Italo Calvino

Vita e opere

Nacque a Santiago de Las Vegas, nell’isola di Cuba, il 15 ottobre 1923, figlio primogenito di Mario, agronomo, e di Giulia Luigia Evelina (Eva) Mameli, botanica.

Il padre era nato a Sanremo nel 1875 da genitori sanremesi. Già titolare della cattedra ambulante di agricoltura di Porto Maurizio, l’attuale Imperia, tra il 1909 e il 1917 risiedette in Messico dove collaborò alla riforma agraria voluta dal dittatore Porfirio Díaz. Sul finire del 1917 si spostò a Cuba per dirigere la Stazione sperimentale di agricoltura all’Avana. La madre, nata a Sassari nel 1886, discendente di Goffredo Mameli, era stata la prima donna in Italia a ricoprire una cattedra di botanica generale. Mario Calvino la sposò a Pavia il 30 ottobre 1920.

IMMAGINI DI UNA GIOVINEZZA

«Sono ligure, mia madre è sarda: ho la laconicità di molti liguri e il mutismo dei sardi, sono l’incrocio di due razze taciturne», avrebbe confessato lo scrittore (L’occhio e il silenzio[intervista, 1983]; poi in Sono nato in America…, 2012, p. 553), che di Cuba non serbava ricordi: i suoi genitori rientrarono già nell’autunno 1925 a Sanremo, dove Mario era stato nominato direttore della Stazione sperimentale di floricultura Orazio Raimondo; a Sanremo nacque nel 1927 Floriano, unico fratello di Italo. La famiglia si stabilì presso Villa Meridiana, edificio in posizione dominante sulla città, introducendo nel vasto giardino piante esotiche come l’avocado, la papaya, la guayaba, il pompelmo rosa. Proprio a loro si dovette la trasformazione di Sanremo in «città dei fiori». Italo era destinato a essere unico letterato in una famiglia di scienziati: come tale si considerò sempre, in maniera non del tutto scherzosa, la ‘pecora nera’ della sua stirpe.

I genitori di Calvino, che provenivano da famiglie di tradizione repubblicana e mazziniana, erano antimonarchici e anticlericali.

Il padre, già testimone e sostenitore della rivoluzione di Pancho Villa in Messico, era massone e socialista riformista, mentre in gioventù era stato anarchico kropotkiniano. Provò ugualmente per qualche tempo, senza troppo successo, a mettere la sua competenza al servizio del fascismo appena consolidato in regime. In seguito fu chiamato a coprire (1936-38) la cattedra di agronomia tropicale e sub-tropicale all’Università di Torino, e nel 1939 diventò membro del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR). 

Più intransigente appariva, agli occhi di suo figlio Italo, «il disadorno rigore antifascista o prefascista, impersonato dalla severità moralistica laica scientifica umanitaria antibellicista zoofila» della madre (cfr. Autobiografia politica giovanile [1960]; in Saggi, 1995, II, p. 2740). Crocerossina volontaria durante la Grande Guerra, Eva Mameli era stata decorata con medaglia d’argento. Al rientro in Italia rifiutò la cattedra di botanica a Cagliari per dedicarsi alla famiglia, alla ricerca e alla sperimentazione, soprattutto in floricoltura, materia sulla quale pubblicò centinaia di articoli. Ebbe una forte e duratura influenza sul primogenito: severa e austera, non poteva ammettere «che la vita fosse anche spreco […] cioè che fosse anche passione. […] Senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in doveri e ne viveva» (La strada di San Giovanni [1962], in Romanzi e racconti, III, 1994, p. 15). Calvino evocò spesso questa «repressione laica, più interiorizzata e da cui è meno facile liberarsi» (Autobiografia di uno spettatore [1974], ibid., p. 48). Dei suoi genitori disegnò un divertente ritratto immaginario nei probi inflessibili ugonotti della favola araldica Il visconte dimezzato (Torino 1952).

I fratelli Calvino non ricevettero educazione religiosa. Italo, che frequentò un asilo infantile inglese e scuole elementari valdesi, crebbe con la precoce consapevolezza di una differenza rispetto ai coetanei e con l’imperativo di essere all’altezza di questo anticonformismo. Fu il genius loci della Riviera di Ponente a fare il resto. In Liguria il fascismo non aveva attecchito in profondità e Sanremo era da tempo una stazione turistica internazionale. Al suo sfarzo il giovane Calvino preferiva comunque la città vecchia o l’entroterra spigoloso e secco. Nel 1933, saltata la quinta elementare, entrò al ginnasio-liceo G.D. Cassini, dove ebbe come compagno di banco il futuro fondatore del quotidiano la Repubblica Eugenio Scalfari con il quale, negli anni universitari, intrecciò una fitta corrispondenza intellettual-goliardica.

La prima educazione estetica di Calvino non si svolse sui libri, bensì sui fumetti del Corriere dei piccoli, di cui, precocissimo quanto inconsapevole strutturalista, scomponeva, ricomponeva e contaminava le trame. Durante l’adolescenza oppose al fascismo non una definita ideologia antagonista bensì una malevola insofferenza verso il suo stile solenne e ridicolo insieme. L’altrove in cui trovò rifugio fu il cinema, che occupò gran parte dei suoi pomeriggi, mentre a casa si dedicava a una diversa passione visiva leggendo i settimanali umoristici di quegli anni e coltivando un talento per il disegno: con lo pseudonimo Jago alcune sue vignette trovarono posto nella rubrica «Il cestino» del Bertoldo. Le prime letture di Calvino si posarono dunque su un sedimento primario di immagini, disegnate o proiettate. Si spiega forse così la germinazione da un’immagine ossessiva di molte sue storie a venire: un uomo tagliato in due, un ragazzo che sale su un albero, un’armatura vuota che va per il mondo.

I pilastri della biblioteca giovanile di Calvino sono quattro sostantivi – avventura, energia, esotismo, mistero – che descrivono una formazione letteraria inarcata fra i 6 e i 23 anni di età, fra Pinocchio, «il libro che già conoscevo capitolo per capitolo prima d’imparare a leggere» (Il fantastico nella letteratura italiana [1984]; in Saggi, 1995, II, p. 1682) e America di Kafka, «”il romanzo” per eccellenza nella letteratura mondiale del Novecento e forse non solo in quella» (Intervista di Maria Corti [1985], ibid., p. 2921).

IL PARTIGIANO SANTIAGO

Nel 1941, in un’Italia lanciatasi in una guerra sempre più disastrosa, i primi articoli del giovane Calvino furono brevi recensioni cinematografiche, mentre i primi tentativi letterari toccarono generi frequentati da molti suoi coetanei: teatro, racconti, versi ermetici.

Ma era insofferente verso la critica letteraria, e sviluppò invece una singolare propensione per l’apologo «a morale vagamente politica, anarcoide e pessimista» (Autobiografia politica giovanile, cit., ibid., p. 2744).

I tre racconti che pubblicò in Roma fascista nella primavera 1943, tramite Scalfari che si era trasferito a Roma, suscitarono le obiezioni di qualche gerarca. Una raccolta di racconti gli fu rifiutata da Einaudi, suo futuro editore, mentre nel 1942 la Commedia della gente (a tutt’oggi inedita) vinse un concorso letterario fiorentino. Dopo il liceo, intanto, si era iscritto alla facoltà di agraria, dapprima a Torino e poi a Firenze: ma controvoglia, come volendo saldare un debito morale verso suo padre; gli esami sostenuti furono appena sette, con voti mediocri. Illustrate da disegni spiritosi, accompagnate da poesie e scherzi in rima, le sue lettere di allora a Scalfari parlano con una voce bizzosa e in falsetto che già annuncia il futuro scrittore: un ragazzo che non sa fare a meno di fare sul serio anche quando scherza, un giovane di vent’anni che lancia parole intorno a sé come fossero biglie, come a voler colpire un bersaglio ancora invisibile.

Il 25 luglio 1943 cadde il regime fascista, ma Calvino si sentì defraudato dal suo epilogo dovuto a una congiura di palazzo. Con alcuni amici fondò il Movimento universitario liberale (MUL), e dopo l’8 settembre prese a orientarsi verso i comunisti che erano il gruppo più attivo e organizzato. Nascosto in casa dei genitori, renitente alla leva della Repubblica di Salò, chiese l’iscrizione al Partito comunista italiano (PCI). Nella primavera 1944 dovette prestare servizio militare sedentario come scritturale al tribunale di Sanremo, cominciando però a fare propaganda comunista tra gli studenti. In giugno si arruolò nel XVI distaccamento della IX brigata garibaldina (comunista) Felice Cascione e si diede alla macchia scegliendo il nome di battaglia Santiago in omaggio al proprio luogo di nascita. 

Il suo distaccamento si sciolse a fine giugno dopo una sconfitta a Sella Carpe. Trascorse in estate alcune settimane al riparo nei poderi di famiglia, si arruolò di nuovo, stavolta col fratello Floriano e in una banda ‘azzurra’, cioè badogliana, che dopo due scontri con i nazifascisti (Coldirodi e Baiardo) si sciolse il 20 settembre. Tra ottobre e novembre 1944 fece parte, sempre con Floriano, della brigata garibaldina sanremese Giacomo Matteotti. I tedeschi presero in ostaggio entrambi i loro genitori, simulando per tre volte la fucilazione di Mario Calvino sotto gli occhi della moglie. Catturato in un rastrellamento, Italo evitò la fucilazione immediata grazie a un foglio di licenza militare contraffatto. Messo in carcere, fu costretto ad arruolarsi per la Repubblica sociale italiana (RSI) ma riuscì a fuggire dopo tre settimane e si rifugiò nella tenuta famigliare di San Giovanni, in collina, restandovi fino al febbraio successivo. Tra il febbraio e l’aprile 1945 militò con suo fratello nella 2ª divisione d’assalto garibaldina Felice Cascione; partecipò a più battaglie, tra cui quella vittoriosa di Bregalla e quella infruttuosa di Baiardo, che nel 1974 avrebbe rievocato nel racconto Ricordo di una battaglia. Tra i suoi compagni, alcuni futuri personaggi del Sentiero dei nidi di ragno: Giuseppe Vittorio Guglielmo e Ivar Oddone (rispettivamente, nel romanzo, il comandante Ferriera e Kim).

MOLTI ESORDI A TORINO

In un’Italia sconfitta e in rovina, la piccola minoranza attiva che aveva combattuto la Resistenza si sentiva vittoriosa, energica, convinta delle proprie idee, e così fu per il giovane Calvino, che in seguito definì lo «spirito partigiano» come una «attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e di autoironia […], un piglio talora un po’ gradasso e truculento ma sempre animato da generosità […]» (Autobiografia politica giovanile, 1962,  in Saggi, 1995, II, p. 2751).

Subito dopo la Liberazione, Calvino fu attivista del PCI, prima in provincia di Imperia e poi tra gli studenti di Torino: dove, abbandonata agraria, s’iscrisse direttamente, grazie alle facilitazioni per i reduci, al terzo anno di lettere avendo fra gli insegnanti i filosofi Nicola Abbagnano e Luigi Pareyson, il francesista Ferdinando Neri, il poeta Francesco Pastonchi. La laurea (103/110) arrivò il 4 novembre 1947, la tesi discussa era su Joseph Conrad. A Torino entrò in amicizia fra gli altri con Cesare Pavese ed Elio Vittorini, cominciando presto a collaborare al Politecnico, la celebre rivista milanese diretta dal secondo. In Liguria magra e ossuta, che fu il suo primo contributo (1° dicembre 1945; poi in Saggi, pp. 2363-2370), s’intrecciavano gli studi di agraria e la storia sociale d’impronta progressista, il reportage e l’autoritratto morale dissimulato; protagonista, come più volte sarebbe accaduto, era il paesaggio della sua regione.

Dall’anno successivo lavorò soprattutto per l’edizione torinese de l’Unità; tra il 1948 e l’estate 1949 fu il successore di Raf Vallone, passato alla carriera cinematografica, come responsabile della pagina culturale, per la quale scrisse cronache, recensioni (fu tra i primi ad accorgersi del valore di Primo Levi e di Elsa Morante), note polemiche, racconti brevi, apologhi: prove d’esordio impressionanti per la lucidità perentoria, la sicurezza e la vastità dei riferimenti culturali, la precisione e lo humour, la velocità della sintassi e la versatilità del lessico.

Tra la fine del 1945 e il 1946 pubblicò, inoltre, alcuni dei racconti brevi poi raccolti in Ultimo viene il corvo (Torino 1949). Con Campo di mine vinse a pari merito un premio indetto dall’Unità di Genova, ma fu Andato al comando, apparso nel Politecnico, a scatenare con la sua suspense geometrica e ossessiva la corsa all’imitazione tra i coetanei. Per un giovane esordiente, Torino significava soprattutto la casa editrice Einaudi: nel suo staff Calvino entrò dapprima come venditore di libri a rate, poi come redattore, infine (dal 1949, dopo la parentesi giornalistica) come responsabile dell’ufficio stampa. 

Conquistò rapidamente stima e autorevolezza e stilò pareri di lettura, risvolti e quarte di copertina. Fu il lavoro meno appariscente e più impegnativo della sua vita. Durante 35 anni inviò circa 5000 lettere ad autori, traduttori, consulenti e critici. Avrebbe detto nel 1980: «ho dedicato più tempo ai libri degli altri che ai miei. Non lo rimpiango: tutto ciò che serve all’insieme d’una convivenza civile è energia ben spesa» (cfr. Nota autobiografica, in Album Calvino, 1995, pp. 7 e 9).

Furono Pavese e il critico Giansiro Ferrata a spingerlo a tentare il romanzo. Il 31 dicembre 1946 scadevano i termini del Premio Riccione, indetto dalla Mondadori: in venti giorni Il sentiero dei nidi di ragno fu portato a termine. Vinse ex aequo ma non piacque né a Ferrata né a Vittorini, e anche Pavese avanzò riserve; ma Giulio Einaudi se ne entusiasmò, stampandolo nell’autunno 1947. 

Il primo problema di Calvino scrittore era stato scegliere la giusta posizione per raccontare: la prima persona e l’autobiografia gli davano disagio, coartandogli la voce verso i toni gravi. Trovò velocità e chiarezza nell’uso della terza persona e in uno stile a volte lavorato e minuzioso, altre volte guizzante e ventilato. Il sentiero dei nidi di ragno sfruttò sia questi talenti sia l’immaturità che li aveva preceduti. Calvino raccontò la Resistenza con gli occhi di Pin, un bambino di dieci anni, dunque sotto forma di fiaba: ma una fiaba acre, crudele, distorta come la percezione di un ragazzino cresciuto nei vicoli della vecchia Sanremo, tra uomini adulti e accanto a una sorella prostituta. Pin si ritrova in montagna tra i partigiani che combattono, dentro un gioco meraviglioso ma troppo grande per lui, e guarda ogni cosa con stupore e dolore perché a nulla può dare spiegazione. Per lui come per i grandi, del resto, i rapporti umani sono un mistero, così come lo sono la guerra, la politica, il sesso, il tradimento, l’amicizia, il bisogno di uccidere e il desiderio di farsi uccidere. Trovare un modo per stare nell’universo e spiegarselo – e spiegare sé stessi nell’universo – è l’orizzonte intellettuale che Calvino disegnò in quel suo libro di esordio, e che in maniera ogni volta diversa si sarebbe riproposto fino alle sue ultime opere. Qui nel Sentiero venne fissata anche una visione della storia, dove casualità e responsabilità delle scelte si tenevano in fluttuante equilibrio. Il commissario partigiano Kim, un comunista, ne era consapevole: «Gli uomini combattono tutti, c’è lo stesso furore in loro, cioè non lo stesso, ognuno ha il suo furore, ma ora combattono tutti insieme, tutti ugualmente, uniti. […] Basta un nulla per salvarli o per perderli… […] Non ne vogliono sentir parlare di ideali, gli ideali son buoni tutti ad averli, anche dall’altra parte ne hanno di ideali. […] E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte, […] dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio» (Romanzi e racconti, I, 1991, pp. 104-106). Ma se uguali erano l’odio, la spietatezza, il rischio, e ininfluenti gli ideali e fortuite le scelte, dov’era la differenza essenziale tra fascisti e partigiani? Ecco la spiegazione fornita da Kim: «c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, mi intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare, ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio» (ibid., p. 106). Questo discorso avrà una lunga eco nella vita civile italiana e nel dibattito sulla moralità nella Resistenza; mai più Calvino ne pronuncerà uno altrettanto acceso.

IL GRIGIO E I COLORI DEGLI ANNI CINQUANTA

Calvino attraversò gli anni della guerra fredda da militante comunista, da brillante funzionario dell’industria editoriale in una casa editrice di sinistra, da scrittore giovane il cui talento era stato immediatamente notato e apprezzato. Ciò malgrado si trovò a scontare una lunga crisi creativa: non aveva smesso di scrivere racconti di città e di bosco, di fabbrica e di scoglio, e apologhi in chiave politica, ma i suoi tentativi di romanzo corale e realista fallivano uno dopo l’altro, troppo superficiali (Il bianco veliero, 1947) o troppo grigi (I giovani del Po, 1950-51). Nel 1949 i 30 testi brevi che raccolse in Ultimo viene il corvo chiusero la sua prima stagione. 

L’anno seguente morì suicida Pavese, che per lui era stato un maestro e un fratello, maggiore o minore a seconda delle circostanze ma sempre in un rapporto di robusta franchezza reciproca. Fu un periodo di viaggi all’estero: due volte tra i ‘partigiani della pace’, nel 1947 a Praga e due anni più tardi a Budapest, poi come giornalista nel 1951 in URSS e all’Olimpiade di Helsinki nel 1952, mentre nel 1948 era andato a Stresa con la sua collega Natalia Ginzburg per incontrare Hemingway, che entrambi veneravano. Benché la politica fosse cupa e gretta, tanto tra gli avversari (la Democrazia cristiana aveva la maggioranza assoluta in Parlamento) quanto nel suo partito (imperavano i precetti del ‘realismo socialista’), Calvino seppe raccontare il lavoro nelle fabbriche con un’ansiosa attenzione umana. Uno dei suoi racconti più riusciti, La formica argentina (1952), era narrato appunto con gli occhi e la voce di un operaio e si svolgeva, lasciandoli innominati, nei suoi paesi di riviera.

Riuscì a riprendersi la propria libertà d’invenzione scrivendo, quasi di nascosto da sé stesso, un breve romanzo fantastico ambientato nel Seicento, al tempo delle guerre con i Turchi: Il visconte dimezzato era semplice, divertente, nitido, pensoso, e pieno soprattutto di trovate, malgrado alcune avessero un’intenzione pedagogica. Apparve nel 1952 nei «Gettoni», collana sperimentale diretta da Vittorini per Einaudi. Nel frattempo, mentre era in viaggio nell’URSS, era morto suo padre: il Visconte fu anche un omaggio alla sua caratura morale, così come lo sarebbero state alcune pagine del trittico narrativo (direttamente autobiografico) L’entrata in guerra, uscito nel 1954 nuovamente nei «Gettoni». Nello stesso 1954 avviò un’importante collaborazione (saggi letterari, reportage da fabbriche e risaie, apologhi satirico-politici) al settimanale comunista romano Il Contemporaneo

Era ormai pienamente riconosciuto, anche dai critici più anziani e (precocemente) dalla critica accademica. Possedeva inoltre una sfaccettata visione della letteratura – maturata nel lavoro come editor e in vaste letture, più da studioso che da scrittore – che trovò sintesi nel saggio del 1955 Il midollo del leone (in Saggi, 1995, I, pp. 9-27). Fu quando ne diede lettura a Firenze che incontrò l’attrice Elsa de’ Giorgi, con la quale avviò una relazione destinata a durare quattro anni e testimoniata da un epistolario (inedito, salvo frammenti) in cui la passione si manifestava senza difese psicologiche e senza precauzioni di stile.

Il 1954 fu anche l’anno in cui la casa editrice Einaudi affidò a Calvino il lavoro di compilazione e riscrittura di un corpus di 200 Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti (questo il titolo completo del libro), che per due anni lo tennero impegnato in studi filologico-folklorici per lui insoliti. L’esercizio di stile riscosse lodi quasi unanimi per la felicità e il respiro del linguaggio, mentre nel saggio introduttivo, densissimo e insieme scanzonato, si depositarono gli umori di un anno difficilissimo – quale fu il 1956 che vide la pubblicazione del volume – segnato dal ‘Rapporto Krusciov’ sui crimini di Stalin, dalle rivolte operaie in Polonia e in Ungheria, dai carri armati sovietici a Budapest, da una crisi profonda nel PCI, che alcuni mesi più tardi (era l’estate 1957) Calvino decise di abbandonare. 

I due testi che segnarono il 1957 di Calvino, Il barone rampante e La speculazione edilizia, rispettivamente il suo secondo romanzo storico-fantastico, slanciato nel grande Settecento, e una cronaca narrativa socio-realistica, impantanata nel meschino presente di quegli anni, sembravano disporsi l’uno agli antipodi dell’altro, accomunati soltanto dal paesaggio della Riviera di Ponente di cui il Barone narrava il passato immaginario e la Speculazione un oggi stravolto.

A ben guardare gli approcci alla realtà dei due protagonisti, Cosimo Piovasco di Rondò e Quinto Anfossi, si rivelano complementari: la vita appassionata di Cosimo mostra come ci si possa lasciar coinvolgere fino allo strazio nelle vicende della vita a partire da un primo, paradossale quanto irrevocabile gesto di distacco dal mondo (salire su un albero pur di non mangiare un piatto di lumache cucinate dalla efferata sorella, e poi non scenderne mai più), mentre il puntiglio intellettuale di Quinto («Tutto insomma sapeva, maledetto lui!», sbotta Calvino contro il proprio personaggio già al capitolo due: Romanzi e racconti, I, 1991, p. 785) non è che un debole tentativo di tenersi a galla tra le sabbie mobili della realtà nelle quali si è tuffato deliberatamente.

Ma il tema principale comune ai due libri era il rapporto con la realtà in un’epoca di disillusioni e di crisi pubbliche e private, che si traduceva a sua volta in quello che Calvino considerava il suo «vero tema narrativo: una persona si pone volontariamente una difficile regola e la segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di questa non sarebbe sé stesso né per sé né per gli altri» (Nota 1960 a I nostri antenatiibid., p. 1213).

Con le sue 500 pagine suddivise in quattro sezioni (Gli idilli difficiliLe memorie difficiliGli amori difficiliLa vita difficile), la raccolta I racconti (Torino 1958) ratificò la vocazione di Calvino alle storie brevi, così come la versatilità dei suoi talenti immaginativi, imperniata sull’aggettivo «difficile». Fu l’autoritratto di uno scrittore engagé certo, ma in modo indiretto e senza compromessi con l’attualità giornalistica. 

Le novità più cospicue dei Racconti furono le prime dieci storielle di Marcovaldo, cui peraltro nessuno dei recensori prestò attenzione, la serie degli Amori che si presentava come un’opera nell’opera, di patinatura narrativa sardonicamente ottocentesca (sulla linea Maupassant-Čechov), e il romanzo breve La nuvola di smog, un nuovo catalogo di atteggiamenti per misurarsi con una realtà greve e insieme impalpabile come polvere. L’opera vinse il premio Bagutta nel 1959.

Sempre nel 1959, terminata la storia d’amore con Elsa de’ Giorgi, cominciò le pubblicazioni una nuova rivista di ricerca e sperimentazione, il menabò di letteratura, che Calvino diresse con Vittorini pubblicandovi alcuni fra i suoi saggi più notevoli di quegli anni, strategiche letture della realtà che spesso esorbitavano dalla letteratura per misurarsi con la politica, l’antropologia, l’economia, e con un tessuto sociale in rapido mutamento; i tre più importanti furono Il mare dell’oggettività (1960), La sfida al labirinto (1962) e L’antitesi operaia(1964; poi in Saggi, 1995, II, rispettivamente alle pp. 52-60, 105-123, 127-142). Ma in quello scorcio di decennio, alla sua necessità di strumenti intellettuali nuovi si presentò l’occasione – grazie a un grant della Ford Foundation – di trascorrere sei mesi negli Stati Uniti, senza altri obblighi se non viaggiare e osservare. Il soggiorno durò dal novembre 1959 al maggio 1960, fece scoccare il suo innamoramento per New York e lo portò a conoscere realtà divaricate quanto il Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston e il Sud dove Martin Luther King si batteva contro la segregazione dei neri. Il cavaliere inesistente, terza e ultima delle sue favole araldiche, uscì da Einaudi quando era appena partito: Calvino si volatilizzava duplicando l’essenza del suo protagonista, il cavalier Agilulfo che al tempo di Carlo Magno attraversava il mondo in un’armatura vuota, tenuta insieme solo dalla sua immateriale forza di volontà. 

