roma, teatro Valle, 31 marzo 1926; Milano 1927), sorta di mitografia del fuoco; L’Oceano del cuore (Milano, teatro Eden, 24 nov. 1927; in Comoedia, X [1928], 6), che propone invece una metafora acquatica per connotare astrattamente e simbolicamente i moti profondi della psiche, di nuovo presi in considerazione, questa volta in rapporto alla creazione poetica, in Luci veloci (Torino, 4 genn. 1929; in Comoedia, XI [1929], 3).

A questo gruppo di testi teatrali del M. seguirono quelli dell’ultima fase in cui la concatenazione degli eventi è affidata esclusivamente al libero svolgersi della fantasia, senza preoccuparsi di stabilire alcun legame logico o realistico, precorrendo le sperimentazioni del teatro contemporaneo e, in particolare, del teatro dell’assurdo.

Fra gli esiti maggiori di questo periodo: Locomotive, i cui protagonisti (il capostazione Imprecisi, il Liberatore di orologi, il Seduttore di treni) riusciranno a trasformare il meccanismo cronometrico di una stazione in una serie illogica di eventi che riverberano i loro caotici effetti su tutto l’universo. Ricostruire l’Italia con architettura futurista Sant’Elia, in cui la concezione architettonica è assunta a metafora della vita umana, costituendo la discriminante fondamentale tra passatisti e progressisti, orientati verso soluzioni costruttive non coincidenti. A conclusione del ciclo teatrale del M. – che si realizza anche nelle «sintesi» contemplate da Il teatro radiofonico (manifesto dell’ottobre 1933) – si ricordano ancora: Il suggeritore nudo (Roma, teatro degli Indipendenti, 12 dic. 1929; in Comoedia, XI-XII [1929-30, n. 12]) e Simultanina (Padova, teatro Garibaldi, 2 giugno 1930).

Dal luglio 1924 il M. si era trasferito a Roma, con la moglie Benedetta Cappa, pittrice e scrittrice che aveva conosciuto nel 1918 nello studio di Balla e sposato nel 1923, con rito civile, dopo quattro anni di convivenza.

I rapporti del M. con la moglie, improntati sempre alla massima delicatezza e tenerezza (testimoniate nelle Poesie a Beny [Torino 1971, ma composte tra il 1920 e il 1938]), così come la sua figura di padre affettuoso delle tre figlie – Vittoria, Ala e Luce –, in contrasto con la violenza iconoclasta contro la famiglia e con la dissacrazione dell’amore presenti in tanta parte della sua opera, rivelano il dato volontaristico, e pubblico, delle sue teorie sulla donna.

Gli anni Trenta segnarono per il M. e per il movimento un ripiegamento su se stesso, una parabola discendente durante la quale egli fondamentalmente si limitò a mettere in atto una sorta di retorica rappresentazione del futurismo, cui pochi credevano ancora, continuando a curarne l’attività di diffusione e di pubblicizzazione con conferenze e dibattiti condotti in giro per il mondo. Non mancarono, comunque, interessanti intuizioni e realizzazioni quali il poema in prosa Spagna veloce e toro futurista (Milano 1931).

In esso, contestualmente al diradarsi delle modalità tipografiche proprie del paroliberismo, si ritrova il ricorso all’analogia del primo M., frutto della sua educazione simbolista, ma divenuto più veloce e rapido, sottolineato dalla intensa gamma cromatica delle descrizioni, dalla tecnica dei cambiamenti dei punti di vista, utilizzata soprattutto nella descrizione della corrida.

Risale ai primi anni Trenta la formulazione della poetica dell’aeropoesia, teorizzata nel Manifesto dell’aeropoesia del 1931 (preceduto dal Primo dizionario aereo, in collaborazione con F. Azari, Milano 1929: raccolta sistematica della terminologia aviatoria e testimonianza dell’interesse del M. per lo sfruttamento estensivo del settore aeronautico), cui seguì, quale testo creativo e dimostrativo, L’aeropoema del golfo della Spezia (ibid. 1935).

Gli elementi dell’aeropoesia sono mutuati dal dinamismo aereo: tutte le sensazioni, auditive, visive e tattili dovevano venire rappresentate con una simultaneità in grado di riprodurre le caratteristiche della velocità dell’aeroplano. Di fatto tra paroliberismo e aeropoesia, di là da qualche variazione di modalità, non vi erano differenze di grande rilievo.

