S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo di Cecco Angiolieri

da Sonetti, 86

È il testo più famoso di Cecco, in cui l’autore sfoga il suo malanimo contro il mondo augurandosi di poter seminare distruzione e coinvolgendo nella sua “furia” anche i genitori, rei di non dargli abbastanza denaro per i suoi stravizi (come detto in altri sonetti). Il tono è probabilmente più scanzonato che iroso e il componimento, lungi dall’essere l’espressione di un poeta asociale e “maledetto” come parve ai critici ottocenteschi, sembra piuttosto un “divertissement” letterario in cui Cecco strizza l’occhio al lettore, come risulta anche dall’elaborazione retorica. 

Metro

Il sonetto ha schema della rima ABBA, ABBA, CDC, DCD e presenta una notevole elaborazione retorica: i primi quattro versi sono altrettanti periodi ipotetici, in ciascuno dei quali pròtasi e apòdosi corrispondono ai due emistichi dell’endecasillabo, mentre nella seconda quartina i periodi si distendono per due versi; è presente l’anafora “S’i’ fosse” ripetuta in tutto nove volte, in tutta la prima quartina, ai vv. 5 e 7 della seconda, ai vv. 9-10 della prima terzina e nel primo verso della seconda terzina (la struttura è perciò simmetrica).

Nei vv. 1-4 Cecco usa la figura della personificazione e cita tre elementi naturali (fuoco, aria, acqua) riassunti poi dall’immagine di Dio, mentre nei vv. 5-8 si identifica con le due autorità “universali” del Medioevo, il papa e l’imperatore; nei vv. 9-11 vi è l’antitesi morte… andarei / vita… fuggirei in parallelismo, mentre i termini padre / madre (anch’essi in opposizione) sono entrambi in posizione di rima, all’inizio e alla fine della terzina.

Negli ultimi due versi c’è un’ulteriore antitesi (donne giovani e leggiadre / vecchie e laidetorrei / lasserei), con struttura a chiasmo (verbo-oggetto-oggetto-verbo). L’ultima ipotesi, “S’i’ fosse Cecco”, è l’unica realistica e riporta il discorso su un piano più modesto dopo le immagini paradossali delle prime tre strofe.

Testo

S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo; 
s’i’ fosse vento, lo tempesterei; 
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; 
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo; 

s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo, 
ché tutti cristïani imbrigherei; 
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei? 
A tutti mozzarei lo capo a tondo. 

S’i’ fosse morte, andarei da mio padre; 
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui: 
similemente farìa da mi’ madre. 

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, 
torrei le donne giovani e leggiadre: 
e vecchie e laide lasserei altrui. 

Parafrasi

Se fossi il fuoco, brucerei il mondo; se fossi il vento, lo colpirei con tempeste; se fossi l’acqua, lo annegherei; se fossi Dio, lo farei sprofondare;


se fossi il papa, allora sarei contento, poiché metterei nei guai tutti i cristiani; se fossi l’imperatore, sai cosa farei? Taglierei a tutti la testa di netto.


Se fossi la morte, andrei da mio padre; se fossi la vita, fuggirei da lui: farei una cosa simile con mia madre.

Se fossi Cecco, come sono e sono sempre stato, prenderei le donne giovani e belle; lascerei agli altri quelle vecchie e brutte.

Commento

  • Il testo si presenta come una burla irriverente e un gioco letterario in cui Cecco ammicca al lettore, come si deduce dal finale del sonetto: dopo aver formulato ipotesi manifestamente assurde, l’autore conclude dicendo di essere solamente Cecco e di voler ricercare i piaceri materiali della vita (prendere le donne belle e giovani), che è la sola cosa possibile quando ha denari a sufficienza (l’accenno alla agognata morte dei genitori è una spia delle sue difficoltà economiche, lamentate in altri sonetti a causa dell’avarizia del padre e della madre: Tre cose solamente).
  • Alla fine il poeta riporta il discorso sul piano banale della quotidianità e facendo in fondo dell’autoironia, in quanto dopo aver desiderato di bruciare il mondo deve accontentarsi di sedurre qualche giovane popolana, quando non è al verde.
  • Cecco si rifà qui al genere poetico dell’improperium e dell’invettiva che aveva già un illustre precedente nei Carmina burana della tradizione goliardica mediolatina, nonché vari esempi nella poesia comico-realistica in Toscana, con Rustico di Filippo e lo stesso Dante della “tenzone” con Forese Donati. La differenza è che il poeta senese non rivolge il suo attacco verbale a un avversario politico o a un interlocutore particolare, bensì all’umanità in genere e poi ai genitori, demistificando la carica polemica dei suoi versi (per quanto spesso anche l’improperium vero e proprio fosse da intendersi in senso giocoso e non sempre malevolo).

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Cecco Angiolieri

Nacque a Siena intorno al 1260.

padre, Angioliero degli Angiolieri, era tra le persone più segnalate per ricchezza e nobiltà: banchiere di papa Gregorio IX, fu dei Signori del Comune nel 1257 e nel 1273, dopo essere stato due volte priore, ed entrò nell’ordine dei Cavalieri di Beata Maria, più noto come quello dei Frati Gaudenti. Non meno nobile discendenza aveva la madre di lui, monna Lisa della famiglia dei Salimbeni, anch’essa iscritta al suddetto ordine. È presumibile che l’A. trascorresse in Siena gli anni della sua prima giovinezza e della sua formazione.

Di famiglia tradizionalmente guelfa, prese parte, nel 1281, alla campagna militare condotta per la conquista del castello ghibellino di Turri in Maremma, e fu multato, in quell’occasione, due volte in lire due per essersi arbitrariamente assentato dal campo. Altre multe gli fioccarono addosso l’anno successivo; fra l’altro, “quia fuit inventus de nocte post tertium sonum campane Comunis” (cfr. A. F. Massèra, La patria…, p. 446 n. 3) e questa motivazione è ripetuta nel 1291, anno nel quale Cecco fu anche coinvolto nel processo per il ferimento di un tale Dino di Bernardo da Monteluco, risultandone tuttavia innocente. Nel secondo semestre dell’anno 1288 i Senesi inviarono un piccolo contingente di truppe in aiuto dei Fiorentini impegnati in quella guerra contro Arezzo che si concluse con la battaglia di Campaldino (1289), alla quale, com’è noto, partecipò anche Dante Alighieri.

Fra i Senesi era Cecco Angiolieri con suo padre; e non è improbabile che Cecco e Dante, allora pressoché agli inizi delle loro rispettive carriere poetiche, vi si incontrassero e vi iniziassero un’amicizia, che, data la natura così radicalmente diversa dei due poeti, non poteva durare.

Ne è prova una serie di tre sonetti indirizzati dall’A. all’Alighieri, del quale, però, non ci sono pervenuti i rispettivi sonetti collocutorii:

1) Lassar vo’ lo trovare di Becchina, sicuramente scritto fra il 1289 e il 1294, nel quale i rapporti fra i due poeti sono amichevoli;

2) Dante Alighier, Cecco, ‘l tu’ serv’e amico, nel quale il poeta senese con un affiorante sorriso d’ironia crede di cogliere in contraddizione, nel sonetto Oltre la spera che più larga gira, l’amico poeta fiorentino, che rintuzzerà forse indirettamente l’accusa nella prosa del paragrafo XLI della Vita Nuova ed in Convivio III, IV, 9;

3) Dante Alighier, s’i’so’, bon begolardo, nel quale la rottura appare profonda e completa. Da quest’ultimo sonetto emerge chiaramente che Dante rivolse a Cecco parole di aspro rimprovero, suscitando la puntuta reazione del vecchio amico, che si trovava a Roma (“s’eo so’ fatto romano, e tu lombardo”). Secondo una poco sicura notizia del filologo senese Celso Cittadini, l’A. fu, a Roma, in casa del cardinale senese Riccardo Petroni; ma sembra comunque certo che, anche prima della morte del padre (già avvenuta nel 1296), egli dovette abbandonare per un certo tempo Siena, probabilmente per ragioni politiche.

Nessuna notizia si ha per gli ultimi anni della vita di Cecco (il terzo sonetto contro Dante risale all’anno 1304), salvo ch’egli vendette, nel 1302, una sua vigna a Neri Perini per settecento lire. Né si conosce l’anno preciso della sua morte, certamente avvenuta per altro prima del 1313.

È del febbraio di quest’anno, infatti, un documento attestante che Meo, Deo, Angioliero, Arbolina, Simone, “filii olim Cecchi domini Angelerii”, rifiutavano l’eredità patema, perché eccessivamente ipotecata (cfr. A. F. Massèra, La patria…, p. 448). E dopo, e nonostante, questa legale rinuncia, costoro furono condannati ugualmente a pagare una certa somma che il Comune di Siena credeva di aver diritto di esigere da Cecco, loro padre.

Da chi Cecco avesse avuti questi figli, e un’altra figlia, Tessa, già in precedenza emancipata e perciò non nominata nel documento ora ricordato, non sappiamo. Non certo da quella Uguccia Casali della quale parla il D’Ancona come moglie di lui, e che, invece, fu moglie di un altro omonimo e contemporaneo Cecco Angiolieri, come ha dimostrato A. F. Massèra, appartenente a quel ramo cortonese degli Angiolieri, che si disse poi degli Alticozzi. Costui era vivo nel 1329; molti anni dopo, dunque, che era già morto l’altro Cecco Angiolieri poeta senese.

Opere

La prima organica edizione dei sonetti dell’A. è dovuta ad A. F. Massèra, ed apparve a Bologna (ed. Zanichelli) nel 1906. Conteneva 138 sonetti, divisi in sette gruppi secondo il loro contenuto, e tratti per la maggior parte dal cod. Chigiano L. VIII. 305 e in minor parte da altri manoscritti. L’edizione era anche corredata di abbondanti note critiche, storiche e filologiche. A quei 138 sonetti ne furono poi aggiunti dal Massèra alcuni altri, ritrovati nel cod. Escurialense e. III. 23; sicché, nella sua successiva edizione laterziana (1920) dei Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, i componimenti attribuiti all’Angioleri salivano a 150.

Essi inoltre venivano ordinati in modo da costituire un vero e proprio “canzoniere“, dall’innamoramento alla gelosia, alla conquista, alle esorbitanti pretese della donna, al lamento sulla povertà e al conseguente improperio contro il padre e la madre, accusati di esser poco generosi di danaro col poeta loro figlio. L’ordinamento (conservato da C. Steiner nella sua edizione commentata del 1925) si adeguava, dunque, alla interpretazione romantico-autobiografica, che, con grande fortuna critica, aveva attribuito alle rime di Cecco il più autorevole studioso dell’A., il D’Ancona. Nel 1940 apparve una seconda edizione del volume masseriano, riveduta e aggiornata da L. Russo; ma non recava alcuna novità circa i sonetti del poeta senese, sebbene da A. Todaro fosse stata prospettata (1933 e 1934) una non lieve questione di attribuzioni e di autenticità. Alle ipotesi della Todaro si riallacciano i successivi studi di M. Marti (1950; confermati in sostanza dalle ricerche di A. Razzini nell’anno 1954) in preparazione a una nuova edizione dei sonetti dell’A., apparsa poi (1956) nel volume dei Poeti giocosi del tempo di Dante. Qui i sonetti autentici sono ridotti a 112, in appendice ai quali compaiono altri 16 sonetti dubbi; e il loro ordinamento è radicalmente diverso da quello del Massèra, poiché, nel frattempo, s’era andata dileguando (Russo, Sapegno) l’interpretazione romantico-autobiografica dei contenuti angioliereschi, e s’era andata sostituendo, pur con qualche concessione a linee critiche tradizionali (Maier, Figurelli), la misura della cultura e dello stile, la quale non nega il dato biografico, sotto il profilo dell’esame psicologico, né l’elemento storico sotto il profilo dell’implicazione sociale, ma è disposta a riconoscere l’uno e l’altro solo nell’epifania di un’arte individuale formatasi nel clima di una precisa cultura, e concreta testimonianza di una letteratura “generica” di respiro romanzo ed europeo (Marti). Così la costruzione masseriana, operata dall’estemo, di un “canzoniere” angiolieresco, cede ora il posto ad uno svolgimento di esperienze, di toni, di “topoi” giustificati da una particolare visione della vita antiplatonica, che si traduce nei modi di un ben posseduto stile “comico”. Tuttavia, una successiva edizione, a cura di M. Vitale, del gruppo dei poeti giocosi, apparsa a Torino anch’essa nel 1956, da una parte riconfermava generalmente i risultati del Marti circa l’autenticità dei sonetti da attribuire a Cecco Angiolieri, ma, dall’altra, si rifaceva alla costruzione masseriana del “canzoniere”, invero irremissibilmente compromessa ormai dalla necessaria sottrazione dei sonetti non autentici.

La figura di Cecco Angiolieri assume storico significato solo se inserita nella tradizione scolastica di tono giocoso e nella letteraria di genere goliardico, e se contrapposta ai “poetae novi” del dolce stile. Rivive nella cultura e nella tradizione. Per lungo tempo s’è creduto veramente autobiografico tutto ciò che al poeta piacque narrare di sé nei suoi versi: l’amore per una Becchina rivelatasi presto linguacciuta, volgare, cupida; la realtà di una strana innominata moglie che garrisce in modo atroce e solo invita a far masserizia; la ribellione, al padre e alla madre, vecchi, avari e sempre maledettamente vivi; la povertà odiosa, spregevole, insopportabile, al confronto delle ricchezze che sole permettono ogni godimento; la dissipazione quotidiana fra donne, taverne e dadi.

Certo, alcuni documenti già ricordati e riguardanti la vita di Cecco sembrano confermare sregolatezza e dissipazione; ma ciò non può in alcun modo autorizzare ad attribuire ai contenuti dei sonetti una precisa indicazione autobiografica. La coincidenza biografico-letteraria non è in quei temi, che hanno tutto il sapore di una mitologia poetica tradizionale, ma nella originaria e connaturata scelta letteraria e stilistica operata da Cecco, la quale è sempre in funzione di opposizione, di polemica, di ribellione a ciò che è contrario al carattere insofferente e scapigliato del poeta. La sua interiore biografia trova adeguata espressione, solo in un’arte multiforme, varia, cangiante, sempre lontana dall’ascensione idealistica e dal misticismo “tragico” e solenne; arte, per. altro, non popolare né d’istinto, ma raffinata e colta, educata sulla tradizione e sulla scuola delle Artes dictandi, ricca di vistosa tensione retorica. L’esame del lessico, della sintassi, potrebbe indurre ad affermare che l’A. pecchi addirittura di tecnicismo e di letterarietà. I suoi incipit  iperbolici, la sua tecnica “a catena”, l’improvvisa introduzione della battuta dialogata, la conclusione esclamativa, la sua sintassi impervia, il suo lessico dialettale, ma pur ricco di parole nuove e preziosissime, l’uso scoperto di formule e di figure retoriche, le cadenze sentenziatrici e proverbiose suggerite dalle Artes, le modulazioni scanzonate e motteggiatrici non solo rivelano la sua consumatissima perizia, ma finiscono addirittura col porre in guardia il lettore. I suoi temi, quasi tutti, sono tradizionalmente logorati (svolti dalla letteratura goliardica in latino, o recati come esempi nelle trattazioni retoriiche, o assunti già in molteplici variazioni da una vasta letteratura romanza di carattere giocoso); ristretti sembrano i confini della sua specifica inventio. Forse il suo “trovato” nuovo è nell’invettiva antipaterna; ed è inserito, tuttavia, fra gli altri “trovati” vecchi come aspetto di un preciso genere (vituperium), e atteggiato secondo la, comune categoria stilistica dello stile “comico”.

Ma Cecco sa elaborare quell’antica mitologia con aria scanzonata e beffarda e farla rivivere con interesse attuale nella sua polemica letteraria antiaulica in genere e antistilnovistica in particolare.

