San Francesco d’Assisi

Vita

Francesco, figlio del ricco mercante di stoffe Pietro Bernardone e di madonna Pica (originaria della Francia meridionale), nacque ad Assisi nel 1181 (o nel 1182). Visse una giovinezza agiata ed ebbe una buona educazione letteraria: imparò il latino e studiò le letterature d’oc e d’oïl. Sganciatosi dalle attività commerciali paterne, si rivolse alla professione militare: partecipò nel 1202-1203 agli scontri tra gli assisiati e i perugini, che lo fecero prigioniero; liberato nel 1204, cercò di raggiungere l’esercito del capitano di ventura Gualtieri di Brenne, ma, giunto a Spoleto, un attacco di febbre lo costrinse a ritornare ad Assisi.
È a questo periodo che le antiche biografie fanno risalire la sua conversione, che culminò nella pubblica e «teatrale» rinuncia alla famiglia e ai beni (gennaio-aprile 1206). Dopo due anni di vita eremitica Francesco intraprese la predicazione del Vangelo con un primo gruppo di seguaci. Già nel 1210 ricevette una prima approvazione verbale da papa Innocenzo III, e al 1212 risale la conversione di Chiara, che fondò il secondo ordine francescano, quello femminile delle clarisse.
Dopo un decennio di intensissimo apostolato e di missioni evangelizzatrici nelle diverse città d’Italia, ma anche in Egitto e in Palestina, Francesco avvertì la necessità di stabilire per i propri confratelli un’organica e completa serie di precetti di vita, differente da tutte le altre «regole» monastiche. 
Tale elaborazione avvenne in due fasi, e a una Regula prima (1221) seguì la Regula secunda, detta anche «bollata» in quanto approvata ufficialmente da papa Onorio III nel 1223.
Gli anni che seguirono, segnati dalla malattia e dal progredire di una cecità che si fece pressoché completa, furono quelli delle più intense esperienze mistiche. Nel 1224, secondo la tradizione, Francesco ricevette le stimmate, sul monte della Verna, e l’anno successivo, mentre visitava Chiara a San Damiano, compose il Cantico di frate Sole.
Nel 1226 volle essere portato alla Porziuncola, presso Assisi, dove dettò in latino il proprio Testamentum (un’esortazione all’osservanza di una radicale povertà evangelica) e dove morì, il 3 ottobre. Meno di due anni dopo, il 16 luglio 1228, Gregorio IX lo proclamava santo.

Opera

È probabilmente il primo testo poetico in volgare italiano giunto sino a noi e si presenta come una “lauda” in cui il santo scioglie un commosso inno alla potenza di Dio, attraverso l’elenco degli elementi del creato che vengono quasi invitati a unirsi a lui in una preghiera comune.

Il componimento risale agli ultimi anni di vita di S. Francesco (1224-1226) e secondo un’ipotesi sarebbe stato scritto in due momenti successivi, di cui il secondo nell’imminenza della morte (risalirebbero ad allora gli ultimi versi sulle malattie e la morte, che stonano in parte con la serena contemplazione della prima parte). Non è certo che il testo fosse accompagnato dalla musica e destinato così alla recitazione, oppure destinato alla lettura come preghiera, anche se l’intonazione ricorda molto i cantici religiosi della tradizione biblica. La lingua è il volgare umbro con l’inserzione di molti latinismi e una grafia latineggiante che in parte è ancora incerta, conformemente a molti testi poetici delle Origini.

CANTICO DI FRATE SOLE

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

5 Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual’ è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore :
de te, Altissimo, porta significatione.

10 Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle,
in celu l’ai formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dai sustentamento.

15 Laudato si’, mi’ Signore, per sor ‘aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte,
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

20 Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’ , mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore,
et sostengo infirmitate et tribulatione.

25 Beati quelli ke’ l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare.
Guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali,
30 beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.

Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
et serviateli cum grande humilitate.

Il Cantico di Frate Sole o Laudes Creaturarum è una lode rivolta a Dio e alle sue creature. Secondo la tradizione San Francesco scrive il Cantico nel 1224 a San Damiano, dopo una notte di sofferenze fisiche.

I versi del perdono e quelli della morte, sempre secondo la stessa tradizione, sarebbero stati aggiunti in momenti successivi.
Dio è lodato per le sue creature. Il “per” dei versi 10, 12, 15 etc. ha ricevuto diverse interpretazioni, la più accreditata è quella che lo considera un “per” causale. Dio è lodato perché ha creato il sole, la luna e le stelle, il cielo nuvoloso e sereno, l’acqua, il fuoco, la terra, cose belle e buone per l’uomo.
Francesco rivolge la sua lode al Signore per quelli che soffrono e perdonano e saranno un giorno beati in cielo e nell’ultima strofa anche per la morte alla quale nessun uomo può sfuggire: maledetti saranno coloro che moriranno nel peccato, benedetti coloro che moriranno in pace con Dio perché saranno in salvo dalla dannazione.
Il testo di 33 versetti assonanzati è scritto in volgare umbro; si possono notare le finali in -u, tipiche di questo dialetto e le forme tronche, so’ per sono per esempio. Ci sono termini che derivano dal latino: laude, homo, aere, e altri che derivano dal francese: mentovare.
Il riferimento alla morte e alla dannazione eterna per gli uomini che muoiono nel peccato è tradizionale nella mentalità religiosa del Medioevo, nuova è invece la lode che Francesco rivolge a Dio e alle sue creature che sono belle, buone, utili per l’uomo.

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La poesia religiosa

La poesia italiana nasce in ritardo rispetto a quella di altre regioni europee. Già prima del Mille, in area francese, germanica e anglosassone vengono prodotti testi in versi d’argomento leggendario o devoto, scritti nei volgari locali; col nuovo millennio, poi, si afferma nelle città e nelle corti francesi la nuova letteratura delle chansons de geste, che narrano le leggende legate alla corte di Carlo Magno e alle gesta mitiche dei suoi paladini, mentre a sud, nelle corti provenzali, ha inizio la tradizione lirica dei trovatori.

I primi documenti di poesia italiana in volgare si collocano invece tra la fine del Cento e l’inizio del Duecento.

Come era accaduto anche nelle altre letterature romanze, il distacco dal latino è infatti spesso motivato dall’esigenza di far intendere un messaggio edificante a un pubblico di incolti. Si tratta dunque – come nel caso del Ritmo cassinese (così definito perché prodotto probabilmente nell’abbazia di Montecassino) o del Ritmo su Sant’Alessio (uno dei molti testi relativi alla leggenda del santo, diffusissima nel Medioevo) – di componimenti elementari sia per la struttura metrica e retorica, sia per i concetti adoperati (nessuna complicazione teologica ma semplici inviti alla virtù e aneddoti esemplari).

Più tardi, a partire dagli anni Venti e del Duecento, la poesia religiosa in volgare conoscerà un’espansione più organica, concentrata nelle regioni centro-settentrionali della penisola. Al Centro, spiccano due tra le massime figure della spiritualità cristiana del tempo, san Francesco d’Assisi e Iacopone da Todi, membro dell’ordine di san Francesco, al cui nome è legata l’espansione del genere poetico di materia sacra, la lauda.

A Nord, ormai nella seconda metà del Duecento, altri poeti legati alla Chiesa compongono lunghi testi di argomento morale a sfondo cristiano, ciascuno nel suo volgare nativo: i più importanti sono il veronese Giacomino, il milanese Bonvesin da la Riva e il cosiddetto Anonimo Genovese.

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Dal latino alle lingue romanze

Iniziato già dalla tarda età imperiale e accelerato dalla caduta dell’impero ro- mano d’Occidente (476 d.C.), il lento ma costante fenomeno di evoluzio- ne del latino parlato – il sermo vulgaris (cioè la lingua del popolo) – inte- ressò parecchi secoli e sfociò durante il Medioevo nell’affermazione delle cosiddette lingue neolatine o romanze.

L’aggettivo «romanzo» proviene dall’espressione latina romanice loqui, con la quale si indicava il «parlare al- la maniera dei Romani».

Tra il IX e il X secolo con questa espressione si indicava in Francia il parlare un idioma derivato dal latino – la lingua di Roma – di contro all’uso del francone, il dialetto germanico dei Franchi. In seguito, per estensione, vennero qualificate come «romanze» tutte le lingue volgari ottenute dalla trasformazione del latino nelle zone geografiche che per più tempo avevano fatto parte dell’impero romano d’Occidente.

Tali lingue sono: l’italiano, il provenzale (parlato nella Francia del sud), il francese (parlato nella Francia centro-settentrionale), lo spagnolo (o castigliano), il catalano (parlato nella Catalogna, la regione di Barcellona), il portoghese, il romeno, il ladino (parlato in Friuli e in alcune valli dell’Alto Adige e delle Alpi svizzere), il sardo. Dal modo di esprimere la risposta affermativa, l’italiano venne anche definito la lingua del , il provenzale la lingua d’oc e il francese la lingua d’oïl (oc oïl stanno entrambi per il nostro ; dalla forma oïl deriva in effetti la forma oui del francese d’oggi).

Dove l’impero di Roma non ebbe tempo di radicarsi abbastanza a lungo (come in Gran Bretagna) o dove non riuscì mai a estendersi si imposero le lingue germaniche (come l’inglese, l’olandese, l’alto e basso tedesco, il fi- ammingo, il frisone, ecc.) o, nell’Europa orientale, le lingue slave (come il russo, il serbo, il polacco, il boemo, ecc.).

Va ricordato che ogni lingua romanza fu fortemente caratterizzata, nel suo configurarsi, sia da elementi linguistici preesistenti alla conquista romana che tornavano ad affiorare (fenomeni di substrato) sia da elementi lin- guistici apportati dalle invasioni barbariche dopo la caduta di Roma (fe- nomeni di superstrato).

Il latino vero e proprio continuò ad essere utilizzato soltanto dai ceti sociali più elevati ed essenzialmente come lingua scritta nell’ambito scolastico, giuridico, letterario, scientifico, filosofico ed ecclesiastico.

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Il latino nell’alto Medioevo

V-IX sec.

La lingua della comunicazione culturale nella penisola italiana è il latino che si era imposto, dall’VIII secolo a.C., grazie alle conquiste dell’Impero Romano, in molte regioni europee.

Nel tempo, aveva raggiunto un’identità linguistica precisa. Tuttavia, nelle diverse parlate locali affioravano alcuni elementi del sostrato, che talvolta sono percepibili ancora oggi nei dialetti o nelle parlate regionali italiane.

Latino e volgari romanzi dal IX-X sec.

Il latino mantenne a lungo il suo primato culturale attraverso la Chiesa, il mondo della cultura e, nell’ultimo periodo, le università.

Dal IX-X secolo, in Europa, cominciano le testimonianze scritte dell’uso dei volgari romanzi, le lingue derivate dal latino in diverse regioni europee.

Si dà il nome di Romània all’insieme delle regioni europee in cui si diffondono le lingue derivate dal latino: penisola iberica, Francia, parte degli attuali Belgio e Lussemburgo, penisola italiana, Romania.

I primi documenti nelle lingue romanze

Il volgare all’inizio non è sentito come una lingua degna della letteratura. I letterati impiegheranno qualche secolo per concedere al volgare la dignità di lingua dell’espressione artistica.

Il sermo vulgaris è rimasto a lungo confinato all’oralità. Ciò rende rari, e pertanto particolarmente preziosi, i documenti scritti che rappresentano le prime testimonianze del suo uso.

La predicazione in “lingua romana rustica” (813)

Esempio del mutamento nell’uso della lingua èrappresentato dalle “istruzioni” date ai chierici dal Concilio di Tours (813) che impongono la predicazione in “lingua romana rustica”, cioè nei volgari locali.

Il Giuramento di Strasburgo (814)

Una reciproca promessa di alleanza strategica tra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico.
Il testo è riportato dallo storico francese della prima metà del IX secolo Nitardo, nipote di Carlomagno, nella lingua in cui venne effettivamente pronunciato, all’interno di un’opera storica in latino.

Ludovico giurò in volgare romanzo francese, Carlo in volgare germanico; ciò per facilitare la comprensione dei soldati.

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Primi documenti in lingua volgare

Indovinello veronese

Fine VIII sec. – inizio IX sec.

Il primo esempio di uso consapevole di una lingua diversa dal latino in un testo scritto è l’indovinello veronese; l’autore, un ignoto copista veneto della fine dell’VIII secolo, scrive, a margine del testo che sta copiando, questo indovinello.

Riportato a margine di un codice più antico, è la descrizione dell’atto dello scrivente da parte dello stesso amanuense. Si tratta di un indovinello comune alla letteratura tardo-latina. Alcuni studiosi lo ritengono non il primo documento in volgare italiano, bensì la testimonianza di una vase precedente del passaggio dal latino volgare al volgare italiano.

Trascrizione diplomatica


✝ separebabouesalbaprataliaaraba & albouersorioteneba

& negrosemen seminaba

✝ gratiastibiagimusomnip(oten)ssempiterned(eu)s

Interpretazione

Se pareba boves, alba pratàlia aràba
et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba

Traduzione

Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati,
e un bianco aratro teneva e un nero seme seminava

Rendiamo grazie a te, Dio onnipotente eterno

L’ultima riga, in corsivo, è ancora in latino; si tratta di una formula di ringraziamento a Dio; il testo del vero e proprio indovinello, quindi, è rappresentato dai primi due versi.

Ciò appare significativo: il copista, infatti, torna immediatamente a scegliere il latino nel momento in cui l’argomento si fa ‘ufficiale’ (il ringraziamento a Dio, appunto), confinando l’uso del volgare a un momento giocoso,leggero.

Può darsi che nell’atto di scrivere il copista abbia ideato questo paragone tra la scrittura e la semina e abbia voluto appuntarla a margine per non dimenticarla.
O potrebbe trattarsi di un momento di pausa, di attesa, in cui alleggerire il lavoro della copiatura con un giochino linguistico…

Dal punto di vista linguistico, vanno già decisamente in direzione del volgare sia la caduta delle consonanti finali delle terze persone dei verbi sia l’uso dell’accusativo dell’aggettivo negro (a rigore, nigrum).

Placito di Capua

Italia – 960

Il Placito contiene la decisione del giudice di Capua, Arechisi, chiamato a risolvere la questione del possesso di terre, rivendicate sia dagli abati del Monastero di Montecassino sia da un certo Rodelgrimo.

Il documento è quasi interamente in latino, ricco di formule giuridiche tipiche del linguaggio legale. La parte che riporta la testimonianza orale a favore degli abati, tuttavia, è trascritta dal giudice in volgare, quasi a voler sottolineare la necessità della comprensione da parte di tutti di quell’importante passaggio.

Fa parte dei quattro placiti cassinesi, ossia quattro testimonianze giurate, registrate tra il 960 e il 963, sull’appartenenza di certe terre ai monaci benedettini di Capua, Sessa Aurunca e Teano. Sono i primi documenti in volgare napoletano scritti in un linguaggio che vuole essere ufficiale e dotto. Riguardava una lite sui confini di proprietà tra il monastero di Montecassino e un piccolo feudatario locale. In questo documento tre testimoni deposero a favore dei Benedettini; di fatto le uniche parti in volgare presenti all’interno del testo.