Il Cavaliere per un verso metteva allo scoperto l’intelaiatura dell’apologo, l’eleganza un po’ fredda delle sue linee da arredamento quacchero. Ma era anche un libro divertente e divertito, dove il caratteristico falsetto di Calvino si scioglieva in una voce duttile, agile, puntuta d’ironia sprizzante ovunque. Un libro bicipite, scritto da un uomo di 36 anni che aveva chiuso bruscamente un amore, si accingeva a partire per un lungo viaggio, si trovava a un bivio della sua esistenza: non era più (non se la sentiva più di essere) l’arrembante paladino Rambaldo, emblema della gioventù vorace e indeterminata, che non si conosce e va alla ricerca di sé stessa tra amori e duelli, ma non era ancora (non se la sentiva ancora di essere) Agilulfo, cioè la maturità esatta, risolta per sempre in sé medesima e dunque capace di fare a meno del corpo come dell’anima.

LA NUOVA VOCE DEGLI ANNI SESSANTA

Dal suo soggiorno Calvino ricavò un libro intitolato Un ottimista in America ma ne annullò la pubblicazione quando era già in bozze. Come nel finale del Cavaliere inesistente Agilulfo si dissolveva entro la sua armatura, così al principio degli anni Sessanta parve dissolversi il Calvino narratore. Nel 1960 il volume I nostri antenati si limitò a riunire le tre storie araldiche scritte nel precedente decennio. Ma Calvino attraversava una nuova crisi di scrittura, o piuttosto di assestamento verso una nuova maturità in un paese e una letteratura profondamente mutati. Cambiavano l’economia, la società, la politica e infine la cultura. Affluivano nuove tecnologie e nuove discipline intellettuali. Calvino rifletteva, aggiornava la sua biblioteca, prestava la massima attenzione, pubblicava il meno possibile: poche collaborazioni ai giornali e pochissime con il cinema, a differenza di gran parte dei suoi colleghi. «Io forse non scrivo più e vivo bene lo stesso», confidò nel 1961 a Natalia Ginzburg (v. I libri degli altri, 1991, p. 367).

Nel territorio dei nuovi saperi Calvino diede la preferenza all’antropologia e alla cosmologia, cioè a strumenti che lo aiutassero a ripensare il mito e l’universo. Avvertiva una segreta incrinatura nel mondo, tale da indurlo a paragonare quel periodo di boom economico a una «“belle époque” inaspettata» (nel saggio omonimo del 1961, poi in Saggi, I, pp. 90-95) e a ricordare che ogni belle époque finisce con le rivoltellate di Sarajevo. Da due esperienze dirette ricavò, con un lavoro di scrittura protrattosi dieci anni, un breve racconto «più di riflessioni che di fatti», La giornata d’uno scrutatore (Torino 1963), ambientato nel seggio elettorale insediato presso l’istituto torinese Cottolengo. Fu una riflessione sulla storia, sul sacro e sui limiti di ciò che è umano, l’equivalente per Calvino di ciò che la scrittura di Se questo è un uomo era stata per Primo Levi. Alla fine del 1963 pubblicò anche un libro assai più leggero, destinato a diventare uno dei più duraturi successi di vendita nella letteratura italiana per ragazzi: Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, 20 storie brevi – scritte anch’esse nel corso di un decennio – che si potevano leggere come altrettante amarognole tavole a fumetti. 

Nell’aprile 1962 aveva incontrato a Parigi Esther Judith Singer, detta Chichita. Argentina di origine russa, lavorava come traduttrice dall’inglese per l’UNESCO e l’ Agenzia atomica internazionale (IAEA). Si sposarono a Cuba nel gennaio 1964 durante un viaggio nei luoghi natali dello scrittore; nell’estate di quell’anno si trasferirono a Roma con Marcelo, il figlio sedicenne di lei. Nella primavera 1965 nacque la loro unica figlia, Giovanna. Due volte al mese Calvino saliva a Torino per sbrigare il lavoro editoriale all’Einaudi. La Prefazione che nel 1964 scrisse per una ristampa del Sentiero è il suo autocommento più citato: una riflessione sulla memoria, sull’esperienza, sul panorama letterario e civile al tempo del suo esordio. Tra molte altre cose, Calvino vi si rammaricava di aver detto in maniera goffa, distorta e incompleta la sua prima parola letteraria. 

Il desiderio di rompere il silenzio creativo tornando come a esordire una seconda volta fu soddisfatto dall’invenzione del «racconto cosmicomico», un genere letterario destinato a rimanere per un quinquennio, fino al 1968, l’occupazione esclusiva del Calvino narratore. Da Einaudi uscirono nel 1965 la raccolta di 12 racconti Le Cosmicomiche e nel 1967 gli 11 testi di Ti con zero, mentre apparve nel 1968 una silloge fuori commercio destinata a un club del libro, La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche.

L’universo più i comics, cioè i fumetti, era la formula-base di quelle storie: «Combinando in una sola parola i due aggettivi cosmico e comico ho cercato di mettere insieme varie cose che mi stanno a cuore. Nell’elemento cosmico per me non entra tanto il richiamo dell’attualità “spaziale”, quanto il tentativo di rimettermi in rapporto con qualcosa di molto più antico. Nell’uomo primitivo e nei classici il senso cosmico era l’atteggiamento più naturale; noi invece per affrontare le cose troppo grosse abbiamo bisogno d’uno schermo, d’un filtro, e questa è la funzione del comico» (Premessa La memoria del mondo [1968]; in Romanzi e racconti, II, 1992, pp. 1300 s.). A legare i due elementi era l’ubiquo Qfwfq: questa petulante voce-personaggio, che in ciascuna storia prende la parola raccontando di aver attraversato tutte le galassie e gli stadi dell’evoluzione, è un’entità che risiede nell‘universo offrendosi al lettore come un modello di ogni universo, reale o possibile o improbabile.

Il 12 febbraio 1966 morì Vittorini. Un fascicolo in sua memoria concluse l’esperienza del menabò e nel luglio 1967 Calvino si trasferì a Parigi con la famiglia, in una villetta multilivello nel XIV Arrondissement. L’intenzione era di restare per cinque anni, ma il soggiorno si sarebbe protratto fino al 1980. 

Calvino si allontanava dall’attualità e dagli ambienti intellettuali italiani senza per questo entrare in eccessiva confidenza con quelli francesi: seguì i seminari di Roland Barthes e di Claude Lévi-Strauss, fu reciproca la stima con il filosofo Michel Foucault, con il semiologo Algirdas Julien Greimas e con François Wahl (un dirigente delle Éditions du Seuil, che pubblicavano varie sue opere), ma frequentò soprattutto «un gruppo che nessuno sa che esista, l’Ou-li-po, amici di Raymond Queneau, poeti e matematici che hanno fondato questo Ouvroir de Littérature Potentielle, un po’ nello spirito di Jarry e di Roussel. […] Quello che me li rende vicini è il loro rifiuto della gravità, questa gravità che la cultura letteraria francese impone dappertutto, anche dove sarebbe necessaria un po’ di autoironia» (Colloquio con Ferdinando Camon [1973]; in Saggi, 1995, II, p. 2789). Di Queneau, Calvino tradusse nel 1967 il romanzo I fiori blu.

A cavallo tra gli anni Sessanta e il decennio successivo il giovane scrittore Gianni Celati fu l’interlocutore più assiduo di Calvino. Con alcuni amici (il filosofo Enzo Melandri, il francesista Guido Neri, il saggista Lino Gabellone, lo storico Carlo Ginzburg) progettò una nuova rivista che non fu realizzata ma che si sarebbe forse chiamata Alì Babà: «la caverna dei tesori dell’intellettualismo», chiosò Celati (Il progetto «Alì Babà», trent’anni dopo, in «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972, 1998, p. 320). 

Nel 1968 le settimane di contestazione giovanile del ‘Maggio francese’ entusiasmarono Calvino, che in seguito tuttavia addebitò ai movimenti studenteschi il non aver rinnovato né il linguaggio né l’agire politico, lasciandosi al contrario irrigidire e disperdere dai settarismi. L’unico suo clamoroso atto di contestazione fu, nel luglio 1968, il rifiuto del premio Viareggio assegnatogli per Ti con zero, «ritenendo definitivamente conclusa epoca premi letterari», come scrisse nel suo telegramma (Cronologia, in Romanzi e racconti, I, 1991, p. LXXX).

Con più ponderatezza andava invece enucleando nella letteratura italiana una linea di forza Ariosto-Galileo-Leopardi, innervata da sicure competenze scientifico-immaginative; per la stessa ragione volle contribuire al pensiero di quegli anni curando una scelta di testi dell’utopista francese Charles Fourier (Torino 1971), che ebbe però scarsa eco. Nello stesso anno avviò per Einaudi «Centopagine», collana di testi narrativi brevi, soprattutto dell’Ottocento europeo. Non fu la sua unica iniziativa nel campo della divulgazione: aveva infatti collaborato a progettare un’antologia per le scuole medie (La lettura, Bologna 1969) e aveva antologizzato e ri-narrato l’Orlando Furioso, nel 1967 per la radio e tre anni dopo in un volume Einaudi.

Nel 1968 smise di scrivere racconti cosmicomici e cominciò esperimenti di narrativa combinatoria la cui base figurativa furono le carte dei tarocchi. Ne nacque un testo, La taverna dei destini incrociati, che gli pose ardui problemi di struttura e che fu completato solo nel 1973, ma ne nacque anche una prima versione de Il castello dei destini incrociati, stampata nel 1969 in un lussuoso volume d’arte. 

Si può affermare che, almeno a partire dal 1970, tutti i libri di Calvino siano tra loro contemporanei. In un medesimo istante andavano prendendo forma nella sua bottega manufatti diversissimi, così come in un capitolo autobiografico della Taverna, intitolato Anch’io cerco di dire la mia, Calvino si specchiava simultaneamente in tre figure emblematiche: il Cavaliere di Spade, l’Eremita, il Bagatto. Se nel guerriero rivedeva la cifra della sua giovinezza stendhaliana, nell’Eremita contemplava il volto ombroso della propria maturità; ma all’ultimo momento, con uno scarto, faceva convergere le linee del proprio autoritratto nell’ultima figura, quella del Bateleur o Bagatto: «Forse è arrivato il momento d’ammettere che il tarocco numero uno è il solo che rappresenta onestamente quello che sono riuscito a essere: un giocoliere o illusionista che dispone sul suo banco da fiera un certo numero di figure e spostandole, connettendole e scambiandole ottiene un certo numero d’effetti» (Romanzi e racconti, II, 1992, p. 596).

ANNI SETTANTA-OTTANTA: SILENZI E DISCORSI INTERROTTI

Le città invisibili uscirono nel novembre 1972, dopo un iter di scrittura durato circa sei anni: 18 brevi dialoghi ironico-sapienziali tra un Marco Polo di multiforme ingegno e un Kublai Kan di sfaccettate malinconie incorniciavano 55 descrizioni, brevi anch’esse, di città immaginarie che portavano esotici nomi di donna, e che dagli effluvi di un lontano Oriente si corrompevano di odori e miasmi sempre più moderni, sempre e comunque però con effetti di deriva visionaria; «poemetto in prosa o apologo o onirigramma» erano i generi letterari evocati nel risvolto di copertina, ma si può parlare più semplicemente di un diario di viaggio alla ricerca di più identità – reali oppure virtuali, desiderate oppure temute – coese in una struttura di nitida complessità combinatoria; non per nulla Calvino fu nominato nel febbraio 1973 membre étranger dell’Ou-li-po. Per molti anni, avrebbe continuato a definire le Città come il suo ultimo libro. 

Il riavvicinamento all’Italia cominciò con l’acquisto di una villa in Toscana (a Roccamare, presso Castiglione della Pescaia) e, dal 1974, con una collaborazione assidua al Corriere della sera diretto da Piero Ottone, cui offrì le prime avventure sedentarie del signor Palomar (molte delle quali ambientate a Parigi o a Roccamare) e altri racconti, ma anche saggi letterari, note di costume e commenti di politica interna o estera, spesso impaginati come articoli di fondo.

Intorno alla metà degli anni Settanta molti scrittori, a cominciare da Pasolini, conquistarono una visibilità come commentatori politici. Da parte sua, il Calvino editorialista prendeva la parola in nome di una ‘Italia migliore’ della cui esistenza era tutt’altro che certo. La sua principale preoccupazione era la debolezza della società civile, la gracilità del senso civico nazionale. Anche per questo non si occupava quasi mai di quanto avveniva ai vertici della politica politicante, compresi i temi che parevano allora d’importanza decisiva, come un possibile accordo di governo tra la DC e il PCI. Più in generale, va sottolineato che da quel momento in poi le principali opere di Calvino, tranne Se una notte d’inverno un viaggiatore (Torino 1979), sarebbero nate sui giornali: il già nominato Palomar (ibid.1983), la raccolta saggistica Collezione di sabbia (Milano 1984) e persino le postume Lezioni americane (ibid.1988), per le quali poté attingere a un corpus di testi nati per il Corriere e per la Repubblica.

Lo stato d’animo sotto il cui segno transitò il Calvino anni Settanta fu il nervosismo: nervoso lui come nervosi erano i suoi alter ego nella fiction, dal romanziere Silas Flannery del Viaggiatore al signor Palomar. Il ricavato netto di questa irrequietudine fu la quantità e varietà di opere che mise in cantiere in quel periodo. Imbastì due serie di racconti, una dedicata ai cinque sensi e l’altra agli oggetti, che non avrebbero fatto in tempo a diventare libri compiuti. I suoi esercizi di memoria si arricchirono nel 1974 di due testi importanti, Ricordo di una battaglia e Autobiografia di uno spettatore; ma il più impegnativo di essi fu La poubelle agréée (1974-76). Le riflessioni sulla storia giunsero invece a maturazione in tre Dialoghi storici (con l’uomo di Neanderthal, con Montezuma, con Henry Ford, 1974-82), ma si registrò anche il riavvicinamento a due passioni remote come il teatro e la fiaba: lo attestano le storie per bambini pubblicate nel Corriere della Sera illustrato e il progetto di un Teatro dei ventagli messo a punto con il poeta-pittore Toti Scialoja. Un Calvino ormai multimediale riprendeva la collaborazione con il musicista Luciano Berio che, avviata fin dal 1959, si concretava ora in due opere, o piuttosto «azioni sceniche»: La vera storia (1982) e Un re in ascolto (1984).

Ma quanto a multimedialità, il lavoro più originale su questo fronte riguardò i suoi scritti sulla pittura, copiosi fino al 1985, fossero testi d’impianto saggistico come quelli su Turner o Arakawa, oppure – più spesso – testi creativi, veri e propri racconti nati dall’impatto con quadri e sculture. Merita un posto a sé La squadratura (1975) dedicata a Giulio Paolini, nella quale venne delineato il programma di lavoro per Se una notte d’inverno un viaggiatore, il libro della molteplicità che avrebbe coronato questo decennio di esperimenti, turbato dal delitto Moro (sulla cui prigionia Calvino scrisse un importante articolo per il Corriere) e rattristato dalla morte di sua madre nel 1978. La mobilità del Calvino scrittore si trasmise al Calvino turista: nel solo biennio 1975-76 tre viaggi, in Iran, Giappone e Messico, destinati a nutrire le pagine di Palomar Collezione di sabbia

Dal 1° gennaio 1977 alla primavera 1979 Calvino si dedicò interamente alla stesura di Se una notte d’inverno un viaggiatore, «iper-romanzo» nel quale desiderava conservare intatta dal principio alla fine l’energia della potenzialità, la libertà di un perpetuo incominciare; non per nulla il suo titolo primitivo fu Incipit. Il libro uscì da Einaudi nell’estate 1979, accompagnato da una sagace campagna pubblicitaria: il successo fu immediato, la critica si ritrovò frastornata dalla complessità dell’opera.

Alla fine del 1979, lasciò il Corriere della Sera per la Repubblica, il quotidiano fondato dal compagno di liceo Scalfari. Pochissimi, nella nuova sede, gli articoli di argomento politico; va però segnalato un Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti (15 marzo 1980) che si salda ai primi apologhi giovanili. Quello di Repubblica fu un Calvino enciclopedico e giramondo: un Baedeker di esplorazioni culturali come Collezione di sabbia nacque in massima parte su quelle pagine, e lì sarebbero apparsi anche alcuni brani di Palomar e le ultime due cosmicomiche stese nell’estate 1984, Il niente e il poco e L’implosione. Simultaneamente, Calvino si impegnava in un lavoro di autoriepilogo riunendo in volume una scelta dei suoi saggi dal 1955 in avanti. Per lunghi anni aveva esitato a farlo, e un puntiglio riduttivo e autodenigratorio lo indusse a definire la raccolta che uscì da Einaudi nel 1980, Una pietra sopra (sottotitolo: Discorsi di letteratura e società), come il suo «libro postumo» (lettera a Guido Neri [27 agosto 1980]: in Lettere, 2000, p. 1431). 

Nel 1980 la famiglia Calvino, pur senza abbandonare del tutto la casa parigina, tornò a stabilirsi in Italia, a Roma, in un grande appartamento in piazza Campo Marzio. Nel 1981 giunsero a Calvino due riconoscimenti, la Legion d’onore e la nomina a presidente di giuria della XXIX Mostra del Cinema di Venezia. Al principio del 1983 fu nominato per un mese directeur d’études alla École des Hautes Études di Parigi, e in quella veste tenne una lezione su Science et métaphore chez Galilée. Qualche mese più tardi tenne la James Lecture alla New York University, dove lesse in inglese il suo saggio più importante di questi anni, Mondo scritto e mondo non scritto: «Quando mi stacco dal mondo scritto per ritrovare il mio posto nell’altro, in quello che usiamo chiamare il mondo, fatto di tre dimensioni, cinque sensi, popolato da miliardi di nostri simili, questo equivale per me ogni volta a ripetere il trauma della nascita […]» (Saggi, 1995, II, p. 1865). Nel 1983 uscì anche Palomar, che Calvino definì come un quaderno di esercizi (Sono nato in America…, 2012, p. 639). Fu l’ultimo libro pubblicato presso Einaudi, a causa del dissesto finanziario della casa editrice. Le 27 brevi avventure del protagonista – un incrocio tra Leopardi e Buster Keaton – che portava il nome di un famoso telescopio erano dichiaratamente autobiografiche.

Calvino scelse come nuovo editore il milanese Garzanti, presso il quale uscirono quell’anno due libri, Collezione di sabbia e la raccolta delle Cosmicomiche vecchie e nuove. Sempre nel 1984 gli giunse l’invito a tenere a Harvard, per l’anno accademico 1985-86, un ciclo di sei conferenze, le Charles Eliot Norton poetry lectures; era il primo invitato italiano. Si mise subito al lavoro, e al principio del settembre 1985 aveva completato la stesura di cinque conferenze su sei: LeggerezzaRapiditàEsattezzaVisibilitàMolteplicità. L’ultima, destinata a intitolarsi Consistency, l’avrebbe scritta a Harvard. Durante l’estate la scrittura di quelle che sarebbero uscite postume nel 1988 col titolo Lezioni americane si alternò con un difficile esercizio di traduzione, Le chant du styrène di Queneau. 

Fu il suo ultimo lavoro: nel primo pomeriggio del 6 settembre 1985, nella villa di Roccamare, fu colpito da ictus cerebrale. Si spense all’ospedale di Siena nella notte tra il 18 e il 19 settembre e fu sepolto nel cimitero di Castiglione della Pescaia. 

OPERE

Edizioni postume: Romanzi e racconti, I-III, a cura di C. Milanini – M. Barenghi – B. Falcetto, Milano 1991-94; I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Torino 1991; Fiabe italiane, a cura di M. Lavagetto, Milano 1993; Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, ibid. 1994; Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, ibid. 1995; Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, ibid. 2000; Il libro dei risvolti, a cura di C. Ferrero, Torino 2003; Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli, Milano 2012. Da considerare inoltre gli scritti sparsi contenuti in Album Calvino, a cura di L. Baranelli – E. Ferrero, ibid. 1995, e in «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972, a cura di M. Barenghi – M. Belpoliti, Milano 1998.

FONTI E BIBLIOGRAFIA

La più ricca bibliografia ragionata della critica resta D. Scarpa, Bibliografia della critica calviniana 1947-2000, in Il fantastico e il visibile. L’itinerario di I. C. dal neorealismo alle «Lezioni americane», Giornata di studi… 1997, a cura di C. De Caprio – U.M. Olivieri, Napoli 2000, pp. 289-373; per i testi primari si veda invece: L. Baranelli, Bibliografia di I. C., Pisa 2007. Fra le testimonianze biografiche: P. Spriano, Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano 1986; G. Einaudi, Frammenti di memoria, Milano 1988; S. Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, Roma-Napoli 1991; P. Ferrua, I. C. a Sanremo, Sanremo 1991; E. de’ Giorgi, Ho visto partire il tuo treno, Milano 1992; L. Guglielmi – I. Pizzetti, Libereso, il giardiniere di C., Padova 1993; T. Schiva, Mario Calvino. Un rivoluzionario tra le piante, suppl. a Flortecnica, 1997, n. 12; Encuentro con I. C. (catal.), Milano 1999; L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino 1999; N. Ginzburg, Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di D. Scarpa, Torino 2001; C. Fruttero – F. Lucentini, I Nottambuli, a cura di D. Scarpa, Cava de’ Tirreni 2002; G. Davico Bonino, Alfabeto Einaudi, Milano 2003; E. Ferrero, I migliori anni della nostra vita, Milano 2005; C. Milanini, Appunti sulla vita di I. C., 1943-1945, in Belfagor, LXI [2006], 1, pp. 43-61; E. Macellari, Eva Mameli Calvino, Perugia 2010. Fra i saggi critici si rimanda innanzitutto agli apparati bibliografici che corredano ciascun volume delle opere di C. pubblicate nella collana «Oscar» Mondadori, suddivisi in una parte di carattere generale e una specificamente dedicata all’opera. In questa sede ci si è limitati alle maggiori monografie apparse dopo la pubblicazione delle opere di C., fra cui: M. Belpoliti, L’occhio di C., Torino 1996; M. McLaughlin, I. C., Edinburgh 1998; S. Perrella, C., Roma-Bari 1999; D. Scarpa, I. C., Milano 1999; A. Asor Rosa, Stile C., Torino 2000; J.-P. Manganaro, I. C. romancier et conteur, Paris 2000; A.M. Jeannet, Under the radiant sun and the crescent moon. I. C.’s storytelling, Toronto-Buffalo-London 2000; M. Lavagetto, Dovuto a C., Torino 2001; F. Ricci, Painting with words, writing with pictures: word and Image in the works of I. C., Toronto 2001; M. Schilirò, Le memorie difficili. Saggio su I. C., Catania 2002; M.J. Calvo Montoro, I. C., Madrid 2003; F. Serra, C., Roma 2006; M. Barenghi, I. C., le linee e i margini, Bologna 2007; M. Bucciantini, I. C. e la scienza. Gli alfabeti del mondo, Roma 2007; R. Donnarumma, Da lontano. C., la semiologia, lo strutturalismo, Palermo 2008; M. Barenghi, C., Bologna 2009; E.M. Ferrara, C. e il teatro: storia di una passione rimossa, Oxford 2011; V. Santoro, C. e il cinema, Macerata 2012.

Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento

Elsa Morante

Vita e opere

Nacque a Roma il 18 agosto 1912 da Irma Poggibonsi, maestra, ebrea modenese, e da Francesco Lo Monaco, siciliano, morto suicida nel 1943; padre anagrafico, marito di Irma, fu Augusto Morante, istitutore al Riformatorio per minorenni. A Elsa, secondogenita – il primogenito, Mario, morì a pochi mesi – seguirono i fratelli Aldo e Marcello e la sorella Maria. 

Per motivi di salute non frequentò le elementari ma studiò privatamente, trascorrendo parte dell’infanzia presso la madrina, Maria Guerrieri Gonzaga, in una villa sulla via Nomentana. Giovanissima scrisse poesie, fiabe e racconti, molti fra i quali pubblicati ne Il Corriere dei piccoli, e I diritti della scuola.