Negli anni 1933-37 il polo di attrazione per il M. si spostò sull’Africa, sia sul piano letterario in una sorta di ritorno alle origini, nell’avvincente e sottovalutato Il fascino dell’Egitto (ibid. 1933) – doppia proiezione nell’infanzia e nella terra nativa – sia, concretamente, con la partecipazione alla guerra di Etiopia, nel novembre 1935, come volontario e col grado di seniore nella divisione «28 Ottobre», con la quale partecipò alla battaglia del passo Uarieu (20-24 genn. 1936), guadagnandosi una medaglia di bronzo al valor militare (si veda il resoconto, gridato e violento, delle operazioni in Il poema africano della divisione «28 Ottobre», ibid. 1937).

Gli ultimi anni, coincidenti con la seconda guerra mondiale, videro il M. ancora impegnato in opere di propaganda e di appoggio allo sforzo bellico (si veda la raccolta Il poema non umano dei tecnicismi, ibid. 1940; Canto eroi e macchine della guerra mussoliniana, ibid. 1942; Quarto d’ora di poesia della X Mas, ibid. 1945, postumo), e nella stesura dell’ennesimo Manifesto del romanzo sintetico (25 dic. 1939) che seguiva il romanzo «legislativo» Patriottismo insetticida (ibid. 1939).

Colpito da una grave forma di ulcera duodenale, tra il 1939 e il 1940 il M. fu costretto a subire un difficile intervento chirurgico; durante la prolungata convalescenza si accostò alla religione cattolica e ai sacramenti. Nonostante la cattiva salute si arruolò volontario e raggiunse in Russia, come primo seniore del gruppo «23 Marzo», le truppe italiane combattenti, ottenendo la croce di guerra al valor militare. Rientrato a Roma alla fine di novembre del 1942, sofferente di miocardite scrisse i già ricordati «poemi in prosa» autobiografici (La grande Milano tradizionale e futurista Una sensibilità italiana nata in Egitto).

Nell’ottobre 1943 si trasferì, insieme con la moglie e le figlie, a Venezia, poi a Cadenabbia infine a Bellagio, sul lago di Como, dove morì il 2 dic. 1944.

Fonti e Bibl.: I più consistenti archivi del M. sono conservati negli Stati Uniti presso la Yale University Library, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, di New Haven (CT), e presso il The Getty Research Institute, Special Collections and Visual Resources di Los Angeles (CA); sue carte sono presenti in Italia in una decina di archivi privati minori, approssimativamente catalogati e difficilmente consultabili. Si veda, inoltre: Roma, Arch. centr. dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale pubblica sicurezzaDivisione affari generali e riservati – Uffici dipendenti dalla sezione prima, Casellario politico centrale, 97613: f. personale (nel quale il M. è schedato come «antifascista»). Utili riferimenti biobibliografici e critici in: F.T. Marinetti, Teatro, a cura e con introd. di G. Calendoli, Roma 1960; Id., Teoria ed invenzione futurista, a cura e con introd. di L. De Maria, Milano 1968 (contiene un vastissimo corpus di opere e di manifesti del M., con ampia cronologia e bibliografia); S. Briosi, F.T. M., Firenze 1969 (con bibl.); M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma 1969, passim; L. Paglia, Invito alla lettura di M. (con cronologia e bibl.), Milano 1977; C. Salaris, Storia del futurismo, Roma 1985 e Id., Bibl. del futurismo 1909-1944, Roma 1988, ad indices. Prezioso il volume di D. Cammarota, F.T. M.: bibliografia, Milano 2002 (Documenti del Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto [MART]. Centro Intern. studi futurismo) che contiene, insieme con un’accurata Cronologia marinettiana (1876-1945), la completa Bibl. delle opere di F.T. M. (1899-2002), in 367 schede; EpistolariManifesti (1909-1944), in 97 schede; Volantini (1904-1942)Prefazioni (1906-1945)Bibliogr. critica. Monografie (1906-2002), in 227 schede; Bibliogr. critica. Interventi (1968-2002), in 277 schede; molto utile è anche, dello stesso autore, Futurismo. Bibliogr. di 500 scrittori italiani, Milano 2006, sub voce. A integrazione e aggiornamento delle predette bibliografie, si registrano, dal 2002 al 2006 (e si intende la consultazione ad ind.): S. Cigliata, Futurismo esoterico: contributi per una storia dell’irrazionalismo italiano tra Otto e Novecento, Napoli 2002; G. Lista, Futurismo: velocità e dinamismo espressivo, Santarcangelo di Romagna 2002; S. Micali, Miti e riti del moderno. M., Bontempelli, Pirandello, Firenze 2002; S. Carollo, Futurismo, Firenze 2003; A. Socrati, Il manifesto sul tattilismo di F.T. M., Ancona 2004; G.E. Viola, F.T. M.: lo spettacolo dell’arte, Palermo 2004; A. Viviani, F.T. M. sveglia d’Italia, Milano 2004; Futurismo. Dall’avanguardia alla memoriaAtti del Convegno…, Rovereto… 2003, Milano 2004; S. Martin, Futurismo, a cura di U. Grosenick, Köln 2005; Il futurismo sulla rampa di lancio. «Poesia», 1905-2005, in Riv. di lett. italiana, XXIV (2006), 2; L. Miretti, Mafarka il futurista…, Bologna 2005; L. Altomare [R. Mannoni], Incontri con M. e il futurismo, Roma 2006; G. Proietti Pannunzi, M., Palazzeschi, Campana, Milano 2006; F. Ragazzi, M.: futurismo in Liguria, Genova 2006 (con testi del M., Vittoria Marinetti et al.); A. Reitano, L’onore, la patria e la fede nell’ultimo M., Carlentini 2006; R. Salsano, Trittico futurista. Buzzi, M., Settimelli, Roma 2006; W. Strauven, M. e il cinema: tra attrazione e sperimentazione, Pasian di Prato 2006; M. Verdone, Il mio futurismo. Panorama di protagonisti e temi futuristi…, Milano 2006. Per quanto concerne i cataloghi delle più recenti mostre: Dal futurismo ai luoghi del futurismo, a cura di M. Duranti, Bologna 2002; Futurismus: radikale Avantgarde, a cura di E. Benesch – I. Brugger, Milano-Wien 2003; Mito contemporaneo: futurismo e oltre, Vicenza 2003; Futurismo 1909-1926: la bellezza della velocità, a cura di A. Masoero – R. Miracco, Milano 2003; Futurismo, avanguardia politica, a cura di L. Tallarico, Crotone 2004; L’estetica della macchina: da Balla al futurismo torinese, a cura di A. Masoero – R. Miracco – F. Poli, Milano 2004. 