Mentre il testo della sentenza è scritto in latino,
lingua ufficiale dei documenti e delle cancelleria, le
testimonianze sono riportate nella lingua volgare,
parlata dai testimoni. Si può dunque rilevare la consapevolezza, da parte dei compilatori, dell’esistenza di una lingua dell’uso quotidiano ormai completamente distinta dal latino.

Trascrizione diplomatica

“Sao ke kelle terre
per kelle fini que ki contene trenta anni le possette

parte Sancti Benedicti.”

Traduzione

So che quelle terre, all’interno di quei confini che le contiene, le possedettero per trent’anni i santi [monaci] benedettini.

Dal punto di vista linguistico, sono evidenti gli elementi già decisamente volgari:

  • –  l’uso della consonante k,
  • –  l’uso di trenta (in latino, triginta),
  • –  l’uso del pronome “le” (in latino illas).

La Postilla amiatina (1087)

La Postilla è in un testo, redatto dal notaio Rainerio nel 1087, che definisce una donazione terriera a favore di un monastero, fatta da tale Micciarello, soprannominato“capoduro” (caput coctu).

Ista cartula est de caput coctu Ille adiuvet de illu rebottu
Qui mal consiliu li mise in corpu Questa piccola carta è di Capocotto Quella lo aiuti contro il Maligno

Che gli mise in corpo un cattivo consiglio

La postilla (aggiunta all’atto notarile in un momento successivo) indica l’auspicio che la donazione fatta da Micciarello abbia la funzione di liberarlo dalla presenza del maligno, che in passato gli ha ispirato comportamenti negativi.

Dal punto di vista linguistico, si tratta di un testo curato, scritto in una struttura metrica non chiara, ma in rima.
Il maggiore scarto rispetto al latino tradizionale è rappresentato dall’uso di “illu”, da cui deriva l’articolo “il” in tutte le lingue romanze.

Iscrizione di San Clemente

Roma – XI sec.

Negli affreschi della Basilica Inferiore di San Clemente sono raffigurati alcuni miracoli attribuiti al santo. In uno di essi è raccontata la leggenda miracolistica del prefetto Sisinnio, che, arrabbiato a causa della conversione della propria moglie Teodora, la seguì con alcuni servitori. 

Quando la trovò

in una sala mentre assisteva ad una messa celebrata da Clemente, roso dal sospetto che la moglie avesse una relazione con il santo, ordinò l’arresto di questi, ma Dio non lo

permise rendendo ciechi Sisinnio e i servitori. Il prefetto restò cieco fino al suo ritorno a casa.
La parte dell’affresco che ci interessa rappresenta il patrizio Sisinnio nell’atto di ordinare ai suoi servi (Gosmario, Albertello e Carboncello) di legare e trascinare San Clemente, che, nel frattempo, si è trasformato in una colonna di marmo. Si leggono, come in un fumetto, delle espressioni di vario registro linguistico, la cui attribuzione è fortemente discussa. Anche in questo caso convivono il volgare parlato dai servi e da Sisinnio con chiare influenze romanesche, con il latino dotto ed ecclesiastico parlato dal Santo.
La proposta più condivisa è riportata di seguito.

Trascrizione diplomatica


Sisinium: “Fili de le pute, traite”
[Carbocellum]: “Gosmari, Albertel, traite”
[Albertel]: “Falite de retro co lo palo, Carvoncelle!”
San Clemente: “Duritiam cordis vestri, saxa traere meruistis.”

Traduzione

Sisinnio: “Figli di puttana, tirate!”
[Carboncello]: “Gosmario, Albertello, tirate!”
[Albertello]: “Carvoncello, spingi da dietro con il palo!”
San Clemente: “A causa della durezza del vostro, avete meritato di trascinare sassi.”

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Grazia Deledda

Vita e opere

Nacque il 27 sett. 1871 a Nuoro, tra le periferie culturali più remote d’Italia, da Giovanni Antonio e da Francesca Cambosu. Pur formatasi in seno a una famiglia discretamente abbiente, la vicenda della D. non può essere disgiunta dalla particolare situazione storica della condizione femminile, non soltanto in Sardegna, ma in quasi tutto il resto d’Italia all’indomani dell’Unità nazionale. Non che nell’intera opera deleddiana siano frequenti e tanto meno politicamente consapevoli gli accenni alla questione femminile. Contrariamente a un’altra scrittrice sua contemporanea, quella Sibilla Aleramo che già nel 1906 pubblicava Una donna, libro di rivolta e di rinascita coscienziale, la D. non fu mai impegnata sul piano del femminismo, anzi è lecito supporre una sua istintiva avversione agli stessi termini. Ma accostandosi alla sua opera ormai a distanza di più di un secolo dalla nascita dell’autrice, dopo l’inevitabile lezione sociologica, non si può non tener conto di certi dati storici. Uno di questi riguarda la formazione scolastica, che solitamente per le donne non andava al di là di alcune classi elementari. La D. infatti frequentò sino alla quarta classe, così come l’Aleramo. Giova ricordarlo perché entrambe furono accomunate dalla medesima insufficienza scolastica, oltre che dall’ostilità intellettuale, palese o sottaciuta, da cui era circondata una donna che si dedicava alla vita dell’arte. Se la D. non avesse avvertito, giusto al termine della sua esistenza, il bisogno di scrivere quella parziale autobiografia, peraltro celata sotto le spoglie del romanzo, nota col titolo di Cosima (1937, postumo), sarebbe pressoché impossibile ricostruire almeno alcuni momenti salienti della sua vicenda umana: tanto la sua vita fu misera di esperienza diretta del mondo nella misura stessa in cui fu ricchissima, addirittura pletorica, la produzione romanzesca. Cosimaquasi Grazia fu il titolo con cui Antonio Baldini pubblicò quell’opera per la prima volta, poco dopo la morte dell’autrice, nei numeri di settembre e di ottobre 1936 della Nuova Antologia, e nelle note che vi appose rintracciò puntualmente tutti i nessi che legano il racconto alla realtà biografica della Deledda.

Pur sotto forma romanzesca Cosima/Grazia narra gli anni che vanno dai suoi primi ricordi fino alla partenza da Nuoro, prendendo le mosse non dal luogo geografico e culturale della sua nascita (Nuoro, l’isola di Sardegna), ma dalla casa paterna: obbligato topos dell’anima per una donna come la Deledda, che rimase sempre ancorata a una concezione patriarcale dell’esistenza. Molte pagine di Cosima sono dedicate all’esplorazione con occhi d’infanzia della rustica semplicità della sua casa nuorese, tema rielaborato più volte nelle trame romanzesche. L’arcaica quiete domestica è dominata dalla figura del padre Antonio verso il quale la D. dovette avere un importante trasporto, superiore a quello verso la madre, ritratta con velata stizza nei panni della più abulica sottomissione, della più religiosa rassegnazione.

In Cosima si apprende che gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza della D. furono segnati da una ininterrotta catena di sciagure.

Un fratello, Santus, precipita nell’alcolismo sino al delirium tremens, l’altro fratello, Andrea, viene arrestato, anche se per piccoli furti, provocando la morte di crepacuore del padre, e la conseguente perdita dell’agiatezza. La sorella Giovanna muore di angina in tenera età, e un’altra sorella, Enza, muore a ventun’anni in un tentativo di aborto, attanagliata dal senso di colpa per aver sposato un uomo di condizione inferiore fra l’esecrazione dei parenti. Una terza sorella, Beppa, verrà invece atrocemente beffata dopo la promessa di fidanzamento fattale da un pretendente “continentale”. Si trova nel romanzo inoltre qualche fugace accenno ai difficili esordi sessuali di Cosima/Grazia, i quali danno la misura del clima di feroce arretratezza che incatenava l’esistenza della scrittrice. Si tratta in fondo dei casti baci ricevuti furtivamente da Fortunio “il figlio illegittimo della serva del cancelliere”, zoppo in Cosima, nella realtà, secondo quanto ci informa Baldini, guercio.

Queste difficoltà ambientali, unite al clima di soffocante pregiudizio verso la sua nascente vocazione letteraria, dovettero maturare nella D. quei fermi propositi di fuga dall’ambiente nuorese e sardo, che in seguito si realizzeranno soltanto grazie all’unica soluzione possibile per una donna del suo tempo (a meno di possedere un’idea di ribellione sociale, peraltro mai presa in considerazione dalla scrittrice sarda), vale a dire: il matrimonio. La meta della fuga, il luogo del sogno è Roma. Proprio a una rivista romana la D. inviò la sua prima novella, cui seguirono generosi incoraggiamenti e l’invito a inviarne altre. Ma non saranno ancora questi primi, fuggevoli successi a consentirle il sognato abbandono dell’isola: bisognerà aspettare ancora. Sino a quando a Cagliari, in un’aura un po’ inverosimile come in quelle fiabe tanto amate dalla scrittrice nell’infanzia, Cosima/Grazia incontra “l’uomo della salvezza”: l’impiegato romano Palmiro Madesani, che la D. sposerà nel giro di pochi mesi, trasferendosi con lui finalmente a Roma.

Invano si cercherebbe in questa speciosa autobiografia qualche traccia di analisi critica della sua origine, delle difficoltà della sua formazione, dell’ambiente semibarbarico che l’aveva pesantemente condizionata. Cosima è invece un libro di ricordi espressi in modo lirico con spiccata tendenza al meraviglioso e al miracolistico, come se la scrittrice rendesse grazie alle tragedie che l’hanno circondata perché le pene della vita sono la gioia dell’arte. Nessuna vena di amarezza, nessun moto di condanna di quell’universo chiuso e reazionario che ormai certa cultura del Novecento insegnava a leggere in termini del tutto nuovi. Ma è certo rivelatore l’estremo impulso che la D. ebbe verso una scrittura, almeno in parte, autobiografica. Significa che avvertì, dopo tanto profluvio di costruzioni romanzesche, dopo aver così a lungo rimescolato, da dotatissima narratrice qual’era, le carte della sua personale esistenza nel gioco felice delle trame, un bisogno di diretta autenticità. Dovette insomma sentire che alla completezza, alla spiegazione della sua opera mancava la rappresentazione non mediata della scena originaria da cui era scaturita buona parte della sua drammaturgia narrativa. Solo che ancora una volta, nonostante il desiderio, i nodi irrisolti del suo pudore, la sua intima repressione di donna non liberata hanno prevalso, e Cosima, occasione mancata, risulta un insieme di sublimazioni e reticenze, pur letterariamente impeccabili, che tutto sommato poco aggiunge alla conoscenza del suo mondo. Solo se letta in controluce questa velata autobiografia diventa insostituibile almeno per intendere i procedimenti tecnici della narrativa deleddiana. In tal senso in Cosima è la spiegazione di tutto. Si comprende allora che l’universo ambientale dei suoi romanzi è estremamente limitato (“l’epopea del vicinato”, lo definì il Borgese), la percentuale di esperienza vissuta in modo diretto anch’essa minima. E tuttavia la straordinaria capacità inventiva (all’origine della quale non è estranea la sua soffocante condizione di donna), che la pone fra gli autori più dotati della nostra letteratura, seppe comporre aggregando e disgregando quasi sempre le stesse storie, riciclando gli stessi personaggi con un’infinità di spostamenti e di sostituzioni, una lunghissima, anche se spesso ripetitiva, rapsodia letteraria. Cosima contiene in sintesi tutta l’ideologia poetica cara alla scrittrice sarda. Vi domina terribile il suo primordiale pensiero con compiaciuta insistenza: “La vita segue il suo corso fluviale, inesorabile: vi sono tempi di calma e tempi torbidi, a cui nulla può mettere riparo: e invano si tenta di arginarla, di mettersi anche di traverso nella corrente per impedire che altri ne venga travolto. Forze occulte, fatali, spingono l’uomo al bene o al male; la natura stessa, che sembra perfetta è sconvolta dalle violenze di una sorte ineluttabile“.

Vi predomina incontrastato il celebre trinomio colpa-castigo-espiazione (e redenzione), così spesso invocato per spiegare la poetica deleddiana, catena causale generata dal peccato originale che sta all’inizio del terrore della vita: “…un terrore che non l’abbandonò mai più, sebbene oscuramente sepolto da lei in fondo al cuore come il segreto di una colpa misteriosa e involontaria: l’antica colpa dei primi padri, quella che attirò nel mondo il dolore e ricade indistintamente su tutti gli uomini”. Questa colpa è nella D. sostanzialmente il peccato dell’eros, peccato inevitabile, che fatalmente abbatte sugli uomini la pesante catena dei castighi.

Ma la colpa è causata dal costume che agisce repressivamente sull’eros. Siamo molto vicini al cuore della tragedia classica, ma senza il mito dell’eroe che si rivolta. La D. accetta cristianamente l’ineluttabilità e del costume e della colpa. Non resta che la via di una continua espiazione, che in buona parte dell’opera costituisce il limite dell’arte deleddiana. Perché lo stesso pathos in essa è il male, e non l’etico orgoglio umano dell’eroe tragico che viola l’ethos divino nemico degli uomini, sino a concludere la sua parabola di rivolta in una laica catastrofé. Il pathos genera la colpa, e la colpa – per la D. l’infrazione dei tabù ancestrali – significa precipitare nella spirale del peccato. La tragedia classica, sfiorata varie volte dalla scrittrice sarda, s’immiserisce, così come la sua arte, per l’ibrida mescolanza con la favola biblico-cattolica. Inconsapevoli elementi del mito tragico mediterraneo si confondono con la cultura ispano-cattolica del demonismo sessuale, insieme alla originaria formazione letteraria della D., che fu di tipo tardoromantico e melodrammatico: in ultima analisi, piccoloborghese. A nostro avviso, una causa psicologica del senso di colpa che aleggia un po’ ovunque nei romanzi deleddiani può essere cercata nel “peccato di sradicamento”. L’abbandono dell’isola-terra-madre può venir vissuto – soprattutto in una donna – come peccato originale del tradimento degli affetti nativi. S’innesca così la necessità dell’espiazione, magari attraverso la letteratura, di una supposta indegnità.

È sintomatico che la storia di Cosima/Grazia si arresti con l’arrivo a Cagliari, preludio al matrimonio, alla partenza definitiva dall’isola, al trasferimento a Roma. Da quell’anno 1900 in poi, sino alla morte, la D. sembra quasi non vivere più. Scrive soltanto e pubblica romanzi e racconti con una cadenza quasi annuale, chiusa in una esistenza ritiratissima, tutta dedita alla famiglia e al lavoro, come se la sua vita di donna non meritasse più di avere un’esistenza propria. Consegnatasi ad un uomo, ad un marito, costituito il nucleo familiare, la donna che era stata sino a quel momento cede il posto alla sposa, alla madre, alla scrittrice, la quale, non volendo più esperire ulteriormente il mondo, non ritenendo sufficientemente interessante la sua nuova condizione, si proietta con tutto il potere della fantasia nel passato abbandonato con la partenza dalla Sardegna e col matrimonio. Questa “seconda vita” della D. è tutta letteraria. L’unico avvenimento di rilievo fu l’assegnazione del premio Nobel per il 1926, avvenuta il 10 sett. 1927.

La D. morì a Roma il 16 ag. 1936.

Pubblicò la sua prima novella nel 1886, all’età di quindici anni, su un giornale nuorese. Due anni dopo cominciò a collaborare alla rivista romana Ultima moda con la novella Sangue sardo, interessante per comprendere il retroterra culturale della D. perché essa segue interamente i modi del romanzo d’appendice. Si sentono alle spalle autori come Dumas, Ponson du Terrail, Balzac, la Invernizio, Eugène Sue, che la D. definì “quel gran romanziere glorioso o infame, secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l’anima di un’ardente fanciulla”.