Dopo il ginnasio e il liceo svolti presso celebri istituti romani (Ennio Quirino Visconti e Terenzio Mamiani), si iscrisse all’Università che presto però interruppe «per conoscere la vita»: a 18 anni, infatti, lasciata la famiglia andò a vivere da sola dando lezioni private, scrivendo tesi di laurea e pubblicando regolarmente racconti in riviste e rotocalchi. Giacomo Debenedetti, che ebbe modo di conoscerla in quegli anni, apprezzò i suoi racconti e li fece pubblicare nella rivista Meridiano di Roma

Quando nel 1948 apparve Menzogna e sortilegio, il primo grande romanzo di Morante, molti si stupirono dell’apparizione di una scrittrice senza precedenti; tuttavia la stesura delle opere maggiori fu di fatto preceduta e accompagnata da una fitta produzione di racconti in cui compaiono personaggi e motivi talvolta ripresi e amplificati nelle opere maggiori. 

Pubblicato postumo per Einaudi, il volume dei Racconti dimenticati (Torino 2002) riunisce testi esclusi dalle raccolte precedenti e in particolare – nella sezione Aneddoti infantili – quelli più chiaramente autobiografici. Nella prefazione Cesare Garboli precisa: «Morante sviluppò negli anni Trenta (1933-1941) un’attività pubblicistica, col proprio nome o sotto pseudonimo, che comprende più o meno 125 collaborazioni tra racconti, fiabe, fantasie, articoli di costume, racconti storici, aneddoti infantili, con una media […] di un racconto ogni venticinque giorni per nove anni filati […]» (p. VI). Quello che si può considerare come l’apprendistato della narrativa morantiana ha i tratti e lo stile del romanzo d’appendice, del feuilleton, della fiaba. Le «stralunate creature» di questo feuilleton giovanile compongono, pertanto, un «deforme campionario di personaggi veristi, commercianti, impiegati, bottegai, stallieri, cocchieri, corrieri, nobildonne fittizie e immaginarie, baroni ossessi e infermiere assassine, folla indiscriminata di esseri dall’apparenza normale quanto intimamente malati e tarati» (ibid., p.VII). 

Nel 1936 Elsa Morante incontrò Alberto Moravia, già assurto alla notorietà col romanzo d’esordio, Gli indifferenti (1929): in questi primi anni di una relazione alquanto tormentata, segnata da separazioni e riavvicinamenti, Morante tenne un diario (pubblicato postumo e, così come altre pagine diaristiche degli anni Cinquanta, parzialmente riprodotto nella Cronologia delle Opere per la collezione mondadoriana «I Meridiani»). 

Diario 38 (ma il titolo originale è Lettere ad Antonio, a cura di Alba Andreini, Torino 1989) contiene – come indicano in modo eloquente le epigrafi: «Libro dei sogni», «La vida es sueño» nonché una citazione tratta dalla Commedia la trascrizione dei sogni della giovane autrice ventiseienne, oltre a pensieri, ricordi e immagini da questi suscitati.

Vi compaiono a più riprese allusioni a una figura maschile A. (Moravia) e ad altre persone della famiglia: la madre, il padre, la sorella, i fratelli, alcuni amici. Tuttavia soggetto principale dell’introspezione è lei stessa, la giovane Elsa, con i propri desideri, la relazione col proprio corpo, i fantasmi sessuali. Da tale esplorazione dell’inconscio affiorano interrogativi talvolta angosciosi, relativi all’infanzia, alla maternità, alla sensualità femminile, all’erotismo e alla vita sessuale, ma vi convergono ugualmente riflessioni su poeti e narratori che costituiscono preziose indicazioni sulla sua ricerca di scrittura (Dante, Kafka, Proust, Rimbaud, Freud, Manzoni, Verga). 

Morante e Moravia si sposarono il lunedì dell’Angelo del 1941 in una cappella della chiesa del Gesù, a Roma; il rito fu celebrato da padre Pietro Tacchi Venturi, confessore e guida spirituale di Elsa. 

Nello stesso anno venne pubblicato Il gioco segreto (Milano 1941), una prima raccolta di 20 racconti fra quelli ch’erano apparsi a stampa tra il 1937 e il 1941; fra questi alcuni furono poi selezionati dall’autrice per un secondo volume, Lo scialle andaluso (Torino 1963). L’anno seguente apparve un racconto scritto alcuni anni prima, illustrato dall’autrice: Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (ibid. 1942). 

I personaggi di questi racconti si delineano come cifre dell’ambiguità: i toni spesso cupi e inquietanti, la morte come personaggio o come presentimento (La nonna), il diffuso sentimento di colpa (Il ladro dei lumi), l’incertezza e l’oscillazione tra delirio e lucidità, conscio e inconscio, angelico e demoniaco (Via dell’Angelo), e più in generale le atmosfere e la nota di fondo che vi sottostanno sono propri della letteratura fantastica, in cui si moltiplicano gli effetti del «perturbante» secondo la definizione freudiana (Umheimlich); vi si ritrovano ugualmente notevoli somiglianze con il mondo onirico e metafisico dell’immaginario di Kafka e di Poe.

I protagonisti, spesso bambini e adolescenti, inseguono i miraggi dell’immaginazione e del sogno, fin quando la visione è bruscamente infranta e precipitano in una vita priva di desideri, avvolta nell’inconsolabile melanconia del paradiso perduto.

La madre e il padre sono raffigurati come oggetto di passioni, veri e propri miti dell’infanzia e della giovinezza, ma destinati a essere rigettati o demoliti nell’età adulta. Ne Il gioco segreto, che dà il titolo alla raccolta, il teatro è metafora della fuga verso un tempo mitico: un’epopea notturna nella quale Antonietta e i fratelli inventano e inscenano storie di donne e cavalieri d’altri tempi, fin quando, scoperti dalla madre, puniti e ricondotti alla realtà, sono ormai dolorosamente esiliati dal mondo onirico. Lo scialle andaluso, uno dei racconti più amati dall’autrice e fra i più significativi, è invece incentrato sul legame geloso e intenso di Andrea per la madre Giuditta che, dopo una carriera fallita di ballerina, rinuncia al suo grande amore per il teatro per ritornare a vivere con il figlio. 

Dopo l’8 settembre 1943, con l’intensificarsi della persecuzione antisemita e della repressione tedesca, Moravia venne avvisato del pericolo di un arresto in quanto ebreo, e con Morante – anch’essa ebrea per parte di madre – decisero di lasciare precipitosamente Roma. Giunto a Fondi, il treno non poté proseguire a causa della linea ferroviaria interrotta: costretti a scendere dal treno, arrivarono a piedi nel paesino di Sant’Agata dove si rifugiarono fino alla fine della guerra.

Per nove mesi la coppia condivise le condizioni di vita disagiate e precarie dei residenti, con soltanto due libri (la Bibbia e i Fratelli Karamazov), cibo frugale e un’unica stanza con un pagliericcio per dormire. All’inizio dell’inverno Morante decise di ritornare a Roma per recuperare il manoscritto di Menzogna e sortilegio.

Nel 1944, dopo un breve periodo a Napoli, la coppia fece ritorno a Roma (dapprima in via Sgambati, poi in un attico acquistato in via dell’Oca). Morante riprese la scrittura del romanzo e lo inviò alla casa editrice Einaudi dove fu accolto favorevolmente soprattutto da Natalia Ginzburg e quindi da Italo Calvino. Pubblicato nel 1948, fu insignito nello stesso anno del premio Viareggio. 

Il primo romanzo morantiano è una storia di famiglia che si svolge tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, in un Sud imprecisato (presumibilmente Palermo e dintorni): Elisa, ormai orfana, reclusa e quasi «sepolta viva» nella cameretta insieme al fedele gatto Alvaro, rimemora e racconta le vite dei cari fantasmi che continuano ad affascinarla e a tormentarla con i loro enigmi: la nonna Cesira e il nonno Teodoro, la loro figlia e madre di Elisa, Anna, il padre Francesco, la seconda madre e amante del padre Rosaria, il misterioso cugino Edoardo. La narrazione assume i toni della saga, dell’epopea che registra il rapido declinare delle illusioni e dell’agiatezza verso la decadenza, la miseria sociale e il turbamento psichico: al centro la figura della madre della narratrice, Anna, che, innamorata di Edoardo, accetta di sposarne l’amico Francesco De Salvi, quando costui, gravemente malato di tisi, lascia improvvisamente la città, e muore poco dopo. Francesco è figlio naturale di una relazione fugace tra Alessandra, contadina analfabeta, e l’amministratore delle terre dei Cerentano, Nicola Monaco, ma crede a lungo di essere il figlio del marito, Damiano. Morto Edoardo, Anna inventa un epistolario tra lei e il cugino, nell’intento di consolarne la madre Concetta. Questa menzogna ed estrema finzione, la conduce rapidamente alla follia e alla morte. 

Temi, personaggi e stile della narrazione riprendono, trasformandoli, quelli del grande romanzo ottocentesco, proprio quando nella letteratura e nel cinema si imponevano la poetica e le forme del neorealismo: la scrittura morantiana sembra percorrere una strada originale, eccentrica rispetto alle correnti dominanti e ai canoni prevalenti del periodo.

Fin da questo primo grande libro, Morante persegue una poetica della realtà di cui la formulazione forse più completa e stringente si situa a livello teorico nel saggio Sul romanzo (1959), in cui viene definito come «ogni opera poetica, nella quale l’autore […] dà intera una propria immagine dell’universo reale (e cioè dell’uomo, nella sua realtà)» (cfr. Sul romanzo, in Pro o contro la bomba atomica e altri saggi, p. 44). Nell’ampiezza e nel vigore narrativo si ritrova quella cattedrale sognata di cui l’autrice annotava in Diario 38: «[…] discorrendo dell’arte nel romanzo e nell’intreccio con V. ricordo di avere di sfuggita paragonato la costruzione del racconto a un’archittettura, a una cattedrale, le scene isolate alle vetrate» (p. 20). All’uscita del romanzo la maggior parte della critica rimase sorpresa dalla novità dell’autore Morante. Molti furono i tentativi per delineare accostamenti e influenze letterarie: il Settecento francese di Marivaux, o l’Ottocento del romanzo inglese (Orgoglio e pregiudizio, di Jane Austen), per altri il riferimento era più vicino all’ambientazione siciliana verista (Verga, De Robertis). Tuttavia, fu soprattutto l’apprezzamento di György Lukács che, decretando Menzogna e sortilegio come «il più grande romanzo italiano moderno», inaugurò una nuova fase critica. Studi successivi hanno mostrato l’importanza della scrittura pubblicistica e narrativa precedente e gli accostamenti ai pensatori fondamentali del XX secolo: Sigmund Freud, Otto Rank e Carl Jung, Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger, Arthur Schopenhauer, Simone Weil (si vedano, in particolare: Per Elisa, 1990; nonché Bardini, 1999). D’altro canto si è cercato di inserire l’opera nel panorama letterario novecentesco con un ampio ventaglio di possibili accostamenti (Marguerite Yourcenar, Virginia Woolf, Anna Maria Ortese, Pier Paolo Pasolini), ma anche, in filigrana, con quegli autori che ne hanno ripreso i modi o il programma poetico e etico (cfr. Under Arturo’s star …, 2006). 

Dal 1949 Morante curò per la RAI-Radio Televisione italiana la rubrica «Cronache del cinema»; tuttavia si dimise due anni dopo rifiutando di cedere alle pressioni della direzione, volte ad «attenuare le punte critiche » (cfr. Opere, I, Cronologia, p. LVIII). Pubblicò vari racconti tra cui Amalia (1950) e Lo Scialle andaluso (1953). In quegli anni conobbe la filosofa spagnola María Zambrano e sua sorella Aracoeli, con la quale strinse un’intensa amicizia. 

Nel 1957 uscì il secondo romanzo, L’isola di Arturo, che ricevette nello stesso anno il premio Strega. 

Arturo, adolescente orfano di madre, vive in compagnia del balio Silvestro e della cagna Immacolatella, nella Casa dei guaglioni, sulle alture dell’isola di Procida. Il padre, Wilhelm Gerace, è quasi sempre assente e, nell’immaginazione febbrile ed esaltata del figlio, che lo dipinge come idolo ed eroe, parte per viaggi misteriosi e avventurosi nel grande mondo, al pari dei personaggi dei suoi libri. L’arrivo di Nunziata, nuova sposa del padre, poco più grande di lui, turba profondamente il ragazzo suscitando rivalità e gelosia. La maternità di costei e, nello stesso tempo, la rivelazione degli amori omosessuali del padre che sono alla base dei suoi misteriosi viaggi, sanciscono per il protagonista l’uscita dal mondo circoscritto e felice dell’infanzia, nonché l’accesso all’universo adulto e della guerra imminente. 

Romanzo di formazione, ma innervato da un’immaginazione favolistica che affonda nel sottofondo del mito, L’isola di Arturo ottenne consenso unanime coniugando felicemente i suggerimenti della realtà con la capacità evocativa e le illuminazioni liriche. 

Nel maggio del 1958 fu data alle stampe una prima raccolta di poesie (Alibi, Milano) di cui alcune erano già apparse come epigrafi dei romanzi. In quegli anni Morante effettuò numerosi viaggi all’estero: in Grecia, in Unione Sovietica e in Cina con Giacomo Debenedetti, insieme con Moravia in Brasile, con Pier Paolo Pasolini e Moravia in India. Nel settembre 1959, incontrò a New York Bill Morrow, un pittore ventitreenne con cui strinse un’intensa relazione e che aiutò insieme a Moravia nell’organizzazione di diverse mostre in Italia, in Francia e negli Stati Uniti. 

Nell’aprile del 1962, poco dopo il suo rientro negli Stati Uniti, Morrow morì tragicamente cadendo dalla finestra di un grattacielo, non si sa se accidentalmente o volontariamente. Morante sprofondò nella desolazione e nel lutto e abbandonò tutti i progetti di scrittura in corso, tra cui il romanzo Senza i conforti della religione

Il ritorno alla pagina scritta avvenne gradatamente, e soprattutto attraverso la poesia. Con Pasolini, cui era unita dalla consuetudine di una profonda amicizia, curò la scelta delle musiche de Il vangelo secondo Matteo (1964) e più tardi di Medea (1970). 

Nel 1965 pronunciò la conferenza Pro o contro la bomba atomica al teatro Carignano di Torino, che costituì poi la parte centrale del volume Pro o contro la bomba atomica e altri scritti (Milano 1987) in cui sono esplicitati la concezione dell’arte del romanzo, le idee sulla letteratura, sui personaggi e sul rapporto tra vita, scrittura e realtà. 

Oltre a testi brevi, come Navona mia sull’amata piazza Navona o la serie Rosso e Bianco, vi figura l’articolo I personaggi (1950) in cui Morante individua tre tipologie di personaggio la cui combinazione informa la maggior parte delle opere narrative: Achille, il greco dell’età felice, Don Chisciotte che, insoddisfatto della realtà, cerca salvezza nella finzione, e infine Amleto, che rifiuta la realtà e la finzione, e sceglie di non essere. 

In Sul romanzo – nato in risposta a un’inchiesta promossa dalla rivista Nuovi Argomenti nel 1959 – Morante travalica la distinzione tra prosa e poesia, considerando nel novero di «romanzo » anche i sonetti di Shakespeare, il Canzoniere di Saba, i poemi epico-cavallereschi o il teatro; ciò che le interessa non è tanto il genere letterario quanto il fare poetico, l’essenza dell’opera che giunge attraverso la «realtà degli oggetti » a una forma di «verità». La preferenza di Morante va alle opere in cui l’autore si cela dietro la «pura rappresentazione»: prendendo le distanze sia dal realismo socialista sia dal neorealismo, approda a una propria definizione di realismo il cui fondamento è la molteplicità della realtà trasformata in verità poetica, così come l’esperienza dell’artista deve diventare universale, «valore per il mondo». 

Nel saggio Pro o contro la bomba atomica la fiducia nella trasformazione poetica della realtà viene controbilanciata dalla necessità di una lotta contro l’irrealtà, configurata come i mostri che il poeta deve combattere. La bomba atomica è metafora e segno minaccioso dell’epoca della guerra fredda e della corsa all’armamento nucleare tra le potenze mondiali che rischia di annientare la Terra e l’umanità intera. Tale minaccia di disintegrazione riguarda in primo luogo l’interezza dell’universo reale che l’opera invece deve ricercare: «l’arte è il contrario della disintegrazione. […] la sua funzione, è appunto questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale, o in una parola la realtà […]. La realtà è perennemente viva, accesa, attuale […] è una, sempre una» (cfr. Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, pp. 101 s.). Lo scrittore-poeta non può che resistere alla disintegrazione e all’alienazione della cultura piccolo-borghese delle classi dominanti, anche se si rifugia nel deserto o in paesi lontani (Rimbaud). 

Il messaggio di Pro o contro la bomba atomica è in fondo ottimistico: l’atto poetico è un’azione necessaria di fronte all’orrore, e nel contempo testimonianza e risposta. Come esempio probante della straordinaria gioia che può provocare la poesia nella sua lotta contro la morte, Morante evoca il giovane poeta ungherese Miklós Radnóti, deportato e ucciso, di cui furono recuperati i versi, scritti fin sull’orlo della fossa in cui cadde. 

Sovversivi, rivoluzionari, capaci di meraviglia, di allegria, di fantasia tali sono i bambini, i giovani, i poeti come Umberto Saba cui è dedicato il saggio Il poeta di tutta la vita (pp. 33- 39), o come il Beato Angelico, il pittore che da «Beato propagandista del Paradiso», avendo veramente creduto, ha visto e dipinto le creature angeliche, tutti i corpi celesti del Paradiso, la festa invisibile dei corpi di luce. 

Diversi viaggi negli Stati Uniti e in Messico, dal fratello Aldo, poi nello Yucatán, nonché la collaborazione con Pasolini permisero a Morante di elaborare il lutto per la morte del giovane pittore. Frutto dell’intensa attività poetica di quegli anni furono le poesie de Il mondo salvato dei ragazzini (Torino 1968). 

La quarta di copertina chiarisce il titolo della raccolta in modo provocatorio e sorprendente: «un manifesto/ un memoriale/ un saggio filosofico/ un romanzo / un’autobiografia/ un dialogo/ una tragedia/ una commedia/ un documentario a colori/ un fumetto/ una chiave magica/ un testamento/ una poesia». Sul frontespizio, la riproduzione di un quadro di Bill Morrow richiama l’attenzione sul lungo poema Addio che ne intende evocare la figura. Rispetto alla prima raccolta Alibi, pubblicata nel 1958, Il mondo salvato dai ragazzini, dispiega una grande varietà di forme poetiche, dalla poesia in versi liberi alla canzone, dal poemetto epicodrammatico al testo teatrale, fino alle forme anarchico-futuriste della «Grande Opera», la cui esplosione riproduce visivamente e fonicamente la frammentazione e dispersione del mondo, prima di una nuova genesi. Apparso nel maggio 1968 il poema morantiano è un’eco quasi profetica dei movimenti studenteschi, giovanili e operai di quella primavera, anche se La canzone degli F.P. e degli I.M. era stata precedentemente edita in Nuovi Argomenti nel 1967: i Felici Pochi (F.P.) si distinguono dagli Infelici Molti (I.M.), per la loro persistente allegria contro tutti i tentativi di sopraffazione, intimidazione, oppressione. Sono i rappresentanti dell’utopia e dell’immaginazione poetica, portatori di una felicità incarnata soprattutto dai personaggi bambini (Arturo, Useppe, il pazzariello). I Felici Pochi portano di volta in volta nomi diversi: alcuni come Mozart e Rimbaud, sono figure fondamentali dell’ispirazione morantiana, altre come Simone Weil nutrono il pensiero etico della scrittrice. A essi si aggiungono pittori, visionari, rivoluzionari, pensatori: Edipo, il Cristo, il pazzariello impersonano la visione leggendaria e drammatica dell’umanità attratta dalla luce, dalla felicità, dalla gioia, ma spesso minacciata e travolta dalla tragedia, dalla sofferenza, dalle innumerevoli forme di tristezza e di potere. 

Il mondo salvato dai ragazzini è un inno all’allegria anarchica e denuncia di tutte le forme di totalitarismo e di ideologia distruttrice e repressiva. I continui e ripetuti riferimenti al supplizio, alla tortura e all’orrore contrassegnano la riflessione di Morante sulla storia, sul Novecento come secolo delle guerre mondiali, dei genocidi, del nazismo e fascismo. 

In una recensione lucida e ironica, stesa in forma di poesia, Pasolini definì l’autrice «nonna- bambina» e «madre idealizzatrice e piena di certezza» dell’anacronistico «pazzariello […] straordinariamente attuale», evocando in raffronto i vari ragazzini, gli studenti nipoti che invita a leggere la nonna Morante (cfr. Pasolini, 1971, pp. 27-43). 

Nel 1971 cominciò la stesura del suo terzo romanzo, La Storia, che uscì nel 1974. Pubblicato da Einaudi in edizione economica per volontà della stessa Morante, affinché potesse essere immediatamente accessibile a un più vasto numero di lettori, il libro ottenne grande successo di pubblico. Tuttavia restie, se non dichiaratamente ostili, furono le reazioni di parte della critica: il dibattito sviluppatosi sul Manifesto e su giornali e riviste della sinistra (Quaderni piacentiniOmbre rosseRinascital’Unità) stigmatizzò la mancanza di ideologia nel libro morantiano, e in particolare furono denunciati il pessimismo e la sfiducia sulla possibilità di cambiare la storia, senza rilevare la fondamentale «ammonizione della Morante sulla tragicità della storia» e la «radicalità senza ideologia» del suo pensiero poetico e politico (per cui si veda: M. Sinibaldi, in Vent’anni dopo «La Storia», 1994, p. 215). Pasolini, che aveva riservato un’accoglienza entuasiasta a Il mondo salvato dai ragazzini, stroncò viceversa il romanzo (cfr. Tempo illustrato, 26 luglio e 2 agosto 1974) rimproverando lo stile manieristico sia nella costruzione dei personaggi sia nelle scelte linguistiche (il dialetto romano), nonché la stessa concezione della storia e delle sue vittime. L’intervento mise fine a una lunga relazione intellettuale e affettiva: e non ci fu alcun riavvicinamento prima dell’assassinio di Pasolini avvenuto un anno dopo, il 2 novembre 1975. 

È indubbio che il romanzo, come accadde per Menzogna e sortilegio, giunse di sorpresa, quasi controcorrente. Anche La Storia attiva i meccanismi della memoria, soprattutto quelli della memoria collettiva, come testimonia la «cornice» che precede ogni capitolo declinando una cronologia precisa degli avvenimenti mondiali dal 1900 al 1967 e oltre. Il pretesto della narrazione è un fatto di cronaca: il ritrovamento in un appartamento del quartiere romano di Testaccio di una madre impazzita, del figlioletto morto e di una cagna imbestialita. Si palesa così l’intento di raccontare le pur brevi esistenze di coloro che vivono nei margini della trama implacabile della storia: i senza nome, soppressi senza testimonianze che ne possano riscattare l’esistenza.

Tali sono i protagonisti principali: Ida, maestra di scuola elementare, vedova, i suoi figli Antonio, detto Nino e Giuseppe, detto Useppe, i cani Blitz e Bella.

Ida, d’origine ebrea per parte di madre, un giorno del gennaio 1941 viene seguita da un giovane soldato tedesco ubriaco, in partenza per l’Africa (dove poi morirà), che le usa violenza. Rimasta incinta, si reca per partorire il piccolo Useppe nel Ghetto, assistita da un’ostetrica ebrea. In seguito ai bombardamenti del quartiere San Lorenzo, la famiglia è costretta a riparare in un capannone alla periferia di Roma dove, in un unico stanzone, risiede fino alla fine della guerra. Qui, una notte, si presenta Carlo Vivaldi che, legatosi di amicizia con Nino, diventa partigiano e soltanto in seguito rivelerà la sua vera identità (si tratta dell’ebreo Davide Segre) e le sue idee anarchiche. Dopo la fine della guerra, Ida e Useppe fanno ritorno in città: il bambino, di un’intelligenza e d’una vivacità fuori del comune ma affetto da epilessia, muore a soli 6 anni. Un anno prima erano scomparsi anche Nino e Davide Segre, il primo vittima di un incidente stradale, il secondo, con ogni probabilità, in seguito a una overdose di barbiturici. Ida sopravvive ai propri figli, ma è ormai lontana dal mondo e dalla vita. 