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Il Futurismo

Movimento letterario, artistico e politico, fondato nel 1909 da F.T. Marinetti. Il f., attraverso tutta una serie di ‘manifesti’ e di clamorose polemiche, propugnò un’arte e un costume che avrebbero dovuto fare tabula rasa del passato e di ogni forma espressiva tradizionale, ispirandosi al dinamismo della vita moderna, della civiltà meccanica, e proiettandosi verso il futuro fornendo il modello a tutte le successive avanguardie

Il primo dei ‘manifesti’ di Marinetti (pubblicato nella Gazzetta dell’Emilia di Bologna il 5 febbraio 1909 e in francese nel Figaro del 20 febbraio 1909), che contiene già tutte le linee essenziali del movimento, culmina in queste asserzioni: «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa … un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia … Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro … Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore …».

Successivi manifesti riguardano in particolare il teatro di varietà quale ‘teatro dello stupore’, il ‘teatro sintetico’, le arti figurative, la scenografia, la musica, e poi ancora l’aeropoesia, l’aeropittura ecc. (l’ultimo manifesto risale alla Seconda guerra mondiale).

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Amalia Guglielminetti

(Torino, 4 aprile 1881 – Torino, 4 dicembre 1941) è stata una scrittrice e poetessa italiana.

Amalia, che ebbe due sorelle, Emma ed Erminia, e un fratello, Ernesto, nacque da Pietro Guglielminetti e da Felicita Lavezzato; il bisnonno Pietro Guglielminetti si era trasferito da Cravanzana verso il 1858 a Torino, dove stabilì una piccola industria di materiali in legno: fu proprio lui, fornitore del Regio Esercito, l’inventore, intorno al 1860, della borraccia, allora fabbricata in legno.

Alla morte del padre, nel 1886, la famiglia si trasferì presso il nonno Lorenzo, «vecchio parsimonioso industriale, rigido clericale e severo custode del focolare domestico» che la fece studiare in scuole religiose.

Iniziò a collaborare dal 1901 con la «Gazzetta del Popolo», pubblicando poesie sul suo supplemento domenicale, parte delle quali saranno raccolte nel volume Voci di giovinezza, edito nel 1903. Si tratta di versi scolastici e spesso goffi, come

«Chi d’Aracne e Penelope a la scuola
vuol ch’io m’edùchi e non de’ Vati al canto
poco è saggio, ché spirto giovanile
schiavo non è d’umil opra [….]»
(da Sogni e ricami)

che non lasciarono alcuna traccia nel panorama letterario torinese.

Molto diversa e favorevole fu invece l’accoglienza riservata alle poesie de Le Vergini folli, il cui manoscritto, offerto in visione al professor Arturo Graf, fu da questi pubblicamente definito «collana preziosissima» di versi «belli e nuovi» e successivamente, a pubblicazione avvenuta, in un biglietto ad Amalia, Graf scrisse: «la sua ispirazione è viva, schietta, delicata quanto più si possa dire, e l’arte la seconda a meraviglia. Quelle sue figure di fanciulle e donne son cose di tutta gentilezza, e molti sonetti son di squisita fattura. E il tutto par che le venga così spontaneo!» Dino Mantovani, critico de «La Stampa», vide in Amalia un insieme di Gaspara Stampa e di Saffo.