Seguì il volume di novelle Nell’azzurro (1890) dove di già l’autrice annuncia il suo desiderio di scrivere della propria infanzia: “Se io avessi un giorno la penna di un grande scrittore, l’adopererei per scrivere le memorie della mia infanzia”. All’inizio della sua carriera dunque troviamo un’intenzione autobiografica, propria d’altronde agli scrittori che incominciano a scrivere troppo presto, però altrettanto presto abbandonata. Già nel romanzo Fior di Sardegna (1892) mescolerà biografia e invenzione; in esso alcuni hanno voluto intravedere inizi veristici. La stessa D., scrivendo nel 1891, considerava il romanzo alquanto “verista”: “se verismo può dirsi il ritrarre la vita e gli uomini come sono o meglio come li conosco io”. Nel 1895 la pubblicazione del saggio Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna sta a indicare questo maturarsi dell’interesse folkloristico (assai più che veristico).

Ma a consacrare la sua fama di scrittrice verista doveva venire la recensione di L. Capuana a La via del male (1896), e con essa l’indicazione per la D. ad abbandonare l’insulso tardoromanticismo degli esordi (che di fatto non abbandonò mai del tutto), rivolgendosi invece più addentro all’ambiente sardo, secondo il credo verista e regionalista di cui lo scrittore siciliano era allora l’araldo.

La via del male è già un tipico romanzo deleddiano. In esso “… intorno al tema colpa-castigo troviamo nel giro di poche righe: maledizionedestinocastigocoscienzacastigatamalecolpaladroomicidapredatoreinnocenzacolpevoledelittotradimentocastigogiudiceetc.” (Piromalli). Precedentemente anche Anime oneste (1895), romanzo dei buoni sentimenti, dove avvertibilissima è l’influenza deamicisiana, aveva avuto una prefazione di R. Bonghi.

Comincia così per la D. una notorietà nazionale che ininterrottamente l’accompagnerà per tutta la vita. I rimanenti romanzi del periodo sardo, Il tesoro (1897), La giustizia (1898), Il vecchio della montagna (1900), pur rivelando che la sua scrittura si va facendo più ricca e articolata, e le trame meno complicate e peregrine, offrono poco di rilevante per la conoscenza della sua vicenda letteraria. Di importanza centrale saranno invece le opere – le più tipicamente deleddiane – di quello che si può chiamare il primo periodo romano. Lontana da Nuoro, dal suo ambiente originario massicciamente condizionante, la D. pare tornare ai suoi prediletti intrecci sardi con una conquistata oggettività, e anche con una maggiore serenità narrativa che s’avverte dall’incontrastato e ridondante lirismo che pervade le opere cui è maggiormente affidata la sua fama. Ricordiamo Elias Portolu (1903), tipica storia deleddiana dell’impossibilità di opporsi al male, posta in rapporto dialettico con la possibilità invece della redenzione attraverso la sofferenzaCenere (1904), da cui fu tratto un film, l’unico che ebbe come interprete Eleonora Duse: dramma tenebroso dove tutto “la vita, la morte, l’uomo” è cenere. E poi L’edera (1908), le novelle di Chiaroscuro (1912), Colombi e sparvieri (1912), il notissimo Canne al vento (1913)., uno dei suoi più celebrati romanzi, Marianna Sirca (1915), L’incendio nell’oliveto (1918).

Con Il segreto dell’uomo solitario (1921) la D. inizia una sorta di seconda maniera, avvicinandosi ai modi del romanzo psicologico. La sua tipica problematica morale qui viene abbandonata, lo stesso paesaggio – tante volte protagonista nei suoi romanzi – non è più quello tipicamente sardo dell’Orthobene con le desolate tancas e i primordiali pastori, ma simbolicamente una spiaggia solitaria dove Cristiano, il protagonista, ha scelto di vivere in compagnia del suo segreto: una lunga, traumatica degenza in manicomio. Anche in Annalena Bilsini (1927) il paesaggio non è più quello sardo, ma addirittura quello padano, così come era avvenuto due anni prima con La fuga in Egitto (1925), melodrammatico romanzo sovraccaricato di stucchevole lirismo, dove la scena è posta sulle rive dell’Adriatico.

Passando gli anni, accrescendosi la distanza temporale e culturale che l’andava sempre più allontanando dalla Sardegna, in fondo principio e fine della sua ispirazione, la vena deleddiana mai più rinnovatasi con nuove, vitali esperienze, tentò di adattarsi alle nuove istanze estetiche postnaturalistiche. Ma gli ultimi romanzi, La danza della collana (1924), Il paese del vento (1931), L’argine (1934), fatta la sola eccezione di Cosima (1937) che, con tutti i limiti di cui s’è detto, contiene alcune fra le migliori – e più sincere -pagine di tutta l’opera, confermano l’irrimediabile affievolirsi di una ispirazione che non fu mai sostenuta da una reale saldezza di cultura.

È spesso tipico degli scrittori d’origine provinciale e per giunta di formazione autodidattica mantenersi alquanto periferici rispetto alla storia. Nel caso della D. tale perifericità fu tra le ragioni di un successo che in vita mai le venne meno. I suoi scritti apparvero presto accessibili ai lettori della piccola Italia d’allora, periferici anch’essi rispetto al resto dell’Europa, incontrando un favore che rimase sconosciuto ai contemporanei Svevo, Tozzi, Pirandello. E non sorprende che la D., proprio in virtù della sua antistorica formazione, abbia potuto con tanta facilità mescolare l’apologo cristiano-romantico alla maniera di Chateaubriand (Les Martyrs fu una delle sue prime letture) con il feuilleton italiano e d’Oltralpe, la letteratura deamicisiana con la narrativa russa di moda dopo la grande guerra, e colare tutto questo amalgama in un ambiente sardo surrettiziamente verista, via via alonato di echi decadentistici, e nelle ultime opere persino del romanzo psicologico, quasi senza soluzione di continuità. La critica deleddiana è stata sempre assai divisa. I giudizi discordano in maniera sconcertante, come già ammetteva N. Sapegno in un suo saggio del 1947.

La scrittrice sarda non piacque a Renato Serra che la riteneva mediocre, e la metteva sullo stesso piano di un altro “mediocre”: Luigi Pirandello! Né piacque al Pancrazi e al Croce, il quale non riusciva a raccapezzarsi fra i suoi numerosi romanzi: “che non sarebbe agevole differenziare tra loro nel loro merito artistico, essendo a un dipresso tutti del pari plausibili, e nessuno così fatto da imprimersi profondamente nel cuore e nella fantasia dei lettori”. Fu più gradita invece a critici come E. Cecchi che arrivò ad accostarla al D’Annunzio della Figlia di Jorio e della Fiaccola sotto il moggio, così come a studiosi del tipo di A. Bocelli ed E. De Michelis, che la collocarono nettamente nella direzione del gusto decadentista. Posizione a parte assunse il Momigliano che avvicinò la scrittrice sarda ai romanzieri russi dell’Ottocento, affrancandola sia dal verismo che dal decadentismo. In verità la particolare formazione di autodidatta della D. impedisce di includerla in categorie critiche tanto vincolanti come naturalismo, verismo, decadentismo.

La D. appartiene innanzitutto a quella razza di puri narratori impegnati soltanto nel raccontare. È vero comunque che una definizione completa e organica dell’arte deleddiana è ancora lungi dall’apparire. Equilibrato è il giudizio del Sapegno che tentò di illustrare di che sostanza fossero fatti i due corni del dilemma critico deleddiano, l’irrisolta compresenza di verismo e decadentismo: “Fin dai primi libri, la tecnica verista, il folklore regionale furono per lei soprattutto un pretesto a sfogare, attraverso il pittoresco decorativo e stilizzato del paesaggio e dei personaggi di un mondo primitivo e favoloso, la radice lirica e romantica della sua ispirazione… Un lirismo ingenuo, e non decadentistico: che tende a rapprendersi e a condensarsi in figure morali, in spunti di parabole, e si rispecchia nel fondo etnico di una concezione elementare della vita, nella moralità opaca e superstiziosa, pregna di ragioni religiose e magiche, della Sardegna più arcaica e più chiusa”.

Oggi lo stanco dilemma verismo/decadentismo appare del tutto scaduto, così come forzate e sterili appaiono anche le teorie critiche avanzate di recente secondo le quali la D. sarebbe stata verghianamente sensibile alla crisi socioeconomica che dette inizio alla dissoluzione della società sarda sul finire del secolo scorso sotto i colpi (ma sarebbe il caso di dire i lontani echi) dell’avanzante industrialismo. I temi drammatici della scrittrice sarda non sono generati dalle conseguenze dei mutamenti sociali, ma da una concezione della vita moralistica e provinciale, dalla quale non è estraneo un certo attardato cattolicismo. Se la D. insistette poi tanto a lungo su modi che solo in apparenza sono veristici fu per una ragione di successo, il quale spesso arride al folklorismo, specie in una società culturalmente arretrata come l’italiana. Man mano che il Novecento avanzava, avvertì anche lei le mutate esigenze del gusto, e cercò di adattarvisi, ma inadeguatamente. Infatti, la D. sembra quasi non avvertire nulla dei drammatici avvenimenti di quegli anni; la crisi e il dissolvimento del regime politico liberale, la guerra mondiale, l’avvento del fascismo. Chiusa nella protettiva placenta di una vita familiare avulsa dalla società circostante, con lo sguardo rivolto soltanto a un mondo remoto, andava avanti come se la storia intorno a lei fosse una pura casualità, sviluppando temi privi di consapevolezza culturale, generati da una passione piccoloborghese di narrare a tutti i costi storie da moralistico feuilleton (soprattutto nelle ultime opere). Anche per questa ragione nessun romanzo, come già è stato detto dal Croce, spicca fra gli altri per una ragione sua propria: ogni storia è la rimanipolazione della precedente, e l’opera necessaria, quella che riassume tutto il bisogno, tutta la ricerca esistenziale di un poeta non appare mai. La D., mantenendo costante, senza sussulti, senza inquietudini, la sua perifericità, ha mancato la vita del secolo, e oggi fatalmente vien meno nell’interesse dei lettori.

Opere: Narrativa: Nell’azzurro (novelle), Milano-Roma 1890; Amore regale (novelle), Roma 1891 in appendice Amore lontano); Stelle d’Oriente, Cagliari 1891; Amori fataliLa leggenda neraIl ritratto (novelle), Roma 1892; Fior di Sardegna, ibid. 1892; La regina delle tenebre (racconto), Torino 1892; Sulle montagne sarde (storie di banditi), Roma 1892; Racconti sardi, Sassari 1894; Anime oneste, Milano 1896; La via del male, Torino 1896; Il tesoro, ibid. 1897; L’ospite (novelle), Rocca San Casciano 1898; Giaffah (racconti per ragazzi), Milano-Palermo 1899; La giustizia, Torino 1899; Le tentazioni (novelle), Milano 1899; I tre talismani (fiaba), Milano-Palermo 1899; Il vecchio della montagna, Torino 1900; Dopo il divorzio, ibid. 1902 (ripubblicato nel 1920, Milano, col titolo Naufraghi in porto); La regina delle tenebre (novelle), Milano 1902; Elias Portolu, Torino 1903; Cenere, Roma 1904; I giuochi della vita (novelle), Milano 1905; Nostalgie, Roma 1905; L’edera, ibid. 1906; Amori moderni (racconti), ibid. 1907; L’ombra del passato, in La Nuova Antologia, 1° gennaio-16 marzo 1907; Il nonno (novelle), Roma 1909; Il nostro padrone, Milano 1910; Sino a confine, ibid. 1910; Nel deserto, ibid. 1911; Chiaroscuro (novelle), ibid. 1912; Colombi e sparvieri, ibid. 1912; Canne al vento, ibid. 1913; Le colpe altrui, ibid. 1914; Marianna Sirca, ibid. 1915; Il fanciullo nascosto (novelle), ibid. 1916; L’incendio dell’oliveto, ibid. 1918; Il ritorno del figlioLa bambina rubata (racconti), ibid. 1919; La madre, ibid. 1920; Cattive compagnie (novelle), ibid. 1921; Il segreto dell’uomo solitario, ibid. 1921; Il Dio dei viventi, ibid. 1922; Il flauto nel bosco (novelle), ibid. 1923; La danza della collana, ibid. 1924; La fuga in Egitto, ibid. 1925; Il sigillo d’amore (novelle), ibid. 1926; Annalena Bilsini, ibid. 1927; Il vecchio e i fanciulli, ibid. 1928; La casa del poeta (novelle), ibid. 1930; Il dono di Natale (novelle), ibid. 1930; Il paese del vento, ibid. 1931; La vigna sul mare (novelle), ibid. 1932; Sole d’estate (novelle), ibid. 1933; L’argine, ibid. 1934; La chiesa della solitudine, ibid. 1936; Cosima, ibid. 1937; Il cedro del Libano (novelle), ibid. 1939.

Poesie: Paesaggi sardi, Torino 1896; Versi e prose giovanili, a cura di Antonio Scano, Milano 1938. Teatro: Odio vince (bozzetto drammatico), in Il vecchio della montagna, Milano 1912; L’edera, ibid. 1912; Cenere (riduzione cinematografica per Eleonora Duse), Roma 1916; La grazia (dramma pastorale), Milano 1921; A sinistra (bozzetto drammatico), in La danza della collana, ibid. 1924. Saggistica: Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, Roma 1894; Le più belle pagine di Silvio Pellico, Milano 1923; Letture, in Il libro della terza elementare, Roma 1930. Traduzioni: H. De Balzac, Eugenia Grandet, Milano 1930. Le lettere più importanti della Deledda sono raccolte in: Versi e prose giovanili, cit., pp. 231-70; Onoranze a GD., a cura di M. Ciusa Romagna, Nuoro 1959, pp. 49-115; G. Deledda, Opere scelte, Milano 1964, I, pp. 923-1120, GDeleddaPremio Nobel 1926, Milano 1966, pp. 239-595.