Il romanzo consegna al lettore una visione tragica e fatalistica della storia, e tuttavia vuol essere atto di testimonianza dell’avvento umano e del desiderio di felicità dei suoi protagonisti. Trovare le parole per raccontare l’orrore è il fine del progetto morantiano, che la scrittrice realizza ne La Storia con maggiore respiro forse rispetto agli altri romanzi: «l’unica felicità possibile: non essere sé, ma tutti», appunta significativamente in una nota del suo diario del 1964 ( per cui cfr. Opere, I, Cronologia, p. LXXVIII). 

Nel 1976 cominciò la stesura di un nuovo romanzo, Aracoeli, per il quale Morante si recò più volte in Andalusia. Dopo il sequestro di Aldo Moro, il 20 marzo 1978 scrisse una «Lettera alla Brigate Rosse» rimasta incompiuta (e apparsa postuma nel 1988). Nel 1980, dopo una caduta rovinosa che le provocò la rottura del femore, soggiornò in convalescenza per un lungo periodo presso la clinica Quisisana di Roma. Ritornata a casa, proseguì la stesura di Aracoeli ultimandolo nel dicembre 1981. Dato alle stampe nel novembre 1982, nel 1984 fu insignito del prestigioso Prix Médicis Étranger. 

Protagonista e narratore del quarto e ultimo romanzo della scrittrice è Manuel, un omosessuale di 43 anni ossessionato dalla memoria d’infanzia al cui centro è la madre, Aracoeli, spagnola, andata in sposa giovanissima a un ufficiale dell’esercito italiano. La lingua materna delle nenie e delle canzoncine dell’infanzia continua a risuonare nell’orecchio di Manuel, che, ormai alle soglie della maturità, rimpiange insieme con la perdita della madre quella della propria bellezza. Rispetto alla storia di Arturo, ci troviamo dinanzi a «una Bildung all’inverso» (cfr. Rosa, 1995, p. 309): in un viaggio a ritroso della memoria e del tempo egli si reca a El Almendral, villaggio d’origine di Aracoeli, ormai scomparsa da anni, per tentare di ritrovare le tracce di sua madre bambina, dello zio scomparso di cui porta il nome, di una preistoria antecedente la propria nascitaAracoeli, in un modo ancora più intenso e drammatico dei romanzi precedenti, mette in primo piano la coppia madre figlio, raccontando attraverso la giustapposizione dei piani temporali e l’uso calibrato del flashback tanto l’autentico splendore quanto la discesa agli inferi dell’età adulta. La tragedia comincia dopo la nascita della seconda figlia, morta pochi mesi dopo; Aracoeli cade dapprima in uno stato di sconforto totale, poi è afflitta da una frenetica smania sessuale, sintomo della malattia incurabile che la porterà alla morte. Crollato il mito dell’infanzia, la realtà appare come una sassaia deserta, solitaria e misera, in cui ritrova nel finale il padre Eugenio, ormai invecchiato e senza i fasti del passato, ma per il quale sussiste in fondo a sé l’amore. 

Dopo la consegna del manoscritto, la scrittrice cominciò a soffrire nuovamente di forti dolori alla gamba, ma rifiutò una nuova operazione. Nell’aprile del 1983 tentò il suicidio, ma venne salvata in extremis e trasportata d’urgenza all’ospedale dove le fu diagnosticata una grave idroencefalia. L’operazione cui fu sottoposta non riuscì a migliorare il suo stato. 

Dopo una seconda operazione, morì d’infarto a Roma, nella clinica Villa Margherita ov’era ricoverata, il 25 novembre del 1985. Le sue ceneri furono sparse nel mare di Procida. 

Fin dagli inizi l’opera morantiana fu apprezzata e sostenuta da critici di vaglio; lo stesso Moravia riconobbe a varie riprese la sua profonda ammirazione. Nel corso degli anni numerosi saggi critici, monografie, biografie e volumi collettanei sono stati consacrati alla narrativa morantiana e in misura minore alla poesia. La sua opera si è ormai imposta come una delle più rilevanti del Novecento. 

Opere: Il gioco segretoRacconti (Milano 1941); Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (Torino 1942); Menzogna e sortilegio (ibid. 1948); L’isola di Arturo (ibid. 1957); Alibi, Milano 1958; Le straordinarie avventure di Caterina.Nuova ed. riveduta con l’aggiunta di altre bellissime storie (Torino 1959); Lo scialle andaluso (ibid. 1963); Il mondo salvato dai ragazzini (ibid. 1968); La Storia (ibid. 1974); Aracoeli (ibid. 1982); Pro o contro la bomba atomica e altri scritti (Milano 1987); Opere («I Meridiani »), I-II, a cura di C. Cecchi – C. Garboli, ibid. 1988-90; Diario 1938 (Torino 1989); Racconti dimenticati (ibid. 2002); Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe né partito) (Roma 2004). Ha inoltre tradotto Il libro degli appunti di K. Mansfield (Milano-Roma 1945). 

Fonti e Bibl.: P.P. Pasolini, Il mondo salvato dai ragazzini, in Id., Trasumanar organizzar, Milano 1971, pp. 27-43; G. Venturi, Elsa Morante («Il Castoro», n. 130), Firenze 1977; A. Nozzoli, E. M.: la fuga nell’utopia, in Id., Tabù e coscienza. La condizione femminile nella letteratura italiana del Novecento, Firenze 1978, pp. 129-146; D. Ravanello, Scrittura e follia nei romanzi di E. M., Venezia 1980; G. Debenedetti, L’isola della Morante (1957), in Id., Saggi (1922-66), Milano 1982, pp. 379-396; S. Petrignani, Le signore della scrittura, Milano 1984, ad ind.Letture di E. M., a cura del Gruppo La Luna, Torino 1987; E. Cecchi, E. M., in Id., Prosatori e narratori, in Storia della letteratura italiana (Garzanti), Il Novecento, nuova ed. accr. e agg., II, Milano 1987, pp. 419-423; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze della prosa contemporaneaibid., pp. 439-441; F. Fortini, Nuovi saggi italiani, Milano 1987, pp. 240-247; G. Fofi, E. M., in Id., Pasqua di maggio. Un diario pessimista, Genova 1988, pp. 36-42; Per Elisa. Studi su «Menzogna e sortilegio», Pisa 1990; M. David, E. M., in Id., La psicanalisi nella cultura italiana, Torino 1990 (1ª ed, ibid. 1966), pp. 528 s.; G. Bernabò, Come leggere «La Storia» di E. M., Milano 1991; G. Ferroni, E. M., in Storia della letteratura italiana (Einaudi), Il Novecento, Torino 1991, pp. 551-561; G. Agamben et al.Per E. M., Milano 1993; B. Frabotta, Fuori dall’harem: l’alibi di E. M., in Les femmes écrivains en Italie aux XIXe et XXe siècles, Aix-en-Provence 1993; C. Sgorlon, Invito alla lettura di E. M., Milano 1994; Vent’anni dopo «La Storia». Omaggio a E. M., a cura di C. D’Angeli – G. Magrini, Pisa 1994; P.V. Mengaldo, E. M., in Storia della lingua italiana. Il Novecento, Bologna 1994, pp. 161- 167; Cahiers E. M., a cura di N. Orengo – T. Notarbartolo, Salerno 1995; C. Garboli, Il gioco segreto: nove immagini di E. M., Milano 1995; G. Rosa, Cattedrali di carta: E. M. romanziere, Milano 1995; S. Lucamante, E. M. e l’eredità proustiana, Firenze 1998; M. Bardini, M. E., italiana, di professione poeta, Pisa 1999; C-K. Jørgensen, Visione esistenziale nei romanzi di E. M., Roma 1999; D. Van Der Fehr, Violenza e interpretazione. «La storia » di E. M., Roma-Pisa 1999; H. Serkowska, Uscire da una camera delle favole. I romanzi di E. M., Kraków 2002; C. D’Angeli, Leggere E. M., Roma 2003; E. Martínez Garrido et al.E. M.: La voce di una scrittrice e di un’intellettuale rivolta al secolo XXI, Madrid 2003; M.R. Gilio, Le lusinghe di Maria nell’opera di E. M., Roma 2003; Una Signora di mio gusto, E. M. e le altre, a cura di M.P. Mazziotti – S. Lattarulo, Sant’Oreste (Roma) 2005; Under Arturo’s Star, The cultural legacies of E. M., a cura di S. Lucamante – S. Wood, West Lafayette 2006; C. Cazalé Bérard, Donne tra memoria e scrittura, Fuller, Sachs, M., Roma 2009, ad ind.; L. Tuck, A Woman of Rome, New York 2009; N. Setti, La sapienza degli inermi. «La Storia» di E. M., in Il simbolico in gioco. Fra te e il testo un’altra donna, Padova 2010; Festa per Elsa, a cura di G. Fofi – A. Sofri, Palermo 2011. 

Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento

Il Neorealismo

Composita e complessa dinamica culturale, che ha caratterizzato il cinema italiano dal dopoguerra (1945-46) sino ai primi anni Cinquanta (1953-1956), il N. è stato, sotto molti aspetti, la prima delle ‘nuove ondate’ che, innovando gli aspetti formali e narrativi del cinema, hanno puntato alla sua modernizzazione, sottraendolo alle formule realizzative, ai modi di produzione, ai canoni spettacolari, alle consuetudini linguistiche tradizionali. A livello internazionale, quando già si era conclusa la forza propulsiva del rinnovamento italiano, fecero seguito, nel corso degli anni Cinquanta, il Free Cinema inglese (1956), il cinema dell’ottobre polacco (1958), la Nouvelle vague francese (1959) e, negli anni Sessanta, l’una dopo l’altra o l’una accanto all’altra, le vagues del cinema argentino, giapponese, tedesco, cecoslovacco, brasiliano (e più in generale latinoamericano), ungherese, africano ecc., sino a quelle che si affacciarono negli anni Settanta, come la cilena, quando un ‘nuovo rinnovamento’ (quello del cinema postmoderno) prese avvio, per affermarsi negli anni Ottanta e oltre, determinato dalla grande mutazione mediologica e dagli scambi intermediologici prodotti dalle nuove tecnologie e dai nuovi canali di diffusione degli strumenti audiovisivi. Data la distanza di tali dinamiche, risulta naturale che le più tardive, quelle degli anni Sessanta, a partire dalla Nouvelle vague francese, abbiano avuto nei confronti delle più precoci ‒ come appunto il N. italiano ‒ un ambiguo rapporto di mimesi e di superamento, di dipendenza e di contrasto, di ammirazione e di avversione.

Premessa al Neorealismo, inteso soprattutto come variante del realismo ‒ in primo luogo dalla critica neorealista, che si trovò nella difficile situazione di dover fare storiografia su un fenomeno coevo ‒, fu a lungo considerato quel percorso che, partendo dal realismo primitivo del suburbio portuale di Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio e dei ‘bassi’ di Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena e Francesca Bertini, si immerse come un fiume carsico nel tunnel degli anni Venti, riaffiorò con Sole (1929) di Alessandro Blasetti, riemerse ostensibilmente in 1860 (1933) e magari anche in taluni tratti di Vecchia guardia (1935), entrambi ancora di Blasetti, ebbe specifiche premesse nei volti degli attori non professionisti di La nave bianca (1941) di Roberto Rossellini (nonché in quelli degli altri due titoli della rosselliniana ‘trilogia fascista’, Un pilota ritorna, 1942, e L’uomo dalla croce, 1943) e negli ambienti popolari di Fari nella nebbia (1942) di Gianni Franciolini. Mentre i più audaci fra gli storici del fenomeno citarono anche l’eco popolare di taluni prodotti di ‘genere’ come Avanti c’è posto… (1942) e Campo de’ Fiori (1943) di Mario Bonnard e perfino L’ultima carrozzella (1943) di Mario Mattoli, nemico per eccellenza dei preneorealisti della rivista “Cinema”. Il tutto, per comune consenso, ebbe l’ultimo episodio, prima dell’event rappresentato da Roma città aperta (1945) di Rossellini, nella triade Quattro passi fra le nuvole (1942) di Blasetti, Ossessione (1943) di Luchino Visconti e I bambini ci guardano (1944) di Vittorio De Sica, registi che, ciascuno con il proprio stile ‒ e tutti in qualche modo già preneorealisti ‒, azzerarono l’immaginario del cinema italiano sotto il fascismo.

Questo percorso preneorealista, pur fondandosi sul giusto presupposto che l”ansia di realtà‘ (ora per occultarla e negarla, ora per sussumerla e denunciarla fenomenologicamente) sia stata la caratteristica costante del cinema italiano, da Filoteo Alberini a Silvio Soldini, è solo parzialmente fondato. Almeno nel senso che i suoi richiami (le diverse tappe del percorso, i film che lo caratterizzarono) possono anche essere corretti, ma sono decisamente insufficienti a spiegare la modernità del N., nonché le sue caratteristiche di prima fra le vagues mondiali che puntarono al superamento del cinema ‘classico’. E soprattutto nel senso che la visione del fenomeno come punto di arrivo di una ricerca pluriennale finirebbe per circoscriverlo alla maxicategoria del ‘realismo’, all’interno della quale invece solo in parte esso si può collocare, mentre risultano fuori molte componenti essenziali e specifiche, quali la ricca e composita elaborazione zavattiniana, la problematica mediologica che il N. ha affrontato e la generale mise en question estetico-sociale che esso, esplicitamente e implicitamente, ha determinato avendo, non a caso, riscontro in una letteratura (nel senso di narrativa) e in una pittura neorealiste che, pur con un impatto minore rispetto a quello del N. cinematografico, gli furono tuttavia coeve.In questo senso, per completare il percorso preneorealistico, è importante riflettere su alcuni scritti apparsi durante gli anni Trenta e sino agli albori del decennio successivo su pubblicazioni specialistiche e non (“Architrave”, “Quadrivio”, “L’Italia letteraria”, “Novecento”, “Omnibus” e “Roma fascista”), espressione, sovente, di personalità che non necessariamente si ritrovavano nella vague neorealista; ma anche su alcune istanze emerse nei secondi anni Trenta durante gli incontri presso i Cineguf, talora riportate sui giornali dei GUF, e sugli articoli pubblicati dalla rivista “Cinema”, anni prima che della testata s’impadronisse, coperto dal nome e dalla firma direttoriale di Vittorio Mussolini, il gruppo comunista combattivo e iconoclasta degli anni 1940-1943. Nell’articolo Sorprendere la realtà apparso su “Cinema” (10 ott. 1936, 7, pp. 257-60), Leo Longanesi, anticipando Cesare Zavattini, propugna un ‘cinema del pedinamento’, che sappia “cogliere in fallo situazioni che, riportate sullo schermo, rivelano gli infiniti segreti della nostra società”, e che auspichi “un documentario sulla vita degli anonimi”, con scene reali riprese da un operatore che giri per le strade con la cinepresa a cogliere verità, “verità che nessun attore potrebbe recitare”, fatte costume dall’abitudine e dalla pratica; mentre nell’articolo L’obiettivo nomade (in “Cinema”, 25 sett. 1939, 78, pp. 195-96) Domenico Purificato si augura un modello di “cinematografia che vorremmo chiamare nomade” ‒ quale “antitesi all’altra [che] chiameremo sedentaria […] anemica cinematografia che non varca mai la soglia del teatro di posa”, perpetrando “falsi in atto pubblico” ‒ ovvero un cinema che “va in cerca di scenari che solo la natura può apprestare nel debito modo”, muovendosi “alla ricerca di naturali elementi che diano maturità all’atmosfera, verosimiglianza agli elementi, carattere alle vicende”. In altre parole, fin dagli anni Trenta vi fu un’istanza, del tutto preideologica e abbondantemente prepolitica, che portò al rifiuto del cinema delle ‘città di cartapesta’, del manierismo attoriale e dell’anonimia paesaggistica, aspirando a “un vero ancora da fare, un vero che vedremo, un vero che verrà” ed esorcizzando il “falso che vediamo, e che morirà” (L. Longanesi, Il gioiello convesso ‒ Progetto per un film) in “Cinema”, 10 sett. 1936, 5, p. 171).

Tale complessa e composita istanza venne successivamente irrobustita, nel periodo 1941-1943, dall’esplicito auspicio di un ‘paesaggio italiano’ che accomunò note critiche di Giuseppe De Santis (che per questo apprezzò Piccolo mondo antico, 1941, di Mario Soldati), i progetti di Michelangelo Antonioni (Per un film sul fiume Po, in “Cinema”, 25 apr. 1939, 68, pp. 255-57, che prelude alle riprese di Gente del Po, 1943) e le lodi al cinema blasettiano (l”ispirazione più autentica’ di 1860, la ‘Maremma’ di Sole, l”agreste semplicità’ di Terra madre, 1931, l”impeto popolaresco’ di Palio, 1932). Mentre il diverso, ma concomitante, apprezzamento per il piglio documentaristico di Uomini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis e per la scrittura filmica (ma ancor prima per ‘il senso di eticità’) di La peccatrice (1940) di Amleto Palermi, fu letto, per es. da U. Casiraghi e G. Viazzi, come il sintomo di un verismo italiano da contrapporre, al realismo tedesco e francese e al naturismo nordico. A rafforzare le basi di una nuova cinematografia vi furono, da un lato, i ponderati richiami di Mario Alicata e Giuseppe De Santis, sempre su “Cinema” (10 ott. 1941, 127, pp. 216-17, e 25 nov. 1941, 130), a Giovanni Verga e a “un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera” testimoniata da una cinepresa che segue “nelle strade, nei campi, nelle fabbriche del nostro paese […] il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa”, tendenza ‒ come avrebbe chiarito anni dopo Pietro Ingrao, che del gruppo fece parte ‒ che già corrispondeva all’adozione di un cifrato linguaggio rivoluzionario. Dall’altro vi fu la trasformazione del ‘gruppo’ in una fucina che, attorno al nome di Visconti e sventolando la bandiera del verghismo, tentò di realizzare dapprima I Malavoglia (di cui Visconti fece scrivere una parafrasi a Massimo Mida), poi Jeli il pastore (di cui il regista acquistò i diritti), quindi L’amante di Gramigna (che, con un ‘basta con banditi!’ burocraticamente scritto sulla copertina del copione, la censura preventiva fascista respinse), finendo poi ‒ dopo avere accarezzato progetti anche su Il grande Meaulnes di A. Fournier, Billy Budd di H. Melville, Disordine e dolore precoce di Th. Mann e Adrienne Mesurat di J. Green ‒ per ripiegare su una rilettura di The postman always rings twice di J. Cain, intitolata Ossessione.

La rivistaCinema” e il gruppo di giovani in fermento che la animarono costituirono indubbiamente il maggior centro propulsivo del futuro Neorealismo. Da quel gruppo e dai suoi sodali uscirono molti registi (Visconti e De Santis, ma anche Antonio Pietrangeli, Carlo Lizzani, Gianni Puccini, Antonioni, Basilio Franchina, Guido Guerrasio, Mida ecc.) e una buona parte della generazione di critici che operarono poi nell’immediato dopoguerra. Ma questi non furono gli unici. Nel 1941 Alberto Lattuada, per es., a Milano realizzò la sua vera ‘opera prima’: che non fu il lungometraggio Giacomo l’idealista (1943), tratto da E. De Marchi, che lo avrebbe reso di lì a poco regista, ma un bellissimo albo fotografico dal titolo Occhio quadrato, che il censore fascista lasciò passare, nonostante la “povera gente e [i] muri scrostati”, solo dopo avere saputo della bassa tiratura. Il primo Lattuada, fotografo e cineasta, non fu mai amato dai recensori di “Cinema”, che anzi gli rimproverarono, proprio per Occhio quadrato, ‘l’ottocentesco sguardo’ e ‘l’origine letteraria’.

Ma, a parte gli eccessi stroncatori che caratterizzarono De Santis e tutto il gruppo, soprattutto nei confronti degli ‘estranei’ al gruppo stesso, quella del milanese Occhio quadrato fu invece un’esperienza di grande interesse, sia per il tipo di ‘sguardo’ che portò Lattuada a indirizzare il proprio obiettivo su realtà, umane e sociali, periferiche e degradate, elaborando, nella prefazione, una sorta di etica dello sguardo, sia per l’insistenza a “tener sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose”, per l’invito ad “abbandonare […] il lavoro della spietata analisi e delle troppo pedantesche ricerche di stile” e per l’insistita “presenza dell’uomo”. Posizioni che sembrano preludere a quelle del ‘cinema antropomorfico’ viscontiano (“Cinema”, 25 sett.-25 ott. 1943, 173-174).

Ancora più significativa fu, nell’alveo preneorealista e neorealista, la particolarissima componente dello ‘zavattinismo‘, ovvero delle posizioni assunte da Zavattini, che ‒ tra la fine degli anni Trenta e la fine degli anni Settanta ‒ propose, discusse, propagandò e difese la deontologia di un cinema ‘utile all’uomo’ e per questo sottratto alle leggi del mercato, ai condizionamenti dell’industria, alla rigidità dei ruoli, alla sclerosi delle formule. A parte il soggetto di Totò il buono (mutatis mutandis, quello del futuro Miracolo a Milano, 1951, uno dei capolavori della coppia De Sica-Zavattini) che uscì sulla rivista “Cinema” (25 sett. 1940, 102), le prime teorizzazioni zavattiniane risalgono alla metà degli anni Trenta, quando lo sceneggiatore ‒ pur non affermando ancora, come avrebbe fatto nel dopoguerra, che “le figure dello sceneggiatore e del soggettista sarebbero dovute scomparire” ‒ a proposito della comicità, a suo parere “una comicità sottile, che dà nell’astratto e nel lirico”, deplorò “l’ossessione della trama […] l’ancora di salvezza dei film brutti“, auspicando un “film comico moderno […] privo di trama narrativa, dialogata, cronologica, consequenziale” (R. Masto, Colloquio con Zavattini. I dolori di un giovane soggettista, in “Cinema”, 25 ag. 1936, 4, pp. 152-53); pensando poi a un film, Il mio paese, privo di trama e spettacolo, con la sola idea di “cinquanta o cento ragazzi […] padroni di un paese di peccatori e di artritici”; oppure a “un film sulle donne di servizio”, realizzato in modo da “approfittare del loro angolo visuale per vedere dentro alla nostra borghesia” (C. Zavattini, Quadernetto di note, in “Cinema”, 25 marzo 1940, 90, p. 172). Già prossimo alla poetica del pedinamento, dello spettacolo che coincida con la realtà, del ‘film lampo’ che riproduca “un fatto di cronaca nei luoghi dove è realmente avvenuto” e interpreti “coloro stessi che ne sono stati i principali protagonisti”, come scrisse nel 1952, Zavattini auspicò, fin dal 1940, di “poter tornare all’uomo come all’essere tutto spettacolo […] piazzando la macchina da presa in una strada, in una camera” (I sogni migliori, in “Cinema”, 25 aprile 1940, 92, pp. 252-53).

Per fortuna a dare vita al Neorealismo non furono soltanto teorie ed enunciazioni poetiche. Proprio Zavattini, che teorizzò ‒ fino agli anni Settanta ‒ la morte del soggetto e la fine del cinema sceneggiato, partecipò con finissimo lavoro di sceneggiature alla stesura di due film come Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, e I bambini ci guardano di De Sica; il primo, aprendosi e chiudendosi sul grigiore da incubo di un’ordinaria vita familiare e racchiudendo come un sogno sospeso la ‘favola’ di un virtuale idillio agreste, e il secondo, introducendo nella secca radiografia di un gruppo familiare piccolo-borghese la duplice turbativa dell’adulterio (della moglie) e del suicidio (del marito tradito) e la conseguente precoce educazione al dolore e alla solitudine del figlioletto della coppia (Pricò), costituirono una radicale svolta rispetto all’immaginario cinematografico del cinema sotto il fascismo, dove la famiglia era vista come la cellula base dell’unità e dell’ordine esistenziali e sociali. Mentre il viscontiano Ossessione portò ancora più in là il discorso, delineando la famiglia come il luogo della subalternità e della frustrazione femminile, nonché della irrealizzabilità del desiderio e dell’impulso vitale, delineando, come sottolineato da Pietrangeli, tutta un’umanità spoglia, scarna, avida, sensuale e accanita fatta così dalla quotidiana lotta per l’esistenza e per la soddisfazione di istinti irrefrenabili, in un torbido succedersi di eventi dove coscienze elementari palpitano di una loro dolorosa verità.

Quattro passi tra le nuvole, I bambini ci guardano e Ossessione negano più di quanto affermano e preludono al N., nella misura in cui appaiono come un ‘cartello dei no’ al cinema italiano che li aveva preceduti e li attorniava.