Le sue rime per Becchina costituiscono la caricaturale rifrazione dello stilnovo e di Beatrice: diabolica fattura contro angelica creatura. E sa anche calare quei temi nella vita tumultuosa, compagnevole e pettegola (quante figure di scorcio nei suoi sonetti !) del Comune di Siena. E, dunque, la mimesi caricaturale è il modo più felice della sua espressione, l’attenzione acuta e immediata il segno della sua più vera umanità. Cecco ha saputo fissare in arte quel riso malizioso e un po’ grossolano, ma, in fondo, innocente, che affiora spontaneamente nell’animo, in maggiore o minore misura, quando linee caratteristiche di cose o difetti caratteristici di uomini sono accentuati fino all’esagerazione: che può esser segno di sprezzo, ma anche d’amore.

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La poesia comico-realistica

Con l’aggettivo “comico” nella letteratura del XIII-XIV sec. ci si riferisce a quelle opere di stile e argomento non elevato che si distinguevano da quelle considerate più alte, in base alla retorica medievale che individuava tre stili diversi (uno alto e “tragico”, proprio soprattutto dell’epica e della lirica amorosa, uno medio e “comico” e uno basso ed “elegiaco”, che corrispondeva a componimenti quali il lamento d’amore o il compianto funebre). La poesia comica o comico-realistica includeva perciò tutti quei testi che in quanto a linguaggio e temi non rientravano negli altri due filoni e il termine non si riferiva al concetto classico di “commedia”, né era sempre associato a contenuti tali da suscitare il riso nel pubblico, dal momento che le poesie “comiche” potevano anche affrontare argomenti politici ed essere usati per attaccare avversari con l’arma dell’invettiva. Ovviamente la distinzione non era così rigida e, se esistevano poeti specializzati nella produzione di testi comici, non erano rari i casi di scrittori che si muovevano da uno stile all’altro con una certa disinvoltura, come il caso di Dante dimostra chiaramente (egli fu autore della “tenzone” con Forese Donati, uno scambio polemico di sonetti con un amico-rivale, mentre varie parti della Commedia sono volutamente scritte con un stile tendente al basso, adeguato al contesto affrontato). Il pubblico della poesia comica era per lo più popolare e molti testi di questo filone erano destinati alla tradizione orale, come nel caso della produzione giullaresca, ma i componimenti dei poeti più colti si rivolgevano a lettori di estrazione sociale elevata e presupponevano la conoscenza da parte del pubblico dei testi di stile alto, che non di rado venivano parodiati (questo accadeva specialmente con la lirica d’amore, le cui situazioni tipiche venivano rovesciate per creare il ridicolo e suscitare il divertimento nei lettori). I modelli erano quanto mai vari e spaziavano dalla letteratura mediolatina ai generi bassi della poesia provenzale, senza dimenticare la tradizione popolare e folklorica che agiva potentemente soprattutto nella produzione giullaresca, i cui esponenti erano spesso personaggi colti e raffinati.

Già agli inizi del XIII sec. si diffonde in Italia una poesia destinata a un pubblico popolare, di cui sopravvivono poche testimonianze scritte in quanto non era pensata tanto per la lettura quanto per la recitazione di fronte a una folla di illetterati, da parte di attori girovaghi: noti come giullari, questi personaggi erano saltimbanchi e giocolieri (il nome deriva proprio dal lat. iocularis, “giocoliere”) che si esibivano di fronte a un pubblico improvvisato nelle strade, vivendo grazie alle offerte che raccoglievano con le loro esibizioni che, spesso, erano accompagnate dalla musica. Alcuni di loro eseguivano testi scritti da altri, mentre diversi giullari erano autori essi stessi delle proprie poesie e non mancavano tra loro personaggi colti, che a un livello più alto potevano esibirsi anche alla corte di signori feudali o addirittura sovrani, come nella lett. provenzale dove i “menestrelli” (come pure venivano chiamati) eseguivano le poesie dei trovatori occitanici.

I generi di questa poesia giullaresca erano assai vari e molti testi poetici erano di argomento amoroso e prevedevano un accompagnamento di musiche e danze (come le ballate, le canzoni…), mentre altri erano destinati a scene teatrali più o meno improvvisate, in cui più attori impersonavano ruoli diversi e si esibivano nei “contrasti” (che potevano essere di argomento religioso, o più spesso amoroso); non mancavano poi narrazioni di tono epico, come i cantari del XIV sec. che si ispiravano alle Chansons de geste, né poesie che facevano la parodia dei generi alti di poesia lirica, come il lamento della donna malmaritata, oppure invettive di carattere politico o altro ancora. Spesso l’attività dei giullari assolveva a una funzione simile a quella dei moderni mass-media, poiché i loro testi diffondevano notizie su fatti storici o politici e, talvolta, muovevano in un senso o nell’altro l’opinione popolare, specie nei Comuni dell’Italia del centro-nord in cui erano più vivi gli scontri tra partiti e fazioni.

L’atteggiamento della Chiesa nei loro confronti era spesso ostile, dal momento che il contenuto dei cantica dei giullari era giudicato turpe e osceno e diversi atti ufficiali delle autorità ecclesiastiche condannavano questi personaggi, non di rado colpiti anche da divieti emessi dal governo comunale. La gran parte della produzione giullaresca è ovviamente andata perduta, proprio perché tali testi non sempre erano fissati in una forma scritta, anche se alcune opere riconducibili a quella tradizione si sono conservate e di alcuni giullari “colti” abbiamo avuto notizia, benché di essi manchino spesso dati biografici certi.

Talvolta la trasmissione di testi rientranti nella produzione popolare è avvenuta per fatti singolari e casuali, come nel caso dei cosiddetti “Memoriali bolognesi” che rappresentano un ricco repertorio di poesie per lo più anonime, dovute il più delle volte all’opera di giullari e scrittori improvvisati: i Memoriali erano registri pubblici dove i notai di Bologna a partire dal 1266 trascrivevano atti ufficiali come contratti e testamenti e dove gli spazi bianchi venivano barrati o, in altri casi, riempiti con la copiatura di liriche volgari, che spesso sono l’unica testimonianza di tali testi giunta sino a noi. Tale pratica durò dal 1279 al 1325 e tra i testi copiati vi sono liriche di scrittori colti, come Dante e Cavalcanti, ma anche poesie popolari anonime, tra cui un’alba (il commiato degli amanti al termine della notteintitolata Pàrtite, amore, a Deo), la nota ballata del fanciullo che piange la fuga dell’usignolo dalla gabbia (For de la bella caiba), un contrasto tra due donne plebee in lite fra loro e molte altre.
Se gli autori di queste poesie sono quasi tutti ignoti, abbiamo invece notizia di alcuni giullari colti di cui spesso ci sono giunti pochi testi, fra cui merita di essere ricordato Ruggieri Apuliese, autore senese che ci ha lasciato tra gli altri un vanto in cui enumera in una specie di filastrocca tutte le scienze e le arti da lui possedute, dicendosi pronto a discutere di qualunque argomento (il testo ha ovviamente intento parodico nei confronti della letteratura “seria”, specie dei poemi didattici). 

Più interessante la figura di Cielo d’Alcamo, un giullare colto vissuto a metà del Duecento di cui rimane un solo testo, il contrasto Rosa fresca aulentissima scritto in volgare siciliano e che ha avuto grande successo, anche se non tutti i dubbi sul suo autore sono stati sciolti: di lui non sappiamo nulla a parte il nome (Cielo sarebbe il diminutivo di Michele o Marcello) e l’origine siciliana o comunque dell’Italia meridionale, come la provenienza da Alcamo parrebbe suggerire (sempre che il cognome non vada letto “Dal Camo”); Dante cita il suo componimento in DVE, I, 12 come esempio di volgare siculo, anche se la lingua del contrasto contiene elementi riconducibili ad altre parlate del Sud Italia, per cui non è affatto sicuro (come fu ipotizzato) che egli sia vissuto alla corte di Federico II di Svevia.

Il contrasto riprende il genere provenzale della “pastorella” in cui un uomo, che qui è di origine popolare, corteggia una donna che all’inizio fa la ritrosa ma che alla fine gli si concede; lo stile oscilla tra espressioni auliche e letterarie ed altre di tono decisamente più basso, nel che si ravvisa forse la volontà di fare la parodia delle liriche amorose “alte” della letteratura del Duecento. Il testo accenna alle Costituzioni di Melfi emanate dall’imperatore Federico II nel 1231 e parla del sovrano come ancora vivo (morì nel 1250), dunque la composizione sembra risalire agli anni Trenta-Quaranta del XIII sec., probabilmente in Sicilia o in un’altra regione in cui quelle leggi avevano giurisdizione. 

Accanto a questa produzione destinata a un pubblico basso e affidata per lo più alla trasmissione orale, nella seconda metà del XIII sec. si sviluppa in Toscana un ricco filone di poesia comica (o, come anche si disse, comico-realistica) di argomento e stile non elevato ma ad opera di scrittori colti la cui figura è storicamente determinata, che ci hanno lasciato in qualche caso un corpus piuttosto nutrito di testi.

Si tratta di poesie anche molto diverse tra loro, che in alcuni casi vogliono essere la parodia delle liriche amorose di stile alto (specie dello Stilnovo), oppure si rifanno a generi tramandati dalla tradizione letteraria precedente, tanto di argomento giocoso quanto politico (ciò avviene soprattutto con l’invettiva, di cui si hanno esempi già nella poesia trobadorica, ma che con il plazer e l’enueg, l’elenco di cose piacevoli o fastidiose della tradizione occitanica).

La Toscana, terra animata nel Duecento da vivaci scontri politici tra Comuni rivali e talvolta tra fazioni all’interno della stessa città, era terreno fertile su cui una simile poesia poteva diffondersi e senza dubbio molti testi traevano spunto dal gusto per la battuta salace e il motteggio che erano tipici del volgare di questa regione, di cui si hanno esempi anche nella prosa narrativa di fine secolo e poi, nel Trecento, nel Decameron di Giovanni Boccaccio.

Alcuni poeti erano per così dire specializzati nella produzione comica, come nel caso di Cecco Angiolieri che fu tra gli esponenti di spicco (si veda oltre), ma non mancarono scrittori che solo occasionalmente si dedicarono a queste poesie alternandole alla lirica amorosa per la quale sono generalmente ricordati: è il caso, tra gli altri, di di Guido Cavalcanti, tra i protagonisti dello Stilnovo a Firenze e autore di una pastorella che narra il corteggiamento di una popolana da parte di un nobile cavaliere, destinato a terminare con un’unione carnale in un ameno boschetto e che si rifà in modo evidente alla tradizione provenzale in cui tali componimenti erano alquanto frequenti. Alla poesia comica si dedicò anche Dante Alighieri, protagonista alla fine del XIII sec. di una “tenzone” con l’amico-rivale Forese Donati, ovvero uno scambio di sonetti in cui i due si ingiuriavano a vicenda e dove accanto agli scontri personali e politici (Forese faceva capo ai Guelfi Neri, il partito avverso a Dante) c’è senz’altro una componente giocosa, che consente di non intendere il contrasto molto al di là di un divertissement letterario.

La tenso era del resto un genere proprio della poesia trobadorica elevata, in cui alcuni poeti discutevano in modo serio di argomenti poetici e letterari e come tale praticata anche dai poeti amorosi italiani, mentre lo scambio ingiurioso di sonetti rientra nel genere comico dell’invettiva che fiorì particolarmente in Toscana e che vide soprattutto il fiorentino Rustico di Filippo come rappresentante significativo.

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Chi è questa che vèn di Cavalcanti

Sonetto tra i più celebri di Cavalcanti, in cui la lode della bellezza della donna amata si accompagna alla dichiarazione di impotenza da parte del poeta nel descriverla appieno, data la natura angelica e trascendente della figura femminile e la sproporzione rispetto alle limitate capacità umane dello scrittore. La bellezza della donna-angelo è tale che ogni uomo al solo guardarla rimane ammutolito, mentre la sua virtù più importante è l’umiltà, che la rende paradossalmente superiore a tutte le altre donne. L’amore diventa esperienza religiosa e quasi mistica, anticipando tra l’altro il tema dell’ineffabilità della bellezza che sarà ripreso soprattutto da Dante, tanto nella “Vita nuova” quanto (su un piano più elevato) nel “Paradiso”. 

Metro

Sonetto con schema della rima regolare (ABBA, ABBA, CDE, EDC), senza la presenza di rime siciliane.

La lingua presenta alcuni latinismi (“âre”, v. 2; “seco”, v. 3) e provenzalismi (“piagenza”, v. 9; “canoscenza”, v. 14), con uno stile alquanto semplice e conforme al trobar leu proprio dello Stilnovo.

Testo

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira!
dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.

Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza.

Parafrasi

Chi è questa donna che arriva, che ognuno ammira e che fa tremare l’aria di luminosità, e che porta con sé l’amore, cosicché nessuno può parlare ma ognuno sospira?

O Dio, che cosa sembra quando muove gli occhi! Lo dica l’amore, poiché io non lo saprei descrivere: mi sembra una donna talmente umile che ogni altra donna, al suo confronto, io la definisco malvagia.

La sua bellezza non si potrebbe raccontare, poiché a lei si inchina ogni virtù nobile e la bellezza la indica come sua dea.


La nostra mente non è mai stata così profonda e in noi non c’è mai stata tanta perfezione, che possiamo avere una conoscenza compiuta di questa bellezza.

 Commento

  • Il sonetto celebra la bellezza della donna amata, tuttavia arricchisce il tema con riferimenti religiosi e scritturali secondo il modello di Guinizelli e, soprattutto, sviluppa il motivo dell’ineffabilità della bellezza femminile, espressione della grazia divina e dunque impossibile da cogliere per la mente umana e da esprimere per i limitati mezzi umani del poeta: fin dall’inizio l’atmosfera del componimento è mistica, con l’incipit che ricorda il Cantico dei Cantici (8,5: quae est ista quae ascendit de deserto / deliciis affluens et nixa super dilectum suum?, “Chi è costei che sale dal deserto, / piena di delizie e appoggiata al suo diletto”?), mentre la donna è circonfusa di luce come un’aureola, che fa ammutolire tutti coloro che la guardano; essa è umile più di qualunque altra donna e ciò la rende paradossalmente superiore a tutte, mentre la bellezza la indica come propria dea, come creatura sovrumana. L’incapacità di cogliere pienamente la bellezza della donna è di tipo filosofico, poiché la mente umana sembra inadeguata a penetrare sino in fondo a un mistero che proviene dalla grazia divina, perciò l’amore diventa un’esperienza affine al misticismo medievale, troppo profonda per essere espressa a parole. Alcuni studiosi hanno visto in questi versi dei riferimenti alla dottrina dell’averroismo, di cui forse Cavalcanti era seguace, mentre è noto che l’uomo fu dedito a studi filosofici e come tale anche rappresentato in altri testi letterari, per es. nel Decameron di Boccaccio.
  • Il motivo della bellezza “sovrumana” della donna e dell’incapacità poetica di esprimerla pienamente sarà ripreso anche da Dante, amico di Guido e suo compagno di scuola nell’ambito dello Stilnovo, sia in alcune rime della Vita nuova in cui all’apparire di Beatrice i presenti restano senza parole, sia soprattutto nella poesia del Paradiso, in cui il tema dell’ineffabilità della bellezza di Beatrice e della visione divina sarà dominante in tutta la Cantica ed è largamente derivato dal modello di Cavalcanti.
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Al cor gentil remplira sempre amore di Guinizzelli

È la “canzone-manifesto” della nuova maniera poetica iniziata da Guinizelli, poi diventata (forse al di là delle stesse intenzioni dell’autore) il testo modello per il canone degli Stilnovisti fiorentini: è la classica poesia di lode della bellezza della donna amata, ma con l’importante novità del valore religioso e spirituale dell’amore e, soprattutto, del nesso inscindibile tra amore e cuore nobile, che diventerà anch’esso un caposaldo della poesia di Dante e Cavalcanti. Il tutto è esemplificato attraverso una serie di paragoni tratti dal mondo naturale e dalla filosofia scolastica (le intelligenze angeliche), fino al congedo in cui Guinizelli immagina addirittura di dialogare con Dio per giustificare la propria poesia ai Suoi occhi. È questo anche il componimento in cui l’autore usa l’immagine della “donna-angelo“, poi destinata ad essere ripresa dallo Stilnovo che ne farà l’elemento emblematico della propria lirica amorosa

Metro:

Canzone formata da sei stanze di dieci versi ciascuna (endecasillabi e settenari), con schema della rima ABABcDcEdE (l’ultima stanza funge da congedo).