Fonti e Bibl.: L. Capuana, Gli ismi contemporanei, Catania 1898, pp. 153-61; G. A. Borgese, GD., in La vita e il libro, Torino 1911 (rist. s. 2, Bologna 1928, pp. 78-85); A. Baldini, Grazia Bravamano, in Salti di gomitolo, Firenze 1920, pp. 109-13; L. Russo, I narratori, Roma 1923, pp. 153-56; P. Pancrazi, GD., in Venti uominiun satiro e un burattino, Firenze 1923, pp. 89-101; D. H. Lawrence, introd. a G. Deledda, The Mother, Londra 1928 (trad. it. in Ichnusa, III, [1951], pp. 52-55); M. Mundula, GD., Roma 1929; G. Chroust, GDe la Sardegna, Roma-Milano 1932; B. Tecchi, I romanzi sardi della Deledda [1926], in Maestri e amici, Pescara 1934, pp. 31-43; A. Bocelli, In morte di GD., in Nuova Antologia, 1° sett. 1936, pp. 88 s.; E. De Michelis, GDe il decadentismo, Firenze 1938; G. Desì, Il verismo di GD., in L’Orto, VIII (1938), pp. 34-45; P. Pancrazi, I due tempi della D., in Ragguagli di Parnaso, Bari 1941, pp. 41-50; B. Croce, D. [1934], in La letteratura della nuova Italia, VI, Bari 1945, pp. 312-21; P. Pancrazi, GD., in Scrittori d’oggi, III, Bari 1946, pp. 49-55; N. Zoja, GD., Milano 1949; L. Roncarati, L’arte della D., Firenze-Messina 1949; F. Flora, GD., in Saggi di poetica moderna, Messina-Firenze 1949, pp. 177-84; A. Momigliano, Storia della letteritaliana, Milano-Messina 1953, pp. 589-96; Id., Intorno a GD. [1946] e Lettere e note autobiogrinedite di GD. [1937], in Ultimi studi, Milano 1954, pp. 79-82 e 83-94; R. Serra, Scritti, Firenze 1958, pp. 327 s.; N. Sapegno, Ricordo di GD. [1947], in Pagine di storia letter., Palermo 1960, pp. 383-94; G. Petronio, GD., in Letteratura ital., I contemporanei, I, Milano 1963, pp. 137-58; E. Cecchi, GD., in Storia della letterital., IX, Il Novecento, Milano 1969, pp. 539-49; M. Massaiu, La Sardegna di GD., Milano 1972; V. Spinazzola, GDe il pubblico, in Problemi, gennaio-marzo 1973, pp. 269-77; M. Giacobbe, GDIntroduzione alla Sardegna, Milano 1974; A. Piromalli, in Novecento, III, Milano 1979, pp. 2613-70; O. Lombardi, Invito alla lettura di GD., Milano 1979; A. Dolfi, GD., Milano 1979.

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Primo Levi

Vita e opere

Nacque a Torino, il 31 luglio 1919, da Cesare e da Ester Luzzati.

I genitori erano ebrei piemontesi (il padre, ingegnere, aveva talvolta soggiornato all’estero per lavoro), si erano sposati nel 1918 e dal matrimonio, oltre al L., al quale era stato dato il nome del nonno paterno, nacque anche una figlia, Anna Maria, nel 1921.

Nel 1934 il L. fu iscritto al ginnasio-liceo Massimo d’Azeglio di Torino, dal quale si licenziò nel 1937. Furono questi gli anni della sua prima formazione scientifica e dell’inizio della “vocazione chimica“, che si manifestarono e si svolsero parallelamente a una diligente carriera scolastica.

Il L. compensò l’istruzione ricevuta presso il liceo, che privilegiava il sapere umanistico su quello scientifico (“congiura gentiliana” la definì lo stesso L.), anche grazie alle letture che gli venivano procurate dal padre: “mio padre ha fatto caute pressioni per mandarmi dalla parte scientifica; anche lui era un bibliofilo, comperava libri a caso, e aveva passioni di autodidatta […]. A me comperava la bella serie di Mondadori di divulgazione scientifica, I cacciatori di microbiL’architettura delle cose, un primo libro sulla genetica che stava ancora nascendo – siamo all’inizio degli anni Trenta -, L’uomo questo sconosciuto di Carrell, che era di Bompiani; e una Introduzione alla stupidità umana di Wilkins, mi pare” (P. Levi – T. Regge, Dialogo, a cura di E. Ferrero, 2ª ed., Torino 1987, p. 12).

Negli anni del liceo il L. iniziò a compiere gite in montagna e successivamente questa abitudine divenne anche pratica dell’alpinismo.

In una intervista del 1984 il L. rievoca le motivazioni, umanistiche e scientifiche insieme, del suo amore per la montagna.

“Attraverso quelle pagine [di Eugen Guido Lammer, Fontana di giovinezza; di Edward Whymper e di Alfred Frederick Mummery] era pervenuta fino a noi l’idea di misurarsi sempre con l’estremo e che l’essenziale è fare sempre il massimo […]. Ora, la passione della montagna era complice della passione per la chimica, nel senso di ritrovare in montagna gli elementi del sistema periodico, incastrati tra le rocce, incapsulati tra i ghiacci, e cercare di decifrare attraverso essi la natura della montagna, la sua struttura, il perché della forma di un canalino, la storia dell’architettura di un seracco” (P. Levi, Conversazioni e interviste, 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Torino 1997, p. 30).

Nel 1937 si iscrisse alla facoltà di scienze dell’Università di Torino per seguire il corso di laurea in chimica. Come conseguenza dell’emanazione delle leggi sulla razza da parte del regime fascista nel novembre 1938, il L. ebbe difficoltà a trovare un docente che gli permettesse di fare una tesi sperimentale e non compilativa: riuscì in ogni caso a laurearsi nel luglio del 1941, ottenendo la votazione piena e la lode.

Subito dopo la laurea iniziò per il L. la pressante ricerca di un lavoro a causa della malattia del padre, che morì nel 1942. Il L. fu impiegato, dal dicembre 1941 al giugno 1942, in una cava di amianto che si trovava nei pressi di Lanzo, dove, a causa delle leggi razziali, non poteva figurare come lavoratore regolare e dove aveva il compito di isolare ed estrarre dai materiali di risulta della cava il nichel che sarebbe servito all’industria bellica. Successivamente il L. trovò un lavoro più remunerativo e regolare presso la Wander, un’azienda svizzera di medicinali con sede a Milano, dove ebbe il compito di studiare i composti chimici utili a curare il diabete. 

Questo nuovo impiego costrinse il L. a lasciare Torino per trasferirsi a Milano. Qui frequentò assiduamente un gruppo di giovani ebrei di origine torinese, tra i quali sua cugina, Ada Della Torre – presso la quale egli soggiornava -, Eugenio Gentili Tedeschi, Silvio Ortona, Carla Consonni, Emilio Dierna e Vanda Maestro, che, deportata con il L., morì ad Auschwitz. 

Alla data dell’8 sett. 1943 il L., che, come i suoi amici milanesi, era già entrato in contatto con alcuni membri del Partito d’azione (Pd’A) e del Comitato di liberazione nazionale (CLN), lasciò Milano per entrare a far parte di una banda partigiana che si stava costituendo in Val d’Aosta.

Il 13 dic. 1943, fu arrestato dalle milizie fasciste con altri compagni nei pressi di Saint-Vincent e di lì condotto ad Aosta. Dichiaratosi ebreo al momento dell’arresto, alla fine di gennaio 1944 fu trasferito nel campo di internamento e di concentramento di Carpi-Fossoli, dove si trovavano molti altri ebrei italiani. A febbraio il campo fu preso in gestione dai Tedeschi, che organizzarono subito il trasferimento dei prigionieri verso i territori del Reich. Il 22 febbraio partì il convoglio che in cinque giorni avrebbe portato il L. con circa altri seicentocinquanta ebrei italiani verso il campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia. Il L. trascorse ad Auschwitz circa un anno, riuscendo a sopravvivere fino al 27 genn. 1945, quando i soldati sovietici entrarono nel campo.

In Se questo è un uomo, scritto subito dopo il ritorno a Torino, il L. ha fatto opera di testimonianza della condizione non umana subita dagli internati ad Auschwitz e ha narrato le circostanze grazie alle quali egli stesso riuscì a non essere condotto nelle camere a gas o a trovare la morte per malattia o per fame. Dopo la sconfitta di Stalingrado l’Esercito tedesco aveva, infatti, un accresciuto bisogno di manodopera e quindi gli uomini ebrei più giovani e abili al lavoro, invece di essere condotti immediatamente a morte, furono impiegati come lavoratori nel campo o presso le fabbriche dei dintorni.

Il L. fu quindi internato in quella parte del campo di Auschwitz che si trovava nella località di Monowitz, da dove ogni mattina si recava al lavoro presso la Buna, una fabbrica di gomma. La conoscenza di un tedesco elementare, appreso su un manuale di chimica negli anni dell’università, facilitò il L., soprattutto nella possibilità di comprendere gli ordini che gli venivano impartiti. Nel giugno il L. conobbe Lorenzo Perrone, un operaio di Fossano che lavorava presso una fabbrica di Auschwitz da civile non internato, e grazie a lui poté avere qualche razione in più di cibo e riuscì a inviare due biglietti alla madre e a ricevere da lei risposta. A novembre fu chiamato a lavorare nel laboratorio chimico del campo, dove riuscì a non soffrire troppo per il freddo e la fame. Pochi giorni prima che i Tedeschi, incalzati ormai dalle truppe dell’Armata rossa, abbandonassero il campo il L. si ammalò, e fu anche questa una circostanza in qualche modo fortunata perché riuscì a evitargli di essere portato via con una marcia forzata durante la quale morirono quasi tutti i ventimila evacuati, tra i quali vi era anche Alberto Dalla Volta, l’amico con il quale il L. aveva condiviso l’esperienza del lager. 

Dall’ingresso dei Russi ad Auschwitz, il 27 genn. 1945, al ritorno a Torino passarono circa nove mesi, trascorsi in un lungo e tortuoso tragitto che dalla Polonia lo portò in Unione Sovietica, Romania, Ungheria, Austria e infine Italia; a Torino giunse solo il 19 ott. 1945.

Nel gennaio 1946 il L. iniziò a lavorare presso la fabbrica di vernici Duco-Montecatini, che si trovava ad Avigliana, poco distante da Torino, dalla quale si licenziò l’anno successivo per essere assunto, dopo una breve esperienza di lavoro autonomo in società con l’amico Alberto Salmoni, presso la fabbrica torinese di vernici SIVA (Società italiana vernici e affini), dove rimase impiegato per trent’anni. Nel 1947 sposò Lucia Morpurgo, con la quale si era fidanzato l’anno precedente e dalla quale ebbe due figli: Lisa Lorenza (il secondo nome fu dato alla bambina in omaggio a Lorenzo Perrone), nata nel 1948, e Renzo, nato nel 1957.

Immediatamente dopo il ritorno da Auschwitz il L. avvertì l’urgenza di testimoniare sulle condizioni inumane cui erano stati sottoposti gli internati nei campi di sterminio nazisti. La necessità e la volontà di testimoniare furono attuate dal L. in forme diverse: per mezzo del racconto orale a parenti e amici; attraverso la scrittura scientifica, con la redazione di un saggio scritto con un compagno di prigionia, il medico Leonardo Debenedetti (Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria dei campi di concentramento per ebrei di Monowitz [Auschwitz – Alta Slesia], in Minerva medica, XXXVII [1946], pp. 535-544); con la scrittura di alcune poesie “concise e sanguinose”; e con la redazione del suo libro più importante e più noto, Se questo è un uomo.

Il libro fu scritto nel 1946, durante i viaggi in treno per raggiungere Avigliana e durante le pause dal lavoro in fabbrica, benché i primi tentativi di mettere per iscritto l’esperienza del lager fossero stati compiuti quando il L. era ancora prigioniero.

Chiosando il passo di Se questo è un uomo in cui, per “la pena di ricordarsi […] prendo la matita e il quaderno e scrivo quello che non saprei dire a nessuno” (P. Levi, Opere, 1997, I, p. 138), il L. affermò: “era talmente forte in noi il bisogno di raccontare, che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita” (ibid., p. 173).

Terminata la composizione dell’opera alla fine del 1946, il L. tentò senza successo di farla pubblicare presso qualche editore importante, tra cui Einaudi. Grazie all’intercessione di A. Galante Garrone, il manoscritto giunse infine a F. Antonicelli, che decise di pubblicarlo presso la casa editrice torinese Da Silva. Il libro uscì nel 1947, ebbe una diffusione piuttosto scarsa e tra le poche recensioni di cui fu oggetto sono da segnalare quelle di A. Cajumi in La Stampa (26 nov. 1947) e di I. Calvino in l’Unità (6 maggio 1948). 

La prima metà degli anni Cinquanta fu caratterizzata per il L. dall’impegno nel lavoro presso la SIVA e dalla collaborazione, iniziata nel 1952, con le Edizioni scientifiche Einaudi in qualità di traduttore e consulente editoriale. Il redattore scientifico della Einaudi, P. Boringhieri, che dal 1957 sarebbe divenuto editore in proprio, fondando la casa editrice Boringhieri, propose a Einaudi di ripubblicare Se questo è un uomo, ricevendo di nuovo una tiepida risposta. Solo nel 1955, quando le tematiche legate alla deportazione nei campi di concentramento iniziarono ad affacciarsi nella cultura italiana (in quell’anno si tenne a Torino una mostra sul tema), Einaudi decise di firmare un contratto con il L. per la riedizione dell’opera, che dovette però attendere ancora fino al 1958 per essere pubblicata. Il L. era nel frattempo ritornato sul testo di Se questo è un uomo, modificandolo ed ampliandolo in alcune parti (cfr. Tesio, 1977), e aveva iniziato a scrivere il racconto degli episodi più significativi avvenuti durante i mesi del viaggio di ritorno da Auschwitz trascorsi tra i campi di transito dell’Europa orientale e dell’URSS. Contemporaneamente alla stesura di questo nuovo libro, che sarebbe stato pubblicato da Einaudi nel 1963 con il titolo La tregua, il L. scrisse alcuni racconti fantastici e scientifici che apparvero in diversi periodici e quotidiani.

La tregua è un libro molto diverso da Se questo è un uomo, al quale pure si accosta per struttura (il procedere per racconti) e in quanto seguito ideale delle vicende narrate. Dal mondo infero di Se questo è un uomo il L. passa infatti a testimoniare di un purgatorio, di un mondo sospeso tra il lager e la vita normale, e di un tempo che è tregua dall’orrore e dall’incubo che l’orrore possa tornare. La tregua è stato accostato al genere romanzo picaresco per la varietà delle avventure che vi sono narrate e dei personaggi che lo popolano.

Nel 1962 il L. lavorò a un adattamento radiofonico di Se questo è un uomo; nel 1963 La tregua, dopo essere arrivato terzo al premio Strega, vinse il premio Campiello. Nel 1966 sotto lo pseudonimo Damiano Malabaila, usato su consiglio dell’editore, uscirono a Torino per Einaudi le Storie naturali, una raccolta di racconti che il L. aveva scritto e già pubblicato in diversi giornali nel corso degli anni Sessanta. Nel 1971 uscì un’altra raccolta di racconti, Vizio di forma (ibid.), questa volta pubblicata col suo nome.

È nel momento della pubblicazione delle Storie naturali che nacque nel L. e nella critica l’idea dello “scrittore dimezzato”. In una intervista del 1966 il L. affermava “Io sono un anfibio, un centauro (ho anche scritto dei racconti sui centauri). E mi pare che l’ambiguità della fantascienza rispecchi il mio destino attuale. Io sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico. Un’altra, invece, è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti” (Conversazioni e interviste, 1963-1987, cit., p. 107).

Le due attività parallele di scrittore e di chimico proseguirono fino al 1975, quando il L. si licenziò dalla SIVA, della quale rimase consulente fino al 1977, per dedicarsi alla scrittura. 

Nel 1975 il L. pubblicò per Einaudi Il sistema periodico, originale raccolta di racconti di carattere autobiografico accomunati dal titolo ripreso dagli elementi della tavola di Mendeleev. Talvolta gli elementi chimici entrano direttamente nella narrazione, altre volte sono simboli, come nel caso del primo racconto Argon, in cui il L. racconta delle proprie origini ebraiche e paragona il gas nobile, inerte e raro ai suoi antenati.

Nel 1978 uscì, ancora per Einaudi, La chiave a stella, che l’anno successivo vinse il premio Strega. I racconti del montatore Tino Faussone, che andava per il mondo a costruire ponti e impianti petroliferi, formano uno dei pochi testi della letteratura italiana dedicati al mondo del lavoro.