Roma città aperta rappresentò il ’25 aprile’ di questo processo di liberazione e di rinnovamento che, al di là del cinema, fece leva sull’unità antifascista (che vide molti intellettuali, fra cui moltissimi del gruppo di “Cinema”, finire nelle prigioni della Gestapo o nei GAP e sulle montagne partigiane), sulle speranze di una palingenesi sociopolitica (per cui il cinema italiano del dopoguerra ha forti connotazioni anticonservatrici, quando non apertamente di sinistra), sulla necessità, sottolineata da Elio Vittorini nell’editoriale del primo numero di “Il Politecnico”, di un’arte e una cultura che non si fossero limitate a consolare delle sofferenze, ma avessero contribuito a eliminarle (ovvero di ‘un’etica dell’estetica’‒ perché questo fu soprattutto il N. ‒ per cui il fine dell’arte non è la “maraviglia” ma lo zavattiniano “conoscere per provvedere” o il rosselliniano “realismo” che è “la forma artistica della verità […] il film [realistico inteso come quello] che pone e si pone dei problemi” o il desichiano “rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane”).

La definizione Neorealismo ha origini controverse. Il termine, per la prima volta adottato da Arnaldo Bocelli, fu applicato all’antinovecentismo e all’antirondismo di Gli indifferenti (1929) di A. Moravia e di Gente di Aspromonte (1931) di C. Alvaro (nonché successivamente ai primi romanzi di F. Jovine, C. Bernari e R. Bilenchi); fu quasi contemporaneamente ripreso da Umberto Barbaro, che lo usò anche in una sua Prefazione a Bulgakov (1931) e lo riusò, anni dopo, a proposito di Quai des brumes (1938; Il porto delle nebbie) di Marcel Carné, riferendolo al cinema francese degli anni Trenta. Probabilmente pensando al cinema francese lo adottò nel 1943 Mario Serandrei, scrivendo di Ossessione a Visconti; mentre, parlando della scuola documentaristica inglese e in particolare di John Grierson, lo aveva utilizzato, sin dal 1937, il brasiliano Alberto Cavalcanti. Riutilizzato dal 1947-48 dai francesi (André Bazin, Georges Sadoul, Felix Morlion), esso divenne per antonomasia l’etichetta non solo della dinamica postbellica del cinema italiano, ma anche della evidenza ‘realistica’ dell’architettura, della pittura, della poesia e della narrativa coeve.

Quanto alla sostanza dell’estetica neorealista, essa fu caratterizzata da una feconda pluralità di poetiche individuali, legate dal comune sentimento antifascista e rese solidali dall’esplicito impegno morale a fare un cinema utile all’uomo, dall’esigenza di conoscere, e descrivere, il reale per modificarlo. Ma esistono anche, e furono comunque da molti adottati, alcuni topoi più specificamente cinematografici: il rifiuto del teatro di posa e la scelta prevalente degli ambienti naturali, esterni e interni; l’opzione della quotidianità come il terreno dove individuare personaggi ed eventi; l’accantonamento della lingua ‘radiofonica’ e la scelta di un parlato naturale, a volte dialettale, mai da doppiaggio; la preferenza per i volti anonimi, spesso per attori non professionali (con l’eccezione dovuta a De Santis), sempre per una recitazione non teatrale; il relativo disinteresse per un cinema ‘letterario’ (anche se fonti di La terra trema e di Ladri di biciclette, entrambi del 1948, sono due romanzi, rispettivamente di G. Verga e di L. Bartolini) e sceneggiato in maniera ferrea (benché le sceneggiature zavattiniane fossero dettagliatissime); la particolare attenzione alle tematiche contemporanee, alle problematiche dell’hic et nunc, per cui anche una vicenda apparentemente ambientata in un allegorico tempo sospeso, come quella viscontiana (e verghiana) dei Valastro, si rivela in realtà collocata proprio nel 1947-48 con i muri di Aci Trezza ancora pieni di stinte scritte fasciste ma anche di segni e simboli delle campagne elettorali che si erano svolte nel 1947; una netta preferenza per i personaggi degli umiliati e offesi, degli sfruttati ed emarginati, dei poveri e vilipesi, anche quando non si è al cospetto di una visione classista del popolo.

L’opera riconosciuta come iniziatrice della corrente neorealista resta Roma città aperta, con Aldo Fabrizi e Anna Magnani, dove convivono il nuovo sguardo sulla realtà e i residui sceneggiatoriali del passato, saldati dall’afflato epico di una sentita evocazione della Resistenza antitedesca che, specie nella seconda parte del film, scabra e convulsa al tempo stesso, appare totalmente depurata di elementi fittizi, raggiungendo vertici di intenso realismo drammaturgico. Al capolavoro di Rossellini, sempre a sfondo politico, si affiancarono nello stesso anno film di montaggio e di attualità sulla Resistenza e la caduta del fascismo, come Giorni di gloria (1945) di Serandrei, cui collaborarono De Santis, Marcello Pagliero e Visconti e, in una sorta di collateralismo minore, caratterizzato da alcune componenti neorealistiche ‒ ora nello sguardo, ora nell’ambientazione popolare, ora nell’autenticità degli sfondi, ora nelle cadenze vernacolari, ora nell’ansia di liberazione ‒, Abbasso la miseria! (1945) di Gennaro Righelli, avventure di un trafficante nella borsa nera dal cuore tenero e dalla moglie volitiva (Anna Magnani). Più ricco il bilancio neorealista del 1946 con film come O sole mio di Giacomo Gentilomo, che rievoca le quattro giornate della ribellione antitedesca di Napoli; Paisà, altro capolavoro neorealista di Rossellini, che racchiude sei episodi sul passaggio al fronte e la stagione finale della guerra, dal più riflessivo, quello emiliano (tre cappellani militari, un ebreo, un protestante e un cattolico in un convento francescano) al più intensamente drammatico, quello padano (partigiani e soldati americani paracadutati lottano insieme contro i tedeschi); Sciuscià, storia di due bambini abbandonati, della loro sopravvivenza come lustrascarpe, della loro incantata amicizia per un cavallo, della loro precoce cognizione del dolore e della morte in un carcere minorile, che attesta la straordinaria sensibilità dell’autore, De Sica, e la rara consonanza del suo sceneggiatore, Zavattini. Mentre emersero altri autori come Aldo Vergano di Il sole sorge ancora, una rievocazione della Resistenza densa di memorie blasettiane, Lattuada di Il bandito, corposo racconto drammatico incentrato sul reducismo. Per non dire, in ambito del sopra citato collateralismo neorealistico, di film come Un giorno nella vita di Blasetti, che vede protagonisti soldati partigiani e tedeschi in un convento di clausura, le cui suore finiranno tutte fucilate e che segnò la volonterosa quanto esterna adesione del regista al movimento, e di Roma città libera (1946) di Pagliero, surreale incontro fra un ladro buono e un giovane inquieto sullo sfondo di una Roma neorealista. Ancora più ricca la cinematografia appartenente a questa corrente degli anni seguenti, durante i quali uscirono film come Vivere in pace (1947) di Luigi Zampa, apprezzabile bozzetto paesano, ora comico-grottesco ora melodrammatico, su due americani e un tedesco nascosti nella campagna romana, che trionfò sui mercati stranieri, specie negli Stati Uniti, e fu considerato un’emblematica espressione del Neorealismo. E si realizzarono capolavori come Germania anno zero (1948), opera nella quale attraverso il personaggio di Edmund, che dopo avere ucciso il padre ammalato, e dunque rimasto inutile bocca da sfamare, si uccide come per gioco precipitando dall’alto delle rovine di un palazzo bombardato, Rossellini radiografa, fra le macerie reali della capitale del Terzo Reich, le macerie morali di un mondo in cui gli uomini hanno abbandonato un Dio che li ha abbandonati. Vi furono inoltre esordi di rilievo come Caccia tragica (1947), primo episodio della particolarissima cinematografia neorealista di De Santis che connota di epica popolaresca, di tonalità forti e dense, di miti e riti collettivistici, l’uso assai elaborato di una cinepresa ‘hollywoodiana’ che vuole narrare il popolo come visto dal popolo. Mentre è un reduce il protagonista del secondo film di Pietro Germi Gioventù perduta (1948), ambientato nella pineta di Tombolo, fra G-Men, prostitute e contrabbandieri; e Senza pietà (realizzato nel 1947, ma uscito nel 1948) di Lattuada continua a oscillare fra “raffinato calligrafismo” ed “esasperato realismo” (Castello 1956). Oscillarono invece verso la commedia il populista L’onorevole Angelina (1947) e il caustico Anni difficili (1948), entrambi di Zampa, nonché Sotto il sole di Roma (1948) di Renato Castellani, storia di una redenzione su uno sfondo tragico temperato dall’ironia e dal sorriso. L’anno dell’acme neorealista fu proprio il 1948, se non altro perché fu l’anno di due capolavori assoluti come La terra trema, in cui Visconti rilesse con sensibilità contemporanea, sublimò in apologo esemplare, stilizzò attraverso forme neorealiste (dialetto, sfondi naturali, attori non professionisti, riprese nei luoghi autentici, sceneggiatura improvvisata sul campo, modi di produzione documentaristici ecc.) il mondo di I Malavoglia e del ‘negozio di lupini’ di Verga, nel film divenuti i Valastro, che cercano di liberarsi dai ‘padroni’ e imparano, a proprie spese, la differenza fra (la possibile) rivolta individuale contro l’ingiustizia e (l’impossibile) rivoluzione sociale; e Ladri di biciclette, dove un De Sica straordinario, basandosi su una sceneggiatura zavattiniana dai meccanismi perfetti, segue con la sua cinepresa la disperata e affannosa ricerca di una bicicletta rubata a un disoccupato: consapevole del fatto che solo ritrovandola potrà mantenere il lavoro appena trovato, egli con il figlioletto percorre la città, fra catapecchie periferiche e mense di beneficenza, case di tolleranza e quartieri suburbani, muri scrostati e pizzerie popolari, in una sorta di tacita guerra tra poveri che, nel grandioso finale, si risolve con il disperato tentativo dell’uomo di rubarne una a sua volta, fatto che suscita dapprima l’ira della folla per poi indurre una sincera solidarietà commossa non solo tra padre e figlio ma anche nella stessa gente che finisce per perdonarlo. Ma a parte queste due opere magistrali, tra i massimi capolavori del cinema di tutti tempi, il 1948 fu anche l’anno in cui esordì ottimamente Luigi Comencini con Proibito rubare, ambientato nella Napoli dei ‘bassi’ e degli scugnizzi, con un pizzico di ottimismo ma anche con un severo sguardo realistico. L’anno successivo uscì invece Riso amaro di De Santis ‒ sesso e ballo, maternità e sfruttamento, canto e protesta, il ‘buono’ destinato ad avere l’amore e il ‘cattivo’ destinato alla mala morte, il tutto tra le mondine della Padania con riprese di virtuosistica bellezza paesaggistica e un esemplare montaggio ritmico ‒ che si segnalò come uno dei maggiori successi stagionali e comunque, eccezione alla regola, come N. ad alto incasso. Quanto agli altri titoli si registrarono ancora alcuni ‘collateralismi’, come in Molti sogni per le strade (1948) di Mario Camerini (un disoccupato ruba un’automobile e rischia la prigione, ma alla fine tutto si aggiusta) o in quella sorta di ben costruito ‘western’ sulla mafia che è In nome della legge (1949) di Germi, in realtà più memore del grande regista statunitense John Ford che di Rossellini.

Emarginato dallo scarso successo dei suoi pur maggiori film, colpito dalla fine dell’unità antifascista (1947-48) che era stata il suo retroterra, deplorato dagli ambienti centristi e conservatori dominanti, boicottato da banche e da distributori, interpretato dal mondo cattolico più aperto in chiave meramente solidaristica verso umiliati e offesi, privo di un proprio autonomo progetto di politica cinematografica, lontano dal disegno di ricostruzione di un’industria cinematografica nazionale che stette dietro la legge del 1949, reso sospetto dalle non poche militanze a sinistra dei suoi esponenti e dalla stessa tutela parlamentare e politica del Partito comunista e del Partito socialista, il N. ‒ dopo le due prime stagioni ‘libere’ (1945-46) ‒ visse come in stato d’assedio sulle ‘sortite’ dei singoli, le eccezionali imprese individuali (per es. le vicende produttive di La terra trema di Visconti), le aggregazioni produttive di emergenza (l’ANPI, l’Associazione nazionale Partigiani d’Italia, che produsse Caccia tragica di De Santis o la Cooperativa spettatori produttori cinematografici che produrrà Achtung! Banditi!, 1951, di Lizzani) e nel 1948-49 finì già la sua forza propulsiva. Anche se, almeno, sino all’episodio del funeralino di L’oro di Napoli (1954) di De Sica, si annoverano ancora alcuni titoli di rilievo: nel 1949, il N. cattolico di Cielo sulla palude di Augusto Genina e il N. comico di Totò cerca casa di Mario Monicelli e Steno; nel 1950 il N. bucolico dell’ultimo episodio della ‘trilogia della terra’ di De Santis, Non c’è pace tra gli ulivi, il N. evasivo di È primavera… di Castellani, il N. sentimentale di Una domenica d’agosto di Luciano Emmer, il N. teatrale di Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, mentre con Stromboli Rossellini (che realizzò sempre nel 1950 Francesco, giullare di Dio e successivamente l’intenso Europa ’51, 1952) volle sempre più allontanarsi in una coerente scelta di depurato spiritualismo; e ancora il N. itinerante di Il cammino della speranza, tra i migliori di Germi nel periodo, il N. favoloso di Miracolo a Milano di De Sica. Sempre nel 1950 esordì con Cronaca di un amore ‒ dopo alcuni bellissimi cortometraggi di esemplare N. documentaristico ‒ il ‘N. dell’anima’ di M. Antonioni, e lo sceneggiatore neorealista Federico Fellini firmò la sua prima regia con Luci del varietà, codiretto con Lattuada. Nel 1951 vanno ricordati il N. resistenziale di Achtung! Banditi! dell’esordiente Lizzani, il N. autocritico di Bellissima di Visconti, mentre Monicelli e Steno, con Guardie e ladri, aggiunsero un ulteriore capitolo al N. comico.

L’anno successivo fu caratterizzato dal N. ‘rosa’ di Due soldi di speranza di Castellani (che aprì la strada, ideologicamente, al Comencini di Pane, amore e fantasia, 1953, e di Pane, amore e gelosia, 1954, dove lo sguardo neorealista esiste, ma è come rovesciato), l’ottimo Processo alla città di Zampa, il N. esemplare di Umberto D. della coppia De Sica-Zavattini, che suscitò la reazione sdegnata dell’allora sottosegretario democristiano G. Andreotti, mentre De Santis ricostruì neorealisticamente in Roma, ore 11 una vicenda di cronaca.

Pochissimi titoli nel successivo biennio 1953-54: del 1953 è il N. giudiziario del poco riuscito Ai margini della metropoli di Lizzani, il N. divistico di Siamo donne di Franciolini, Alfredo Guarini, Rossellini, Visconti e Zampa, su soggetto di Zavattini, mentre un altro episodio di N. esemplare si ebbe con L’amore in città, grande iniziativa zavattiniana con i registi Antonioni, Fellini, Lizzani, Lattuada, Francesco Maselli e Dino Risi, che possedette tutto il rigore di un indiretto intervento teorico sulla poetica neorealista.

Nel 1954 uscirono invece Cronache di poveri amanti di Lizzani, che cercò di dare ‘visibilità’ cinematograficamente neorealista alla pagine del romanzo di V. Pratolini, il già citato L’oro di Napoli, Senso di Visconti, Viaggio in Italia di Rossellini (che successivamente realizzò La paura, 1955), La strada di Fellini, Giulietta e Romeo di Castellani, La romana di Zampa, che attestano tutti irrevocabilmente la radicale diaspora neorealistica.Come si è visto, questi ultimi ‘sprazzi’ di N. resero possibile, ciascuno e tutti, un’ulteriore aggettivazione, una specificazione aggiuntiva alla generica etichetta di N., proprio perché la forza propulsiva del movimento, dopo le primissime stagioni neorealiste, si andò espandendo su molto, se non su tutto il cinema italiano, mutandone modalità di immaginario, opzioni tematiche, prassi d’ambientazione, tipologia della lingua parlata, scelte dei personaggi e degli eventi, ragioni drammatiche, comportamento attoriale e così via. Il N., è stato detto, ‘vince perché perde e perde perché vince’. Ovvero, come accadrà a tutte le vagues successive, l’ondata neorealista non riuscì ad affermarsi nel proprio radicalismo (quello, per intenderci, di Paisà, La terra trema, Umberto D. o di L’amore in città), che rimase eccezionale e isolato anche negli episodi meno frontalmente radicali, perché, da subito essa si scontrò con il cinema dominante, americano e italiano, con i gusti ‘evasivi’ del pubblico, con le leggi che dominavano il mercato e perse, dunque, a opera della rinascente industria cinematografica italiana che, d’altronde, dal 1945 al 1956 vide aumentare annualmente l’offerta (i film prodotti) e la domanda (i biglietti del pubblico in sala). Ma riuscì, involontariamente, a dare un contributo al risorgere di un’industria e di un mercato cinematografici italiani e, volutamente, a far tramontare irreversibilmente l’immaginario del precedente cinema nazionale, connotando tutto il cinema coevo e successivo (anche il film comico seriale, anche il cinema larmoyant, anche i prodotti di genere, anche i filoni ‘di profondità’) di topoi caratterizzati dallo sguardo neorealista, magari di segno rovesciato, come nel cosiddetto N. rosa, ma inimmaginabili nel prebellico cinema incentrato sulle vicende di timide e intraprendenti educande principi consorti e milionari affetti dal tedium vitae; e vinse, dunque, riuscendo a codeterminare il nuovo cinema nazionale che pure lo emarginò e lo schiacciò, ponendo fine in poche stagioni all”etica dell’estetica’ neorealista.Naturalmente tutto questo è apparso chiaro solo molti anni dopo, con un’analisi a posteriori. I neorealisti, quando già la stagione d’oro si era conclusa, continuarono a definirsi tali e a volere il proseguimento del movimento, pur se alcuni lo dichiararono superato, in nome del ‘realismo’, da Senso nel cinema e da Metello nella letteratura. Imperterrita, anzi sempre più accalorata e piena di presaga sensibilità verso il moderno, continuò la teorizzazione zavattiniana, carica di nostalgie neorealiste, anche quando Zavattini (esclusi un paio di tardivi esperimenti collettivi nei film-inchiesta come Le italiane e l’amore, 1961, e I misteri di Roma, 1963) era divenuto ormai uno sceneggiatore di film industriali. E ininterrotta fu la discussione sul cinema italiano, sia quando il N. aveva ancora una qualche vitalità, sia quando era ormai soltanto un mitico fantasma. A Roma, presso l’Associazione culturale cinematografica italiana e poi nel Circolo romano del cinema; quindi a Perugia, al primo convegno sul N. (24-27 sett. 1949), e a Parma, al secondo convegno (3-5 dic. 1953); infine nei dibattiti che si susseguirono, anche oltre, sulla stampa d’informazione (Cinema senza formule, in “Avanti!”, luglio-agosto 1955, 13 interventi; Cinema, pubblico e critica, in “l’Unità”, novembre 1955-aprile 1956, 40 interventi) e specialistica (Sciolti dal giuramento, in “Cinema nuovo”, giugno 1956-aprile 1958, 19 interventi), si proseguì, senza soluzione di continuità, a guardare il presente del cinema italiano alla luce di quell’utopia gloriosa e poco frequentata che era stato il N., di cui frattanto si espandevano in tutto il mondo (con particolare rilievo nel cosiddetto Terzo mondo), soprattutto la lezione etico-estetica ma anche il nuovo ‘sguardo’ sulla realtà e l’inedito immaginario che ne conseguiva. Se i primi dibattiti romani avvenivano ancora a caldo, il che giustificava gli entusiasmi, l’incontro di Perugia aveva avuto luogo in un clima di già avviato riflusso, il che spiega gli appelli unitari ma non l’assenza di analisi; mentre l’incontro di Parma era avvenuto a fronte ormai disgregato, il che ha fatto apparire astratte talune tetragone resistenze a prenderne atto (Continuare il discorso, suona un editoriale di “Cinema nuovo”, 15 dic. 1952, 1, p. 7), anche se alcuni, come Luigi Chiarini, avevano preso atto della crisi e della fine del clima di solidarietà nazionale che l’aveva codeter-minata, nonché del contributo al superamento del N. che veniva dai nuovi film di alcuni grandi maestri (Rossellini, Visconti) e di alcuni più giovani (Antonioni, il cui cinema, da Cronaca di un amore a Il grido, 1957, non fu che tesaurizzazione e superamento dello sguardo neorealista, ormai trasformato in ricetta commerciale e in base del cinema di genere). Divenne quindi necessario aspettare il ‘nuovo’ cinema degli anni Sessanta per “seppellire il padre neorealistico” (Paolo e Vittorio Taviani) e gli anni Settanta (e il grande convegno sul N. promosso dalla Mostra di Pesaro nel 1974) per ripensare criticamente il fenomeno, rivedendolo in tutta la sua grandezza etico-estetica e nella sublime riuscita artistica di alcuni suoi episodi, prendendo al tempo stesso atto della sua inadeguatezza a capire, affabulare e descrivere le contraddizioni, non meno lancinanti e complesse, ma diverse, della modernità.Per approfondimenti sui singoli autori si vedano anche le relative voci biografiche. 

BIBLIOGRAFIA

G.C. Castello, Il cinema neorealistico italiano, Torino 1956.

A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, IV. Une esthétique de la réalité: le néo-réalisme, Paris 1962 (trad. it. a cura di A. Aprà, Milano 1973, 1986², pp. 273-332).

Il lungo viaggio del cinema italiano, a cura di O. Caldiron, Padova 1965.

R. Armes, Patterns of realism, London 1971.

Introduzione al neorealismo: i narratori, a cura di G.C. Ferretti, Roma 1974.

Politica e cultura nel dopoguerra. Con una cronologia 1929-1964 e una antologia, Quaderno informativo della 10a Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro 1974, 56.

Il neorealismo e la critica. Materiali per una bibliografia, Quaderno informativo della 10a Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro 1974, 57.

Il cinema italiano del dopoguerra. Leggi produzione distribuzione esercizio, Quaderno informativo della 10a Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro 1974, 58.

Sul Neorealismo. Testi e documenti 1939-1955, Quaderno informativo della 10a Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro 1974, 59.

Il neorealismo cinematografico italiano, a cura di L. Miccichè, Venezia 1975.

U. Barbaro, Neorealismo e realismo, a cura di G.P. Brunetta, 2 voll., Roma 1976.

C. Muscetta, Realismo neorealismo controrealismo, Milano 1976.

A. Canziani, Gli anni del neorealismo, Firenze 1977.

M. Verdone, Il cinema neorealista: da Rossellini a Pasolini, Trapani 1977.

C. Zavattini, Neorealismo ecc., Milano 1979.

G. De Santis, Verso il neorealismo: un critico cinematografico degli anni Quaranta, a cura di C. Cosulich, Roma 1982.

M. Marcus, Italian film in the light of Neorealism, Princeton (NJ) 1986.

Neorealismo: cinema italiano 1945-1949, a cura di A. Farassino, Torino 1989.

L. Miccichè, Visconti e il neorealismo, Venezia 1990, 1998².

G. Moneti, Neorealismo fra tradizione e rivoluzione, Siena 1999.

Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento

Il Secondo Novecento: quadro storico e letterario

Nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale ai primi anni Sessanta (1945-62) è possibile evidenziare in ambito letterario una forte propensione, diffusa a livello internazionale, a rappresentare la realtà in modi innovativi, ma non specificamente di avanguardia.