Guido Gozzano, con il quale Amalia iniziò una relazione poco dopo la pubblicazione del libro, le aveva inviato la sua Via del rifugio e la Guglielminetti ricambiò l’offerta con le sue Vergini folli, commentando di non avere, in quella sua opera, «ancora assaporato le squisitezze dell’arte, solo ho sfiorato l’essenza, l’anima della sua poesia: un’anima un poco amara, un poco inferma».

Gozzano rispose il 5 giugno 1907, riferendosi al giudizio del Mantovani, che «i suoi sonetti, tecnicamente euritmici, disinvolti nell’atteggiamento, nobilissimi nella rima ricca [….] sono superiori a quelli di Gaspara Stampa [….] anche Madonna Gasparina fu vittima della maniera del suo tempo, come noi lo siamo del nostro, con gl’imparaticci d’annunziani» e che «il lettore ha l’impressione di essere per qualche istante ammesso in un giardino claustrale: ad ogni svolto di sentiero, fra i cespi di gigli e gli archi de’ rosai, una nuova coorte di vergini si fa innanzi cantando una nuova sorta di martirio o di speranza. Ella compie nel suo libro, Egregia Guglielminetti, quasi un vergiliato, e conduce il lettore attraverso i gironi di quell’inferno luminoso che si chiama verginità», individuando – l’inferno luminoso è il Purgatorio – radici dantesche nella stesura di quei sonetti, ridimensionando il petrarchismo di Amalia e sottolineando l’inevitabile dannunzianesimo dei versi.

Divenne poi per breve tempo l’amante di Pitigrilli: una relazione burrascosa che terminò con una causa in Tribunale.

Nel 1935 ella si trasferì a Roma tentando la carriera giornalistica ma non ebbe successo e fece così ritorno due anni dopo (1937) a Torino, dove passò gli ultimi anni della sua vita in solitudine.

Morì il 4 dicembre 1941 a causa di una setticemia generata da una ferita che si era fatta diversi giorni prima cadendo dalle scale nel tentativo di raggiungere di corsa il rifugio antiaereo dopo aver udito le sirene d’allarme per il bombardamento. È sepolta nel Cimitero monumentale di Torino. Nel 2012 l’editore Bietti ne ha ripubblicato l’opera in versi e l’epistolario con Guido Gozzano, a cura di Silvio Raffo.

Poesia

  • Voci di giovinezza, Torino; Roma, Roux e Viarengo, 1903
  • Le vergini folli, Torino; Roma, Società Tip. Ed. Nazionale, 1907
  • Le vergini folli – Le seduzioni (con un autoritratto e intervista), Chioggia-Venezia, Damocle, 2012
  • Le seduzioni, Torino, S. Lattes e C., 1909; Palomar, 2001
  • Emma, Torino, Tip. V. Bona, 1909
  • L’insonne, Milano, Treves, 1913
  • Fiabe in versi, Ostiglia, La scolastica 1916
  • Il ragno incantato, Roma; Milano, Mondadori 1922
  • La carriera dei pupazzi, Milano, Sonzogno, 1924
  • I serpenti di Medusa, Milano, La Prora, stampa 1934

Narrativa

  • I volti dell’amore, Milano, Fratelli Treves, 1913
  • Anime allo specchio, Milano, Treves, 1915
  • Le ore inutili, Milano, F.lli Treves, 1919
  • Gli occhi cerchiati d’azzurro, Milano, Italia, 1920
  • La porta della gioia, Milano, Vitagliano, 1920
  • La reginetta Chiomadoro, Roma-Milano, Mondadori, 1921
  • Quando avevo un amante, Milano, Casa Ed. Sonzogno, 1923
  • La rivincita del maschio, Torino, Lattes, 1923 (ripubblicato da Alessandro Ferraro per Sagep Editori nel 2014)
  • Tipi bizzarri: novelle, Milano, Mondadori, 1931 (ripubblicato da Rina Edizioni nel 2018)

Teatro

  • L’amante ignoto, poema tragico, Milano, Treves, 1911
  • Il gingillo di lusso, commedia in un atto, 1924
  • Il ladro di gioielli, commedia in un atto, 1924
  • Nei e cicisbei – Il baro dell’amore – Commedia in un atto: Commedia in tre atti, Milano, Mondadori, 1926

Epistolari

  • Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, prefazione e note di Spartaco Asciamprener, Milano, Garzanti, 1951,
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