Il libro, caratterizzato da una lingua che presenta elementi di dialetto piemontese e un lessico tecnico, nacque dai racconti che lo stesso L. aveva ascoltato durante gli anni del suo lavoro in Italia e all’estero; particolarmente importante per la sua ideazione fu un soggiorno del L. presso la fabbrica della FIAT a Togliattigrad.

Nel 1981 uscì per Einaudi l’antologia personale La ricerca delle radici, una raccolta di testi diversi e significativi nell’esperienza di lettore del L., che tra Giobbe e i buchi neri si muove lungo quattro percorsi diversi: la salvazione del capire, la salvazione del riso, la statura dell’uomo e l’uomo che soffre ingiustamente. Dello stesso anno è la pubblicazione, ancora per Einaudi, di Lilìt e altri racconti, trentotto racconti composti tra il 1975 e il 1981 e divisi in tre sezioni: Passato prossimo, che include racconti legati al lager; Futuro anteriore, che comprende racconti di fantascienza; e Presente indicativo, racconti di argomento diverso accomunati dal fatto di essere “indicativi” dell’attualità.

Negli anni tra il 1979 e il 1982 il L. aveva intrapreso la stesura del romanzo Se non ora quando, la storia di una banda partigiana russa composta esclusivamente di giovani ebrei. Motivi ispiratori dell’opera erano stati un racconto che gli aveva fatto molti anni prima l’amico Emilio Vita Finzi sui partigiani ebrei (che si era sovrapposto all’episodio narrato alla fine de La tregua dei giovani sionisti dell’Europa orientale che volevano raggiungere la Palestina) e la volontà di controbattere l’idea che gli ebrei sarebbero stati solo attori passivi nella seconda guerra mondiale. Il libro uscì in aprile, presso Einaudi, e vinse i premi Viareggio e il Campiello. 

Per costruire un vero e proprio romanzo storico il L. studiò l’yiddish e si documentò sulle attività delle bande di partigiani ebrei; di una di queste bande lesse il diario conservato presso la Biblioteca nazionale di Parigi.

Nel 1982 il L. tornò ad Auschwitz per la seconda volta. Mentre la prima visita, nel 1965, aveva avuto un carattere di commemorazione formale, questa seconda fu più raccolta e l’emozione provata dal L. fu più profonda. Nello stesso anno fu tra i promotori di una raccolta di firme contro l’invasione israeliana del Libano. 

Nel 1983, per la collana einaudiana “Scrittori tradotti da scrittori” uscì la sua traduzione del Processo di F. Kafka. Tra il 1983 e il 1984 tradusse due libri di C. Lévi-Strauss, La via delle maschere (Torino 1984) e Lo sguardo da lontano (ibid. 1985).

Del giugno 1984 è il ricchissimo Dialogo con Tullio Regge, nato da una iniziativa delle Edizioni di Comunità (P. Levi – T. Regge, Dialogo, a cura di E. Ferrero, Milano 1984). Per l’editore Garzanti uscì nello stesso anno la raccolta Ad ora incerta, che comprende le poesie già raccolte nel 1975 presso Scheiwiller (e risalenti al periodo immediatamente successivo al ritorno dal lager), altre più recenti (del 1983-84) e alcune traduzioni.

“Adorno aveva detto che “dopo Auschwitz non si può più fare poesia”. La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro […]. In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz” (Conversazioni e interviste, 1963-1987, cit., p. 137).

Nel 1985 con il titolo L’altrui mestiere uscì per Einaudi una serie di scritti di carattere vario già apparsi nel quotidiano La Stampa e in altri periodici.

Legati alla promozione dei suoi libri sono i viaggi compiuti negli Stati Uniti nel 1985 e a Londra nell’aprile 1986. Qui incontrò Philip Roth, al quale qualche mese più tardi concesse una lunga intervista che uscì in ottobre su The New York Review of books

Fin dal 1979 il L. aveva iniziato a lavorare a un nuovo libro sull’esperienza del lager. Si trattava questa volta non di un libro di testimonianza ma di un saggio di riflessione che nasceva dall’esigenza di chiarire alcuni aspetti del sistema dei campi di sterminio che si stavano perdendo per il trascorrere del tempo e per la nascita del cosiddetto negazionismo. Per questo libro, che uscì per Einaudi nel 1986, il L. riprese il titolo del capitolo centrale di Se questo è un uomoI sommersi e i salvati, nel quale era già descritta la grande opposizione esistente tra gli uomini nel lager.

Non quella tra buoni e cattivi, ma tra coloro che non riescono a sopravvivere (i sommersi) e coloro che invece ce la fanno (i salvati). Degli otto capitoli che compongono il testo, particolare rilevanza ha quello dedicato alla “zona grigia”, ossia quello spazio che separa le vittime dai persecutori, che non è vuoto bensì pieno di figure intermedie di prigionieri per vari motivi privilegiati che si assimilavano ai persecutori.

I sommersi e i salvati fu l’ultimo libro pubblicato dal L., che morì togliendosi la vita l’11 apr. 1987 nella stessa casa dove era nato e dove aveva vissuto.

Il L. ha svolto un’attività continua e generosa, sia attraverso la scrittura sia attraverso i molti incontri e interviste, di testimone del significato non solo storico, ma anche antropologico dell’universo concentrazionario. Figura complessa di uomo e di scrittore, il L. ha siglato con Se questo è un uomo, “studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”, come viene definito dallo stesso L. nella prefazione (v. Opere, I, p. 5), uno dei classici della letteratura e del pensiero del Novecento e, con I sommersi e i salvati, ha lasciato in eredità alla cultura italiana un modello di scrittura saggistica di rara tensione morale e conoscitiva.

Prima della morte del L. era già stata progettata dall’editore Einaudi una raccolta complessiva dei suoi scritti: nel 1988 apparve nella collana “Biblioteca dell’Orsa” il primo volume delle Opere, che comprendeva, per usare le parole dell’editore, “i libri di più schietta impronta autobiografica”, introdotto dal saggio di C. Cases, L’ordine delle cose e l’ordine delle parole; nel 1989 uscì il secondo volume, che comprendeva i romanzi e le poesie, con un saggio introduttivo di C. Segre; nel 1990 fu pubblicato il terzo volume contenente i racconti e i saggi, con lo scritto di P.V. Mengaldo dedicato a Lingua e scrittura in Levi. Nel 1997, a cura di M. Belpoliti e con una introduzione di D. Del Giudice le Opere del L. sono state di nuovo raccolte da Einaudi in una diversa collana (“Nuova Universale Einaudi”). In questo caso i libri del L. sono in ordine cronologico e arricchiti da una scelta di scritti vari (articoli, prefazioni, interventi a convegni) mai raccolti prima, da appendici, da note ai testi e dalla Bibliografia degli scritti di P. L. (pp. CIII-CXV).

Le molte interviste rilasciate dal L., che si concentrano soprattutto tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, sono state raccolte parzialmente in: G. Poli – G. Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con P. L., Milano 1992; e P. Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, cit.; una Bibliografia delle conversazioni e delle interviste con P. L. apparse su quotidiani e periodici è in P. Levi, Opere, a cura di M. Belpoliti, Torino 1997, I, pp. CXVII-CXXVI.

Tutto da compiere è il lavoro sugli inediti e sulle diverse stesure dei testi del L., in quanto i relativi materiali non sono ancora a disposizione degli studiosi.

Fonti e Bibl.: [P. Levi – E. Ferrero] Cronologia, a cura di E. Ferrero, in P. Levi, Opere, 1988, cit., pp. XXXV-LXIII; corretta e ampl. in P. Levi, Opere, 1997, cit., I, pp. LXXIII-CI; F. Vincenti, Invito alla lettura di P. L., Milano 1973 (più volte riedito fino al 1993); G. Tesio, Su alcune aggiunte e varianti di “Se questo è un uomo”, in Studi piemontesi, VI (1977), 2, pp. 270-288; G. Grassano, P. L., Firenze 1981; Scritti in memoria di P. L., a cura di S. Levi Della Torre, numero monografico di La Rass. mensile di Israel, LVI (1989); C. Cases, Ricordo di P. L., in Tre narratori: Calvino, P. L., Parise, a cura di G. Folena, Padova 1989, pp. 99-103; P. L. as witness. Proceedings of a Symposium held at Princeton University… 1989, a cura di P. Frassica, Fiesole 1990; A. Rudolf, At an uncertain hour. P. L.’s war against oblivion, London 1990; R.B. Sodi, A Dante of our time: P. L. and Auschwitz, New York 1990; P. L.: il presente del passato, a cura di A. Cavaglion, Milano 1991; V. De Luca, Tra Giobbe e i buchi neri. Le radici ebraiche dell’opera di P. L., Napoli 1991; G. Tesio, Piemonte letterario dell’Otto-Novecento. Da Giovanni Faldella a P. L., Roma 1991; G. Borri, Le divine impurità. P. L. tra scienza e letteratura, Rimini 1992; M. Dini – S. Jesurum, P. L.: le opere e i giorni, Milano 1992; Narrativa, 1993, n. 3 (numero monografico dedicato al L.); A. Cavaglion, P. L. e Se questo è un uomo, Torino 1993; J. Nystedt, Le opere di P. L. riviste al computer: osservazioni stilolinguistiche, Stockholm 1993; P. L.: memoria e invenzione, a cura di G. Ioli, San Salvatore Monferrato 1995; M. Cicioni, P. L.: bridges of knowledge, Oxford 1995; M. Anissimov, P. L., ou la tragédie d’un optimiste, Paris 1996 (trad. ital., P. L., o la tragedia di un ottimista, Milano 2001); C. Segre, Se questo è un uomo di P. L., in Letteratura italiana (Einaudi), Le opere, IV, 2, Il Novecento, Torino 1996, pp. 491-508; P. L., a cura di M. Belpoliti, numero monografico di Riga, XIII (1997); P. L. per l’ANED [Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti] e l’ANED per P. L., a cura di A. Cavaglion, Milano 1997; P. L.: un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, Torino 1997; M. Belpoliti, P. L., Milano 1998; P. L. testimone e scrittore di storia, a cura di P. Momigliano Levi – R. Gorris, Firenze 1999; Al di qua del bene e del male. La visione del mondo di P. L., a cura di E. Mattioda, Milano 2000; F. Moliterni – R. Ciccarelli – A. Lattanzio, P. L.: l’a-topia letteraria. Il pensiero narrativo. La scrittura e l’assurdo, Napoli 2000; D. Amsallem, P. L., le témoin, l’écrivain, le chimiste: au miroir de son oeuvre, Lyon 2001; R.S.C. Gordon, P. L.’s ordinary virtues. From testimony to ethics, Oxford 2001 (trad. ital., P. L.: le virtù dell’uomo normale, Roma 2003); C. Angier, The double bond. P. L.: a biography, London 2002 (trad. ital., riv. e aggiornata, Il doppio legame. Vita di P. L., Milano 2004); I. Thomson, P. L.: a life, London 2002; C. Quilliot, P. L. revisité, Paris 2004; G. Tesio, Maestro a Fossoli, in Tuttolibri, suppl. di La Stampa, 30 ott. 2004, p. 3 [intervista inedita a P. Levi].

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Cesare Pavese

Vita e opere

PAVESE, Cesare. – Nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo (Cuneo), da Eugenio e da Consolina Mesturini, in una cascina di proprietà del padre, luogo di residenza estiva dei Pavese che vivevano a Torino. Preceduto da Maria, di sei anni più grande, Cesare fu allevato da Vittoria Scaglione, il cui fratello, Pinolo, gli ispirò la figura di Nuto nella Luna e i falò.

In seguito alla prematura scomparsa del padre per un tumore al cervello (2 gennaio 1914), la madre, donna dura ed energica, dovette mandare avanti la famiglia da sola.

Cesare frequentò la prima elementare a Santo Stefano, poi a Torino, presso un istituto privato, quindi il ginnasio inferiore presso i gesuiti e quello superiore al Cavour, dove conobbe Mario Sturani, suo fraterno amico. Entrato al liceo Massimo d’Azeglio nell’ottobre del 1923, ebbe come professore Augusto Monti, crociano, intellettuale eticamente solido e profondamente antifascista, e, fra i compagni, Tullio Pinelli, Remo Giacchero, Giorgio Curti.

Nel 1925 Pavese si invaghì di una ballerina del varietà, Pucci, a testimonianza di una predilezione ossessiva per artiste di caffè concerto o attricette (v., già nel dicembre 1924, la lirica Per un’attrice di cinematografo giovanissima, straniera, lontana). Nel dicembre di quell’anno scrisse il racconto autobiografico Lotte di giovani e tradusse il Prometheus unbound(Prometeo slegato) di Percy Bysshe Shelley e le Odi di Orazio. Ottenuta nel 1926 la maturità classica, si iscrisse quindi alla facoltà di lettere dell’Università di Torino. Sul finire dell’anno il suicidio dell’amico Elico Baraldi turbò profondamente Pavese, che confidò la propria angoscia alle pagine di un breve diario.

Il 2 dicembre 1927 si formò la confraternita degli ex allievi del liceo d’Azeglio, in contatto con il Monti, cui parteciparono, oltre a Cesare, figure quali Norberto Bobbio, Massimo Mila, Leone Ginzburg, Giulio Einaudi (nonché amici non ‘dazeglini’ come Giulio Carlo Argan, Ludovico Geymonat, Franco Antonicelli).

Il 20 giugno 1930 (con voto finale di 108/110) Pavese discusse la tesi di laurea, Interpretazione della poesia di Walt Whitman, con Ferdinando Neri, titolare di letteratura francese, dopo un precedente ‘rifiuto’ dell’anglista Federico Olivero.

Nel frattempo Cesare – grazie alla mediazione di Arrigo Cajumi – aveva offerto, nel marzo, la propria collaborazione all’editore Bemporad per tradurre romanzi statunitensi: in novembre apparve ne La Cultura l’articolo Un romanziere americano, Sinclair Lewis, poi suggellato dal contratto per la traduzione di Our Mr Wrenn, a stampa l’anno dopo. Falliti i tentativi di ottenere una borsa di studio alla Columbia University, nel novembre del 1930 morì la madre; tra settembre e novembre di quell’anno Cesare scrisse I mari del Sud, vero spartiacque che divide lo sperimentalismo giovanile dalla grande stagione confluente in Lavorare stanca.

Nel 1932, evitato il servizio militare, Pavese prese a insegnare in scuole private e serali, continuando a pubblicare saggi sulla letteratura americana e traducendo Moby Dick di Herman Melville e Dark laughter (Riso nero) di Sherwood Anderson (entrambi usciti in quell’anno): sognava di andare in America, ma non vi si recò mai. Sempre in quel periodo conobbe Tina Pizzardo, comunista, insegnante di matematica, vivace, sportiva, di cui si innamorò disperatamente.

Il 1933 fu segnato dalla lettura di un libro fondamentale per la cultura etno-mitologica pavesiana, The golden bough di James G. Frazer.

Sempre nel 1933 Giulio Einaudi fondava la casa editrice omonima, con sede in via Arcivescovado 7, rilevando, nel medesimo tempo, La Cultura, rivista poi diretta da Leone Ginzburg: questi nel marzo del 1934 fu arrestato con Monti e altri del gruppo antifascista Giustizia e libertà, probabilmente a causa della delazione di una spia dell’Ovra, Dino Segre, ovvero Pitigrilli.