Le stanze 1-5 sono capfinidas: “foco” (vv. 10-11), “‘nnamora/amor” (vv. 20-21), “ferro/fere” (vv. 30-31, legame solo di suono), “splendore/splende” (vv. 40-41).

La lingua presenta provenzalismi (“rempaira”, v. 1, che significa propriamente “torna in patria”; “aigua”, vv. 26, 39; “amanza”, v. 60), forme bolognesi (“doplero”, v. 22; “dis[e], v. 33; “sïando”, v. 52), latinismi (“adamàs”, v. 30).

Testo

Al cor gentil rempaira sempre amore
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.

Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnamora.

Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su’ diletto, clar, sottile;
no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com’ adamàs del ferro in la minera.

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol perde calore;
dis’ omo alter: «Gentil per sclatta torno»;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’
sed a vertute non ha gentil core,
com’ aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.

Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo
Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.

Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».

Parafrasi

L’amore ritorna sempre al cuore nobile come nella sua patria, proprio come l’uccello [torna] nella selva tra il fogliame; e la natura non ha creato l’amore prima del cuore nobile, né viceversa: allo stesso modo, infatti, non appena fu creato il sole, il suo splendore fu subito lucente e non c’era prima del sole; e l’amore prende dimora nella nobiltà in modo appropriato, come il calore nello splendore del fuoco.



Il fuoco dell’amore si attacca al cuore nobile come la virtù nella pietra preziosa, poiché dalla stella non vi discende alcuna proprietà prima che il sole l’abbia purificata; dopo che il sole ne ha tirato fuori grazie alla sua forza ciò che è vile, la stella le dà la sua proprietà: così la donna, come una stella, fa innamorare quel cuore che è creato dalla natura eletto, puro, nobile.




L’amore sta nel cuore nobile per la stessa ragione per cui il fuoco sta in cima al candelabro: vi risplende chiaro e sottile a suo piacere; non potrebbe starvi in altro modo, tanto è fiero [tende verso l’alto]. Così una natura malvagia respinge l’amore come fa l’acqua col fuoco caldo, per il freddo. L’amore prende luogo nel cuore nobile come luogo simile a sé, come il diamante nel minerale di ferro.



Il sole colpisce il fango tutto il giorno: esso rimane vile, né il sole perde il suo calore; l’uomo altezzoso dice: «Sono nobile per nascita»; io paragono lui al fango e la nobiltà al sole: infatti non bisogna credere che la nobiltà sia fuori del cuore, nella dignità dell’erede se questi non ha un cuore nobile e virtuoso, come l’acqua è attraversata dai raggi luminosi e il cielo trattiene le stelle e il loro splendore.



Dio creatore splende nella intelligenza del cielo [gli angeli] più di quanto faccia il sole nei nostri occhi: essa [l’intelligenza angelica] conosce il suo creatore al di là del cielo e, facendolo ruotare, prende ad obbedirgli; e come a ciò segue, immediatamente, l’esecuzione felice della volontà di Dio, così, in verità, la bella donna quando risplende negli occhi dell’uomo nobile dovrebbe dargli il desiderio di non smettere mai di obbedirle.



Donna, quando la mia anima sarà davanti a Dio [dopo la morte] Egli mi dirà: «Come hai osato? Hai oltrepassato il cielo e sei venuto sino a Me, usando la mia figura come immagine per un vano amore: a Me si convengono le lodi, come alla Regina del Paradiso [la Vergine] per la quale viene meno ogni frode». Gli potrò rispondere: «[La donna] aveva l’aspetto di un angelo del Tuo regno; non sbagliai se posi in lei il mio amore».

Commento

  • La canzone divenne il vero “manifesto” dello Stilnovo, soprattutto ad opera di Dante e Cavalcanti che individuarono in Guinizelli il modello a cui ispirarsi per il nuovo modo di poetare: Dante, in particolare, cita il testo in DVE, I, 9 e II, 5, mentre il sonetto Amore e ‘l cor gentil sono una cosa (Vita nuova, cap. XX) riprende il concetto fondamentale del componimento guinizzelliano, così come le parole di Francesca in Inf., V riecheggiano il v. 11. La novità della canzone di Guinizelli sta soprattutto nel nesso inscindibile che viene posto tra amore e cuore nobile (“gentile”, secondo la terminologia stilnovista), su cui è imperniata la prima parte del testo (stanze 1-3), nell’esaltazione della nobiltà di cuore a scapito di quella di sangue (st. 4), nel valore religioso e spirituale che viene assegnato all’amore (st. 5, in cui c’è la complessa similitudine con le intelligenze angeliche), nel concetto divenuto poi fondamentale di “donna-angelo” (st. 6). Lo stile di Guinizelli è retoricamente elevato e il linguaggio ricco di riferimenti naturalistici e dottrinali, il che fa capire perché i poeti siculo-toscani lo accusarono di astrusità e poca chiarezza .
  • Nelle prime tre stanze il concetto fondamentale della canzone, ovvero il fatto che l’amore non può risiedere altrove che in un cuore nobile, viene esemplificato attraverso una serie di immagini del mondo fisico: l’amore torna nel cuore nobile come nella sua sede naturale, come l’uccello si rifugia nella selva (vv. 1-2), inoltre i due elementi sono connaturati come il sole e il suo splendore (vv. 3-10); il cuore nobile è paragonato a una pietra preziosa, che riceve la proprietà dalla stella solo dopo che il sole ne ha cancellato ogni impurità (vv. 11-20, con riferimento alla credenza medievale per cui le pietre avevano poteri particolari per influsso astrale, come detto nei lapidari); l’amore è poi paragonato alla fiamma che arde in cima al candelabro e ogni natura malvagia lo respinge proprio come l’acqua fredda spegne il fuoco (vv. 21-27, con l’ulteriore paragone del diamante, dotato secondo le nozioni del tempo di proprietà magnetiche e che perciò è attirato dal ferro).
  • Nella stanza 4 c’è un’ulteriore immagine naturalistica con il paragone del fango colpito dal sole, che rimane vile come l’uomo nobile per nascita che, in realtà, non possiede alcuna virtù, come anche l’acqua è attraversata dalla luce che non trattiene: la polemica è contro l’antica nobiltà feudale che rivendicava i suoi privilegi in forza del proprio sangue, mentre Guinizelli (e poi Dante) metteranno la nobiltà in relazione ai sentimenti e alle virtù.
  • La stanza 5 arricchisce la trattazione dell’amore con il complesso e discusso paragone con le intelligenze angeliche, che sono liete di obbedire a Dio muovendo le sfere celesti proprio come l’uomo innamorato è felice di obbedire alla donna-angelo: il passo non è chiarissimo anche a causa della tradizione manoscritta corrotta, benché sia evidente il tentativo di innalzare la materia amorosa col riferimento alla dottrina aristotelico-tomistica degli ordini angelici, che presiedono al movimento dei cieli e riversano sulla Terra gli influssi divini (il concetto riprende quello delle stelle e delle pietre preziose della stanza 2). L’amore viene visto come un sentimento elevato, spirituale, mentre la figura femminile si carica di significati religiosi e salvifici che saranno ulteriormente sviluppati dallo stesso Guinizelli in altri componimenti e poi da Dante e Cavalcanti. L’ultima stanza (congedo) chiarisce una volta di più il concetto della “donna-angelo“, con Guinizelli che immagina di essere rimproverato da Dio dopo la sua morte per aver osato paragonare a Lui e agli angeli un amore terreno e lui che si giustifica adducendo la bellezza “angelica” della donna, forse con qualche elemento di auto-ironia (la novità è evidente e spiega da un lato l’ostilità dei poeti siculo-toscani, dall’altra l’ammirazione dei poeti fiorentini che si riconoscevano nel magistero di Guinizelli).

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Guido Cavalcanti

Vita e opere

Nacque a Firenze, come risulta dalle attestazioni dantesche nel De Vulgari Eloquentia (“Guidonis de Florentia”, II, xii, 3; e cfr. anche I, xiii, 3); ma si ignora in quale anno. 

Considerato che nel 1284 egli fu membro del Consiglio generale del Comune e che a questo ufficio non si poteva accedere se non all’età di venticinque anni compiuti, occorrerà risalire per la nascita almeno al 1258, e verosimilmente a qualche anno più su. La ricca e potente famiglia alla quale apparteneva, di nobiltà non antica e consolidata coi proventi della mercatura, era tradizionalmente guelfa, e suo padre, Cavalcante de’ Cavalcanti, ne fu famoso esponente.

Fu discepolo di Brunetto Latini, secondo una incontrollabile notizia d’ascendenza umanistica che, per i grandi fiorentini del tempo di Dante, allora assunse quasi valore di topos biografico sulla scia di un risaputissimo giudizio di G. Villani (Cronica, a cura di A. Racheli, I, Trieste 1857, p. 174).

E nel 1267 in una di quelle non infrequenti cerimonie di pace fra opposte fazioni, nelle quali si stringevano parentadi, a lui, figlio di guelfo, fu promessa Beatrice (Bice) degli Uberti, figlia del grande Farinata ghibellino; e la promessa fu coronata da successive nozze. 

Dal matrimonio nacquero almeno due figli, dei quali si ha certa notizia da un documento scoperto da Isidoro Del Lungo (Dino Compagni…, II, p. 1113, nota), col quale la moglie del fu Guido Cavalcanti, Bice, e una sua figlia, Tancia, vedova anche costei di un Giacotto Mannelli, cedevano i loro diritti su beni che “olim fuerunt dicti Guidonis” (Tancia non era dunque figlia di secondo letto) “et postea devenerunt ad Andream filium et heredem ipsius Guidonis”. Di una figlia, Tessa, invece, secondo lo stesso Del Lungo, è assai dubbia l’identità. Un’altra traccia lasciata nei documenti dal matrimonio del C. con Bice degli Uberti, è stata rilevata dal Debenedetti (Lambertuccio Frescobaldi…, p. 37). Si tratta di una vendita fatta in solido da Guido e da Farinata di un “chasolare del chanto da la piazza degli Uberti, il quale fue di messer Farinata”, e che da Farinata sarebbe stato assegnato in dote alla figlia Bice per il suo matrimonio. 

Nel 1280 il C. doveva aver raggiunto non solo la maggiore età, ma anche una certa importanza rappresentativa, se egli, “filius quondam domini Cavalcantis” (il padre Cavalcante nel 1280 era dunque già morto), figura tra i fideiussores o anche expromissores della cosiddetta pace del cardinal Latino (cfr. Del Lungo, II, p. 1100). Quattro anni dopo, come già detto, egli sedeva nel Consiglio generale del Comune di Firenze, del quale erano anche autorevoli membri Brunetto Latini e Dino Compagni. Dagli Ordinamenti di giustizia del 1293 venne colpito come cavaliere e appartenente a famiglia magnatizia, e quindi escluso da ogni possibilità di accedere alle cariche comunali; né i successivi Ordinamenti del 1295 nella loro rigida costituzione gli offersero più questa possibilità. 

Dunque non risponde a verità l’opinione comunemente accettata che egli avesse sdegnosamente rifiutato d’iscriversi a qualcuna delle arti (il che gli avrebbe permesso di inserirsi dal di dentro nella vita politica e amministrativa di Firenze), anche se siffatto atteggiamento per avventura corrisponde alla logica interna dell’uomo (cfr. M. Barbi, GCe Dante di fronte al governo popolare, in Problemi di critica dantesca, II, Firenze 1965, pp. 371-78). Così egli fu costretto a condursi, nella tumultuosa vita fiorentina dell’ultimo decennio del sec. XIII, secondo le leggi del prestigio familiare e della propria fazione. Documento dell’aspra lotta fra i Cavalcanti e i Buondelmonti resta il suo sonetto a Nerone Cavalcanti, “Novelle ti so dire, odi, Nerone”, e vivi ricordi e giudizi della sua condotta partigiana si leggono nella Cronica del Compagni (I, 20). Inimicissimo di Corso Donati, capo di parte nera, il C. fu dei bianchi, capeggiati di Vieri dei Cerchi; e Corso, che “forte lo temea, perché lo conosceva di grande animo”, tentò di farlo assassinare durante un viaggio che Guido aveva intrapreso per raggiungere il santuario allora veneratissimo di San Iacopo di Compostella, in Galizia. Da parte sua il C., in compagnia di alcuni di parte bianca e fiducioso che costoro lo avrebbero seguito, assalì in piena città il rivale, lanciandogli un dardo che andò a vuoto, e subito dopo allontanandosi, per essere rimasto solo di fronte alla violenta reazione di Corso e degli altri che lo accompagnavano. Di un’altra aggressione alle case dei Donati si ha pure notizia, alla quale avrebbe partecipato, subito dopo il fallimento della missione di Matteo d’Acquasparta, il C. con altri di parte bianca (Villani, VIII, 41), i quali però furono tutti “rincacciati e fediti con onta e vergogna de’ Cerchi e de’ loro seguaci”; ma l’avvenimento è fissato al dicembre del 1300, quando Guido era già morto. 

Corso Donati lo gratificava del soprannome di “Cavicchia”, per morderne, come si continua a ripetere sulla scia di un candido giudizio di Isidoro Del Lungo (II, p. 92 nota), la salvatichezza filosofica e l’impuntarsi su questioni astratte, come se quel capo di parte inclinasse alle disputazioni filosofiche e potesse muoversi sullo stesso piano di cultura del Cavalcanti. In realtà l’ingiuria è assai più volgarmente plebea e sarcasticamente diffamatoria, degna in tutto di un capo violento e beffardo com’era il fiorentino Corso Donati. 

Non meraviglia dunque che il C., dopo la sanguinosa zuffa del giorno di S. Giovanni del 1300, e nelle misure di sicurezza che ne seguirono da parte dei Priori, fosse considerato capo indesiderabile, e venisse colpito dal provvedimento di confino, insieme con gli altri capi d’entrambe le parti. Dovette allora recarsi a Sarzana, ove si ammalò (cfr. la testimonianza di Leonardo Bruni, ricavata quasi certamente da un passo di una lettera di Dante che egli possedette; Dante Alighieri, Opere, Firenze 1960, p. 413), e dove, avrebbe composto la famosa ballata “Per ch’i’ no spero di tornar giammai”, come vuole una tenace, perché suggestiva e romantica, credenza, che tuttavia non poggia su alcun solido fondamento. 

Richiamato a Firenze, vi morì quasi subito, il 29 ag. 1300. 

Al suo “pellegrinaggio” a San Iacopo di Compostella oltre che nel citato Compagni (I, 20) si allude, piuttosto ironicamente, anche in un sonetto del senese Nicola Muscia “Ècci venuto Guido a Campostello?”, dov’è anche schizzato alla brava un ritratto caricaturale di lui (“che va com’oca e cascali ’l mantello” e “par che sia fattor de’ Rusticacci” e dove si allude alla sua faziosità politica (“È in bando di Firenze, od è rubello, / o dottasi che ’l popol nol ne cacci?”). Secondo il Muscia, il viaggio sarebbe stato interrotto a Nîmes, col pretesto della cattiva salute, e con il giustificato sdegno dello stesso s. Iacopo; ma è probabile che il C. giungesse almeno a Tolosa, che era una tappa obbligata sul cammino verso il santuario della Galizia. Qui, infatti, nella chiesa della “Dorata” (la Daurade, in riva alla Garonna), il poeta immagina il proprio incontro con Mandetta (“Amande” o “Mandet”), la bella tolosana “accordellata istretta”, soavemente rievocato nella ballata “Era in penser d’amor quand’i’ trovai”. E la bellezza di Mandetta viene certo descritta almeno nel sonetto “Una giovane donna di Tolosa”, la quale “ne’ suoi dolci occhi” ricorda al C. la sua donna lontana. Questa invece, posta al centro di un amore drammatico e doloroso, non è mai nominata nelle rime del C.; e per darle un nome e un volto (ovviamente reali di sola realtà poetica) si deve ricorrere alla citazione dantesca nel sonetto “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io” (v. 9: “E monna Vanna e monna Lagia poi”) e alla narrazione del cap. XXIV della Vita Nuova, col successivo sonetto “Io mi senti’ svegliar dentro a lo core” (v. 9: “Io vidi monna Vanna e monna Bice”). E perciò “lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua bieltade… imposto l’era nome Primavera; e così era chiamata” (XXIV, 3). Non ha invece avuto fortuna né alcun seguito l’ipotesi, avanzata per primo dal Renier (Monna Lagia…, pp. 330 s.) e accettata ed elaborata dal Di Benedetto (Fra gli amori…, Napoli 1928), che un’altra donna, di nome Lagia, fosse stata cantata dal Cavalcanti. Quanto alla Pinella, fuggevolmente nominata nel sonetto “Ciascuna fresca e dolce fontanella”, responsivo ad altro di Bernardo da Bologna, è possibile cogliervi una rispondenza, almeno topica e tematica, con la famosa ballata delle “foresette (“Era in penser d’amor quand’i’ trovai”), o, meno persuasivamente, con quella della “pasturella” (“In un boschetto trova’ pasturella”); entrambe comunque concepite secondo la tradizionale struttura del genere della “pastorella” francese. 