Si tratta di forme di realismo che di solito non costituiscono un ritorno ai modelli ottocenteschi: specialmente nella narrativa, i nuovi realismi, che spesso prendono spunto da opere degli anni Venti e Trenta (per esempio quelle di romanzieri statunitensi come Faulkner o Hemingway), mirano a una scrittura semplificata e vicina al parlato, e a una trama nella quale il ruolo del narratore onnisciente risulti drasticamente ridotto e la vicenda si sviluppi attraverso il ‘montaggio’ di episodi. Si è usato non a caso un termine cinematografico, perché l’influenza del cinema si fa sentire a più livelli in ambito letterario: d’altronde, nel secondo dopoguerra il film, spesso considerato esempio principe di realismo, acquista un’importanza sempre maggiore nell’immaginario collettivo, tanto da decretare o ampliare il successo di romanzi e racconti, a volte trasposti in sceneggiature dagli stessi autori.
Il motivo fondamentale della nuova propensione al realismo è l’urgenza di rappresentare le condizioni estreme raggiunte con la guerra: sebbene il critico e filosofo Theodor W. Adorno abbia affermato che, dopo Auschwitz, ogni forma d’arte pura e classica (in particolare la poesia) risulta inadeguata, sono invece tanti i tentativi di «esprimere l’inesprimibile», dagli orrori dei Lager a quelli della bomba atomica. Nel dopoguerra, l’impegno degli scrittori per evitare che si ripetano eventi simili diventa ben presto un imperativo comune, declinato diversamente a seconda che l’intellettuale accetti una particolare ideologia (con una netta prevalenza, anche nel mondo occidentale, di quelle marxiste o di sinistra), oppure che voglia mantenere un’autonomia di giudizio e di azione. In un periodo di forti contrapposizioni politiche e culturali, il valore dell’opera letteraria poteva anche essere commisurato alla sua efficacia propositiva, e ciò comportò nei casi migliori una forte valenza etica, nei peggiori un adeguamento a tesi precostituite, specie sul versante del ‘realismo socialista’ sovietico.
Il filone realistico non è peraltro l’unico. Soprattutto sul versante della poesia, la tradizione simbolista ottocentesca e quella delle avanguardie primonovecentesche vengono riprese e portate a esiti notevoli da autori come Paul Celan, poeta di origine ebraica, nel quale si coglie una profonda riflessione filosofico-metafisica, almeno in parte generata dalla sua esperienza del Lager[…]

“Su un altro versante, la consapevolezza del vuoto che si nasconde dietro la realtà, tema tipico dell’esistenzialismo, sfocia in una rappresentazione del nulla e dell’assurdo, che trova una geniale realizzazione nella drammaturgia dell’irlandese Samuel Beckett. Si affacciano poi sulla scena letteraria internazionale autori come l’argentino Jorge Luis Borges, destinato a un notevole successo soprattutto negli anni Sessanta e Settanta per la sua scrittura fantastico-erudita, ricca di raffinate allusioni e di inquietanti questioni gnoseologiche.
In Italia, il filone del Neorealismo, pur di difficile delimitazione, risulta fondamentale, prima in ambito cinematografico e poi in quello letterario, dalla fine della guerra all’incirca sino alla metà degli anni Cinquanta.

I risultati più importanti vengono però raggiunti da scrittori che si collocano in maniera autonoma rispetto a questo movimento, come Beppe Fenoglio o Italo Calvino, destinato poi a una grande fortuna anche negli anni successivi, con le sue opere catalogabili come postmoderne.

A partire soprattutto dal 1955 si registrano nuove forme di sperimentazione come, da un lato, quelle di Pier Paolo Pasolini, ancora a base realistica; e dall’altro quelle di giovani autori che poi daranno vita alla Neoavanguardia, del tutto lontani dalle modalità poetiche e narrative tradizionali. La fase delle speranze postbelliche e dell’impegno diretto degli intellettuali nella ricostruzione etico-civile del paese volge al termine, e lascia spazio a inquietudini politiche e a prospettive culturali inedite, che emergono in concomitanza con l’avvio della fase del cosiddetto boom economico. In ogni caso, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta i testi in assoluto più importanti sono ancora pubblicati da autori maturi come Eugenio Montale (La bufera e altro, 1956) e Carlo Emilio Gadda (con l’edizione in volume del Pasticciaccio, 1957 e della Cognizione del dolore, 1963).

Nella seconda metà degli anni Cinquanta, mentre si rafforzano le tendenze sperimentali, specie in ambito pittorico e musicale, e insieme si fanno sempre più evidenti i segni dell’incidenza dell’industria culturale sui gusti del pubblico (per esempio con il largo successo del modello cinematografico hollywoodiano, o con la diffusione delle nuove forme di musica leggera, come il rock), cominciano a essere pubblicate opere letterarie che toccano temi e argomenti innovativi: in particolare, nasce in questi anni negli Stati Uniti la letteratura beat, sintomo di quella ribellione giovanile che si realizzerà definitivamente nel 1968. Anche i nuovi metodi scientifico-culturali, come lo strutturalismo, propongono originali strumenti interpretativi.

Durante la conferenza di Yalta (febbraio 1945) i governanti di Gran Bretagna (Winston Churchill), Stati Uniti (Franklin Delano Roosevelt) e Unione Sovietica (Josif Stalin) avevano sancito, ancora prima della fine della seconda guerra mondiale, gli assetti del dopoguerra, definendo le rispettive aree di influenza e la divisione della Germania per evitare una possibile recrudescenza del nazismo. Ma in breve tempo l’alleanza militare fra le due superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, portatrici di due modelli politici opposti, quello statunitense fondato sulla democrazia liberale, il liberismo economico e il pluralismo politico, quello sovietico sulla collettivizzazione delle risorse produttive e sul partito unico, lasciò il posto all’inevitabile contrapposizione ideologica, che di fatto produsse una divisione dell’Europa in due grandi blocchi, quello occidentale, in cui era forte l’influenza statunitense, e quello orientale, con i paesi dell’Europa dell’Est, oltre alla Repubblica democratica tedesca, assorbiti sotto il controllo sovietico.

Svanita dunque l’euforia per la fine della guerra, tra la zona di influenza anglo-americana e quella di influenza sovietica si alzò una «cortina di ferro» (l’espressione fu coniata da Churchill nel 1946) che, per le nazioni dell’Occidente, doveva impedire la diffusione del comunismo; dal canto suo, Stalin procedette a forti epurazioni interne e attuò una rigida chiusura degli scambi con l’estero. Nel 1947 il presidente statunitense Harry Truman, succeduto nel 1945 a Roosevelt e responsabile della decisione di lanciare la prima bomba atomica contro il Giappone, parlò esplicitamente di «guerra fredda» (uno scontro duro ma che non sfocia in un conflitto armato), fra «popoli liberi» occidentali e popoli sotto il regime comunista. I primi andavano aiutati con tutti i mezzi, economici e militari: gli Stati Uniti dettero così avvio al Piano Marshall, che prevedeva aiuti in denaro, macchinari, derrate alimentari per la ricostruzione nei paesi europei, mentre nel 1949 venne firmato il Patto atlantico, alleanza militare che coinvolgeva anche l’Italia, e che portò alla creazione della Nato, un’organizzazione militare permanente composta da contingenti militari di ogni paese membro.
Alla fine della guerra, l’Italia si trovò a dover ricostruire non solo le strutture industriali e civili, ma anche le fondamenta stesse della convivenza democratica, distrutte da vent’anni di regime fascista e dalla guerra civile del 1943-45. Per oltre un anno, continuarono le violenze private e collettive, con l’eliminazione anche fisica di singoli esponenti del fascismo o con l’epurazione di gruppi di fiancheggiatori, specie degli aderenti alla Repubblica di Salò; tuttavia, soprattutto i quadri burocratico-ministeriali e polizieschi vennero intaccati solo in parte, e garantirono una continuità con il passato, favorita, come si vedrà in seguito, dalle contrapposizioni fra centro-destra e sinistra.
Gli esponenti dei partiti politici antifascisti entrarono nel 1945 in un governo di «unità nazionale», cioè un governo composto da tutte le forze parlamentari, presieduto da Ferruccio Parri (1890-1981), esponente del Partito d’Azione e dei gruppi partigiani di «Giustizia e libertà». Ben presto, però, al suo posto fu nominato Alcide De Gasperi (1881-1954), segretario della Democrazia cristiana (fondata nel 1942), erede del Partito popolare, che rappresentava una larga parte dell’elettorato italiano cattolico e moderato e che teneva rapporti tanto con la monarchia e la Chiesa quanto con i partiti di sinistra. Nel 1946, dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, fu indetto un referendum (2-3 giugno) per la scelta fra regime monarchico e repubblicano: dopo contrasti e contestazioni per brogli, il 18 giugno venne proclamata la Repubblica, e re Umberto II dovette recarsi in esilio in Portogallo. Fu creata un’Assemblea con esponenti di tutti i partiti per redigere la nuova Costituzione: i suoi lavori terminarono il 22 dicembre 1947; la Costituzione repubblicana entrò in vigore il 1° gennaio 1948.

Nel 1947 si era esaurita la politica di unità nazionale, e le sinistre furono estromesse dal governo, mentre De Gasperi, grazie anche alle direttive dell’allora ministro del Bilancio Luigi Einaudi (1874-1961) e agli aiuti statunitensi del Piano Marshall, riuscì a rilanciare l’economia italiana. Il 18 aprile 1948, alle prime elezioni politiche per il nuovo Parlamento, la Democrazia cristiana ottenne la maggioranza assoluta, e l’11 maggio Einaudi venne eletto presidente della Repubblica. Ma il clima politico era tutt’altro che tranquillo: il 14 luglio il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti (1893-1964) subì un grave attentato, che avrebbe potuto scatenare una violenta reazione da parte delle forze della sinistra e dei sindacati, fortunatamente tenuta sotto controllo dai dirigenti comunisti.
Negli anni successivi, De Gasperi procedette a ricostituire gli apparati fondamentali della burocrazia, in molti casi accettando o reintegrando funzionari compromessi con il regime fascista, da lui considerati comunque più affidabili degli aderenti alle sinistre. Dal censimento del 1951 emerge un’Italia in espansione ma ancora fortemente legata all’economia agricola, che assorbe il 42,2% della forza-lavoro (contro il 32,1 dell’industria e il 25,7 del terziario); notevole il tasso di analfabetismo (12,9% della popolazione), e forte lo squilibrio fra Nord e Sud (dove si trova oltre il 50% delle famiglie povere). Di queste contraddizioni parlano intellettuali e letterati, per la maggior parte schieratisi, nel dopoguerra, nei partiti di sinistra, e impegnati a volte anche politicamente, ma soprattutto nella redazione di giornali o riviste fortemente polemiche nei confronti delle tendenze moderate e conservatrici del governo democristiano.

Dopo la morte di Stalin (1953) e dopo un tentativo di ottenere una maggiore indipendenza da parte dell’Ungheria, represso aspramente dall’Unione Sovietica nel 1956, una speranza di cambiamento sembra aprirsi nel 1961, quando diventa presidente degli Stati Uniti il democratico John Fitzgerald Kennedy (1917-1963), di idee progressiste, il quale propone slogan come quello della «nuova frontiera»: la società americana doveva evolversi per combattere le discriminazioni, e per rilanciare non solo l’economia ma anche il ruolo degli Stati Uniti come campioni della democrazia, la loro carica ideale e lo slancio verso le popolazioni più povere. Kennedy promuove subito un’«Alleanza per il progresso» dei paesi latinoamericani, e riprende le trattative per la distensione internazionale con il leader sovietico Nikita Kruscev, anche se non può impedire che la Germania dell’Est eriga il famigerato Muro che separa la parte est e la parte ovest di Berlino (1961). Nonostante gli sforzi, la pace mondiale appare spesso appesa a un filo, e nuove gravi difficoltà arriveranno nel 1963, quando Kennedy verrà assassinato a Dallas, probabilmente a seguito di un complotto.

In Italia i governi democristiani propongono una politica moderata, attenta alle esigenze delle classi medie. L’espansione economica è comunque costante (con un aumento del prodotto interno lordo pari al 7,5% annuo), e anche le industrie si rafforzano: la Fiat lancia sul mercato le prime automobili utilitarie (la «600» viene prodotta a partire dal 1955), mentre l’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni), fondato nel 1953, sotto la presidenza di Enrico Mattei ottiene notevoli successi internazionali (compreso un accordo con l’Iran). Anche il costume lentamente si evolve, grazie all’apporto di un nuovo potente mezzo di comunicazione di massa, la televisione, che inizia le sue trasmissioni nel 1954. Sul piano internazionale l’immagine italiana guadagna consensi, tanto che l’importante trattato che segna la costituzione della nuova Comunità economica europea (Cee), allora composta da sei paesi (Belgio, Francia, Germania Federale, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi) e istituita con l’intento di creare un mercato unico europeo, viene firmato a Roma il 25 marzo del 1957.
Mentre i fatti di Ungheria del 1956 producono scissioni e contestazioni tra socialisti e comunisti, in ambito democristiano si affrontano la corrente di sinistra, favorevole a un’apertura in senso progressista, e quella di destra, portata all’isolamento o addirittura all’alleanza con ex fascisti.

Nel 1962 Amintore Fanfani dà vita al primo governo di centro-sinistra, con l’appoggio esterno dei socialisti. Nello stesso anno muore per un incidente aereo Enrico Mattei: solo trentacinque anni dopo si dimostrerà che si era trattato di un attentato, probabilmente organizzato per eliminare uno scomodo concorrente delle grandi compagnie petrolifere anglo-americane. È uno dei primi ‘misteri’ che contraddistingueranno gli intrecci politico-economici nell’Italia del dopoguerra, dei quali parleranno numerose opere letterarie.
Infine, un evento significativo anche per la politica e la cultura italiane fu l’elezione al soglio pontificio, dopo la morte di Pio XII, di Angelo Giuseppe Roncalli, che prese il nome di Giovanni XXIII (1958). Dando seguito alla sua attività ecclesiastica molto attenta ai bisogni degli umili e degli ultimi, Giovanni XXIII promosse il Concilio vaticano II, che si aprì alla fine del 1962 e che vide riuniti a Roma rappresentanti delle comunità cattoliche di tutto il mondo, per rinnovare l’immagine della Chiesa e per dettare le linee per la nuova opera di evangelizzazione nel mondo contemporaneo.

Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento

Umberto Saba

Vita e opere

POLI, Umberto (Umberto Saba). – Nacque il 9 marzo 1883, a Trieste, da Ugo Edoardo (1853-1916) e da Felicita Rachele Coen (1845-1921), di famiglia ebraica benestante. 

Trieste era allora aperta alla cultura mitteleuropea, ma arretrata rispetto alla tradizione italiana, per la quale «nascere a Trieste nel 1883 era come nascere altrove nel 1850» (Saba, Tutte le prose, p. 115).

Alla condizione di ‘periferico’ culturale, Umberto Poli aggiunse l’appartenenza a una famiglia disunita: il padre abbandonò la moglie ancor prima del parto, probabilmente perché fu arrestato dopo l’esecuzione di Guglielmo Oberdan (20 dicembre 1882), di cui era simpatizzante, e nel maggio 1883 bandito dai territori del Regno, senza poter conoscere il figlio nato da poco (il loro primo incontro avvenne venti anni dopo). La radice della propria ‘diversità’ è espressa da Saba in Autobiografia, III (1924), in cui contrappone lo «sguardo azzurrino», il sorriso «dolce e astuto» del padre, che è «gaio e leggero», alla madre che «tutti sentiva della vita i pesi», come «due razze in antica tenzone». 

Umberto fu accudito fino a tre anni da Giuseppina (Gioseffa) Gabrovich, giovane slovena di religione cattolica: staccato a forza dall’amata balia, fu subito mandato a Padova, presso alcuni parenti, dove rimase probabilmente fino ai dieci anni.

Tornò poi a vivere a Trieste con la madre e la zia Regina, molto affezionata a lui e sostegno economico della famiglia; frequentò il ginnasio comunale Dante Alighieri dal 1893 al 1897, quindi l’Accademia di commercio e nautica, sezione commerciale, abbandonata dopo soli sei mesi. Nell’autunno 1898 si impiegò come praticante d’ufficio presso un commerciante di farine, dove rimase circa un anno (le vicende di questo periodo si ritrovano, più o meno riviste dalla fantasia, in Ernesto, scritto nel 1953). 

Gli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza furono schivi e solitari, con pochi amici (tra i quali il cugino Giorgio Fano e Virgilio Giotti), molte letture di classici (Giacomo Leopardi in testa), e la passione per il violino. Nel gennaio 1903 seguì alcuni corsi universitari a Pisa, dove fu colto da un primo attacco di «neurastenia»; l’anno seguente compì un viaggio movimentato nel Montenegro, da dove inviò una corrispondenza all’amico Amedeo Tedeschi (già destinatario nel 1902 di alcune poesie firmate «Umberto Chopin Poli»), che il 14 luglio la pubblicò nel Lavoratore, di cui era redattore: si tratta della prima apparizione a stampa di uno scritto di Poli. Nel 1905 soggiornò a lungo a Firenze, frequentando circoli artistici e letterari, ma percependo freddezza da parte dell’intellighenzia fiorentina. Il 1° maggio il Lavoratore pubblicò Il borgo

Fu la prima apparizione a stampa di una poesia di Poli, firmata «Umberto da Montereale»: forse lo pseudonimo derivava dal luogo di provenienza della famiglia paterna, Montereale Valcellina, ma era comunque chiaro l’omaggio a Gabriele D’Annunzio, cui si sforzava di assomigliare e che incontrò forse nel settembre 1906. 

Dall’aprile del 1907 al settembre 1908 prestò servizio militare nel R. Esercito italiano, dapprima a Firenze (quartiere di Monte Oliveto), poi a Salerno, dove nacquero i Versi militari. Rientrato a Trieste dopo il congedo, il 28 febbraio 1909 sposò con rito ebraico Carolina Woelfler (nata a Trieste il 27 luglio 1877, da Giulio e da Amalia Fano) e andò ad abitare con lei in periferia, a Chiarbola Superiore 91 (poi Strada di Fiume, 53), lo scenario delle poesie di Casa e campagna e di Trieste e una donna

Il 24 gennaio 1910 nacque la figlia Linuccia, e nel novembre dello stesso anno (ma con data 1911) uscirono a Firenze, per la Casa Editrice Italiana, le Poesie di Umberto Saba, autorevolmente prefate da Silvio Benco. 

Qui per la prima volta venne adottato lo pseudonimo di Saba (poi regolarizzato all’anagrafe nel 1928), che derivava forse dalla lingua ebraica (‘nonno’) o, più probabilmente, era il ‘furto’ autorizzato dello pseudonimo già usato da Giorgio Fano (così ricorda Anna Fano in Umberto Saba e Giorgio Fano, in Il Ponte, XL (1984), 4-5, p. 114). Il manifesto di poetica Quello che resta da fare ai poeti («ai poeti resta da fare la poesia onesta»), proposto a Scipio Slataper nel febbraio 1911 per la Voce, venne rifiutato dalla rivista, e apparve a stampa solo postumo. 

Nel 1911 una grave crisi coniugale portò Umberto Saba e Lina a una separazione temporanea, ricomposta l’anno seguente, quando insieme si trasferirono a Bologna. Il 1912 è l’anno dell’importante lettura di Sesso e carattere di Otto Weininger e della pubblicazione, nella Libreria della Voce, di Coi miei occhi (più tardi Trieste e una donna), che comprendeva sia la ‘cronaca poetica’ della crisi coniugale (Nuovi versi alla Lina) sia alcune fra le più belle e famose poesie dedicate a Trieste (TriesteCittà vecchiaTre vie). Nel settembre 1913 fu rappresentato a Trieste, con totale insuccesso, il dramma Il letterato Vincenzo, pure ispirato alla crisi coniugale. Alla prima guerra mondiale Saba prese parte in posizione defilata (a Casalmaggiore, Roma e a Milano, dove nel novembre 1918 fu ricoverato per una nuova crisi nervosa), non interrompendo la sua attività poetica (Poesie scritte durante la guerra). Dopo il ritorno a Trieste dapprima si impiegò in lavori saltuari, ma trovò presto quello che sarebbe stato il suo lavoro definitivo: libraio antiquario, con negozio in via San Nicolò 30. 

Con il marchio La Libreria Antica e Moderna, uscirono nel 1920 Cose leggere e vaganti e nel 1921 il Canzoniere, comprensivo di tutte le liriche composte fino a quel momento, rielaborate e organizzate come capitoli di un’autobiografia poetica. Nel 1923 la nuova raccolta Preludio e canzonette, parzialmente anticipata nel Convegno, uscì per le edizioni di Primo Tempo, a segnare l’inizio della fortuna critica di Saba, che vedeva riconosciuta la sua statura poetica da alcuni giovani, ma autorevoli collaboratori delle due riviste (Giacomo Debenedetti, Sergio Solmi, Eugenio Montale). Nel 1926 Figure e canti fu il primo libro di Saba pubblicato da una grande casa editrice, Treves, e nel 1928 le prestigiose edizioni di Solaria accolsero Preludio e fughe. Nel 1929 intraprese la terapia psicoanalitica con Edoardo Weiss, allievo di Sigmund Freud e tra i primi a introdurre la psicoanalisi in Italia, ma dovette interromperla nel 1931, quando Weiss si trasferì a Roma. 

Resuscitando’ se stesso bambino («il piccolo Berto»), il poeta trasformava in poesia i suoi ricordi, man mano che riaffioravano; la cura fallì, perché il piccolo Berto non morì mai del tutto, ma la guarigione avrebbe avuto come conseguenza il silenzio della poesia: Saba «non avrebbe più scritto poesie: non avrebbe avuto più bisogno di scriverne» (Storia e cronistoria del Canzoniere, in Tutte le prose, pp. 261 s.). La psicoanalisi fu dunque per lui soprattutto uno strumento straordinario di conoscenza dell’animo umano (e quindi della realtà tutta). Frutto poetico immediato della cura fu Il piccolo Berto (in Solaria, febbraio 1931), ma intanto proseguiva, anche grazie allo scavo psicoanalitico, il lavoro incessante di sistemazione e correzione delle poesie giovanili: Ammonizione e altre poesie (Trieste 1932) fu presentato da Saba come il primo volume dell’«ed. completa e definitiva» della sua opera poetica. 

Come rilevato dallo stesso autore, alla «crisi del Piccolo Berto» seguì «una grande chiarificazione interna, alla quale risponde un uguale illimpidimento della forma», così che il Saba di Parole (opera scritta nel 1933-34 e pubblicate nel 1934 a Lanciano, da Carabba) e poi di Ultime cose (scritta fra il 1935 e il 1943 e pubblicata in edizione semiclandestina a Lugano nel 1944, con prefazione di G. Contini), abbandonata la sua linea narrativa, ci si presenta come un «lirico puro» (Storia e cronistoria del Canzoniere, in Tutte le prose, p. 278). In un clima politico sempre più cupo e minaccioso Saba cercava un rifugio per sé e la famiglia: nell’estate 1938 fu a Parigi, poi a Roma, tornando infine (gennaio 1939) a Trieste, dove fu costretto dalle leggi antirazziali a cedere formalmente la libreria a Carlo Cerne, assunto come commesso fin dal 1924. Nei primi anni di guerra visse tra Trieste e Milano, ospite di Emanuele Almansi, libraio antiquario, che abitava in via Andrea Doria 7 con la moglie Onorina Berra e il figlio Federico, nato nel 1924: al ragazzo, Saba si legò progressivamente di affetto poliedrico, anche con risvolti omoerotici, vedendo in lui un figlio, un giovane amico, un allievo tanto bravo da potere diventare il suo erede poetico (scrisse la prefazione alle Poesie del giovane, edite a Firenze nel 1948). Federico, ispiratore e protagonista più o meno occulto di molte poesie sabiane a partire da Ultime cose, dal 1950 mostrò segni sempre più gravi di schizofrenia, e trascorse molti degli anni seguenti (fino alla morte, nel 1978) in ospedali psichiatrici. 

Dopo l’8 settembre 1943 Saba fuggì da Trieste, con Lina e Linuccia, per rifugiarsi a Firenze, dove rimase per tutto l’anno 1944. La clandestinità fiorentina fu cupa e dolorosa (dovette cambiare ben undici domicili), confortata dalla vicinanza di amici fidati, tra i quali Montale, che gli faceva visite quotidiane. Nel gennaio 1945 partì per Roma, dove trascorse il periodo più felice della sua vitaAvevo Roma e la felicità. / Una godevo apertamente e l’altra / tacevo per scaramanzia», Gratitudine (1946), vv. 2-4): circondato da amici come Debenedetti, Sandro Penna, Adriano Grande, Renato Guttuso, Guido Piovene, Elsa Morante, teneva con successo letture pubbliche delle sue poesie e riusciva a vivere con i compensi delle collaborazioni a varie riviste. Intanto, lavorava alla raccolta poetica Mediterranee e al libro di aforismi Scorciatoie e raccontini, pubblicati entrambi da Mondadori nel 1946. A Roma Saba portò avanti la laboriosa correzione delle bozze della seconda edizione del Canzoniere (poesie 1900-45, ripartite in tre volumi: 1900-20, 1921-32, 1933-45), uscita da Einaudi nell’autunno del 1945. La felicità fu breve: tornato a Roma dopo lunghi soggiorni estivi a Venezia e Trieste, Saba trovò «tutto cambiato […] come se ci fosse passata una corrente di gelo» (Università di Pavia, Fondo manoscritti, lettera a Lina del 4 novembre 1945). 