Pavese subentrò nella direzione della rivista, ma come prestanome, giacché l’effettivo direttore era Cajumi. Nel luglio si iscrisse al Partito nazionale fascista (PNF), per poter insegnare liberamente nelle scuole statali.

L’attività di americanista di Pavese fu assai intensa, in questo primo quinquennio degli anni Trenta: nel 1934 pubblicò saggi su William Faulkner e Sinclair Lewis, mentre usciva la traduzione del Portrait di James Joyce, con il titolo Dedalus. Nei primi anni Trenta scrisse inoltre liriche che confluirono successivamente in Lavorare stanca, e i racconti del ciclo-romanzo Ciau Masino, comprendente anche sei poesie. 

Lavorare stanca era già in bozze per le edizioni di Solaria, con la cura di Alberto Carocci, all’inizio del 1935. La raccolta si segnala nel diagramma lirico novecentesco per un ductus fortemente e talora brutalmente prosastico, con verso lungo e ritmo quasi sempre anapestico; ciò non impedisce talora lo slargarsi in aperture visionarie e vibranti, come, ad esempio, nella celebre Lo steddazzu.

Il 15 maggio 1935 Pavese venne arrestato in qualità di direttore della Cultura ma soprattutto perché reo di possedere lettere cifrate del pittore Bruno Maffi indirizzate alla Pizzardo, cui aveva offerto disponibilità del proprio recapito, giacché la donna era severamente controllata dalla polizia. Dopo essere stato per breve tempo alle Carceri nuove di Torino e a Regina Coeli a Roma, Pavese venne confinato a Brancaleone Calabro dove, giunto il 4 agosto 1935, rimase fino al marzo del 1936, quando ottenne il condono e poté rientrare a Torino. L’esperienza del confino è in parte narrata e trasfigurata nel romanzo Il carcere (in Prima che il gallo canti) e, precedentemente, nel racconto Terra d’esilio, del luglio 1936. Nel frattempo era uscita la traduzione di The 42nd parallel (42° parallelo, 1934) di John Dos Passos, mentre le prime copie di Lavorare stanca (Firenze), arrivarono alla fine del gennaio del 1936. Nel marzo successivo, a Torino, venuto a sapere che Tina si era fidanzata e prossima a sposarsi con il polacco Enrico Reiser, Pavese entrò in una cupa depressione, documentata dal diario con accenti di estrema violenza.

Nel 1937 Cesare scrisse alcuni racconti importanti fra cui Temporale d’estateCarogneL’idolo, nonché altre liriche destinate a entrare nell’edizione einaudiana di Lavorare stanca (Torino 1943); tradusse The big money (Un mucchio di quattrini) di Dos Passos e Of mice and men(Uomini e topi) di John Steinbeck. L’anno dopo fu la volta di Moll Flanders di Daniel Defoe e di The autobiography of Alice B. Toklas (Autobiografia di Alice Toklas) di Gertrude Stein.

Nel 1938 Pavese venne assunto presso Einaudi; continuava a produrre racconti e poesie, finché, alla fine di novembre, cominciò a scrivere il suo primo romanzo, Memorie di due stagioni (con titolo definitivo Il carcere, terminato nell’aprile dell’anno seguente, apparve nel 1948 in Prima che il gallo canti). Nel 1939, oltre a tradurre il Copperfield e testi di storiografia di Christopher Dawson e George Macaulay, diede alla luce, in estate, Paesi tuoi, il romanzo che segnò l’esordio narrativo (Torino 1941), destinato a rinnovare la prosa narrativa italiana, per il suo contributo di asciutta e quasi incantata brutalità narrativa, derivata da modelli americani come, ad esempio, il James M. Cain di Postman always rings twice, ma anche da paradigmi più barocchi e strazianti come il Faulkner di Sanctuary. Nel 1940 scrisse La tenda (poi La bella estate); fra il 1940 e il 1941 La spiaggia; sempre nel 1940 tradusse Benito Cereno di Melville e Three lives (Tre esistenze) della Stein. Nel 1941 tradusse The Trojan horse (Il cavallo di Troia) di Christopher Morley e scrisse numerosi racconti di Feria d’agosto, alcuni dei quali furono pubblicati nel Messaggero di Roma.

Nella primavera del 1940 rivide Fernanda Pivano, che aveva avuto come allieva durante le supplenze al d’Azeglio: iscritta all’Università, colta e spregiudicata, anche lei americanista (tradusse, per Einaudi, la Spoon River anthology di Edgar Lee Master). Cesare si innamorò di lei, mentre l’Italia entrava in guerra, e le chiese di sposarlo, ottenendo un rifiuto; scrisse per lei, oltre a lettere lunghe e suggestive, alcune poesie splendide, che segnarono il passaggio a una nuova lirica, preludio alla stagione più tarda delle liriche per la Garufi e per Connie: si tratta di un nuovo stile, rarefatto e lirico rispetto al precedente verso lungo gonfio di ‘realismo’ prosastico, un nuovo modo quasi ‘dannunziano’, in realtà molto grecizzante e mitico, di cantare la donna isolandola in un universo naturale talora aereo, ma progressivamente sempre più funebre.

A Roma Pavese scese, nel febbraio del 1942, per prendere contatto con i redattori locali della Einaudi, Carlo Muscetta e Mario Alicata; pubblicò in volume La spiaggia (Roma 1942) e la traduzione di The Hamlet di William Faulkner, con il titolo Il borgo; scrisse altri racconti poi inclusi in Feria d’agosto. A causa dei bombardamenti la sede della Einaudi fu dapprima trasferita in un rifugio, quindi a Roma, dove Pavese si recò a dirigerla dal gennaio del 1943. La situazione però anche qui si faceva difficile, come si legge in una drammatica (ma non priva di ironia) missiva a Giulio Einaudi del 19-20 luglio. Così il 26 luglio, subito dopo la caduta di Mussolini, Cesare fece rientro a Torino, nella nuova sede di via Galileo Ferraris, mentre a Roma restava Leone Ginzburg.

Nonostante il precipitare degli eventi, Pavese continuò a lavorare strenuamente a Torino: fino a quando, dopo l’8 settembre, l’Einaudi venne posta sotto tutela del commissario della Repubblica sociale italiana (RSI) Paolo Zappa. Mentre gli amici erano tutti alla macchia nella Resistenza, egli rimase solo «nelle grinfie della storia» (v. Lettere, I, p. 740) vedendosi costretto a recarsi dapprima presso la sorella sfollata, a Serralunga di Crea nel Monferrato, quindi al collegio Trevisio di Casale Monferrato, retto dai padri Somaschi, ove diede lezioni private agli studenti sotto falso nome fino alla Liberazione.

La permanenza nel collegio – documentata soprattutto dai ricordi di padre Giovanni Baravalle, con cui strinse amicizia – testimonia il massimo avvicinamento di Cesare alla religione, nonché importanti letture filosofiche, mistiche e mitografiche. Cesare conobbe inoltre un ex allievo di Baravalle, Carlo Grillo, singolare personaggio di giovane nobile, filosofo e ‘decadente’, che ispirò il Poli del Diavolo sulle colline. Al 1942-43 risale anche il famigerato «taccuino segreto», in cui Cesare sfoga il suo irrazionalismo e un inquietante anti-antifascismo. Tuttavia poi l’adesione al comunismo fu precoce, come ha dimostrato Mariarosa Masoero attribuendo a Pavese alcuni articoli anonimi apparsi nella Voce del Monferrato del maggio 1945 (Masoero, 2006), tanto che «In breve volgere di tempo lo scrittore del diario “nero” e della crisi religiosa si scopre comunista» (Mondo, 2006, p. 127).

Nel 1944 Pavese continuava a scrivere prose poi raccolte in Feria d’agosto, mentre gli eventi di questi anni gli ispirarono un racconto, Il fuggiasco, poi materia per La casa in collina. Dopo la fine della guerra riprese il lavoro alla Einaudi, ma le morti eroiche in giovane età di Leone Ginzburg, Giaime Pintor, Gaspare Pajetta e di altri turbarono non poco l’animo di un uomo segnato dal ‘rimorso del sopravvissuto’.

Il 1945 fu comunque un anno di intensa attività: come sempre Pavese cercava la risurrezione attraverso il duro lavoro. Alla Einaudi era considerato ormai un direttore editoriale di grande autorevolezza; riprese i contatti con Ernesto De Martino, già incontrato nel 1943, dalla cui collaborazione nacque la cosiddetta collana viola di etnologia, psicologia, storia delle religioni (che ospitò, fra le altre, opere di Carl Gustav Jung, Lucien Lévy-Bruhl, Karl Kerényi, Vladimir J. Propp, Bronislaw Malinowski, Leo Frobenius, James G. Frazer, Mircea Eliade ecc.).

In luglio si recò a Roma, nella sede di via Uffici del Vicario 49, mentre a Torino era Massimo Mila a sostituirlo. Nel frattempo conobbe Davide Lajolo e cominciò a collaborare con l’Unità: nell’autunno prese la tessera del Partito comunista italiano (PCI). A Roma amava immergersi in una solitudine fatta di lavoro intenso e cinematografi serali. Conobbe però una donna, Bianca Garufi, per cui scrisse le poesie del ciclo La terra e la morte (apparse a stampa in rivista nel 1947). Nella capitale continuò a risiedere fino all’autunno del 1946, quando fece ritorno a Torino.

Nel novembre del 1945 uscì Feria d’agosto, mentre sul finire dell’anno cominciò a lavorare ai Dialoghi con Leucò. Nel giugno del 1946 scrisse alcuni versi per una donna, T. (Teresa Motta). Nel frattempo continuava a comporre i magistrali «dialoghetti» e, a quattro mani con Bianca Garufi, cominciò un romanzo, Fuoco grande, rimasto incompiuto.

Non smetteva peraltro di scrivere di letteratura americana (su Peter Matthiessen e Joseph Conrad), né di collaborare a l’Unità con pezzi politico-letterari: nel caso dei Dialoghi col compagno utilizzò la forma dialogica che, in un universo remoto, aveva applicato a Leucò; d’altra parte è fra ottobre e dicembre di quest’anno che scrisse il romanzo Il compagno, mentre ancora stava lavorando ai dialoghi mitici.

Nel 1947 terminò e pubblicò i Dialoghi con Leucò (Torino) e diede alle stampe Il compagno (Torino), che, segnalato allo Strega, fu insignito soltanto del premio Salento l’anno successivo. Notevole ancora l’impegno sul versante anglo-americano: oltre a saggi e recensioni, tradusse Captain Smith and company (Capitano Smith) di Robert Henriques.

Fra il settembre di quell’anno e il febbraio del 1948 scrisse La casa in collina che uscì, insieme con Il carcere, in Prima che il gallo canti (Torino, novembre 1948), tradusse privatamente la Teogonia di Esiodo e cominciò lo scambio epistolare con Rosa Calzecchi Onesti, incaricata della traduzione dei poemi omerici per la Einaudi. Non si dimentichi che Pavese stesso aveva tradotto per proprio conto fra l’altro l’episodio dell’evocazione dei morti dell’XI dell’Odissea, una prima volta parzialmente in un quaderno del confino calabrese, poi integralmente in fogli sciolti: quest’ultima traduzione va datata proprio a ridosso del 1948, in cui uscì il volume contenente il libro XI dell’Odissea a cura di Mario Untersteiner (Firenze, Sansoni: con dedica autografa a Pavese del maggio, o luglio, 1948, conservato nella biblioteca di Pavese).

Fra giugno e ottobre scrisse Il diavolo sulle colline, mentre continuava la collaborazione con l’Unità e altre riviste. Nel 1949 scrisse Tra donne sole, ma non tralasciò il mondo antico, traducendo fra l’altro alcuni inni omerici. Nel novembre uscì La bella estate (Torino), che comprendeva il romanzo eponimo, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole. Pavese ricevette un giudizio piuttosto sferzante dall’antico maestro Augusto Monti, cui rispose piccato in uno scambio epistolare teso ma sincero. L’ultimo romanzo, La luna e i falò, fu composto tra settembre e novembre del 1949 e uscì sempre per i tipi di Einaudi (Torino 1950).

Il romanzo ha un respiro più fluente rispetto ai precedenti, quasi a comporsi in un ritmo classico, georgico, ove il ritorno alla terra originaria è un ritorno alla terra tout court; tuttavia l’umanesimo della Luna e i falò è macchiato dall’orrore, dalla violenza e dalla follia delle cose e delle persone, della guerra trascorsa, di tutto ciò insomma che si contrappone alla calma e alla forza della natura e degli uomini che vogliono dominarla. Come sempre il fondo sacrificale e sanguinoso del rito e del mito emerge in Pavese anche quando sembra che un ordine possa controllare il caos.

Fu al termine del 1949, fra ottobre e dicembre, che si acuì il contrasto fra Pavese e De Martino nella conduzione della ‘collana viola’: il grande etnologo, ex socialista da poco iscritto al PCI, riceveva accuse dagli ‘ortodossi’ del partito, a causa degli autori pubblicati, rappresentanti dell’irrazionalismo novecentesco, quando non filonazisti o apertamente reazionari. Anche Pavese era guardato con sospetto, ma reagì ironicamente o energicamente (e pubblicamente). Lo scambio di lettere con De Martino alterna momenti di incomunicabilità ad altri più concilianti. Alla tragica morte di Pavese, De Martino, con una discutibile lettera a Giulio Einaudi, additò la ‘pericolosità’ della collana, pur continuando a lavorarvi, magari saltuariamente, fino al 1958; nel 1962 un nuovo voltafaccia, in cui De Martino rivalutò e la collana e la figura di Pavese.

Nel 1949 l’impegno di direttore editoriale, insieme con la pubblicazione di articoli militanti e teorici, era sempre intensissimo: tutto questo accumulo di lavoro incise evidentemente sul sistema nervoso di Pavese, che cominciò ad avvertire stanchezza, a soffrire d’insonnia e a denunciare piccole crisi di panico. «Esaurimento – è una parola – ma che cosa significa?», si domandava nel diario il 28 novembre. L’incontro con Constance Dowling, nel capodanno romano, arrivò dunque a fulminare un uomo già predisposto allo shock. Le sorelle Dowling, Constance e Doris, erano attrici americane; la seconda aveva lavorato con Raf Vallone, amico di Cesare, nel film di Giuseppe De Santis Riso amaro, alla cui elaborazione scritta forse aveva partecipato anche lo stesso Pavese. Che rivide Connie (ipocoristico di Constance) nel marzo del 1950, a Cervinia: fu un innamoramento senza scampo.

D’altra parte la sorella Doris divenne una buona amica per Cesare, che scrisse per le due sorelle soggetti cinematografici, tra cui uno tratto dal Diavolo sulle colline. Connie e Doris rappresentavano ‘fisicamente’ il cinema per Cesare: le lettere sui progetti filmici per le due sorelle sono numerose. La tarda lettera a Connie del 17 aprile forse accompagnava la poesia T’was only a flirt, l’ultimo semplice tremendo blues. Constance stava per ripartire per New York, Pavese si trovò solo davanti al proprio nudo orrore, la disperata speranza di sposare Connie si era bruciata: lei non sarebbe tornata mai, Cesare lo sapeva e lo scrisse a Doris il 6 luglio.