Ma nel mottetto, nelle due canzoni, nelle due stanze isolate di canzone, nelle undici ballate e nei trentasei sonetti che, sicuramente autentici, ci rimangono del C. non è l’amore il solo argomento. Particolare importanza è da riconoscere alle rime di corrispondenza, per il loro numero, per il loro tono, per i personaggi cui i versi sono indirizzati. A prescindere da un sonetto giocoso indirizzato a un Manetto (forse Portinari, forse Scali), che pure è un significativo omaggio alla natura parodistica e insieme al temperamento scolastico di siffatta poesia, ci sono gli accesi versi contro Nerone Cavalcanti, inquadrabili nella ricordata lotta tra le famiglie dei Cavalcanti e dei Buondelmonti, “Novelle ti so dire, odi, Nerone”; gli altri ispirati a polemica letteraria contro Guittone d’Arezzo, accusato di insipienza filosofica e di incapacità espressiva “Da più a uno face un sollegismo”; il mottetto agile e scherzoso in risposta a un sonetto di Gianni Alfani, che si guardi dalle reti d’Amore, “Gianni, quel Guido salute”; il già ricordato sonetto a Bernardo da Bologna; e le rime scambiate con Guido Orlandi, ora sull’immagine miracolosa della Madonna di Orsanmichele, circondata da una redditizia venerazione che i frati minori condannano solo perché quell’immagine non è nel loro convento, “Una figura della Donna mia”; ora su di una donna nota ad entrambi, di cui si esalta bellezza ed onestà, “La bella donna dove Amor si mostra”; ora d’argomento polemico, rinfacciando il C. all’Orlandi la totale ignoranza della dottrina d’Amore e l’Orlandi al C. contraddizioni ed oscurità, “Di vil matera mi convien parlare”. Del resto, rime indirizzarono al C. anche Dino Compagni, Bonagiunta da Lucca, Nuccio Senese, Lapo degli Uberti, Cino da Pistoia; ma, sopra tutte le altre, importanti sono quelle che il C. scambiò con Dante Alighieri. 

L’amicizia fra Dante e Guido sorse quando Dante inviò a tutti i “Fedeli d’Amore” il sonetto “A ciascun’alma presa e gentil core” (utilizzato poi all’inizio della Vita Nuova) e Guido rispose col sonetto “Vedeste, al mio parere, onne valore”: “E questo – narra Dante (III, 14), riferendosi al C. già chiamato “primo de li miei amici” – fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando egli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato”. Visibili, per altro, sono gli influssi del C. sulla prima parte del giovanile libello, e su talune rime estravaganti dantesche (per esempio, “La dispietata mente”, “Lo doloroso amor”, “E’ m’incresce di me”, ecc.; secondo il Bigongiari, La poesia di GC. …, p. 5, perfino sulle rime petrose); e gli affettuosi legami d’amicizia sono anche testimoniati dal già ricordato sonetto di Dante “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, al quale Guido rispose con “S’io fossi quello che d’amor fu degno”, d’accenti nostalgici e dolorosi; e dall’episodio pure qui addietro ricordato per altra ragione dell’apparizione di Giovanna detta la Primavera che precede Beatrice, come s. Giovanni preannunzia Cristo; onde la paretimologia di Primavera come “prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele” (Vita Nuova, XXIV, 4, e sonetto “Io mi senti’ svegliar dentro a lo core”). Ma il C., probabilmente dopo la composizione della Vita Nuova da parte di Dante (1293-94), ebbe ragione di lamentarsi di lui col sonetto “I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte”. Quale fu questa ragione? È assai difficile rispondere con la certezza d’essere nel vero. Il Barbi (Una nuova opera…, pp. 40 s.) ha pensato che il sonetto del C. fosse stato scritto per sollevare Dante dall’abbattimento psicologico in cui egli sarebbe caduto dopo la morte di Beatrice (e cfr. Vita Nuova, XXXI, 1); il D’Ovidio (La rimenata…, pp. 202-214) che esso rispecchiasse il “traviamento” di Dante e la “tenzone” con Forese Donati, onde l’accorato rimprovero dell’amico; il Contini (Dante come personaggiopoeta…, pp. 35 s.) che esso sarebbe segno di un dissidio sorto di fronte alla sublimazione di Beatrice, al suo trasferimento sul piano trascendente, onde anche il “disdegno” d’Inf., X, v. 63 (e cfr. Poeti del Duecento…, II, p. 489); e proprio partendo da questo “disdegno”, persuasivamente interpretato (il C. avrebbe disdegnato di essere condotto a Beatrice, al contrario di Dante), il Pagliaro (Il disdegno di Guido…, pp. 374-77) esprime l’opinione che quel sonetto sia il documento di un allontanarsi dei due sul piano teologico-filosofico (che è almeno per buona parte l’opinione del Nardi). 

Sono interpretazioni acute e ingegnose, delle quali nessuna scioglie però completamente il nodo. I vv. 5-6 del sonetto del C., “solevanti spiacer persone molte, / tuttor fuggivi l’annoiosa gente”, sono inesplicabili nella interpretazione del Barbi (come se la morte di Beatrice avesse potuto costringere il poeta a immergersi nella folla e a cercare con piacere l’annoiosa gente); né il C., che abbiamo visto fazioso e violento, e anche scrittore di versi giocosi, poteva assumere aggrondato atteggiamento di giudice morale o stilistico di fronte a Dante. D’altronde, una piena proiezione di Beatrice nella sfera del trascendente, essa stessa soggetto di trascendenza, è nella Divina Commedia più che nella Vita Nuova, nella quale per altro la sublimazione di lei come donna coincide con l’episodio della Donna Gentile e con l’apertura verso i domini del simbolo. Né, infine, sarebbe facile accordarsi col Pagliaro che l’“annoiosa gente” costituisca un’allusione alle scuole dei religiosi e alle dispute dei filosofanti. Tutto sommato, sembra preferibile l’interpretazione del sonetto in senso politico, già proposta dal Lamma, dal Rivalta e dal Pastine, pur se in modi non del tutto solidi e coerenti. Quando a Firenze furono promulgati i secondi Ordinamenti di giustizia (luglio 1295), il C., come nobile e magnate, rimase ancora del tutto escluso dal poter accedere a qualsiasi carica politica e amministrativa; a Dante, invece, nobile ma non magnate, si apriva la porta dell’iscrizione alle arti. A costui si imponeva dunque una scelta: o seguire le sorti degli aristocratici e dei magnati e rinchiudersi in una cultura isolata dai problemi della vita, oppure scendere a collaborare col “popolo” di Firenze nel segno della giustizia e a questo ideale asservire la propria cultura, subordinare il proprio destino. Dante scelse questa seconda strada; ed è facile supporre come questa scelta dovesse spiacere all’amico magnate, faziosamente sdegnoso, pago della sua raffinatissima letteratura. Col sonetto “I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte” il C. esprime all’amico la sua insoddisfazione per il fatto che egli si fosse deciso a schierarsi col “popolo” di Firenze (con quella “gente” che il C. considerava certo “annoiosa” e vile) invilendosi a sua volta, e di aver abbandonatogli aristocratici ideali dello stil novo per dedicarsi a una poesia diversa, consona però ai nuovi impegni di azione (“Or non ardisco per la vil tua vita / far mostramento che tuo dir mi piaccia”), alla poesia insomma non più tipicamente stilnovistica, ma realistica o allegorica e dottrinale. In Dante operavano già le due motivazioni più profonde e valide del suo realismo; né la sua partecipazione alla vita politica e amministrativa di Firenze, che proprio nel momento culminante del priorato costrinse l’Alighieri (e con lui era l’altro amico, il Compagni: “E io, Dino, fui uno di quelli”: I, 21) a firmare il provvedimento di confino contro il C., era fatta per riavvicinare i due. 

È significativo che nel De Vulgari Eloquentia non il C., bensì Cino da Pistoia rappresenta, insieme con Dante, l’eccellenza del volgare illustre, “tam egregium, tam extricatum, tam perfectum et tam urbanum” (I, XVII, 3), ed è Cino, non il C., considerato il più grande poeta d’amore nell’ambito stilnovistico (II, 11, 9). Sicché l’“altezza d’ingegno” attribuita dall’Alighieri al C. nel famoso episodio dell’Inferno (X, vv. 58-60: “Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’è?”) e la vittoria riconosciuta e conclamata del secondo Guido sul primo (il Guinizzelli) nell’altro non meno famoso episodio del Purgatorio (XI, vv. 97-98: “Così ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua”), mentre Cino da Pistoia non è mai nominato in tutto il poema, possono essere il segno di un ripensamento e di una nuovamente consapevole ridistribuzione di giustizia letteraria. Infine il “disdegno” del C. d’esser condotto a Beatrice (Inf., X, v. 63), maturato nella fantasia di un Dante tanto diverso da quello cui l’amico deluso si rivolgeva, più di quindici anni innanzi, col sonetto di rampogna “I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte”, bisognerà intenderlo nella maniera più puntuale e autonoma, e senza illusori agganci col sonetto, e coglierlo cioè nella differenza tra il C. filosofo naturale di colore averroistico (“Donna me prega”), del quale si parla tra le arche degli eretici (e vi si martirizzano Cavalcante, suo padre, e Farinata, suo suocero), e Dante, filosofo-teologo che viaggia verso la rivelazione guidato dalla ragione. 

Ciò presuppone, naturalmente, una dichiarazione in senso averroistico della canzone più importante del C., “Donna me prega, perch’lo voglio dire”, e certo la più discussa di tutta la nostra letteratura. Tecnicamente essa è una stupefacente prova di estrema abilità, con le sue stanze di quattordici endecasillabi, legati da rima normale in punta di verso, e con le dodici rime al mezzo di ciascuna di esse; tanto che su centocinquantaquattro sillabe ben cinquantadue sono costrette al legame della rima. Una vera ostentazione di tecnica difficile in un componimento, per giunta, che vuol essere un breve trattato di filosofia dell’amore. Il poeta, forse sollecitato da un sonetto di Guido Orlandi, com’è diffusa opinione (“Onde si muove e donde nasce amore?”), affronta le seguenti questioni: dove posa amore, chi lo fa creare, quale sia la sua virtù, la sua potenza, l’essenza e ciascun suo movimento, il piacimento da lui derivante, la sua visibilità. Una casistica, si direbbe, tradizionale, per una fenomenologia di ampio carattere romanzo. Ma il C. la racchiude in un denso grumo filosofico, sulla cui natura molto si è discusso nel corso di questo nostro secolo: dal Salvadori (La poesia giovanile…), che crede riconoscervi un misticismo d’ascendenza araba nel nome di Avempace, al Calcaterra (Nuove indagini…), il quale riporta genericamente la canzone alle analoghe discussioni poetiche fra Duecento e Trecento (il cui centro fu Bologna); dal Vossler (Die philosophischen…), che, ammettendo anch’egli influssi arabi, si richiama approssimativamente ad Averroè, allo Shaw (Guido Cavalcantis Theory…), che crede scorgervi elementi del pensiero di Alberto Magno e del platonismo arabico-cristiano; dal Casella (cui risale l’incontestabile merito della prima critica restituzione del testo della canzone, sostanzialmente salvo anche dopo l’edizione del Favati e del Contini), fautore di una interpretazione tomistica (La canzone damore…), al Favati, il quale fa del C. un neoaristotelico (La glossa latina…; e inoltre La canzone damore…), per citare solamente i maggiori. 

Strenuo e persuasivo sostenitore dell’averroismo del C. è stato Bruno Nardi, il quale, in vari scritti, è andato sempre meglio chiarendo e confermando il suo pensiero. L’amore, per il C., è un accidente che s’ingenera nell’anima sensitiva, e deriva da un maligno influsso di Marte (causa equivoca) e da una veduta forma (causa univoca). Questa, una volta libera dalle sue caratteristiche individuali, per via di astrazione, prende loco e dimoranza nell’intelletto possibile, incorruttibile ed eterno, volto alla speculazione del vero e quindi inattaccabile da qualsiasi sensibile eccitamento. L’amore è una passione, che viene “non dalla potenza razionale dell’anima, cioè dall’intelletto, ma da quella “che sente”, cioè dall’anima sensitiva, la quale è perfezione del corpo e tale è ritenuta dagli averroisti” (B. Nardi, Dante e la cultura medievale…, p. 119). E come passione (tanto è potente) l’amore cagiona l’offuscamento morale dell’uomo; non perché l’amore stesso si opponga alla natura, ma perché toglie all’uomo la padronanza di sé. Per l’amore, che pure “poco soggiorna”, il riso si cambia in pianto e potente si desta la virtù irascibile di contro alle difficoltà frapposte all’appagamento, mentre l’uomo piomba in una fiera malinconia. Il “piacimento” è in una consapevolezza di passione reciproca, che non si può dissimulare, pur ammesso che l’amore non abbia colore e non abbia figura, ma, “assiso ’n mezzo scuro, luce rade”, affinché l’uomo consegua merito, e nasca mercede. 

In questa tramatura di affermazioni sono riconoscibili taluni principi sostanziali dell’averroismo (l’eternità e l’incorruttibilità dell’intelletto possibile, l’anima sensitiva come entelechia del corpo, ecc.), per i quali l’intera canzone acquista coerenza e chiarezza; e l’acquista anche gran parte della restante produzione poetica del C., la quale a questi principiî si ispira. Non si spiegherebbe infatti il pessimismo cavalcantiano, se il C. fosse stato un mistico, o un tomista o un generico neoaristotelico. Del resto, una conferma indiretta dell’averroismo del C. si è avuta con la pubblicazione, curata da P. O. Kristeller (A Philosophical…) della Questio de felicitate che Iacopo da Pistoia, un poco noto maestro dello Studio bolognese, dedica “viro bene nato et mihi dilecto et pre aliis amico carissimo Guidoni domini Cavalcantis de Cavalcantibus de Florentia”, nuova testimonianza dei fervidi rapporti tra la Toscana stilnovistica e lo Studio bolognese. Interessante la dedica al C., perché dall’esame della Questio l’autore risulta essere un averroista, e talune proposizioni sembrano coincidere con quelle di “Donna me prega” nel senso indicato dal Nardi. In tal modo anche il famoso “disdegno” (Inf., X, v. 63) sarebbe confermato nella peculiare direzione che è stata da noi indicata. 