A novembre si trasferì quindi a Milano, dove poté contare sull’ospitalità degli Almansi, sulla generosità di Raffaele Mattioli, che mise a sua disposizione, per poter lavorare al caldo, un salottino della Banca commerciale, e sulla stima e amicizia di giovani letterati e poeti, tra i quali Vittorio Sereni e Giansiro Ferrata. Nel 1946 fu insignito del premio Viareggio e l’anno seguente rifiutò la proposta di insegnare all’Università di San Paolo, in Brasile. La difficoltà di trovare un lavoro stabile (tale non erano né la pubblicazione retribuita di sue poesie e prose né la collaborazione saltuaria al Corriere della sera) lasciava presagire sempre più il temuto ritorno a Trieste, da lui percepita profondamente ostile nei suoi confronti. Alle preoccupazioni economiche e ai dolori privati (l’aggravarsi dei disturbi psichici di Federico), si aggiunse nel 1948 la forte delusione per la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 18 aprile (cfr. la poesia di Sereni Saba, negli Strumenti umani).

Nel settembre 1948 uscì la seconda edizione Einaudi del Canzoniere 1945 (poesie 1900-47) e nell’ottobre, da Mondadori, Storia e cronistoria del Canzoniere, analisi della sua poesia scritta in terza persona, con pseudonimo Giuseppe Carimandrei, volta a compensare la disattenzione della critica nei confronti della propria opera. 

Qualche mese prima, il 7 maggio 1948, aveva lasciato Milano per Trieste, da dove non si sarebbe più mosso, con l’eccezione dei ricoveri in cliniche (a Roma, Trieste, Gorizia) dovuti al frequente riacutizzarsi della nevrosi, combattuta con dosi sempre più massicce di oppiacei. 

Argine parziale all’angoscia furono, in quegli anni, alcuni riconoscimenti ufficiali: nel 1951 i premi Taormina e dell’Accademia nazionale dei Lincei; nel 1953, per il settantesimo compleanno, l’onorificenza di Grande ufficiale al merito della Repubblica, grandi festeggiamenti triestini e la laurea ad honorem conferita dall’Università di Roma.

Nel 1951 uscirono sia un’edizione di lusso del Canzoniere per Garzanti (Milano), sia Uccelli. Quasi un racconto per Mondadori (Milano), mentre uscì solo postuma l’einaudiana Antologia del Canzoniere (a cura di C. Muscetta, Torino 1963). 

Nel maggio 1953, durante un breve periodo di serenità trascorso nella clinica romana Villa Electra, Saba iniziò a scrivere Ernesto, da lui definito scandaloso e impubblicabile (per la tematica omosessuale), al quale lavorò nei mesi successivi, ma senza terminarlo.

Sospeso e poi rimasto incompiuto, il breve romanzo era destinato, per volontà dell’autore, a essere bruciato; Linuccia invece disobbedì all’ordine del padre, pubblicandolo nel 1975. L’aggravarsi delle condizioni di salute e la malattia della moglie resero molto penosi gli ultimi anni di Saba, durante i quali scrisse le Sei poesie della vecchiaia e dette in stampa il faticoso lavoro di raccolta delle prose, antiche e recenti (Ricordi-Racconti, Milano 1956). Lina morì il 25 novembre 1956 e il giorno dopo Saba uscì per l’ultima volta dalla clinica San Giusto di Gorizia, dov’era ricoverato, per partecipare ai funerali. Nel febbraio 1957 apparve l’ultima edizione del Canzoniere vivo l’autore. 

La mattina di domenica 25 agosto 1957 Saba, colpito da infarto, fu trovato morto nella sua stanza di ospedale a Gorizia. 

Dopo il funerale, celebrato in forma solenne, il 27 agosto fu sepolto a Trieste, accanto a Lina, nel cimitero cattolico di Sant’Anna. 

Opere

La prima edizione completa del Canzoniere uscì a Torino nel 1961, per Einaudi, e comprende le poesie 1900-54 (vengono aggiunte le ultime raccolte, in ordine di composizione: EpigrafeUccelli e Quasi un raccontoSei poesie per la vecchiaia). Nell’edizione Einaudi 1965 (su cui sono esemplate le ristampe successive), Epigrafe è spostata in ultima posizione, per ricostituire l’ordine delle ultime poesie in modo più consono alla volontà dell’autore, che aveva destinato Epigrafe a una pubblicazione postuma. 

L’opera di Saba è raccolta in due «Meridiani» MondadoriTutte le poesie Tutte le prose, a cura di A. Stara e con introduzione di M. Lavagetto (rispett. Milano 1988 e 2001). Il Canzoniere è pubblicato anche da Einaudi (ultima rist., con introduzione di N. Palmieri, Torino 2014). Manca ancora l’edizione critica dell’intero Canzoniere (cfr. G.E. Bonura, I Canzonieri di U. S.; verso l’ed. critica delle poesie, in Rivista di letteratura italiana, XXXII (2014), 1, pp. 107-145), che prosegua l’edizione critica del Canzoniere 1921 curata da G. Castellani (Milano 1981), dando conto del lavoro variantistico di un poeta sempre impegnato nella sistemazione ‘definitiva’ del proprio corpus. Fra le singole raccolte riproposte da ultimo: Ammonizione e altre poesie, a cura di R. Deidier (Genova 2003); Figure e canti, a cura di S. Carrai (Alessandria 2004); Intermezzo quasi giapponese, a cura di M.A. Terzoli (Parma 2007). La sola edizione commentata è Coi miei occhi (1911), a cura di C. Milanini (Milano 1981). Ancora utile (anche per l’accurato Indice analitico finale, assente nel «Meridiano») il volume di Prose curato da Linuccia Saba, con prefazione di G. Piovene e nota critica di A. Marcovecchio (Milano 1964). Di Ernesto, M.A. Grignani ha curato una nuova edizione filologicamente corretta per Einaudi (Torino 1995). Il letterato Vincenzo è uscito a cura di R. Saccani (Lecce 1989). 

Dell’epistolario, di cui sembra lontana la pubblicazione integrale, sono state edite finora più di 500 lettere; tra i volumi usciti: U. Saba – P.A. Quarantotti Gambini, Il vecchio e il giovane, a cura di L. Saba, Milano 1965. Inoltre: Amicizia. Storia di un vecchio poeta e di un giovane canarino (Quasi un racconto, 1951), a cura di C. Levi, Milano 1976; La spada d’amore. Lettere scelte 1902-1957, a cura di A. Marcovecchio, con una presentazione di G. Giudici, Milano 1983; Atroce paese che amo. Lettere famigliari (1945-1953), a cura di G. Lavezzi – R. Saccani, Milano 1987; Lettere sulla psicoanalisi. Carteggio con Joachim Flescher, 1946-1949, a cura di A. Stara, Milano 1991; Lettere a Sandro Penna, 1929-1940, a cura di R. Deidier, Milano 1997; Quante rose a nascondere un abisso. Carteggio con la moglie, 1905-1956, a cura di R. Acetoso, con prefazione di A. Debenedetti, Lecce 2004; U. Saba – V. Sereni, Il cerchio imperfetto. Lettere 1946-1954, a cura di C. Gibellini, Milano 2010; U. Saba – S. Ferrero, Gli angeli di Cocteau. Lettere 1946-1954, a cura di B. Luoni – A. Rossetti, Milano 2013. Antologie commentate: Il Canzoniere, a cura di F. Portinari, Torino 1976; La malinconia amorosa. Poesie 1900-1954, a cura di G. Pontiggia, Milano 1992. Concordanze: G. Savoca – M.C. Paino, Concordanza del «Canzoniere 1921» di Umberto Saba. Testo, concordanza, liste di frequenza, indici, Firenze 1996. 

Fonti e Bibl.: Appunti, manoscritti, dattiloscritti, libri postillati sono conservati presso il Centro Manoscritti dell’Università di Pavia. Altre importanti testimonianze autografe sono conservate nella Biblioteca civica e presso l’Università di Trieste, la Biblioteca comunale di Treviso, l’Archivio di Stato di Torino, l’Archivio della Fondazione Mondadori di Milano. Tra i privati che posseggono importanti carte sabiane si contano: M. Cerne (figlio di Carlo, e attuale gestore della libreria antiquaria); M. Coen Miraldi (Torino); A.M. Fortuna (Pontassieve); S. Volpato e libreria antiquaria Pontremoli di Milano (carte dagli archivi di A. Pittoni e C. Pagnini, esposte in mostra a Milano, Casa Manzoni, 14-27 marzo 2013, e parzialmente riprodotte nel catalogo relativo). 

S. Mattioni, Storia di Umberto Saba, Milano 1989; molto dettagliata la Cronologia dei due «Meridiani». Tra le testimonianze parziali, oltre al ricordo di Linuccia (Umberto Saba mio padre. Memorie raccolte da A. Andreoli, in Linea d’ombra, 1983, 2, pp. 170-186) si ricordino almeno: O. Cecchi, L’aspro vino di Saba, Roma 1988 e C. Benussi et al.Umberto Saba. Sei donne per un poeta, Empoli 2007. Offrono dati nuovi sulla figura del padre due interventi di O. Spoglianti: Indagini e congetture su Ugo Poli padre di Umberto Saba e Dalla parte di Ugo…, in Metodi e ricerche, VI (1987), 2, pp. 77-82; IX (1990), 2, pp. 23-28. Sulla libreria antiquaria: E. Bizjak Vinci – S. Vinci, La libreria del poeta, Trieste 2008. Il Catalogo primo (1923) è stato edito da M. Gatta (Macerata 2011). Poche le testimonianze in video, riunite in G. Sica, Umberto Saba. «Il Canzoniere», regia di G. Barcelloni, Roma 1998 (Rai-Educational). È consultabile in rete (www. internetculturale.it) la versione digitale della Mostra Umberto Saba. La poesia di una vita (Trieste, 8 aprile – 30 giugno 2003). Bibliografie: G. Castellani, Bibliografia delle edizioni originali di Umberto Saba, Trieste 1983; indispensabili le bibliografie delle opere nei due «Meridiani», cui si rimanda anche per la bibliografia critica su Saba fino al 1999; per gli anni successivi soccorre M. Ceroti, Bibliografia sabiana 1997-2007, in Rivista di letteratura italiana, XXVI (2008), 2-3, pp. 429-446. 

Si vedano, inoltre, fra le opere collettive e atti di convegni: 1983 anno di U. S. Celebrazioni per il centenario della nascita, Trieste s.d. (ma 1983); Il punto su Saba, Atti del convegno internazionale… 1984, Trieste 1985; Umberto Saba. Un Canzoniere e una città, Atti del convegno nazionale… 1983, Trieste 1986; Umberto Saba, Trieste e la cultura mitteleuropea. Atti del convegno, Roma… 1984, Milano 1986; «In fondo all’Adriatico selvaggio…»: Umberto Saba, con gli occhi dell’altra Europa, Pécs 2004; «Si pesa dopo morto». Atti del convegno internazionale di studi per il cinquantenario della scomparsa di Umberto Saba e Virgilio Giotti (Trieste… 2007) Saba extravagante, Atti del convegno internazionale di studi (Milano… 2007), numeri monografici di Rivista di letteratura italiana, XXVI (2008), 1-3. Fra i numeri monografici di periodici: Solaria, III (1928), 5; La fiera letteraria, V (1950), 44; Galleria, X (1960), 1-2; Nuovi Argomenti, n.s., 1978, n. 57; Otto/Novecento, VII (1983), 1-2; il Portolano, XIII (2007), pp. 1-31; Comunicare letteratura, I (2008), pp. 11-172. 

Fra gli studi monografici e i saggi: F. Portinari, Umberto Saba, Milano 1963; P. Raimondi,Invito alla lettura di Saba, Milano 1974; A. Pinchera, Umberto Saba, Firenze 1974; Per conoscere Saba, a cura di M. Lavagetto, Milano 1981; E. Guagnini, Il punto su Saba, Roma-Bari 1987; F. Brugnolo, Il Canzoniere di Umberto Saba, in Letteratura italiana (Einaudi)diretta da A. Asor Rosa, Le Opere, IV, Il Novecento, I, Torino 1995, pp. 497-559. Voci sintetiche ma rilevanti: P.V. Mengaldo, Umberto Saba, in Poeti italiani del Novecento, Milano 1978, pp. 182-197; Id., Umberto Saba, in Storia dell’italiano nel Novecento, Bologna 2014, pp. 199-206; R. Luperini, Le rose e l’abisso: la poesia di Umberto Saba, in Il Novecento, Torino 1981, I, pp. 244-267. Oltre ai tempestivi interventi di G. Debenedetti (in Id., Saggi critici. Serie prima, Firenze 1929, ad ind.Intermezzo, Milano 1963, ad ind.Poesia italiana del Novecento. Quaderni inediti, Milano 1974, ad ind.) e di S. Solmi (poi in Id., La letteratura italiana contemporanea, I, a cura di G. Pacchiano, Milano 1992, ad ind.), si vedano: E. Favretti, La prosa di Umberto Saba, Roma 1984; T. Ferri, Poetica e stile di Umberto Saba, Urbino 1984; A. Girardi, Cinque storie stilistiche, Genova 1987; M. Lavagetto, La gallina di Saba, Torino 1989; L. Polato, L’aureo anello. Saggi sull’opera poetica di Umberto Saba, Milano 1994; A. Girardi, Prosa in versi, Padova 2001; A. Cinquegrani, Solitudine di Umberto Saba: da «Ernesto» al «Canzoniere», Venezia 2007; M. Paino, La tentazione della leggerezza. Studio su Umberto Saba, Firenze 2009; A. Girardi, Grande Novecento, Venezia 2010.

Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento

Alle fronde dei salici

Alle fronde dei salici è la poesia più conosciuta di Salvatore Quasimodo, composta nel 1946 e collocata in apertura della raccolta Giorno dopo giorno, edita l’anno successivo. Il componimento è un manifesto della svolta artistica di Quasimodo, che nel dopoguerra passa dallo stile ermetico degli esordi a una poesia concreta e calata nella storia

Alle fronde dei salici si riferisce infatti agli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, nel periodo della resistenza e dell’occupazione tedesca.La poesia è costruita sulla rivisitazione di un passo biblico, il Salmo 137 , in cui gli israeliti, deportati a Babilonia nel VI sec. a.C., si rifiutano di cantare perché lontani dalla patria.

Quasimodo cita direttamente il salmo e lo ricontestualizza nel passato recente della guerra. Oppresso dall’invasore tedesco (“con il piede straniero sopra il cuore”, v. 2) e circondato da morte e disperazione, il popolo italiano non può abbandonarsi alla gioia del canto. Da notare come l’io lirico diventi un “noi” (v. 1), per esprimere una dimensione corale, popolare e non soltanto privata. Il testo può essere letto anche come una riflessione sulla poesia: davanti alla catastrofe della guerra i poeti appendono le loro cetre (v. 9), cioè smettono di “cantare” perché impotenti davanti all’atrocità del conflitto armato. Bisogna notare che – un po’ patriotticamente – la guerra è citata soltanto in chiave di invasione straniera, mentre mancano riferimenti al Fascismo o alla guerra civile combattuta in Italia nel periodo della Resistenza.

La svolta poetica di Quasimodo costituisce un complicato problema letterario: se da una parte vi sono elementi di continuità stilistica tra il vecchio e il nuovo Quasimodo, dall’altra i temi evolvono in una direzione meno astratta e concettuale. Lo stesso Quasimodo preferì sempre mettere l’accento sulla continuità del proprio percorso poetico, anche perché voleva pensare la sua produzione come un insieme organico di opere. Leggiamo ad esempio questa citazione da un intervento del 1950:

La purezza della poesia di cui sʼè parlato tanto in questi anni, non è stata da me intesa come eredità del decadentismo, ma in funzione del suo linguaggio diretto e concreto. […] Dalla mia prima poesia a quella più recente non cʼè che una maturazione verso la concretezza del linguaggio.

La concretezza del linguaggio va ricercata nel gusto per le immagini nitide e ad “alta definizione”, come ad esempio l’erba indurita dal ghiaccio dell’inverno (v. 4) o la scena macabra della “crocifissione” (v. 7).

Intesa in questo senso, la concretezza può essere riferita anche a testi del periodo ermetica, come ad esempio Ed è subito sera. D’altra parte, l’evoluzione dalle prime raccolte a quelle del dopoguerra non si può ignorare: Quasimodo scrive in modo meno oscuro, affrontando temi “civili” a cui molti erano sensibili in quel frangente storico.

Questa svolta fu anche un modo per cavalcare la moda del Neorealismo, movimento culturale con al centro la storia collettiva e non le speculazioni astratte delle correnti letterarie degli anni Trenta.

Con il messaggio di Alle fronde dei salici, Quasimodo vuole allora presentarsi come vate civile, ovvero come un poeta consapevolmente uscito dalla “torre d’avorio” della letteratura, senza abbandonare però lo stile analogico, raffinato e musicale che caratterizzava le raccolte precedenti.

Metrica: Dieci endecasillabi sciolti. Da notare l’effetto di accelerazione ottenuto attraverso tre forti inarcature ai vv. 4-7.

Testo

  1. E come potevamo noi cantare 
  2. con il piede straniero sopra il cuore,
  3. fra i morti abbandonati nelle piazze
  4. sull’erba dura di ghiaccio, al lamento 
  5. d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero 
  6. della madre  che andava incontro al figlio
  7. crocifisso sul palo del telegrafo ?
  8. Alle fronde dei salici, per voto,
  9. anche  le nostre cetre  erano appese,
  10. oscillavano lievi al triste vento.

Note

Il Salmo è noto anche come “canto dell’esule”: “Lungo i fiumi di Babilonia, | là sedevamo e piangevamo | ricordandoci di Sion. | Ai salici di quella terra | appendemmo le nostre cetre, | perché là ci chiedevano parole di canto | coloro che ci avevano deportato, | allegre canzoni, i nostri oppressori: | «Cantateci canti di Sion!». | Come cantare i canti del Signore

in terra straniera? | Se mi dimentico di te, Gerusalemme, | si dimentichi di me la mia destra; | mi si attacchi la lingua al palato | se lascio cadere il tuo ricordo, | se non innalzo Gerusalemme | al di sopra di ogni mia gioia. | Ricòrdati, Signore, dei figli di Edom, | che, nel giorno di Gerusalemme, | dicevano: «Spogliatela, spogliatela | fino alle sue fondamenta!». | Figlia di Babilonia devastatrice, | beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. | Beato chi afferrerà i tuoi piccoli | e li sfracellerà contro la pietra”. Il tema sarà poi ripreso nel coro Va, pensiero del Nabucco (1842) del compositore Giuseppe Verdi (1813-1901).

 al lamento: la “semantica vaga delle preposizioni” (secondo la formula coniata dal critico Pier Vincenzo Mengaldo), è un tratto tipico della poesia simbolista ed ermetica. La preposizione articolata “al” non ha un significato logico preciso e univoco, ma esprime in questo caso valori sia causali sia concessivi(“di fronte a”, “nonostante”).

 urlo nero: esempio di sinestesia, figura retorica in cui si accostano sfere sensoriali differenti. È uno stilema tipico della tradizione simbolista.

della madre: L’uso dell’articolo determinativo conferisce un carattere di unicità e assolutezza alla figura della madre, rendendo il suo dolore un esempio universale di sofferenza.

crocifissochiara allusione biblica, stavolta dal Nuovo Testamento. Riprendendo anche il “lamento d’agnello” del v. 5, Quasimodo si rifà alla vicenda di Cristo, sacrificato sulla croce per la salvezza dei fedeli.

La lunga interrogativa diretta – estesa per sette versi – è costruita attraverso una sintassi nominaleritmica e incalzante. Da notare il montaggio delle immagini: come in un film visionario, Quasimodo parte da una metafora di gusto ancora ermetizzante (v. 2: “il piede straniero sopra il cuore”) e poi abbandona l’astrazione e costruisce una sequenza immagini violente ordinate in un crescendo drammatico, il cui culmine è la scena straziante della madre.

Il verso, che fa anche da titolo alla poesia, è una citazione quasi letterale dal Salmo 137: “Ai salici di quella terra | appendemmo le nostre cetre, | perché là ci chiedevano parole di canto | coloro che ci avevano deportato, | allegre canzoni, i nostri oppressori” (Salmi, 137, 2-3).

anche: può riferirsi al figlio crocifisso (le nostre cetre appese come il figlio), oppure agli esuli di Babilonia (anche le nostre cetre, come quelle del salmo, erano appese ai salici).

 La cetra era uno strumento a corde con cui il popolo ebraico accompagnava il canto. Ricordiamo che nelle tradizioni letterarie antiche la poesia era musicata: i versi erano spesso cantati con l’accompagnamento di strumenti.

 triste vento: Il vento è “triste” perché la natura rispecchia la tragedia della guerra, caricandosi di sfumature psicologiche.

Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento

Ed è subito sera

Testo

  1. Ognuno sta solo 1 sul cuor 2 della terra
  2. trafitto da un raggio di sole 3:
  3. ed è subito sera 4.

Note

1.Il verso è fortemente apodittico: enuncia una verità indiscutibile – la solitudine esistenziale – di cui si può solo prendere atto. In questo modo Quasimodo costruisce un’immagine dell’io lirico basata contemporaneamente sull’autocommiserazione e sul titanismo.

2 cuor della terra: sebbene gli uomini siano soli, sono al contempo radicati nell’esistenza, intesa in senso quasi biologico o naturale. “Cuore” è una parola molto frequente nel vocabolario del primo Quasimodo. Il verso si basa su una serie di suoni cupi, con prevalenza di “u” e di “o”, che contribuisce all’intonazione dolorosa e lapidaria del dettato.

3 trafitto da un raggio di sole: è una sinestesia con un vago sapore ossimorico. Questa figura retorica ha una doppia funzione: da un lato si lega al tono dolente del primo verso, rafforzate dal contrasto tra la luce (elemento benefico) e i suoi effetti dannosi; dall’altro, produce un’impressione di rapidità che anticipa il tramontare del sole. Simbolicamente, la vita umana è una condizione di tormento che tramonta presto nel buio della morte.

4 La rappresentazione del tramonto viene omessa: si percepisce solo la velocità, rafforzata dalla congiunzione e dall’avverbio di tempo. Il sopraggiungere della sera conferma, coem se si trattasse di una “massima” filosofica, la condizione di sofferenza dell’io e insieme rappresenta la brevità della vita e la sua repentina conclusione.

Commento

Il celebre componimento è quello che dà il titolo al “libro aureo” della produzione ermetica di Salvatore Quasimodo, uscito nel 1942, diventando ben presto una sorta di “manifesto” del modo di far poesia alla maniera degli Ermetici. Ed è subito sera – già pubblicata nel 1930 come strofa di una poesia più lunga – è posta in apertura del libro: in soli tre versi la descrizione ellittica di un tramonto si carica di forti connotazioni esistenziali e simboliche. L’estrema brevità del testo si combina con l’assenza di dettagli concreti, antefatti temporali o riferimenti narrativi alla situazione e al contesto della percezione del poeta. Ne deriva quindi uno scenario fortemente astratto in cui l’immagine poetica vuole generare un’atmosfera sospesa e quasi surreale.

La lirica si riferisce a un soggetto collettivo (“ognuno” del v. 1): l’io del poeta sembra sciogliersi in una specie di fratellanza universale, basata sulla comune esperienza del dolore. Questa dialettica tra radicamento e sradicamento, lo smarrimento esistenziale e la fugacità del vivere vengono espressi attraverso un sistema di immagini rapido e scarno, che veicola la visione del mondo, tormentata e problematica, dell’autore stesso: dall’affermazione perentoria sulla solitudine degli uomini (verso 1), al sole che prima ferisce (v. 2) e poi tramonta all’improvviso (v. 3).