L’anno 1950 non fu certo vuoto di impegni culturali; fra l’altro Pavese entrò a far parte della redazione della rivista Cultura e realtà, diretta da Mario Motta, facente capo all’area della ‘sinistra cristiana’, piuttosto invisa all’ortodossia del PCI, in cui pubblicò un saggio sul mito e una risposta polemica a Franco Fortini che aveva attaccato De Martino accusandolo di cedere ai pericoli dell’irrazionalismo. L’articoletto uscì nel marzo, mese in cui Pavese scrisse anche gran parte delle liriche per Connie, fra cui la suprema, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Il 24 giugno vi fu il trionfo mondano di Cesare, che si recò a Roma a ricevere il premio Strega per La bella estate, uscito l’anno precedente. Pavese giunse all’ultimo momento al ninfeo di Villa Giulia, elegantissimo, accompagnato dalla bella Doris Dowling nell’occasione e si fece fotografare docilmente.

Dopo l’apoteosi, l’incubo dell’estate in città. Un’estate davvero fatale per Pavese. Recatosi dapprima dai suoi amici, i coniugi Ruata, a Varigotti, vi restò pochi giorni spostandosi a Bocca di Magra, dove bruciò un estremo, rapido amore impossibile per una ragazza, Pierina (Romilda Bollati di Saint-Pierre, sorella di Giulio Bollati). Fatto ritorno a Torino in un afoso deserto, se si eccettua la presenza dei coniugi Rubino, presso i quali aveva conosciuto Connie, Pavese vide la Alterocca, sua futura biografa, il 17 e ancora il 18 agosto (a cena in un locale in riva al Po), confidandole di sentirsi lucidamente all’epilogo della propria parabola. Il 23 le scrisse esprimendole il proprio desiderio di «silenzio». La prossimità della fine sembra ormai ineludibile.

Sabato 26 agosto 1950, nel primo pomeriggio, Pavese si recò all’albergo Roma, sotto i portici di piazza Carlo Felice, e prese una piccola stanza al terzo piano. In serata fece alcune telefonate, tra l’altro a Fernanda Pivano e, probabilmente, a una ragazza conosciuta qualche giorno prima in una sala da ballo che avrebbe eluso il suo invito, definendolo musone e noioso. La sera del giorno dopo Pavese fu ritrovato senza vita sul letto: si era tolto la vita con il sonnifero.

Il messaggio ai posteri, vergato sulla prima pagina di una copia dei Dialoghi con Leucò, suonava: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi», firmato Cesare Pavese. Era modellato su quello di Vladimir V. Majakovskij, come Cesare lo aveva letto nell’antologia Il fiore del verso russo curata da Renato Poggioli per Einaudi (1949). Eccone le prime righe: «A tutti. Se muoio non accusate nessuno. Niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva soffrire. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi».

Opere. L’edizione delle opere «complete» di Pavese, in 14 volumi (16 tomi), uscì per i tipi torinesi di Einaudi nel 1968. Ora sono disponibili: Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti (2000) e Tutti i racconti (2002). Si vedano inoltre: Poesie giovanili (1923-30), a cura di A. Dughera – M. Masoero, Torino 1989; Pavese giovane, Torino 1990; Il mestiere di vivere (1935-1950), nuova ed. integrale condotta sull’autografo, a cura di M. Guglielminetti – L. Nay, Torino 1990; L. Mondo, Il tormento di Pavese, prima che il gallo canti, in La Stampa, 8 agosto 1990 (taccuino inedito); Lotte di giovani e altri racconti (1925-1930), a cura di M. Masoero, Torino 1993; Le poesie, a cura di M. Masoero e con introduzione di M. Guglielminetti, Torino 1998; Tra donne sole, nuova ed. con l’aggiunta delle lettere di C. Pavese e I. Calvino, Torino 1998 (in appendice la sceneggiatura del film Le amiche di M. Antonioni); Dodici giorni al mare. Un diario del 1922, a cura di M. Masoero, Genova 2008; Il serpente e la colomba. Scritti e soggetti cinematografici, Torino 2009; Le Odi di Quinto Orazio Flacco tradotte da Cesare Pavese, a cura di G. Barberi Squarotti, Firenze 2013.

Fonti e Bibl.: I manoscritti e dattiloscritti principali sono custoditi nell’Archivio Pavese presso il Centro di studi di letteratura italiana in Piemonte Guido Gozzano-Cesare Pavese della facoltà di lettere dell’Università degli studi di Torino; provengono dalla famiglia (fondo Sini-Cossa) e dalla Einaudi; sul sito HyperPavese – database imprescindibile e in progress – curato da Mariarosa Masoero, molti materiali sono disponibili digitalizzati.

Sono stati pubblicati nuclei (spesso) inediti dell’epistolario in varie sedi; si veda, ad esempio: P. Pulega, Tre lettere inedite di C. P., in Studi novecenteschi, 1974, n. 7, pp. 107-109; P. Briganti, In margine alla corrispondenza P. – Jahier. Una lettera inedita di P., in Studi e problemi di critica testuale, 1974, vol. 9, pp. 234-243; M. Leva, Tredici lettere inedite di C. P. ad Aldo Camerino, in Strumenti critici, XXX (1976), pp. 247-256; F. Contorbia, P.: le lettere inedite a Sibilla, in La Stampa – Tuttolibri, 26 febbraio 1987; M. Guglielminetti, Una poetica ‘tenzone’: Mario Sturani e C. P., in Mario Sturani 1906-1978, a cura di M.M. Lamberti, Torino 1990, pp. 192-199; C. Pavese – E. De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di P. Angelini, Torino 1991; A. Dughera, Monti e P.: storia di un’amicizia attraverso le lettere, in Id., Tra le carte di P., Roma 1992, pp. 49-103; S. Savioli, L’ALI di P., in Levia Gravia, I (1999), pp. 259-288; M. Guglielminetti – S. Savioli, Un carteggio inedito tra C. P. e Mario Bonfantini, in Esperienze letterarie, 2000, n. 3-4, pp. 61-85; C. P. & Anthony Chiuminatto. Their corrispondence, a cura di M. Pietralunga, Toronto-Buffalo-London 2007; C. P. tuo Muscetta, a cura di G. Ferroni – E. Frustaci, Catania 2007; Officina Einaudi. Lettere editoriali 1940-1950, a cura di S. Savioli, Torino 2008; C. Pavese – R. Poggioli, “A meeting of minds”. Carteggio 1947-1950, a cura di S. Savioli, Alessandria 2010; Una bellissima coppia discorde. Il Carteggio fra C. P. e Bianca Garufi (1945-1950), a cura di M. Masoero, Firenze 2011.

Strumento bibliografico imprescindibile è L. Mesiano, C. P. di carta e di parole. Bibliografia ragionata e analitica, Alessandria 2007, cui si rimanda per brevità. Precedentemente: M. Lanzillotta, Bibliografia pavesiana, Rende 1999; Ead., Materiali pavesiani, in Filologia antica e moderna, 1997, vol. 13, pp. 101-113; cfr. anche C. P.: le carte, i libri, le immagini (catal.), a cura di A. Dughera – D. Richerme, Torino 1987. Fra gli studi biografici: D. Lajolo, Il “vizio assurdo”. Storia di C. P., Milano 1960 (poi: P., Il vizio assurdo, Milano 1984); B. Alterocca, P. dopo un quarto di secolo, Torino 1975 (poi: C. P. Vita e opere di un grande scrittore sempre attuale, Quart [Aosta] 1985); L. Mondo, Quell’antico ragazzo. Vita di C. P., Milano 2006. Si aggiunga la dettagliata Cronologia di M. Masoero in C. Pavese, Tutti i romanzi, cit., pp. LXVII-CIII; nonché T. Wlassics, P. falso e vero. Vita, poetica, narrativa, Torino 1987, pp. 25-64, e F. Vaccaneo, C. P., una biografia per immagini: la vita, i libri, le carte, i luoghi, Cavallermaggiore (Torino) 1996 (1ª ed. Torino 1989). Fra le testimonianze si vedano almeno N. Ginzburg, Le piccole virtù e Lessico famigliare, rispettivamente Torino 1962 e 1963; A. Monti, I miei conti con la scuola, Torino 1965; P. Spriano, Le passioni di un decennio, Milano 1986; T. Pizzardo, Senza pensarci due volte, Bologna 1996.

Fra i contributi critici più recenti: R. Gigliucci, C. P., Milano 2001; Sotto il gelo dell’acqua c’è l’erba. Omaggio a C. P., Alessandria 2001 (con un carteggio inedito con Raffaele Pettazzoni); P. e la guerra, a cura di A. d’Orsi – M. Masoero, Alessandria 2004; M. Masoero, “Anche astenersi è un prender parte”. C. P. a Casale Monferrato, in Come l’uom s’eterna, S. Mauro Torinese 2006; C. P. e la “sua” Torino (catal.), a cura di M. Masoero – G. Zaccaria, Torino 2007; V. Capasa, “Lo scopritore di una terra incognita”. C. P. poeta, Alessandria 2008; G. Remigi, C. P. e la letteratura americana. Una “splendida monotonia”, Firenze 2012; C. P., un greco del nostro tempo, a cura di A. Catalfamo, S. Stefano Belbo 2012.

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Elio Vittorini

Vita e opere

Elio Vittorini nasce il 23 luglio del 1908 a Siracusa, in Sicilia.

Il padre, ferroviere, si sposta moltissimo per lavoro lungo tutta la regione, portando con sé la famiglia; Elio, adolescente irrequieto, inizia dunque a viaggiare quando è molto piccolo, e, desideroso di scoprire un mondo più ampio e vasto di quello dei suoi orizzonti provinciali, scappa frequentemente di casa per esplorare luoghi nuovi e sconosciuti.

A sedici anni, stanco della scuola di ragioneria cui era stato iscritto per volere della famiglia, abbandona per sempre la Sicilia nel 1924.

Trovato un impiego a Gorizia, prende corpo la sua formazione culturale, modellata sui grandi scrittori europei del tempo (Gide, Proust, Joyce e Kafka) in reazione al provincialismo della cultura del regime. Sempre di questo periodo, è l’avvicinamento alle posizioni fasciste – intese però come anti-borghesi – di Curzio Malaparte e della rivista “Strapaese”, che Vittorini esprime in un articolo apparso nel 1926 su “La conquista dello stato”. L’anno successivo, proprio grazie all’intervento di  Malaparte, Vittorini viene preso come collaboratore a “La Stampa”, e, dopo aver spedito a “La fiera letteraria” il  suo primo racconto dal titolo Ritratto di re Gianpiero, lo vede apparire sulle pagine della rivista.

Nel 1927 Vittorini sposa la sorella del poeta Salvatore Quasimodo, Rosa, che gli darà l’anno successivo il primo figlio, Curzio, nome scelto per il legame con Malaparte. Poco dopo, nel 1929, lo scrittore ritorna sul carattere “provinciale” della letteratura italiana pubblicando alcuni interventi sulle prestigiose pagine della rivista fiorentina “Solaria” (al tempo, principale voce per dare un respiro europeo alla cultura italiana soffocata dal regime e dalle sua pretese autarchiche).

Nel 1931 vede la luce, sempre sotto le insegne della rivista fiorentina, Piccola borghesia, la prima raccolta di racconti di Vittorini che, trasferitosi l’anno prima a Firenze, è segretario di redazione di “Solaria” e correttore di bozze per il quotidiano “La Nazione”. 

Nel 1930 va a vivere con la famiglia a Firenze, chiamato dal direttore di “Solaria”, che lo assume come segretario di redazione. Qui comincia a fare anche il correttore di bozze per “La Nazione”. All’identità di “solariano” (cui all’epoca si associa la connotazione di antifascista, anche se per ora lo scrittore si considera un “fascista di sinistra“, vicino alle posizioni di Romano Bilenchi o Vasco Pratolini) Vittorini somma la frequentazione in questo periodo della Firenze intellettuale ed ermetica, riunita all’epoca nel caffé delle “Giubbe Rosse”In questo clima elitario di apertura all’esterno prende corpo in Vittorini la passione per la cultura e la lingua anglosassone: imparato l’inglese quasi da autodidatta, l’autore intraprende la carriera di traduttore, che negli anni a venire gli permetterà di lavorare a stretto contatto con il mondo editoriale, sia come collaboratore che come direttore di importanti collane.

Nel 1933 pubblica a puntate sulle pagine di “Solaria” Il garofano rosso, suo primo romanzo (censurato dal regime perché offensivo della morale), e nell’anno successivo diventa padre per la seconda volta, questa volta di Demetrio. 

Nel 1936 (mentre lo scoppio della guerra civile in Spagna lo fa orientare in maniera definitiva contro i diversi fascismi europei, schierandosi con le forze repubblicane e pubblicando un articolo che provoca la sua cacciata dal partito) inizia a lavorare su Conversazione in Sicilia, una delle sue opere principali sia sul piano contenutistico che su quello stilistico: inizialmente pubblicato a puntate su “Letteratura”, il romanzo viene ripubblicato in volume prima da Parenti (1941) e poi da Bompiani (1942), ma verrà colpito ancora dalla censura. 

Nel 1938 si trasferisce a Milano per lavorare da Bompiani, e la famiglia lo segue in questa avventura lombarda, che si rivela da subito molto turbolenta a causa del riavvicinamento di Vittorini con un vecchio amore milanese, Ginetta Varisco. L’opera di censura perpetrata ferocemente dal regime fascista, colpisce anche l’importante antologia “Americana”, una raccolta dei principali narratori statunitensi del tempo e di cui Vittorini ha redatto le note critiche.

Il secondo conflitto mondiale e la guerra di Resistenza vedono lo scrittore attivamente impegnato:  si occupa della stampa clandestina (attività che lo conduce anche a trascorrere un periodo nel carcere di San Vittore) e collabora coi partigiani. Questa esperienza, fondamentale per l’intellettuale e per l’uomo Vittorini, si traduce nell’immediato dopoguerra nella pubblicazione per Bompiani di Uomini e no (1945), punto di maggiore vicinanza tra l’autore e il Neorealismo.

Lasciata la famiglia per vivere con Ginetta Varisco a Milano, Vittorini nel 1945 diviene direttore dell’”Unità” e fonda il settimanale (poi mensile) “Il Politecnico”, esperienza editoriale che punta a smuovere il dibattito sulla cultura e la società italiana, ma che durerà solo fino al dicembre del 1947 a causa di scontri ideologici tra la linea originale di Vittorini e la posizione di Togliatti e, nel complesso, del Partito Comunista Italiano. 

L’attività di romanziere intanto procede: del 1947 è Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, e nel ’49 Le donne di MessinaNel 1951 Einaudi gli affida la cura della collana di narrativa “I gettoni”, grazie alla quale farà esordire moltissimi talenti nascenti, che si riveleranno scrittori di successo (tra gli altri, Carlo Cassola, Beppe Fenoglio, Mario Rigoni Stern, Leonardo Sciascia). Al tempo stesso, Vittorini collabora con Mondadori, per cui rifiuta di pubblicare Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa, grande best-seller del 1957. In questi anni, Vittorini continua ad occuparsi del ruolo della cultura nella società moderna ed industriale (fonda con Italo Calvino la rivista “Il menabò”) e affronta questioni di critica letteraria nel Diario in pubblico (1957)Vittorini, ormai malato, si spegne il 12 febbraio 1966 a Milano. Postumi vengono pubblicati il volume di saggi ed articoli Le due tensioni (1967) e il romanzo incompiuto Le città del mondo” (1969).