Con ciò non si vuol dire, né sarebbe legittimo sostenerlo, che l’ideologia cavalcantiana sia racchiusa negli specifici confini di un rigoroso averroismo. Essa ambisce a far proprie, così come la poetica dello stil novo nel suo complesso, le istanze fondamentali della cultura del tempo. Anzi gli stilnovisti, e con loro principalmente il C., proprio per la loro vivida e fervida cultura sentono con maggiore forza urgere dentro di sé uno dei principi più fecondi, sotto il profilo dell’arte, della poetica medievale: quello di visualizzare, di rendere immaginosamente e corposamente visibile ciò che entro di noi è invisibile, i moti della nostra anima, le spinte della nostra volontà, perfino i nostri concetti, trasformandoli in fantasmi di persone. Questa oggettivazione dei sentimenti, dovuta anche alla tendenza di considerare la vita, il mondo, l’universo alla stregua di una costante dimensione metafisica, incide assai sensibilmente sui modi dell’arte, e in particolare quando quell’oggettivazione trova riscontro nelle teorie psicologiche del tempo. È il caso degli “spiriti” e “spiritelli”, ipostasi di natura filosofica delle facoltà vitali e dei sentimenti umani (“spirito d’amore”), ampiamente e precisamente descritta, fra gli altri, da Alberto Magno (De sommo et vigilia, I, 1, 7). Tutti gli stilnovisti la strumentalizzano a fini di rappresentazione artistica, né ne mancano tracce anche nei rimatori prestilnovisti; ma è principalmente col C. che la fenomenologia degli “spiriti” e degli “spiritelli” viene largamente e sistematicamente usufruita nel linguaggio poetico, ed è particolarmente per suo tramite che quella realtà filosofico-poetica entra definitivamente nella tecnica espressiva del tema amoroso e vi opera addirittura per secoli. 

Certo, l’ardua e solenne canzone “Donna me prega” è stata la principale causa per cui la figura del C. ci è pervenuta circonfusa di una luce di ammirata esaltazione. Essa infatti fu oggetto di “esposizione” assai dotta, e utile ancora oggi, da parte di Dino del Garbo, un grande medico e chirurgo, già discepolo a Bologna di Taddeo d’Alderotto, e morto, “admodum senex”, a Firenze il 30 sett. 1327. Ce n’è anche pervenuto un commento, in verità non troppo incisivo, falsamente attribuito a Egidio Colonna Romano; e in epoca umanistica essa fu assunta a testo del nuovo platonismo, tendenziosamente interpretata nel cap. I dell’orazione VII del De Amore di Marsilio Ficino. Né meraviglia che già nel 1498 (A. E. Quaglio, Prima fortuna…, pp. 338-341) fosse stampata la Glossa ora citata di Dino del Garbo, e che nel secolo successivo comparissero il Comento di fra’ Paolo del Rosso (1568) e la Sposizione di G. Frachetta (1585) intorno alla stessa canzone, sulla quale scrissero pure Francesco dei Vieri, detto il Verino Secondo, Iacopo Mini e altri. Del resto, anche gli antichi cronisti, più che l’impegno e l’attività politica, hanno sottolineato le qualità culturali e umane del C., definito dal Compagni “nobile cavaliere… cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento allo studio” (I, 20), e dal Villani “come filosofo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso” (VIII, 42). E questo apprezzamento del C. come filosofo ritorna nell’Epistola allo illustrissimo signore Federigo d’Aragonafigliolo del re di Napoli (cfr. Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di A. Simioni, I, Bari 1939. pp. 3-8; ma l’epistola è attribuita al Poliziano), ove egli è presentato come “sottilissimo dialettico e filosofo del suo tempo prestantissimo” per una sua canzone (“Donna me prega”, appunto) “mirabilissima”, “nella quale sottilmente, questo grazioso poeta, d’amore ogni qualità, virtù e accidente descrisse”. Per via siffatta il C. fin dal Decameron di Giovanni Boccaccio (il quale pure nelle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante scrive di lui che “fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo”; ed. a cura di G. Padoan, Milano 1965, p. 526) era entrato nel mito e nella leggenda, essendogli stata attribuita la battuta fra le arche di S. Reparata (Decameron, VI, 9) che il Petrarca – lo indicò il Parodi (La miscredenza di GCe una fonte del Boccaccio, in Bulldella Socdantital., n. s., XXII [1915], pp. 37-47) – aveva messo sulla bocca di Dino da Firenze (probabilmente proprio Dino del Garbo: Rerum memorandarum, II, 60, a cura di G. Billanovich, Firenze 1941 pp. 83 s.), come già prima era stata riferita a Federico II e ad altri. Così accade, in modo anche più palese, nel Trecentonovelle di Franco Sacchetti, dove (nov. LXVIII) il tradizionale topos del sempliciotto che mette in difficoltà il grande sapiente è tradotto nel colloquio tra un fanciullo e il C. “valentissimo uomo e filosofo” vinto dalla malizia del bambino. 

Gli studiosi moderni, ovviamente, non sono più disposti a questo tipo di giubilazione e neanche a esaltare nel poeta soprattutto il filosofo. La canzone “Donna me prega” è stata piuttosto oggetto d’indagine da parte di filologi e di filosofi, che hanno però generalmente trascurato di rapportare quel centro ai vari punti del cerchio della poesia cavalcantiana; e d’altra parte i critici letterari, i lettori raffinati dei versi del C., hanno spesso dimenticato la prospettiva storica e la trama ideologica in cui quei versi vanno inseriti e della quale la famosa canzone è monumento insigne, avvicinando il medievale poeta alla moderna sensibilità. Non è stato operato per il C. quel processo di coesiva simbiosi, per il quale più di un motivo dello stil novo in generale fu riportato alla canzone “Al cor gentil rempaira sempre Amore”, del Guinizzelli, o certi temi di un certo stilnovismo dantesco furono illuminati con la presa di posizione, psicologica e teorica, palese in “Donne ch’avete intelletto d’amore”. Certo, il C. canta un amore doloroso e drammatico, perché sente l’amore come ottenebrazione della ragione e come passione tormentosa dell’anima sensitiva, onde un intimo, sofferto pessimismo. Le sue parole sono cose che si fanno, che prendono corpo in uno spazio vuoto ed irreale; il suo canto nasce da una dialettica interna fra senso e ragione, fra passione e conoscenza. E per questa via egli giunge ad un magistero d’arte e a una potenza psicologica (“Veggio negli occhi de la donna mia”, “Quando di morte mi convèn trar vita”, “La forte e nova mia disaventura”, “O donna mia non vedestù, colui”, “I’ prego voi che di dolor parlate”, ecc.) che gli fu riconosciuta nell’ambito dello stil novo e fuori di esso. Il C. è il poeta che, pur in linea con la tradizione, radicalmente rinnova la psicologia e la fenomenologia dell’amore, elaborandone un nuovo sentimento e riportandolo alle radici dell’essere. Sotto questo profilo egli non solo può essere considerato il massimo esponente dello stil novo in generale, ma anche il creatore del ristretto gruppo fiorentino (Dante, Lapo, Dino, Gianni) legato in amichevole poetica concordia. Quello il suo carattere, il suo stigma. Ma, a parte questi valori e questa funzione universalmente riconosciutigli, la sua poesia tocca forse i vertici più alti quando in un’atmosfera di delicata e vitrea trasparenza i vari toni e modi di quell’atteggiamento psicologico e stilistico si sublimano in una intenerita pietà di sé (“Poi ch’i’ no spero di tornar giammai”): o quando si fondono con felice contrasto di luci e ombre in risultato di chiaroscuro il tema della “paura” e quello del “gioco” (“Era in penser d’amor quand’i’ trovai”); o quando la corposità psicologica sfuma nell’abilissimo gioco letterario estremamente raffinato e calligrafico, che un velo appena sensibile di ironia affranca dalla grevezza della tradizione (“In un boschetto trovai pasturella”).

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Guido Guinizzelli

Vita e opere

Il poeta che Dante nomina in Purgatorio, XXVI, 94 (“son Guido Guinizzelli e già mi purgo / per ben dolermi prima ch’a lo stremo“) è presentato dai canzonieri antichi come “Messer Guido Guinizelli di Bologna” .

L’avo di G. è ricordato negli atti semplicemente come “dominus Magnanus”, senza tracce di relazione con la famiglia de Magnanis; di lui si sa che fu procuratore del Comune nel 1229 (Savioli, p. 91) e membro del Consiglio di credenza nel 1234 (ibid., p. 151) e 1250 (Antonelli, p. 38).

“Domino Guinicello filio Magnani” è nominato in un atto del 1226 (Orioli, p. 168) come testimone alla vendita di un Digestumnovum; la capacità di testimoniare implica che Guinizzello avesse in quell’anno più di venticinque anni, fosse nato insomma prima del 1201. Nel 1229 Guinizzello era membro del Consiglio del Popolo (Savioli, p. 92); appare poi con la qualifica di iudex in atti del 1235 (una sentenza: in Orioli, p. 168), 1239 (Savioli, p. 179), 1262 (ibid., p. 380). I discendenti di Magnano avevano case nella “cappella” di S. Benedetto di Porta Nuova e poderi nei territori, fra loro confinanti, di Ceretolo (“in curia Ceretoli”) e Casalecchio (“in curia Casalicli de Reno”): documenti del 13 nov. 1268, 21 ag. 1269, 3 genn. 1277, ecc.; di Guinizzello si conosce anche, da un atto dell’11 genn. 1269, una casa “in platea maiori” (attuali via d’Azeglio – piazza Maggiore lato ovest – via Indipendenza), dove almeno fino a quella data abitò anche Guido.

Dalla prima moglie, Ugolina di Ugolino da Tignano, Guinizzello ebbe Giacomo, nato intorno al 1219, G. e Bartolomea; sposò poi, come si è detto, Guglielmina di Ugolino Ghisilieri, da cui ebbe Uberto, che morì prima del 1292, e Vermiglia, vivente nel 1292: il chiarimento di questi dati si deve ad A. Antonelli.

G. è già nominato come teste in un atto del 20 nov. 1265, relativo all’attività paterna: “Martinus Rosellus dixit promisisse domino Guiniçello condam domini Magnani ire cum eo et esse ad potestariam Narni, a kal. januarii proximis venturis […] presentibus d. Guidone filio d. Guiniçelli etc.”. Nacque dunque prima del 1240; una data puramente indicativa, tenendo conto dell’età del fratello Giacomo, può essere il 1230. Contro l’ipotesi che G. poeta sia all’incirca coetaneo di Guittone d’Arezzo non vale l’obiezione (Contini) che il primo rivolga al secondo l’appellativo “padre” (nel sonetto O caro padre meo, de vostra laude), comunque spiegabile con lo stato del destinatario, dal 1265 circa membro dell’ordine dei frati gaudenti, e con la sua autorevolezza di maestro.

Come il padre Guinizzello, G. apparteneva al mondo dei legisti.

Il 12 ag. 1269 i tre figli più grandi di Guinizzello, forse per dissensi con lui, si fecero riconoscere “licentia posse contrahere et pacisci tanquam patres familias” (Zaccagnini, 1915, p. 427); il 15 dic. 1272 Guglielmina abbandonò la casa maritale. La separazione si può spiegare con motivi politici (i Ghisilieri erano geremei, ossia guelfi), come suggerisce Antonelli, o con più tristi fatti personali: qualificato “mentecattus” in un documento del 22 nov. 1274, Guinizzello morì prima del 20 maggio 1275 (data in cui un documento menziona “Ubertus quondam Domini Guinicelli banitus et rebellis Communis Bononiae pro parte Lambertaciorum”: Fantuzzi, p. 347); fu sepolto in S. Colombano (cfr. il testamento di Vermiglia, 22 genn. 1292, da cui risulta anche che Guglielmina, ancor viva nel 1287, era morta e ricongiunta col marito nella tomba).

G. aveva frattanto sposato Beatrice della Fratta e nel 1270 preso dimora in via di Portanova, “nel quartiere dove s’affollavano nelle loro scuole i grammatici”; dal matrimonio nacque Guiduccio.

Sconfitta la parte lambertazza, G., Giacomo e Uberto furono inclusi nelle liste dei ribelli, con le rispettive famiglie. I documenti studiati da Antonelli sembrano però indicare che G. fu effettivamente condannato al confino solo nel 1276, l’anno stesso della sua morte, avvenuta prima del 14 novembre; resta dunque soltanto una minima apertura cronologica per un eventuale esilio di Guido. La notizia del confino a Monselice, contenuta in un registro non datato ma probabilmente del 1277 o di poco posteriore, si riferisce a Guiduccio di Guido, a Giacomo e Uberto di Guinizzello e ad altri membri della consorteria.

Le pur scarse notizie sulla vita di Guido Guinizzelli Magnani aggiungono qualche tratto significativo alla figura del poeta. L’appartenenza alla nobiltà potrebbe suggerire – in tempi di legislazione antimagnatizia (dal 1248) – una lettura più sottile dei famosi versi “Dis’ omo alter: / Gentil per sclatta torno…” (Al cor gentil, vv. 33-34), ossia una rivendicazione della “gentilezza” individuale contro i vincoli di “schiatta”, intesi in buona come in cattiva parte. Ma il dato più importante è senza dubbio l’appartenenza di G. al mondo degli uomini di legge, che vuol dire continuità di ordine sociologico, quindi culturale, fra G. e gli antecessori “siciliani”.

Prescindendo dall’indefinibile “partecipazione” a S’eo trovasse pietanza, il corpus poetico di G. comprende cinque canzoni e quindici sonetti.

Il tema proprio di G. è il “fino amore”, l’amore perfetto, con i suoi tormenti e le sue delizie che incessantemente trascolorano gli uni nelle altre: “la natura mia me mina / ad esser di voi, fina, / così distrettamente innamorato / che mai in altro lato / Amor non mi pò dar fin piagimento: / anzi d’aver m’allegra ogni tormento” (Madonna, il fino amor ched eo vo porto). L’amore nobilita, ma la presenza dell’amata getta l’amante nello smarrimento; del noto paradosso G. tenta una spiegazione addirittura ontologica: “Madonna, da voi tegno ed ho ‘l valore; / questo m’avene, stando voi presente, / ch’e’ perd’ogni vertute: / che le cose propinque al lor fattore / si parten volentero e tostamente / per gire u’ son nascute” (ivi; cfr. Dante, Convivio, IV, XII 14: “lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare a lo suo principio. E però che Dio è principio de le nostre anime e fattore di quelle simili a sé […] essa anima massimamente desidera di tornare a quello”). La celebrazione della donna ha una solida base “siciliana”, ma un sentimento ben più limpido di come la bellezza “appaia” in forma di luce, nell’attimo irripetibile: “Ben è eletta gioia da vedere / quand’apare ‘nfra l’altre più adorna, / che tutta la rivera fa lucere / e ciò che l’è d’incerchio allegro torna; / la notte, s’aparisce, / come lo sol di giorno dà splendore, / così l’aere sclarisce” (Tegno de folle ‘mpres’, a lo ver dire); e di come l’interiorità dell’amante ne riesca perturbata e commossa: “Di sì forte valor lo colpo venne / che gli occhi no’l ritenner di neente, / ma passò dentr’al cor, che lo sostenne / e sentési plagato duramente” (ivi).

Dal suo più vero modello, che è Guido Delle Colonne, iudex da Messina, G. ritrae il gusto per la similitudine inconsueta, ben articolata, e ora nutrita con letture “scientifiche” non banali. Ecco il magnete: “In quella parte sotto tramontana / sono li monti de la calamita, / che dan vertud’all’aire / di trar lo ferro” (Madonna, il fino…) e il fulmine: “Madonna, audivi dire / che ‘n aire nasce un foco / per rincontrar di venti; / se non more ‘n venire / in nuviloso loco, / arde immantenenti / ciò che dimora loco” (Donna, l’amor mi sforza). Il massimo sviluppo di questa tecnica è in Al cor gentil, dove l’amore viene definito per similitudini tratte da: ars venandi (vv. 1-2); teoria della luce (5-10, 39-40); scienza de lapidibus (11-20, 28-30); fisica generale (21-27); dottrina della nobiltà (31-38); teologia (41-50). Tanto impegno è prodotto da G. nell’intento di superare la netta contrapposizione – che Guittone aveva rilanciato dopo la cosiddetta “conversione” – fra esperienza d’amore e perfezionamento morale. Con “originalità assoluta” (Roncaglia, 1967), G. scopre una legge fisica (“né fe’ amor anti che gentil core, / né gentil core anti ch’amor, Natura“) dietro l’antica massima per cui “probitas sola quemque dignum facit amore” (Andrea Capellano).