Se insomma Ed è subito sera sviluppa alcuni temi tipicamente ermetici, non bisogna dimenticare che l’autore, in saggio del 1946 (Poesia contemporanea, poi in Poesie e discorsi sulla poesia, 1971) che sicuramente risente anche della tragedia del secondo conflitto mondiale, spiega che la sua attività vuole contribuire alla ricomposizione e alla ricostruzione dell’uomo contemporaneo:

Rifare l’uomo: questo è il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle ‘speculazioni’ è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno.

Ed è subito sera rimane comunque un testo esemplare della fase ermetica di Salvatore Quasimodo, basata sulla rappresentazione di esperienze interiori e sulla dialettica tra inclusione ed esclusione dal mondo esterno. La lirica ha valore programmatico anche rispetto alle soluzioni stilistiche adottate in questo periodo: tra la altre, l’uso di immagini astratte (il “cuor della terra”), la retorica preziosa e raffinata, il gusto per gli effetti di luce, la sintassi paratattica e la ricerca fonico-timbrica. L’estrema brevità del testo – influenzata anche dall’importante traduzione quasimodiana dei Lirici greci del 1940 – mette in evidenza la trama di corrispondenze foniche come allitterazioni e insistenze timbriche. La sintassi paratattica e le soluzioni prosodiche creano un effetto musicale di “staccato” che conferisce ai versi un andamento grave e sentenzioso.

Metrica: Componimento di tre versi liberi di lunghezza variabile: un dodecasillabo, un novenario e un settenario.

Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento

Salvatore Quasimodo

Vita e opere

Nacque a Modica il 20 agosto 1901, secondogenito di Gaetano Quasimòdo, capostazione, e di Clotilde Ragusa. Ebbe tre fratelli: Enzo, Ettore e Rosina. 

L’accentazione del cognome fu mutata in sdrucciola dallo stesso Quasìmodo al suo trasferimento in continente. È, inoltre, ben nota la dichiarazione mendace (cfr. Salvatore Quasimodo, in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca, Venezia 1960, p. 349) che indicava in Siracusa la città natale del poeta, ad alimentare un’identità di «siculo greco» (S. Quasimodo, Micene, in Id., Poesie e discorsi sulla poesia, a cura e con un’introduzione di G. Finzi, prefazione di C. Bo, Milano 1996, p. 216) e, più in generale, una mitobiografia tanto più accattivante di una più affidabile cronologia. Vero è che la nonna paterna era figlia di profughi greci che provenivano da Patrasso. 

I primi anni trascorsero in continui spostamenti lungo le linee ferroviarie siciliane al seguito del padre, tuttavia Messina fu la città che più contò per la formazione di Quasimodo. Il padre vi era stato trasferito subito dopo il catastrofico terremoto del 28 dicembre 1908 e la famiglia visse per qualche tempo in un carro merci: le immagini di quei giorni e «la scienza / del dolore» rivissero poi in una bella poesia (Al padreibid., p. 201). 

Quasimodo compì studi tecnici a Palermo e a Messina, dove conseguì la licenza fisico-matematica presso l’istituto tecnico A.M. Jaci.

Qui strinse importanti amicizie intellettuali con Salvatore Pugliatti, Giorgio La Pira e altri. Le prime prove poetiche risalirebbero al 1915; nel 1917 apparvero le prime pubblicazioni in periodici di provincia, fra cui la rivista Nuovo giornale letterario fondata da Quasimodo e dalla sua brigata. L’apprendistato in versi fu sostanzialmente simbolista, ma caratterizzato da un certo eclettismo

Ottenuta la licenza tecnica, nel 1919 Quasimodo si trasferì a Roma, per iscriversi alla facoltà di agraria (e non di ingegneria, com’era solito dire). Tuttavia, abbandonò presto gli studi universitari, svolgendo i più svariati lavori: disegnatore tecnico, commesso in un negozio di ferramenta, impiegato della Rinascente. Nei primi anni Venti, secondo le ipotesi più attendibili, mise insieme il primo dei due ‘manoscritti giovanili’, Bacia la soglia della tua casa (Siracusa 1981). Studiò greco e latino con monsignor Rampolla Del Tindaro. Visse con Bice Donetti, che sposò nel 1927 dopo essere stato assunto, nel 1926, come geometra straordinario dal ministero dei Lavori pubblici e assegnato all’ufficio del genio civile di Reggio Calabria. 

Fra il 1929 e il 1930 mise insieme il manoscritto Notturni del re silenzioso (Messina 1989). Quasi ogni domenica attraversava lo Stretto per ritrovare gli amici di un tempo: nacque così Vento a Tindari, con l’evocazione del promontorio che sporge sul golfo di Patti, proprio di fronte alle Eolie, e la fissazione del mito dell’esilio, che più tardi Luciano Anceschi interpretò come sublimazione di un «acre furore sensuale […] in un rimpianto estenuato di luce edenica» (introduzione ai Lirici greci, in La critica e Quasimodo, 1976, p. 65). 

Quasimodo si trasferì a Firenze nel 1929 su invito di Elio Vittorini, che aveva sposato sua sorella Rosina ed era deciso a introdurre il cognato nell’ambiente letterario. L’anno successivo le Edizioni di Solaria stamparono Acque e terre (Firenze 1930). 

Nel 1931 Quasimodo fu trasferito al genio civile di Imperia. Si recava spesso a Genova, dove cominciò a collaborare con Circoli, nelle cui edizioni uscì Òboe sommerso (Genova 1932).

Il libro, in realtà, fissa la più ardita grammatica dell’ermetismo: una serie di procedimenti indeterminativi che portano la poesia a un livello di astrazione tale da impedirne la parafrasi. Un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo (Il linguaggio della poesia ermetica, in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino 1991, pp. 131-157) ha rintracciato i fenomeni linguistici e stilistici che consentono di escludere, una volta per tutte, Ungaretti e Montale dall’ermetismo e di articolare la scuola non tanto o non soltanto in ermetismo fiorentino ed ermetismo meridionale, quanto in ermetismo forte, con Quasimodo, Gatto, Mario Luzi, Libero De Libero e Piero Bigongiari, e debole, con Leonardo Sinisgalli, Alessandro Parronchi, Carlo Betocchi e Luigi Fallacara.

Tra le caratteristiche dell’ermetismo forte spiccano l’uso di sostantivi assoluti, che trasforma i referenti in emblemi, eternizzandoli; la preferenza per i plurali, che moltiplica gli effetti suggestivi; l’impiego polivalente della preposizione «a» e, più in generale, la soppressione e lo stravolgimento dei connettivi, che convertono i rapporti logici in rapporti analogici. L’analogismo spinto crea, del resto, una rete di relazioni arbitrarie, incentrate sulla parola; la predilezione per la sintassi nominale procura una sensazione d’immobilismo e di estraneità all’azione; prevalgono gli attanti astratti e le sintesi qualificative, come nel più tipico costrutto ermetico, costituito da sostantivo e complemento di specificazione con valore aggettivale, quasi un’etichetta. 

Nel 1932 Quasimodo vinse il premio dell’Antico Fattore con Odore di eucalyptus, riproposta, insieme con altri versi, nell’omonima plaquette (Firenze 1932). Fu Montale, che l’anno prima aveva vinto con La casa dei doganieri (Quasimodo si era classificato secondo con Vento a Tindari), ad adoperarsi affinché il riconoscimento andasse al poeta siciliano. 

Dopo una breve permanenza in Sardegna, Quasimodo fu trasferito all’ufficio del genio civile di Milano, forse nel 1934, e distaccato a Sondrio. Nel 1935, da una relazione con Amelia Spezialietti, nacque la figlia Orietta. Nello stesso anno il poeta intrecciò una breve relazione con Sibilla Aleramo, mentre nel 1936 conobbe Carlo Bo e si innamorò della danzatrice Maria Cumani, dalla relazione con la quale ebbe nel 1939 il figlio Alessandro. Erato e Apòllion (Milano 1936) uscì presso Scheiwiller, con una prefazione di Sergio Solmi.

Nell’ansia di «espressioni totali», il poeta finisce per dire «insieme troppo e troppo poco, ricorrendo a dure torsioni, a oscurità abbacinanti» (p. 122). Tema esclusivo è la separazione da «un ideale “luogo” di primitività incorrotta, mito insieme di vita e di cultura» (p. 132), che a tratti è l’isola siciliana a tratti l’infanzia con essa perduta, tendenti a confondersi in un unico sogno. 

Nel 1938 Quasimodo si dimise dal genio civile, per accettare, su proposta di Cesare Zavattini, un impiego presso Mondadori, come redattore di un periodico, da cui sostenne di essere stato poi licenziato per attività antifascista. Nello stesso anno cominciò a collaborare con Letteratura e, per le Edizioni Primi Piani, uscì il volume antologico Poesie(Milano 1938).

La memorabile traduzione dei Lirici greci (Milano 1940) fu pubblicata per le Edizioni di Corrente, con una prefazione di Anceschi, suscitando entusiasmi e polemiche, anche in ambito accademico. Dopo aver suggerito una più generale omologia fra lirici greci e poeti contemporanei (i lirici nuovi dell’antologia da lui curata nel 1943), Anceschi promosse l’equivalenza tutta quasimodiana fra sicilianità e grecità trascendentale e fra traduzione e poesia. L’esperienza di Erato e Apòllion avrebbe fatto affiorare, attraverso l’evocazione di una Sicilia originaria e favolosa, «il musicale ricordo di una Grecia piuttosto dionisiaca che pitagorica, di una Grecia del sesso e degli elementi» (v. L. Anceschi, introduzione ai Lirici greci, cit., p. 66). 

Nel 1941 Quasimodo fu nominato «per chiara fama» professore di letteratura italiana presso il conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove insegnò fino al 1968. 

Nel 1942 uscì per Mondadori Ed è subito sera (Milano 1942), vero e proprio compendio della stagione ermetica, con una severa selezione di Acque e terre e l’aggiunta delle Nuove poesie, in cui si avverte, a livello denotativo, un progressivo passaggio dall’astrazione alla realtà. Nello stesso anno Quasimodo pubblicò Il fiore delle Georgiche (Milano 1942) che, dal punto di vista metrico, prepara le misure lunghe della stagione civile. Più tardi il poeta scrisse: «La lezione di Virgilio mi condusse al discorso, a una misura di oggettivazione, alla quale forse non sarei arrivato che con la privazione del canto» (S. Quasimodo, Traduzioni dai classici (1945), in Id., Il poeta e il politico e altri saggi, Milano 1960, p. 109). 

Benché antifascista, Quasimodo non partecipò alla Resistenza.

In quegli anni, era impegnato a tradurre Il vangelo secondo Giovanni (Milano 1946), alcuni Canti di Catullo (Milano 1945 e 1955) e brani Dall’Odissea (Milano 1945). Nonostante la sua estraneità alla politica attiva, nel 1942 fu aggredito da una squadra d’azione e nel 1944 fu denunciato da una spia fascista ne La Voce repubblicana.

Nel 1945 si iscrisse al Partito comunista italiano, cui aderì per breve tempo, e cominciò a collaborare con Milano Sera

Con il piede straniero sopra il cuore (Milano 1946) uscì per i Quaderni di Costume, diretti da Giancarlo Vigorelli; con il titolo Giorno dopo giorno (Milano 1947), l’aggiunta di testi e un’introduzione di Bo, fu poi ripubblicato da Mondadori, presto editore di tutto Quasimodo. 

La raccolta si apre con Alle fronde dei salici, che annuncia la rinuncia al canto per un recitativo drammatico ed eloquente.

Scomparsa nel 1946 Bice Donetti, nel 1948 Quasimodo sposò Maria Cumani. Come titolare della rubrica teatrale, collaborò per due anni con Omnibus. All’Edipo re di Sofocle (Milano 1946) e a Romeo e Giulietta (Milano 1948) seguirono altre traduzioni dai tragici greci, per lo più su commissione, e da William Shakespeare. 

In La vita non è sogno (Milano 1949), il cui titolo suona già come una ritrattazione della stagione ermetica, le poesie sono accompagnate, in modo quasi compensativo, da alcuni episodi ‘siciliani’ tratti Dalle Metamorfosi di Ovidio (apparse a stampa solo un decennio più tardi: Milano 1959).

La traduzione di autori antichi consentì a Quasimodo di continuare il corteggiamento dei miti che non si concedeva più in proprio, mentre la traduzione dei contemporanei segnò poi l’apertura internazionale di un poeta che cominciava anche a interrogarsi sulla propria traducibilità. Nel 1950 gli fu assegnato il premio San Babila.

Da Omnibus passò a scrivere su Tempo, con cui collaborò fino al 1959 come critico teatrale. Tradusse inoltre le Poesie di Pablo Neruda (Torino 1952) e, nel 1953, vinse, ex aequo con Dylan Thomas, il premio Etna-Taormina. 

Il falso e vero verde ebbe due edizioni (Milano 1954 e 1956). La seconda comprendeva anche il Discorso sulla poesia, in cui Quasimodo sostenne l’esigenza di una «poesia civile», individuando nel 1945 una sorta di spartiacque letterario: «La poesia italiana, dopo il ’45, è di natura corale […]; scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni» (S. Quasimodo, Discorso sulla poesia, in Id., Poesie e discorsi sulla poesia, cit., pp. 283-293). 

Il poeta era cosciente che la storia della poesia passava ormai attraverso la poesia della storia e che in Europa si tornava a leggere la poesia italiana: non quella ermetica, ma quella civile. Mentre anni addietro, in polemica con T.S. Eliot, Dante era ancora rigettato in nome di Petrarca e di Leopardi, all’epoca Quasimodo scrisse: «possiamo leggere Dante per dimenticare Petrarca». 

La terra impareggiabile (Milano 1958; premio Viareggio) è una summa dei miti e delle realtà del poeta: alla Sicilia, omaggiato luogo d’origine, e a Milano, infernale città della storia e della cronaca, si aggiunge la Grecia, con la testimonianza del viaggio compiuto nel 1956. Contemporaneamente uscirono le Poesie scelte di Edward Estlin Cummings (Milano 1958), il Fiore dell’Antologia Palatina (Parma 1958) e l’antologia Poesia italiana del dopoguerra (Milano 1958). Nello stesso anno Quasimodo ottenne la prima candidatura al premio Nobel, avanzata da Francesco Flora e Carlo Bo. Sul finire del 1958 compì un viaggio in Unione Sovietica, durante il quale fu colpito da un infarto che lo costrinse a una degenza di sei mesi in un ospedale di Mosca. 

Il 10 dicembre 1959 fu insignito del premio Nobel per la letteratura, ma già la notizia del conferimento era stata accompagnata da aspre polemiche («A caval donato non si guarda in bocca», scrisse Emilio Cecchi: v. I “Nobel” italiani, in Corriere della sera, 25 ottobre 1959). Nel 1960 ebbe la laurea honoris causa dall’Università di Messina e inaugurò una rubrica di corrispondenza con i lettori, dapprima su Le Ore e poi su Tempo. Separatosi da Maria Cumani, cominciò una lunga serie di viaggi all’estero. In questi anni uscì nella collana Lo Specchio di Mondadori, per cura di Carlo Bo e Sergio Solmi, l’edizione di Tutte le poesie (Milano 1960), cui seguirono gli Scritti sul teatro (Milano 1961), Mutevoli pensieri di Conrad Aiken (Milano 1963), e infine Dare e avere (Milano 1966), il cui titolo suona già come un bilancio, e le Poesie di Tudor Arghezi (Milano 1966). Nel 1967 ricevette la laurea honoris causa anche dall’Università di Oxford. 

Colpito da una emorragia cerebrale ad Amalfi, fu trasportato nella clinica Mergellina di Napoli, dove morì il 14 giugno 1968. È sepolto presso il cimitero Monumentale di Milano. 

L’attualità e persino la tipicità di Quasimodo rendono la sua opera una cartina di tornasole di ciò che, a livello di tendenze maggioritarie più che di grandi individualità, è stata la poesia italiana del pieno Novecento. Ormai non sono in pochi a pensare che Quasimodo debba essere considerato un ‘minore’, ma i fatti letterari ci dicono che è stato un ‘maggiore’ e non lo è più, avendo forse esaurito il suo tempo insieme con la sua attualità. L’importanza storica che ha avuto prescinde, tuttavia, dalla sua grandezza poetica e non può essere sottovalutata. 

Fonti e Bibl.: E. Montale, Lettere a Q., a cura di S. Grasso, Milano 1981. 

A. Angioletti, E fu subito sera, Napoli 1969; G. Zagarrio, S. Q., Firenze 1969; Q. e la critica, a cura di G. Finzi, Milano 1969, 1975; M. Gigante, L’ultimo Q. e la poesia greca, Napoli 1970; M. Tondo, S. Q., Milano 1970; C. Ferrari, Religiosità di Q., Capua 1971; G. Finzi, Invito alla lettura di Q., Milano 1972, 1992; Per conoscere Q., a cura di R. Salina Borello, Milano 1973; S. Q., a cura di P.M. Sipala – E. Scuderi, Siracusa 1975; La critica e Q., a cura di M. Bevilacqua, Bologna 1976; N. Tedesco, La terra impareggiabile. Significati e forme del mito di Q., Firenze 1977, Palermo 2002; R. De Cadaval, Simboli e realtà nella poesia di S. Q., prefazione di G. Finzi, Catania 1982; A. Quasimodo et al.Q. L’uomo e il poeta, Assisi 1983; R. Quasimodo, Tra Q. e Vittorini, Acireale 1984; E. Salibra, S. Q., Roma 1985; O. Macrí, La poesia di Q., Palermo 1986; S. Q. La poesia nel mito e oltre, a cura di G. Finzi, Roma-Bari 1986; G. Amoroso et al.Q. e il post-ermetismo, Modica 1989; N. Lorenzini, La poesia di Q. tra mito e storia, Modena 1993; G. Savoca, Concordanze delle poesie di S. Q., Firenze 1994; R. Salina Borello – P. Barbato, S. Q. Biografia per immagini, Torino 1995; Q., a cura di A. Quasimodo, Milano 1999, 2002; S. Q. nel vento del Mediterraneo, a cura di P. Frassica, Novara 2002; Nell’antico linguaggio altri segni. S. Q. poeta e critico, a cura di G. Baroni, Roma 2003; Q. e gli altri, a cura di F. Musarra – B. Van den Bossche – S. Vanvolsem, Firenze 2003; Segni e sogni quasimodiani, a cura di L. Di Nicola – M. Luisi, Pesaro 2004; A. Merini, Q., Acquaviva delle Fonti 2007; C. Ferrari, Dio del silenzio, apri la solitudine. La fede tormentata di S. Q., Milano 2008; Fra le carte di Q.: poesie, traduzioni, saggi, lettere, a cura di M. Bignamini – A. De Alberti, Roma 2008; S. Q. e gli autori classici. Catalogo delle traduzioni di scrittori greci e latini conservate nel Fondo Manoscritti, a cura di I. Rizzini, Roma 2008; V. Del Piano – A. Quasimodo, Oscuramente forte è la vita. S. Q. ‘operaio di sogni’, Roma 2009; A. Cozzolino, Q. e la poesia antica, Napoli 2012; Lirici greci e lirici nuovi. Lettere e documenti di Manara Valgimigli, Luciano Anceschi, S. Q., a cura di G. Benedetto – R. Greggi – A. Nuti, Bologna 2012.

Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento

Soldati

Si sta come 

d’autunno

sugli alberi

le foglie

Breve commento

Questo breve componimento di Giuseppe Ungaretti si trova nella raccolta L’Allegria, più specificatamente nella parte dell’opera intitolata Girovago. Questa poesia è formata da un’unica similitudine, soldati/foglie; dal punto di vista metrico, la lirica presenta due settenari divisi in quattro versi e un enjambement tra il primo e il secondo verso.

Leggendo il testo notiamo subito come quest’ultimo, insieme a moltissimi altri presenti nella medesima raccolta, si riferisca alla guerra, e sia attraversato da un presagio di morte. 

Ungaretti spiega come il sentimento d’allegria, in questo caso, scaturisca nell’attimo in cui l’uomo realizza di essere scampato alla morte. L’esperienza diretta che il poeta fa della guerra durante il primo conflitto mondiale, la quotidiana tensione verso la vita nell’atto pratico della sopravvivenza, porta al culmine tale sentimento. 

Soldati rientra esattamente in questo filone tematico: composta nel 1918, mentre Ungaretti si trovava soldato in trincea nel bosco di Courton, esprime il dramma e la precarietà del momento storico e della condizione umana. I soldati vengono qui paragonati a foglie autunnali che, ancora appese agli alberi, procedono inevitabilmente verso la caduta e la morte, vittime dello scorrere del tempo. 

Al termine “soldati” è però facilmente sostituibile quello di uomini, e alla guerra è applicabile la più ampia nozione di vita. Così ci rendiamo conto come non siano solo i militari al fronte a vivere una condizione precaria e incerta, ma come sia la natura stessa dell’essere umano a dover fare i conti con la propria finitudine. 

Il parallelismo tra uomo e foglie, immagine molto riuscita, non è una scelta letteraria innovativa operata da Ungaretti, ma possiamo ritrovarla in testi poetici anche molto antichi, ad esempio nell’Iliade

Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento

San Martino del Carso

La poesia San Martino del Carso va considerata all’interno dell’esperienza della prima guerra mondiale, che è stata primaria fonte di ispirazione per Ungaretti, tanto da costituire uno dei principali filoni tematici della sua poesia. La prima versione di questo componimento risale infatti al 1916, e il testo compare quindi nella raccoltaIl porto sepoltoche è il nucleo genetico della Allegria di naufragi del 1919.

Tipicamente ungarettiana è l’indicazione di data e luogo di stesuradi questi versi brevi e frammentati: in questo caso il “valloncello” è un percorso fortificato nei pressi del fronte goriziano di San Martino del Carso che conduceva le truppe italiane alla Cima Quattro (citata ad esempio in Veglia e Sono una creatura, rispettivamente del dicembre 1915 e dell’agosto 1916). Nel periodo di stesura di questo testo, si è da poco conclusa la sesta battaglia dell’Isonzo (4 – 17 agosto 1916).

Metro: versi liberi.

Testo

  1. Di queste case 1
  2. non è rimasto
  3. che qualche
  4. brandello di muro 2
  5. Di tanti
  6. che mi corrispondevano
  7. non è rimasto
  8. neppure tanto
  9. Ma nel cuore
  10. nessuna croce manca
  11. È il mio cuore
  12. il paese più straziato 3

Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916

Note

  1. Tratto stilistico da sottolineare di San Martino del Carso è appunto l’uso sapiente degli aggettivi deittici (cioè di tutti quegli elementi linguistici come pronomi e aggettivi dimostrativi, avverbi di luogo o tempo e così via, che indicano la situazione spaziotemporale in cui avviene la comunicazione) e dei pronomi indefiniti. Ungaretti da un lato punta infatti a collocare la propria esperienza in un clima e un orizzonte ben definito (quello tragico e straniante della guerra di trincea: “queste case”, v. 1) ma al tempo stesso eleva le sue considerazione ad un valore universale sul senso dell’esistenza e della vita umana (“qualche brandello”, v. 4; “tanti”, v. 5; “tanto”, v. 8).

2 Si noti qui la figura retorica dell’anastrofe, che consiste nell’inversione dell’ordine naturale del periodo (secondo lo schema soggetto – verbo – complementi). È un esempio di come la poetica ungarettiana, radicalmente innovativa nel proporre la parola “nuda” sulla pagina (nel rifiuto delle regole metriche convenzionali e addirittura della punteggiatura), si affidi comunque a tecniche espressive attentamente studiate, e non affatto banali o immediate.

3 Come in altri testi della raccolta, i versi conclusivi assumono valore di sentenza, e riassumono il senso della breve lirica. In questo caso, il risultato è raggiunto attraverso il procedimento dell’analogia(frequentissima ne Il porto sepolto e ne L’allegria ma tipica di gran parte della poesia del Novecento) che, rende in forma implicita una similitudine che sarebbe esplicita, abolendo il “come” che serve per instaurare il paragone. Così, dal rapporto di somiglianza si passa a quello, più forte, di identità: il “cuore” del poeta è effettivamente un “paese straziato” dalla guerra e dal dolore.

Parafrasi

  1. Di queste case
  2. non sono rimaste
  3. che delle rovine
  4. di muro
  5. Dei tanti amici e commilitoni
  6. che hanno condiviso la vita con me
  7. non è rimasto
  8. molto di più
  9. Ma nel mio cuore
  10. non manca una croce per nessun morto
  11. Il paese più devastato
  12. è il mio cuore
Pubblicato in ARTICOLI, LETTERATURA ITALIANA NOVECENTO | Lascia un commento