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Beppe Fenoglio

Vita e opere

Nacque il 1ºmarzo 1922 ad Alba (Cuneo), primogenito di Amilcare, trasferitosi nella città dalla campagna circostante, garzone di macellaio e presto macellaio in proprio, e di Margherita Faccenda; ebbe fratelli minori Walter e Marisa. Ad Alba frequentò le scuole con qualche sacrificio della famiglia, giustificato dai buoni risultati e incoraggiato dagli insegnantì, fino al ginnasio e al liceo, dove ebbe professori quali Leonardo Cocito e Pietro Chiodi, che avrebbe poi ritrovato nella Resistenza. Era un adolescente amante dello sport, fantasioso, riflessivo, affetto da una leggera balbuzie allorché, negli anni del ginnasio, fu preso da una passione “letteraria” che si sarebbe dimostrata formativa e indelebile.

Nata come adolescenziale passione per la lingua, la cultura e la letteratura inglesi e in particolare come innamoramento romantico per la rivoluzione di Oliver Cromwell e delle teste rotonde, non fu la trappola di un’evasione provinciale – era “sufficientemente scaltro e colto” per non cadervi -, ma fu la spia della “ricerca di un modello umano, di una “formazione” di uno stile diverso da quello che il fascismo gli offriva” (Chiodi).

Dopo la licenza liceale, nel 1940 il F. si iscrisse alla facoltà di lettere di Torino: frequenza saltuaria, pochi esami sostenuti e risultati non brillanti. Nel gennaio 1943 lo raggiunse la chiamata alle armi e fece il corso allievi ufficiali prima a Ceva poi a Pietralata (Roma), da dove dopo l’8 settembre rientrò fortunosamente ad Alba. Iniziò allora l’esperienza partigiana, che avrebbe segnato in modo decisivo la sua vita e la sua scrittura. Nel dicembre, insieme col fratello Walter, partecipò all’assalto alla caserma dei carabinieri di Alba, riuscendo a liberare i padri dei renitenti di leva lì tenuti in ostaggio. Nel gennaio 1944 si unì a una formazione garibaldina operante tra Murazzano e Mombarcaro e partecipò allo sfortunato scontro di Carrù del 3 marzo, cui seguirono vasti rastrellamenti. Rientrò allora in famiglia e vi trovo il fratello, che si era arruolato nell’esercito della Repubblica sociale a seguito dell’arresto del padre e aveva poi disertato. Tutta la famiglia venne arrestata per una delazione: le donne furono rilasciate poco dopo, i maschi furono scambiati poi, per la mediazione del vescovo, con fascisti catturati dai partigiani. Nel settembre il F. risalì in montagna con Walter, nelle Langhe meridionali, e militò nelle Formazioni autonome militari, gli “azzurri” guidati da Enrico Martini Mauri e Piero Balbo, nella seconda divisione “Langhe”, agli ordini di Pietro Ghiacci. In quella formazione partecipò alla liberazione di Alba (10 ottobre), che fu tenuta sino al 2 novembre e quindi riconquistata dai nazifascisti. Dopo il proclama del generale H. R. Alexander il F. passò da solo l’inverno, nascosto a Cascina della Langa, per riprendere la lotta il 24 febbr. 1945 combattendo a Valdivilla. Svolse poi funzioni di ufficiale di collegamento con le missioni alleate (Monferrato, Vercellese, Lomellina) e il 19 aprile combatté a Montemagno.

Passato il tempo delle armi, fu difficile il reinserimento nella vita civile, anche per le tensioni familiari, soprattutto con la madre che gli rimproverava l’abbandono degli studi universitari, l’accanito vizio del fumo, la dipendenza economica dalla famiglia, l’appartarsi a scrivere per ore. Finché nel maggio 1947 fu assunto, per la conoscenza di inglese e francese, in un’azienda vinicola albese, la “Figli di Antonio Marenco”, per curarvi le esportazioni. Si trattava di un lavoro non molto impegnativo se non in alcuni periodi dell’anno, che gli lasciava tempo per scrivere, talora anche in orario d’ufficio. Non avrebbe mai lasciato quella ditta, della quale sarebbe divenuto procuratore, e vi lavorò circondato dall’affetto e dalla stima che colleghi e amici gli tributavano per i suoi schietti tratti umani e lo scrupolo con cui svolgeva il suo compito.

Abbastanza inconsueto fu il suo percorso politico: il precoce e autentico antifascismo non lo aveva spinto a sinistra, neanche quel tanto da consentirgli di essere repubblicano, e il 2 giugno 1946 aveva votato Per la monarchia. Durante la guerra partigiana aveva visto nei comunisti nient’altro che “un incomprensibile sottoprodotto della guerriglia”. Solo in seguito, prendendo atto delle condizioni sociali del dopoguerra e costatando di persona come, ad esempio, “in una impresa vinicola di Alba … un centinaio di donne, con mani paonazze, lavava bottiglie da mattina a sera per un salario inferiore al necessario per vivere, Fenoglio cominciò a vedere i “rossi” in una nuova prospettiva”, incamminandosi “per gli amari sentieri della sinistra non comunista” (Chiodi).

L’altro aspetto dell’anonima e quieta vita di provincia fu una ricerca letteraria tesa e tormentata, segnata sin dall’inizio dal contrasto tra una robusta vocazione e il dubbio (che non si sarebbe mai del tutto dissolto) di non essere in grado di dare espressione adeguata al mondo che intendeva narrare, e da un intenso lavorio di stesure e rifacimenti, progetti abbandonati e poi ripresi, scorporamenti e riaggregazioni di brani (“la più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti. Scrivo with a deep distrust and a deeper faith”: in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E. F. Accrocca, Venezia 1960, p. 181).

Esordiente col racconto Il trucco (su Pesci rossi, bollettino editoriale della Bompiani, novembre 1949, sotto lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti), per affermarsi dovette passare attraverso il severo vaglio della casa editrice Einaudi. Nel 1949 inviò alla redazione i Racconti della guerra civile e nel 1950 presentò il romanzo La paga del sabato, che ebbe i giudizi positivi di Italo Calvino e Natalia Ginzburg e le riserve di Elio Vittorini, che non ne sostenne la pubblicazione. Finalmente nel 1952 uscì nella collana dei “Gettoni”, diretta da Vittorini, I ventitré giorni della città di Alba, che oltre al racconto del titolo conteneva, dopo molte revisioni, i Racconti della guerra civile e uno (Ettore va al lavoro) ripreso dalla Paga del sabato.

Sempre nei “Gettoni” fu edito nel 1954 il romanzo, ambientato nelle LangheLa malora, sulla durezza dei rapporti di lavoro e delle relazioni umane in quel mondo contadino e in quella terra povera e aspra tra Otto e Novecento. Il libro era accompagnato da un singolare risvolto polemico di Vittorini, che metteva in guardia “questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile” da una narrazione a “spaccati” e “fette” della vita, “senza saperne fare il simbolo di storia universale”. Il F. ne fu contrariato e, pur restando una solida amicizia con Calvino (testimoniata anche da un significativo carteggio), i rapporti con la casa editrice torinese si fecero da allora più incerti.

La malora e i racconti ambientati nelle Langhe (ve ne erano nei Ventitrè giorni e molti altri ne sarebbero venuti) costituiscono un rivo importante nella narrativa fenogliana perché situano poeticamente e “antropologicamente” il filone resistenziale, più intensamente percorso nelle opere maggiori, dandogli quel senso di verità, ineluttabilità, non letterarietà che ne costituisce il fascino. E si tratta anche qui di una ricerca che parte da dati reali, vissuti alla radice con grande intensità e sciolti poi in una scrittura tutta “oggettivata”: “I vecchi Fenoglio, che stettero attorno alla culla di mio padre (scriveva nel Diario alla data del 18 ag. 1954), tutti vestiti di lucido nero, col bicchiere in mano e sorridendo a bocca chiusa. Che sposarono le più speciali donne delle Langhe, avendone ognuno molti figli, almeno uno dei quali segnato. Così senza mestiere e senza religione, così imprudenti, così innamorati di sé. lo li sento tremendamente i vecchi Fenoglio, pendo per loro (chissà se un futuro Fenoglio mi sentirà come io sento loro). A formare questa mia predilezione ha contribuito anche il giudizio negativo che su di loro ho sempre sentito esprimere da mia madre. Lei è d’oltretanaro, d’una razza credente e mercantile, giudiziosissima e sempre insoddisfatta. Questi due sangui mi fanno dentro le vene una battaglia che non dico” (Opere, III, pp. 208 s.).

Nel 1958 il F. prese contatti con le edizioni di Livio Garzanti, il quale gli fu amico e consigliere (il carteggio tra i due è conservato presso la casa editrice) e nel 1959 gli pubblicò a Milano il romanzo, anch’esso dalla stesura tormentataPrimavera di bellezza, primo frammento dell’epopea partigiana alla quale stava alacremente lavorando.

Il libro, che racconta in chiave trasparentemente autobiografica (il protagonista è Johnny, alter ego del F.) la dissoluzione dell’esercito all’8 settembre e il drammatico rientro, fu variamente recensito e ricevette il premio Prato 1960.

Sposò nel 1960 Luciana Bombardi, dalla quale nel 1962 ebbe una figlia, Margherita. Nel 1962, per il racconto Il mio amore è Paco (edito su Paragone, n. 150), ricevette il premio Alpi Apuane. Ammalatosi di cancro ai bronchi, dal 1962 passò gli ultimi mesi di vita tra periodi di riposo in collina e una clinica di Bra. Ricoverato infine all’ospedale delle Molinette di Torino, gli fu praticata la tracheotomia e, nel taccuino con cui comunicava con i suoi cari, ordinò un “funerale civile, di ultimo grado, domenica mattina, senza soste, fiori e discorsi“.

Il F. morì a Torino nella notte tra il 17 e il 18 febbr. 1963.

Non il successo ma solamente una certa notorietà arrise al F. da vivo. Solo successivamente, a mano a mano che emergeva la parte inedita e sommersa degli scritti, si intese il complesso universo poetico che ne sottendeva la ricerca letteraria, e l’opera del F. divenne oggetto di crescente attenzione critico-filologica. Dopo i racconti di Un giorno di fuoco (Milano 1963, parzialmente già preparato dall’autore per la pubblicazione, che includeva il decisivo racconto lungo Una questione privatasu un episodio di guerra partigiana), uscì un importante, complesso e “conclusivo”, seppure non terminato, romanzo, Il partigiano Johnny (a cura di L. Mondo, Torino 1968), rinvenuto dattiloscritto, seguito dall’ancora inedito La paga del sabato (a cura di M. Corti, Torino 1969). Altri inediti furono raccolti in Un Fenoglio alla prima guerra mondiale (a cura di G. Rizzo, Torino 1973). Infine, nel 1994, fu pubblicato con il titolo Appunti partigiani 19441945, a cura di L. Mondo e ancora per i tipi di Einaudi, un manoscritto di recente rinvenimento risalente circa al 1946, che contiene la prima trama della narrativa resistenziale.

Già Un giorno di fuoco, e in particolare il racconto Una questione privata, aveva aperto uno squarcio illuminante sulla poetica fenogliana. Nell’introduzione del 1964 alla riedizione del Sentiero dei nidi di ragno Calvino vi vedeva un punto d’approdo della letteratura resistenziale: “Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento e un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita: la stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno Una questione privata“;in questo “c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione e la furia”.

Ma il vero punto d’approdo dell’epopea fenogliana, sarebbe emerso ancora successivamente, con la scoperta e la disamina di quel laboratorio letterario costituito dal Partigiano Johnny (che narra l’intero arco della lotta partigiana, nel più proprio linguaggio del F., della guerra civile, dalla fine del 1943 ai primi del 1945), romanzo rinvenuto in due stesure ma poi abbandonato dall’autore in favore del diverso progetto narrativo, già evidenziato in Primavera di bellezza, dove Johnny viene fatto morire nel settembre 1943, e poi sfociato in Una questione privata, ilcui protagonista è il meno romantico e più disincantato Milton.

Traduttore per diletto e per le serate culturali del Circolo sociale di Alba (T.S. Eliot, G.M. Hopkins, J. Donne, E. Pound), nel 1955 pubblicò su Itinerari la versione di The rime of the Ancient mariner di S. T. Coleridge. Altre sue traduzioni sarebbero uscite postume. Il rapporto del F. con la lingua inglese va tuttavia ben oltre l’attività di traduttore. Non solo costituì permanente verifica dell’efficacia e asciuttezza della propria prosa, ma divenne prima lingua di scrittura, nel senso che egli usava scrivere, totalmente o in parte, in inglese e poi tradurre in italiano.

Ha scritto D. Isella a proposito del Partigiano Johnny (ma il discorso può estendersi all’intera opera del F.): “Chi si è occupato competentemente dell’inglese di Fenoglio [G. L. Beccaria] ne ha messo in evidenza il forte tasso di arbitrarietà o inventività, che lo contrassegna come un privato idioletto … L’italiano modellato su di esso è altrettanto inventivo e arbitrario… La forza liberatoria della prosa del Partigiano si sviluppa… da un’idea di lingua plastica, malleabile a proprio talento; e opera sfruttando, al limite estremo, le possibilità implicite nell’italiano, come in diverso grado in ciascun sistema linguistico, i cui meccanismi creativi, anchilosati per lo scarso uso, vengono vitalmente riattivati. Non, dunque, una lingua raggelata, fossile, con cui scontrarsi; ma una lingua magmatica, con cui collaborare creativamente. Il risultato è una prosa incessantemente produttiva di neoformazioni lessicali, morfologiche e sintattiche” (Romanzi e racconti, pp. XVIs.).

Fonti e Bibl.: Carte e documenti sono raccolti ad Alba presso il Fondo Feneglio. Raro esempio nella letteratura italiana dei Novecento, l’opera del F. ha dato luogo a importanti studi critici (particolarmente rilevanti quelli sulla lingua e quelli relativi al problema della datazione degli scritti pubblicati postumi, in specie del Partigiano Johnny) e a due raccolte di robusta lena filologica: Opere, a cura di M. Corti, I-III, Torino 1978; Romanzi e racconti, a cura di D. Isella, Torino 1992 (con cronologia alle pp. XLV-LXIV e con bibl. essenziale alle pp. 1668-1675). Per una bibliografia vedi F. De Nicola, Introduzione a F., Roma-Bari 1989. Tra i lavori utili o significativi, senza pretesa di completezza: P. Chiodi, Fscrittore civile, in La Cultura, III (1965), pp. 1-7; G. Lagorio, BF., Firenze 1969 (e poi 1982); G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa ital., Torino 1976; La critica e F., a cura di G. Grassano, Bologna 1978; M. Corti, B. FStoria di un continuum” narrativo, Padova 1980; R. Bigazzi, F.: personaggi e narratori, Roma 1983; G. L. Beccaria, La guerra e gli asfodeliRomanzo e vocazione epica in BF., Milano 1984; E. Saccone, FI testilopera, Torino 1988; M. Pietralunga, BFand English literaturea study of the writer as translator, Berkeley-Los Angeles-London 1988; F. Vaccaneo, BFLe operei giornii luoghiuna biografia per immagini, Cavallermaggiore 1994; M. Fenoglio, Casa Fenoglio, Palermo 1995, passim.

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