Madonna splende negli occhi dell’amante come Dio splende nelle intelligenze angeliche; il poeta prevede che Dio lo rimprovererà per tale raffronto blasfemo e se ne scusa in anticipo col fatto che Madonna ha “d’angel sembianza”. Il motivo, peraltro, ci riporta direttamente al Guittone cortese: “ch’angel di Deo sembrate in ciascun membro” (son. Donque mi parto); la donna non è qui collocata realmente in connessione col soprannaturale (come nella Vita nova), e l’audacia del paragone sta piuttosto nella natura sessuale del beato compimento che ella “dar dovria” all’amante devoto (vv. 47-50), come Dio “al primero”, cioè istantaneamente, dà beatitudine alle intelligenze celesti che gli obbediscono. Anche in II, G. tiene il punto: “Dar allegranza amorosa natura, / senz’esser l’omo a dover gioi compire, / inganno mi simiglia” (vv. 13-15); è molto probabile, come suggerisce Sanguineti, che sia questa la lussuria letteraria di cui il G. dantesco si va purgando. 

A tal riguardo, non aggiunge poi molto il son. XVII, Chi vedesse a Lucia un var capuzzo, con la terzina: “Ah, prender lei a forza, ultra su’ grato, / e bagiarli la bocca e ‘l bel visaggio / e li occhi suoi, ch’èn due fiamme de foco”. Le rime in uzzo (capuzzo: Abruzzo:tuzzo: mozzo ⟨ *muzzo) segnalano nettamente un livello stilistico “comico”, che si dovrebbe riportare al modello fiorentino di Rustico Filippi (cfr. son. Volete udir vendetta smisurata?, con le rime AcerbuzzoGiovannuzzopuzzoCambiuzzo). Allo stesso livello si pone XVIII, Volvol te levi, vecchia rabbiosa, che si può confrontare col famoso Dovunque vai con teco porti il cesso, di Rustico: ma G. non è tanto interessato al singolo dettaglio obbrobrioso, quanto alla forza complessiva dell’immagine: “Ché non fanno lamento li avoltori, / nibbi e corbi, a l’alto Dio sovrano, / che lor te renda? Già se’ lor ragione. / Ma tant’ ha’ tu sugose [‘marce’] carni e dure, / che non se curano averti tra mano”. 

Niente di specifico si può dire sulle modalità con cui le rime di G. giunsero nelle mani degli innovatori fiorentini; ma sostanzialmente immotivata appare l’ipotesi di Petrocchi (“è concesso inferire che fu proprio D[ante] a trasportare nel pieno del 1287, di Bologna in Firenze, il canzoniere guinizzelliano”): non soltanto sappiamo che Dante leggeva un G. toscanizzato, cioè all’incirca il G. dei grandi canzonieri (cfr. De vulgari eloquentia, I, XV 6); ma il “primo” Cavalcanti era già, consapevolmente, un cultore di Guido. I due soli testi di Cavalcanti ammessi nei canzonieri arcaici, la ballata Fresca rosa novella e il sonetto Biltà di donna, pur nel loro gusto sicilianeggiante sono già caratterizzati dalla frequenza dei sintagmi guinizzelliani.

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Guittone d’Arezzo

Vita e opere

Nacque in un anno imprecisabile tra il 1230 e il 1240 a Santa Firmina, un piccolo villaggio sulle propaggini del monte Lignano, poco distante da Arezzo, presso il cui Comune il padre, Viva di Michele, svolgeva l’ufficio di camerlengo. La famiglia, economicamente agiata, aveva origini più probabilmente borghesi che nobiliari; della madre non sappiamo nulla, se non che G. fu forse il suo unico figlio.

Sono state formulate varie ipotesi attorno all’inconsueto nome “Guittone”: esso potrebbe derivare o dal vezzeggiativo Guittoncino, oppure da “guitto”, che significa sporco, vile e spilorcio. A una quaestio circa il nome sembrerebbero alludere, in effetti, alcuni componimenti, che ironicamente esaminano la congruenza tra res e nomen: un certo mastro Bandino ricusa come non veritiero il riferimento a “guitto” per il “leal Guittone” (sonetto 29, v. 1, ed. Egidi, p. 153); nell’invettiva contro il giudice Ubertino lo stesso G. si dice vero “guittone” per aver dato troppo credito al giudice (sonetto 209, v. 2, ibid., p. 252); nella tenzone con un messer Onesto, infine, G. ammette d’aver “guittoneggiato” e che il suo nome è “ontoso e vile” (sonetto 234, vv. 10, 13, ibid., p. 264).

Della prima formazione di G. nulla conosciamo di certo. In una lettera, databile prima del 1286 e indirizzata a Marzucco Iscornigiano (degli Scornigiani), “assessore” (ossia giudice) del podestà di Arezzo nel 1249, G. ricorda d’aver “picciul garzone” aiutato il padre nel suo lavoro (Lettere, n. XVIII, ed. Margueron, p. 200). L’espressione non sembra riferirsi ai tempi, ma ai modi di tale servizio: designerebbe, infatti, l’ufficio di misero aiutante svolto da G., piuttosto che la giovane età. Dalla stessa lettera e dalla menzione dell’assessorato di Iscornigiano, inoltre, taluni ritengono necessario spingere la data di nascita di G. fino al 1240.

Durante tutta la giovinezza G. viaggiò spesso: sicuramente fu a Pistoia, presso la corte dei conti Guidi di Romena, dove scambiò alcuni versi con il giullare Guidaloste, a proposito del quale, inoltre, ebbe modo di indirizzare un’epistola al conte Guido Guidi (Guido Pace). Nessun documento testimonia la sua frequenza di un corso di studi universitari; altrettanto ignoto è il nome di un eventuale maestro, ruolo che il padre non sembra abbia potuto assolvere; G. si accostò dunque probabilmente come autodidatta ai classici e alle letterature romanze.

Egli, del resto, poteva trovare in Arezzo un centro di assoluta preminenza culturale nella Toscana del tempo: la città, infatti, disponeva di uno Studium generale, i cui ordinamenti, tra i più antichi d’Europa, risalivano al 16 febbr. 1255, ma è verosimile che già all’epoca Arezzo godesse di un prestigio culturale adeguato. Punto di riferimento ineludibile per chi volesse intraprendere gli studi umanistici era il maestro di retorica Bonfiglio, la cui attività ad Arezzo è attestata con sicurezza tra il 1258 e il 1259; presso di lui, come altri della sua generazione, G. potrebbe aver appreso i fondamenti tecnici della poesia, saldando quel vincolo tra sperimentazione letteraria e perfezionamento retorico e metrico che sarebbe approdato a una personale ricerca stilistica.

A partire dagli anni Quaranta fino alla metà degli anni Sessanta G. si dedicò alla stesura di sonetti erotici, nei quali dominano stilemi e lessico dall’evidente ascendenza provenzale, elaborati in prevalenza secondo la tecnica del trobar clus, che egli trapiantò in Toscana non senza il tramite delle sperimentazioni attive alla corte siciliana di Federico II, imponendosi ben presto come l’erede toscano delle due tradizioni: l‘assolutezza d’Amore, la devozione incondizionata alla donna, la fedeltà al sentimento sono i motivi dell’amor cortese ricorrenti nei suoi versi, su cui permane la tonalità scura della sofferenza d’amore.

Gli 86 sonetti del codice Laurenziano, pubblicati da L. Leonardi, costituiscono il nucleo della poetica cortese assimilata da G., tanto da delinearsi come i momenti lirici di un vero e proprio canzoniere, che egli, forse sull’esempio delle razos e delle vidas provenzali, volle organizzare in forma di racconto. Nel canzoniere si distinguono momenti narrativi diversi, che sono altrettante occasioni per rinnovare la tradizione provenzale. Il sentimento d’amore procede tra speranza e disperazione, soggetto alle varie reazioni della donna, che riceve il senhal “gioia”. L’imprevisto esito felice della relazione dà luogo al distacco contemplativo dell’amante dal suo oggetto, producendo un canto di lontananza; chiude il canzoniere la tenzone con la donna che, divenuta villana, stabilisce, consumato lo scambio di qualche sonetto, di non più corrispondere.

Nell’ideare questo itinerario G. intendeva mostrarne piuttosto l’esemplarità che la veridicità, ma un tale progetto, di matrice trobadorica, ingenerava una diffrazione del punto di vista, attraverso cui rielaborare, innovandolo profondamente, il rituale cortese, già disseminato, del resto, di esperienze paradigmatiche e refrattario all’autobiografismo. Pur nell’assenza di riferimenti autobiografici, l’io lirico assume con G. una più riconoscibile individualità e si cala in una realtà sociale e politica già ampiamente trasformata dall’avvento della borghesia: nella rappresentazione scompaiono, così, i tratti aristocratici che erano propri del modello. 

Le canzoni d’amore per così dire “extravaganti” sembrano soggiacere in modo più consistente al modello cortese della fin’amor, senza che questo implichi, tuttavia, la rinuncia al carattere intrinsecamente sperimentale dell’esperienza poetica guittoniana. I momenti centrali dell’itinerario spirituale più tipico del trovatore, al contrario, sono ripresi all’interno di una consapevole operazione di riuso, elaborata in chiave retorica e comunicativa. L’architettura prosegue senza soste lungo queste direttrici, fino a strutturarsi in un decalogo dell’amor cortese, destinato a chi aspiri a divenire “fino” amante e a ripararsi dalla follia d’amore: l’aspetto didattico diviene così comunicazione di un’essenziale filosofia pratica. 

Quanto agli aspetti formali, è stato attribuito a G. il merito d’avere stabilito anche in Italia l’uso provenzale della tornata, o commiato. Tra i generi provenzali più rivisitati da G. spiccano l’enueg (casistica delle “noie”), il plazer (casistica dei “piaceri”), il devinalh (concatenazione di affermazioni contraddittorie), il planh (compianto funebre).

Si fa risalire alla morte del padre un cambiamento radicale nella vita di G., anche se ormai si esclude che egli sia stato costretto a sostituire il genitore nell’ufficio di camerlengo. Della sua ultima giovinezza conosciamo pochi altri momenti salienti: tra i 25 e i 30 anni sposò una donna di Arezzo, dalla quale ebbe tre figli, i quali erano ancora in tenera età nel 1265, essendo l’ultimogenito, Dano, nato intorno al 1260.

Pur non pervenendo a incarichi pubblici, G. si dedicò ancor giovane alla politica: conservando una posizione autonoma, egli scelse la parte dei guelfi, dove militava probabilmente anche il padre.

L’impegno politico cadeva in un periodo difficile per Arezzo, città dal territorio vastissimo, la cui influenza politica era tuttavia da tempo declinante. Nel decennio 1230-40 i magistrati aretini al governo della città avevano perduto l’appoggio imperiale, senza riuscire a procurarsi la protezione della Chiesa. La nomina del vescovo nel 1248 aggravò ulteriormente la situazione: il nuovo titolare della diocesi, Guglielmino degli Ubertini, membro di una nobile famiglia ghibellina, mirava all’alleanza con Firenze, città dalla quale i ghibellini, sostenuti da Federico II, avevano intanto bandito gli avversari. Morto Federico, costoro furono richiamati e, dopo un breve periodo di pace, bandirono a loro volta dalla città le principali famiglie ghibelline. Nel 1256 Arezzo, infine, si alleò con Firenze, ma già tre anni più tardi, nel 1259, l’alleanza s’incrinò.

Arezzo preparava, infatti, un attacco contro Cortona, cui G. si oppose strenuamente, prevedendone pericolosi riflessi sull’alleanza con Firenze. Egli si proclamava risolutamente contrario all’iniziativa militare e fautore, per contro, di un ritorno alla pace, anzitutto entro le mura cittadine. Con il suo dissenso G. riuscì però solo a inimicarsi i concittadini, che vedevano l’azione, al contrario, come un’occasione di riscatto. Arezzo, dunque, attaccò nottetempo Cortona, avendone immediatamente la meglio. La reazione di Firenze non si fece attendere: sentendosi indirettamente minacciata, nel febbraio dello stesso 1259 assalì il castello di Gressa, possedimento del vescovo di Arezzo.

I fatti avevano perciò ampiamente confermato le più infauste previsioni di G.: l’offensiva contro Cortona s’era rivelata addirittura rovinosa per Arezzo. Nella città nulla era rimasto come prima e non vennero a mancare per G. ulteriori motivi di delusione e risentimento verso i concittadini. La decadenza morale sia nella vita pubblica sia in quella privata, il venir meno dell’ideale di giustizia, il dilagare della corruzione che avevano costituito, nel progresso degli anni, le ragioni del distacco dalla comunità cittadina furono aggravate dalle conseguenze di quell’inutile assalto. Egli scelse dunque volontariamente la via dell’esilio. 

G. affidò a una canzone-sirventese, Gente noiosa e villana (XV, ed. Egidi, pp. 31-35), il resoconto delle ragioni personali di quella risoluzione, sistemate in una minuta cronaca storico-politica. Dal congedo si ricava che suo primo rifugio fu una località sita fuori della Toscana. Con accenti nostalgici, Arezzo è raffigurata in preda alla guerra; vi regnano villania e ingiustizia ma nondimeno, ristabilite ragione e pace, G. dichiara di desiderare il ritorno. Contro la sua città non pronunciò mai parole di definitiva condanna, conservando, al contrario, un profondo affetto per essa e per i suoi abitanti (si veda per esempio la lettera XXVII, ed. Margueron, p. 281).

Nel 1260 culminò la tensione tra le fazioni in lotta per il predominio sulla Toscana; anche Arezzo venne coinvolta. I ghibellini fuorusciti da Firenze, riunitisi a Siena, chiesero aiuto a Manfredi, il figlio di Federico II, che inviò, sotto il comando del conte Giordano, 900 cavalieri tedeschi.

Lo scontro con Firenze si svolse il 4 sett. 1260 a Montaperti: qui i ghibellini riportarono il loro più grande successo militare e i maggiori centri toscani entrarono così sotto il loro controllo. Due anni più tardi, divenne podestà di Firenze Guido Guidi (Guido Novello), cognato di Manfredi. Tutta l’anomalia della posizione aretina emerse all’indomani della battaglia, quando il vescovo si ritrovò tra i vincitori ghibellini in una città che era stata alleata della sconfitta Firenze; divisa al suo interno, Arezzo si avviò alla decadenza. 

La notizia della disfatta guelfa raggiunse G. lontano da Arezzo, ma già rientrato in Toscana: per un periodo egli soggiornò a Pisa, dove poteva contare sull’aiuto di numerosi conoscenti, tra i quali il già ricordato Guido Novello. La loro amicizia era destinata a consolidarsi nel tempo: proprio sul finire del 1266 G. gli avrebbe indirizzato una canzone con cui si offriva nella veste di consigliere e lo incoraggiava a ripagare con la stessa moneta un torto ricevuto.

Dopo Montaperti G. compose un altro sirventese, Ahi lasso! or è stagion de doler tanto (XIX, ed. Egidi, pp. 41 s.), in cui deplorava come dramma irreversibile la sconfitta della potente Firenze, baluardo del partito guelfo. La personificazione della città si reduplica in combinazioni foniche dominate da figure etimologiche, contribuendo ad amplificare lo stile tragico: l'”alta Fior sempre granata” (v. 5) d’apertura diventa “sfiorata Fiore” (v. 16); in chiusa, G. pronuncia un malinconico auspicio di rinascita, “Fiorenza, fior che sempre rinovella” (v. 93). Di poco posteriore alla canzone è la celebre epistola agli Infatuati miseri Fiorentini sul medesimo tema, nella quale, peraltro, i Fiorentini non sono più tali, “ma desfiorati e desfogliati” (XIV, ed. Margueron, p. 158).

Quanto ad Arezzo, egli ne raffigurò la decadenza morale in una delle sue più celebri canzoni politiche, Ahi, dolce terra aretina, composta, secondo Pellizzari e Tartaro, prima della morte di Manfredi, tra il 1262 e il 1265, secondo Margueron tra il 1285 e il 1288. Con questi versi G. individuava la causa della rovina nel comportamento degli stessi Aretini, che avevano consegnato a un “non stante e strano”, ossia a uno straniero, le sorti della città (XXXIII, v. 131, ed. Egidi, p. 93). L’incertezza sulla data di composizione è oggettiva: le amare conclusioni sull’incapacità di Arezzo di trovare pace e alleanze sicure caratterizzarono tutto il ventennio successivo a Montaperti, segnato dall’ambigua politica del vescovo. Questi, morto Carlo d’Angiò nel 1285, appoggiò i ghibellini e, dopo aver riportato un’iniziale vittoria contro i guelfi fiorentini al Toppo, condusse Arezzo al più grande disastro politico e militare nella storia della città: nella battaglia di Campaldino del 1289, cui prese parte anche Dante, Arezzo venne duramente sconfitta dall’alleanza tra Firenze e Siena.

In seguito al rivolgimento dell’assetto politico aretino dopo Montaperti maturò in G. la scelta di aderire, intorno al 1265, all’Ordine dei cavalieri di S. Maria gloriosa (“milites beatae Virginis Mariae”, o Milizia della Vergine). Fino in tempi recentissimi, si è imposta l’idea che G. fosse stato protagonista di una vera e propria conversione, cui riconnettere, quanto a questioni di poetica, la bipartizione dell’opera guittoniana in rime amorose e rime ascetiche e morali, tramandata dal canzoniere Rediano (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Rediano, 9), la principale silloge manoscritta delle sue rime pervenutaci.

Invero, l’eclissarsi del tema erotico a vantaggio dell’impegno didattico-morale appare tratto distintivo di un numero cospicuo di rime, molte delle quali presumibilmente tarde, come pure dell’epistolario.

Ciò, tuttavia, potrebbe non essere una consapevole elezione tematica imposta dai rigori di un ascetismo che lo stato di “miles beatae Virginis Mariae” non comportava necessariamente; piuttosto, potrebbe riflettere un rinnovato, forse più incisivo, impegno sociale. Elementi politici, morali e religiosi, del resto, convivevano nello stile di impianto didattico che G. aveva coltivato fin dagli esordi.

L’Ordine prescelto da G., religioso e cavalleresco insieme, ebbe carattere laicale e un’accentuata propensione politica, lontana dal fervore mistico contemporaneo: G. non divenne clericus, ma uno dei “crestian cavaleri” (XL, v. 32, ed. Egidi, p. 109). Allo stato degli studi i “milites beatae Virginis Mariae” costituivano una pia confraternita, i cui membri agivano, anche ricorrendo alle armi, in difesa della fede cattolica.

I “milites beatae Virginis Mariae” nacquero nel 1260, per iniziativa di alcuni nobili emiliani, tra cui il bolognese Loderengo Andalò; la regola, stilata da fra Rufino Gorgone di Piacenza, ottenne, probabilmente con alcune rettifiche che miravano ad accentuarne il carattere di istituzione religiosa, l’approvazione di papa Urbano IV il 23 dic. 1261. Potevano aderirvi solo i nobili che avessero anche la dignità di cavalieri, condizione, questa, che doveva essere sempre osservata: chi non era cavaliere doveva essere insignito del titolo da un confratello. Di fatto, l’Ordine raccolse i membri dei nascenti patriziati cittadini e non li trasformò in sacerdoti, ma in “milites” al servizio dell’ortodossia.

La posizione sociale di G. era dunque compatibile con tali requisiti; non costituiva impedimento, inoltre, il suo stato civile: potevano entrare tra i “milites beatae Virginis Mariae”, infatti, anche i coniugati, cui era riservato il diritto di risiedere nel proprio domicilio. Come ai conventuali – erano così denominati i confratelli, chierici e laici, non coniugati che invece dimoravano in convento – anche a costoro era imposto, oltre a qualche pratica ascetica, di astenersi dal ricoprire cariche pubbliche e di preservarsi immuni da eresia e usura. Con la loro promissio facevano voto di obbedienza e castità coniugale ed erano tenuti a recarsi in convento mensilmente e a partecipare ai capitoli, generali e provinciali. L’Ordine militare era suddiviso in province, amministrate da un priore provinciale. Se si deve prestar fede all’erudito settecentesco D.M. Federici, già nel 1267 G. aveva acquistato la dignità di provinciale, verosimilmente per la provincia di Toscana: ciò comportava compiti di direzione e controllo sulle articolazioni territoriali, come i conventi, le chiese e le case, aperti sin dai primordi nelle principali città, prime fra tutte Firenze e Pisa. Ad Arezzo, l’Ordine possedeva un monastero fuori le mura, in una località denominata Fonte Veneziana, mentre Pisa era sede dei novizi.

Molta parte dell’epistolario di G. testimonia una fase di vera e propria propaganda per l’Ordine (sicuramente perseguono questo scopo le epistole XIII, che prende spunto dalla vestizione di alcuni novizi, e XV, dedicata a un non meglio identificato Simone). Al tempo in cui G. divenne cavaliere cristiano sono fatti risalire tutti i componimenti che abbiano temi diversi dall’amore carnale; si tratta di sonetti e canzoni dai quali emergono molti dei temi propri alla Milizia: la condanna dell’eresia; il compiacimento per aver abbandonato il “secol malvagio” (XLIV, v. 2, ed. Egidi, p. 116) e il “mondano piacer” (sonetto 174, ibid., p. 234); la centralità della pace; l’elogio della castità.

Ancora all’ambito morale rinviano i componimenti in cui G. rimpiange il tempo trascorso tra i vizi ed esorta gli amici a perseguire il bene. La celebrazione del vero amore contro l’amore carnale, coltivato in gioventù, culmina nel Trattato d’amore, una sequenza di 11 componimenti brevi, quasi tutti sonetti, con i quali G. dipinge la follia d’amore, “dogliosa morte” (sonetto 242, v. 1). Appartengono al gruppo, inoltre, una corona di sonetti dedicata alle virtù e ai vizi e le canzoni dedicate a Gesù, a Maria e ai fondatori degli ordini mendicanti. Valida come documento della missione del cavaliere cristiano secondo G. è la canzone O ver virtù, vero amore (XXIX).

La condotta immorale di molti confratelli finì col deludere le aspettative di un autentico rinnovamento. La consuetudine con il lusso e, più in generale, la prevalenza delle cure terrene sull’originaria missione resero i membri dell’Ordine invisi a tutta la comunità di fedeli, come palesa l’appellativo ben noto di frati gaudenti, diffuso sin dagli esordi.

Quanto alla fama di ipocriti, attestata nel canto XXIII dell’Inferno di Dante, essa derivò dall’opera di pacieri che Loderengo Andalò e il confratello Catalano di Guido di donna Ostia furono chiamati dal papa ad assolvere, nelle vesti di rettori di Firenze. Nel 1266 i due rettori, che avevano assunto comportamenti ambigui, furono allontanati dalla città lasciando nei Fiorentini un ricordo funesto, di persone inaffidabili e, appunto, ipocrite.

In quella circostanza G. manifestò a Loderengo stima e devozione, dedicandogli la canzone Padre dei padri miei e mio messere (XL, ed. Egidi, pp. 108-110): nell’esprimere profonda solidarietà G. lo supplicava di volergli ancora prestare opera paterna.

Se, dunque, G. poteva contare sull’affettuosa protezione di Loderengo, la canzone O cari frati miei (XXXII, ibid., pp. 83-89), composta nello stesso 1266, mostra invece chiari segni di un’improvvisa crisi. Egli rimprovera ai confratelli d’aver perduto di vista il vero bene e di “gaudere / ov’è gran despiacere” (vv. 93-94) e tenta di difendersi dalle accuse e dalle ingiurie che ne ha ricevuto: rivendica come giusta la decisione di abbandonare i tre figli ancora piccoli (v. 92) e insieme con essi tutte le dolcezze della vita mondana, per dedicarsi interamente a Dio; scelta che i confratelli giudicavano folle. Dai toni e dai contenuti della canzone si può ipotizzare che solo in un secondo tempo G., spinto dalle delusioni, scegliesse una vita religiosa più radicale: quando abbandonò moglie e figli, egli presumibilmente divenne conventuale rimanendo laico.

Testimoni della crisi appaiono anche alcune lettere, nelle quali G. riversa l’appassionata predicazione dei doveri di ogni buon frate: perseguire l’unico bene dimorante in Dio, abbandonare i transitori beni mondani.

Composto per la maggior parte in questi anni, l’epistolario di G., uno dei massimi esempi di prosa letteraria di questo genere, offre poche altre informazioni biografiche: i nomi dei corrispondenti e i toni con i quali G. si rivolge loro consentono a malapena di tracciare un quadro delle relazioni intrattenute con i contemporanei, ma poco si prestano a precisarne i tempi e le circostanze meno occasionali. Oscuri permangono inoltre i destinatari di alcune missive: o perché ai nomi non corrispondono profili a noi noti, o perché lo stesso G. volle lasciarli celati dietro sigle. Non è escluso che, in questi ultimi casi, egli volesse produrre modelli di lettere, utili a fini didattici e rigorosamente scanditi secondo la ripartizione tradizionale: salutatio, exordium, narratio, petitio, conclusio.

Le lettere si prestano a scopi didattici sia per quanto concerne l’impianto retorico e metrico (ars dictandicursus) sia per la scelta dei temi, per lo più di carattere morale. La prima, in particolare, indirizzata a un certo Gianni Bentivegna, che gli chiedeva ammaestramenti di vita, sintetizza la personale filosofia morale di G., segnata da una forte vena religiosa. Scopo delle Scritture e di ogni scienza naturale e morale è fuggire il male e seguire il bene, ma è necessario saperli riconoscere. La vita, secondo G., è un interminabile perfezionamento morale, nel quale si può progredire attenendosi ai precetti cristiani.

Le questioni attorno alle quali insorge l’esigenza d’una lettera sono spesso indicate in modo sommario nella salutatio, dove G. inserisce anche qualche informazione circa i rapporti con il destinatario. Dalla sintetica enunciazione si passa in breve all’esposizione dell’argomento: G., accantonando ogni forma di prosa intimistica, predilige la trattazione di stampo sillogistico, sorretta opportunamente dalle auctoritates più accreditate, classiche e cristiane (tra cui Aristotele, Cicerone, Seneca, Agostino, Boezio). Il motivo occasionale lascia il posto, così, a un serrato argomentare dottrinario e morale, tanto che molte delle epistole prendono l’aspetto di sermoni, dove una lingua concreta e realistica modella sentenze astratte dal colore metafisico (Segre). Il solido impianto retorico è funzionale al docere e al movere: la persuasione prevale così sulle concatenazioni logiche del discorso. Quanto agli argomenti trattati, si distinguono lettere consolatorie, epidittiche, deliberative, politiche. Non manca, infine, qualche missiva di circostanza che, pur priva di intenti didattici, ricorre a citazioni colte.

La “sottiglianza” delle rime, l’essere insieme nei contenuti ardue e gravi e nella forma ricercate fino all’oscurità, torna, fatta qualche eccezione, anche nell’epistolario, commisto, forse senza un progetto nitidamente delineato, di prosa e versi. Nel costruire il periodo, G. si richiama alla prosa rimata volgare, che a sua volta discendeva dalla latina, per far proprio un ideale di simmetria e tradurlo in una sorta di musicalità ricercata per mezzo della tecnica retorica e timbrica insieme. Parallelismi, antitesi e altri costrutti logici e retorici compongono un virtuosistico gioco di forme, ritmicamente scandito in clausola.

Lo stile prosastico guittoniano ebbe qualche imitatore: Meo Abbracciavacca, Dotto Reali e un certo Teperto (Tiberto Galliziani); il suo modello fu, infine, non ininfluente anche sulle scelte retoriche della generazione successiva, dove ancor vivo è il ricorso alla prosa ritmica, pur snellita nel corredo retorico.

Sappiamo da alcuni atti che nel 1285 G. si trovava nei dintorni di Bologna, a Ronzano, per trascorrervi un periodo non breve. Qui Loderengo, subito dopo l’esilio da Firenze, si era ritirato in un convento, nei cui pressi, in zona Genestre, il 3 apr. 1285 G. acquistava una vigna. A legare G. alla locale comunità di frati è il testamento di suor Iulitta, moglie di frate Bonaventura da Savignano, rogato il 23 maggio 1285: G. compare, insieme con il figlio Dano, come testimone. Sul finire di luglio un’altra vigna nei dintorni veniva ceduta dallo stesso Bonaventura da Savignano a Loderengo: nell’atto G. viene menzionato come acquirente precedente.

Qualche anno più tardi il nome di G. ricompare in terra toscana. Al 7 sett. 1293 risale, infatti, l’atto rogato nel chiostro di S. Michele dell’Ordine camaldolese in Arezzo da un notar Bonavia, con il quale G. definiva l’entità e la destinazione di un cospicuo donativo a favore dei camaldolesi. Le 200 libbre pisane che egli intendeva elargire a partire dal 1° genn. 1294, e che costituivano solo parte del suo patrimonio, dovevano servire per la fondazione del monastero ed eremo di S. Maria degli Angeli di Firenze; a loro volta, i camaldolesi si impegnavano a corrispondere a G. un vitalizio annuo per un ammontare di 8 libbre pisane, pena l’esborso di 100 libbre per ogni eventuale inadempienza.

L’atto riveste un particolare significato per la vita di G.: ai camaldolesi, infatti, i gaudenti avevano sottratto il possesso di un’abbazia, il cui trasferimento venne confermato da un processo. Con quell’atto, dunque, G. attestava la sua autonomia dalle posizioni dell’Ordine. 

Dopo quella data non ci è rimasta altra notizia di G., che probabilmente non sopravvisse per più d’un anno alla donazione. Una lettera (VIII, a frate Alamanno) ci informa sullo stato di salute precario di G., colpito a più riprese da una “infermitade” (ed. Margueron, p. 103).

Federici deduce da un necrologio stilato nel convento camaldolese di S. Cristina (poi Beata Lucia), nei pressi di Bologna, la data presunta della morte di G., il 21 ag. 1294 (Annales Camaldulenses, 45), sulla cui attendibilità permane qualche dubbio; resta ignoto il luogo del decesso, tradizionalmente identificato in Firenze.

La sua fortuna nei secoli è in gran parte debitrice del verdetto dantesco, che lo relegò al di là del dolce stil novo, alfiere di una poesia municipale, ancorché aperta allo sperimentalismo di marca provenzale.

Era soprattutto nella lingua che Dante identificava il maggior ostacolo all’elezione di G. tra i maestri della generazione precedente: egli, infatti, “numquam se ad curiale vulgare direxit” (De vulgari eloquentia, I, xiii, 1), non seguiva cioè la “librata regula”, la misura nel dire, e, quanto a lessico e costrutto, persisteva nel “plebescere” (ibid., II, vi, 8); per il linguaggio plebeo e lo stile smodato, dunque, G. poteva esser venerato solo dagli ignoranti. Le accuse mosse da Dante nel Purgatorio (XXIV, vv. 55-62) per bocca di Bonagiunta Orbicciani da Lucca vanno ben oltre la questione stilistica: G., insieme con Giacomo da Lentini e lo stesso Bonagiunta, non aveva attinto ispirazione dal sentimento d’amore, inteso come esperienza assoluta, spirituale e intellettuale. 

Prima dell’affermarsi dello stil novo, il magistero guittoniano, nondimeno, fece scuola. Dante stesso, attraverso il personaggio di Guido Guinizzelli, dovette riconoscere che molti antichi avevano apprezzato G., “di grido in grido pur lui dando pregio” (Purgatorio, XXVI, v. 125), finché non vinse il vero affermato da più persone, ossia l’uso poetico moderno: G., in questo caso, veniva relegato tra gli antichi.

Ma anche gli stilnovisti si nutrirono degli insegnamenti guittoniani, e Dante fu tra questi. A recargli omaggio tra i nuovi poeti fu proprio Guido Guinizzelli: dedicandogli il sonetto Caro padre meo, certamente non senza una retorica formularità, esprimeva l’alta considerazione del sapere e della disciplina morale del maestro, cui si rivolgeva per riceverne consigli di tecnica poetica. Con il sonetto Da più a uno face un sollegismo (XLVII) un altro grande moderno, Guido Cavalcanti, mosse a G. l’accusa di poca originalità e di eccessi nell’uso retorico. Tra i guittoniani di maggior rilievo e di professata fedeltà spiccano i nomi di Dante da Maiano, uno dei corrispondenti delle tenzoni dantesche, di Monte Andrea e di Chiaro Davanzati.

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La poesia toscana

La caduta della dinastia sveva comportò lo spostamento del baricentro politico e poetico in Toscana. Alla corte si sostituiscono le città toscane, le quali diventano polo di attrazione delle esperienze precedenti e nello stesso tempo d’irradiazione di forme nuove: al cosmopolitismo della Magna Curia si sostituì un evidente municipalismo che si travasa nelle poesie degli autori siculo-toscani, sui quali peraltro sussistono notevoli incertezze di carattere anagrafico e cronologico. Non saremo lontani dal vero collocando intorno alla metà del secolo, successivamente alla morte di Federico ma ancor prima della morte di Manfredi, l’avvio di questa esperienza poetica.

In essa ai tradizionali motivi amorosi se ne affiancano altri che sono espressione della nuova coscienza cittadina e dei gruppi borghesi emergenti; in qualche caso la tematica politica assume un ruolo addirittura prevalente. 

I nomi di questi rimatori nati in Toscana sono in genere meno celebri di quelli dei predecessori e le loro stesse biografie presentano larghissime zone d’ombra: Galletto Pisano, Compagnetto da Prato, Neri de’ Visdomini, Neri Poponi, Tiberto Galliziani, Lunardo del Guallacca, Betto Mettefuoco, Ciolo de la Barba, Folcacchiero, Bartolomeo Mocati, Caccia, Carnino Ghiberti, Petri Morovelli, Guglielmo Beroardi, Brunetto Latini, Bondie Dietaiuti, Maestro Francesco, Megliore degli Abati, Maestro Torrigiano, Ugo di Massa, Pucciandone Martelli, Inghilfredi, Arrigo Baldonasco, oltre a tantissimi anonimi. La produzione dei singoli è poco ricca e talvolta occasionale; ma considerate nel complesso, diramate nell’intera regione e non solo a Firenze, queste rime rappresentano uno snodo fondamentale nella storia della poesia che conduce a Dante Alighieri.

La copia che gli scribi toscani fecero delle poesie siciliane ne smeridionalizzò la lingua, adeguandola al toscano anche a prezzo della misura dei versi e della perfezione dello schema rimico.

La rima (e assenza di rima) tra due o più versi collegati è per noi la spia privilegiata per la valutazione dei fenomeni linguistici intrinseci ai processi della trasmissione: da un lato la presenza di sicilianismi (o meridionalismi) in sede finale di verso e garantiti dalla rima assicura che si tratti di forme originarie, dovute all’autore (sicilianismi in rima); dall’altro l’assenza di rima in forme come ora : curarena : finadire : avere : sospiri, che si registra nei testi tràditi dai Canzonieri, si potrà spiegare con la toscanizzazione operata dai copisti toscani, che hanno convertito nel proprio sistema linguistico gli originari *ura, *rina, *diri, *aviri (rime siciliane). Naturalmente codice per codice, autore per autore, componimento per componimento variano le soluzioni dei copisti: rime siciliane e sicilianismi in rima non si manifestano sempre nelle medesime occorrenze né il mero calcolo numerico dà risultati coincidenti nei diversi testimoni. E tuttavia, pur nella ovvia variazione della forma che caratterizza la tradizione manoscritta complessivamente considerata, le tendenze di fondo non cambiano: nei tre testimoni fondamentali esse sono analoghe, risultato di un medesimo processo culturale e storico (Coluccia 2010). 

Questo discorso si applica alle poesie dei Siciliani prodotte all’interno o nei paraggi della corte sveva di Federico e di Manfredi: in esse forme toscane introdotte dai copisti convivono con forme siciliane e meridionali degli autori, che si mantengono grazie al carattere asistematico dell’operazione di copia. Esistono invece differenze sostanziali per le poesie dei Siculo-toscani, non tanto perché prodotte in epoca più vicina a quella in cui furono confezionate le raccolte manoscritte, ma soprattutto perché composte da autori toscani, aventi cioè la medesima lingua dei copisti. Di conseguenza, i tratti siciliani e meridionali in esse presenti vanno considerati una scelta intenzionale, dovuta al peso della tradizione precedente, consapevolmente accettata e imitata; e le forme toscane non andranno, come per i Siciliani, attribuite ai copisti ma potranno essere considerate originarie, purché garantite dalla rima (toscanismi in rima, con verosimile coniazione). 

Oltre agli elementi di fonetica e di morfologia, anche il lessico di provenienza isolana e meridionale costituisce una componente significativa e sintomatica della poesia siculo-toscana, non irrilevante neppure sotto il mero profilo quantitativo. Alcuni sicilianismi che i poeti nati in Toscana riprendono dai Siciliani paiono configurarsi come veri e propri tecnicismi di questa poesia, cui talvolta arride una certa fortuna, anche oltre gli ambiti originari: abento «quiete, requie, tranquillità»; abentare «aver quiete»; dia f. «giorno»; ecc. 

Colpisce la quantità di meridionalismi che, usati dai primi Siciliani, entrano a far parte del patrimonio della nostra lingua letteraria: si pensi alla frequenza della terza persona del perfetto in –ao (infiamaolevaoinnamorao), a un tipo come saccio «so», al condizionale che prosegue il piuccheperfetto latino (Giacomo da Lentini: soffondaragravara; Rinaldo d’Aquino (?): finèra; Carnino Ghiberti: amaraportara; Bondie Dietaiuti: sembrera; Bonagiunta: parlara, toccaradegnaraportarasembraraadoblaran; Guittone: canpara, portaraconportara, desportaraamara, convenera, credera; Dante addirittura: satisfara Par. XXI, 93). Di genesi analoga e di diffusione più fortunata (giunge sino alla lingua poetica ottocentesca) è fora «sarebbe» ma anche «sarei». 

La lingua dei testi siciliani e siculo-toscani documentata nei canzonieri (quella che anche Dante leggeva) si presenta come un intarsio a forme coesistenti, in cui il siciliano (o la varietà meridionale) convive senza difficoltà apparenti con la componente toscana.

A questi ingredienti si affiancano in quantità cospicua altri di diversa matrice, provenzale e latina. L’utilizzazione di fonti diverse permette ai rimatori di aumentare il ventaglio delle scelte formali a loro disposizione, costruendo uno strumento comunicativo composito ma perfettamente funzionale. Attraverso esperimenti di questo tipo si pongono le basi di quell’italiano poetico che nel Trecento avrebbe trovato una compiuta sistemazione in Petrarca e si sarebbe rivelato in grado di caratterizzare l’intera diacronia linguistica della nostra poesia. 

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La poesia siciliana

Un consistente gruppo di poeti in volgare si raccoglie attorno alla corte dell’imperatore Federico II, intorno al terzo decennio del XIII secolo.

Sono per lo più siciliani ma, dato che si tratta di una corte itinerante (Federico non risiedeva in un luogo fisso, per controllare meglio i vasti territori del suo impero), anche pugliesi, calabresi, campani, laziali; sono notai, cancellieri, funzionari di vario rango che coltivano la poesia come attività separata dagli impegni professionali.

La lingua in cui la maggior parte di loro scrive è un siciliano ‘illustre’, depurato dei tratti dialettali più marcati e ricco di latinismi e provenzalismi: una lingua diversa, quindi, più raffinata e colta rispetto al siciliano «come suona in bocca ai nativi di media estrazione» condannato da Dante nel De vulgari eloquentia (I, xii, 6) come idioma rozzo e inadatto alla letteratura.

La poesia dei siciliani (termine che va inteso, si badi bene, in senso culturale e non geografico: ‘siciliani’ si dicono per convenzione tutti gli autori che mostrano di essere in contatto con la corte di Federico II) è quasi esclusivamente poesia d’amore.

Tre sono le forme metriche adottate dalla poesia siciliana: la canzone (forma metrica polistrofica) occupa di gran lunga il posto più importante, mentre fanno qualche rara apparizione il discordo (sorta di lunga canzone in versicoli fittamente rimati e schema metrico irregolare) e il sonetto (componimento monostrofico, di solito suddiviso in due quartine e due terzine di versi endecasillabi).

L’impressione che si ricava da una lettura del non amplissimo corpus della poesia siciliana (poco più di venti autori, per un totale di circa 150 testi) è dunque quella di trovarsi di fronte a un’attività di laboratorio condotta a partire da pochi elementi-base da parte di un nucleo di intellettuali compatto per estrazione sociale e per fisionomia culturale e artistica: a questo terreno comune di linguaggio e di immagini, che può dare luogo a contatti intertestuali ma che si traduce principalmente in una forte ed estesa aria di famiglia, si affida l’identità di una scuola poetica siciliana. Ma una storia della lirica siciliana non si può scrivere perché le informazioni che si riescono a ricavare dai testi sono troppo scarse e, soprattutto, perché sono troppi i vuoti nella documentazione relativa agli autori. Si propone generalmente una scansione in due tempi: una prima e una seconda generazione siciliana.

Tale scansione è plausibile, a patto che non venga applicata rigorosamente.

Alla generazione dei fondatori, fioriti nella prima metà del secolo, appartiene Federico II di Svevia (1194-1250), cui i manoscritti attribuiscono un sonetto e tre canzoni.

Giovanissimo re di Sicilia sotto la tutela di papa Innocenzo III, quindi imperatore (1220), Federico fu per quasi mezzo secolo promotore di un’attività culturale d’eccezionale intensità sia nel campo delle arti (oltre alla produzione letteraria in volgare, latino e greco vanno ricordate le grandi realizzazioni monumentali e architettoniche, prima tra tutte l’edificazione di Castel del Monte, presso Andria, in Puglia, nei primi anni Quaranta) sia in quello della filosofia.

Culmine di tale attività è la fondazione a Napoli, nel 1224, di quella che a lungo resterà l’unica università del Mezzogiorno d’Italia.


Alla figura dell’imperatore è strettamente legata quella di Pier della Vigna (1190-1249). Originario di Capua, fu il più influente consigliere di Federico. Morì suicida nel 1249 in seguito a false accuse di cospirazione, come vuole una tradizione alla quale attinge tra gli altri anche Dante nel canto XIII dell’Inferno.

Autore di un Epistolario in latino, Piero fu anche poeta: egli è l’unico esponente della Magna Curia (la corte imperiale federiciana) per il quale sia documentato l’impiego dei due idiomi in poesia, il volgare materno e il latino.
Né l’imperatore né il suo braccio destro Pier della Vigna, tuttavia, hanno la statura dei capiscuola.

Tale ruolo compete, per la critica moderna come per gli antichi lettori di poesia, a Giacomo da Lentini. Il Notaro, com’è chiamato nei manoscritti antichi e da Dante nella Commedia, spicca tra gli altri membri della corte federiciana per maturità di stile e forza inventiva. Al suo nome sono legate tutte le conquiste formali che la poesia siciliana consegna alla nostra letteratura. Se non l’inventore, egli è certo uno dei primi frequentatori del sonetto, genere metrico che nel suo canzoniere ha un peso percentuale paragonabile solo a quello che gli verrà concesso dai rimatori toscani una o due generazioni più tardi

All’invenzione del sonetto si lega quella del genere che di quel metro sfrutta al meglio la duttilità: la tenzone, che però è poco praticata, come abbiamo visto, nell’area siciliana. Nel canzoniere di Giacomo da Lentini troviamo riuniti tutti i temi, i motivi, le soluzioni formali che ebbero corso tra i poeti siciliani. Il paradosso dell’incomunicabilità, per cui il poeta non può manifestare il suo amore se non svilendo sé e la donna, trova in lui la formulazione più esplicita: «Amor non vole ch’io clami / merzede c’onn’omo clama, / né che io m’avanti c’ami, / c’ogn’omo s’avanta c’ama» (‘Amore non vuole che chieda pietà, come fanno tutti gli altri, né che mi vanti del mio amore, dato che tutti quanti se ne vantano’). E lo stesso può dirsi per il motivo poi stilnovista dell’ineffabilità del sentimento: «Lo meo ’namoramento / non pò parire in detto» (‘Il mio amore non può essere espresso con parole’); o per quello della lontananza: «Non vo’ più soferenza, / né dimorare oimai / senza madonna, di cui moro stando» (‘Non voglio più soffrire, né stare lontano dalla mia donna, perché ne muoio’).

Il Notaro è inoltre l’iniziatore di una tradizione di poesia formalmente complessa e ‘chiusa’ (trobar clus, come si definisce in provenzale) che avrà il suo culmine in Guittone d’Arezzo: si consideri, per esempio, la fitta rete di rime interne sulla quale vengono impostati certi sonetti di Giacomo, come quello sul viso dell’amata: «Eo viso e son diviso da lo viso» (‘Guardo ma sono lontano dal viso’).
Così come Giacomo da Lentini, anche Guido delle Colonnegiudice messinese e funzionario imperiale attestato tra il 1243 e il 1280 – viene citato da Dante nel De vulgari eloquentia come poeta insigne della scuola federiciana. Di lui ci restano cinque canzoni che sperimentano i due registri ricorrenti della poesia siciliana, quello euforico per l’amore raggiunto e la «merzede» concessa dalla donna e quello simmetrico del ‘servizio’ non ripagato. Giustamente celebre è la canzone Ancor che l’aigua per lo foco lassi: per quanto riguarda il contenuto, è una delle tante preghiere rivolte alla donna perché accolga finalmente il corteggiatore «che languisce e non può morire»; per quanto riguarda la forma dell’espressione, è una sequenza di metafore naturalistiche (il ghiaccio, la neve, gli spiriti, la calamita) che non sono usuali nel repertorio siciliano ma preannunciano quelle canzoni tosco-emiliane in cui verrà dato ampio spazio alle metafore ricavate dalla scienza: si pensi su tutte, per importanza, al manifesto dello stilnovo Al cor gentil, di Guinizelli, e alla canzone-trattato sulla natura d’amore di Cavalcanti, Donna me prega.

Rimatore in volgare e prosatore in latino (un doppio binario che in altro modo abbiamo già visto essere proprio di Pier della Vigna), a Guido delle Colonne è attribuita la Historia destructionis Troiae (‘Storia della distruzione di Troia’). Si tratta di una traduzione, o meglio di un libero rifacimento in latino, del Roman de Troie, il romanzo in antico francese composto a metà del XII secolo da Benoît de Sainte-Maure, che narra le mitiche vicende troiane. Caso più unico che raro di traduzione in latino di un modello volgare, l’Historia di Guido, che conobbe un’enorme fortuna durante tutto il Medioevo, agì in profondità, anche attraverso i suoi volgarizzamenti trecenteschi, sulla formazione della nostra prosa romanzesca e storiografica.
Altri rimatori, di cui ci sono pervenuti pochi testi manoscrittil’Abate di Tivoli, laziale; Jacopo Mostacci, forse pisano; Rinaldo d’Aquino, anch’egli laziale –, testimoniano di quanto composita fosse la geografia degli intellettuali di corte.

Dopo la metà del secolo, altri poeti originariamente legati a Federico II risaliranno la penisola e agiranno da tramite con le regioni centro-settentrionali, favorendo l’esportazione della poesia siciliana dal regno e dando così un potente contributo alla fondazione della tradizione lirica toscana. Si tratta di re Enzo, figlio di Federico e re di Sardegna che, catturato dai bolognesi durante la battaglia di Fossalta (1249), fu loro prigioniero sino alla morte: in prigionia, probabilmente, e a contatto con i più antichi rimatori bolognesi, compose le due canzoni e il sonetto morale tramandatici dagli antichi codici; di Percivalle Doria, nobile genovese, autore di due canzoni amorose in volgare siciliano e di una tenzone e un sirventese politico in provenzale; di Mazzeo di Ricco, notaio messinese attestato in Toscana tra il 1252 e il 1260, di cui restano quattro canzoni e un sonetto di materia morale.
Infine, non saranno estranei all’ambiente della corte alcuni componimenti di tono popolareggiante i quali denunciano tuttavia, nella lingua e nella versificazione, una mediazione dotta. Il famoso contrasto di Cielo d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima, dialogo burlesco tra un pretendente sfacciato e una contadina ritrosa (ma non troppo), non può considerarsi poesia di popolo. Al contrario, la coscienza linguistica, la capacità di intrecciare «modi curiali e modi realistici» (Contini), e insieme la probabile conoscenza di generi della poesia dialogata galloromanza (la pastorella), fanno pensare a una parodia dotta di quelli che nella considerazione comune passavano per atteggiamenti e costumi popolari.

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