L’Iliade

La struttura e il tema

L’Iliade, il cui titolo significa “vicenda di Ilio”, è un poema epico suddiviso in 24 libri che racconta gli ultimi cinquanta giorni della guerra di Troia (detta anticamente Ilio dal nome di Ilo, il suo leggendario fondatore), conclusasi, dopo dieci anni di assedio, con la distruzione della città da parte dei greci.

Tema centrale del poema è quindi la guerra e protagonisti ne sono i valorosi condottieri dei due eserciti. Tra questi, il personaggio che spicca sugli altri è Achille, il più valoroso degli eroi greci.

            La vicenda

La situazione iniziale Sono già dieci anni che gli achei (i greci, detti anche

micenei), guidati da Agamennone, re di Micene, combattono i troiani sotto le mura della città, che continua a resistere.

Nel momento in cui il poema inizia, una terribile pestilenza, scatenata dal dio Apollo, si sta abbattendo da nove giorni sul campo greco, facendo morire molti guerrieri. Il dio è adirato per l’offesa ricevuta dal suo sacerdote Crise, che si era recato al campo greco per chiedere il riscatto di sua figlia Criseide, tenuta come schiava da Agamennone. Il sacerdote aveva ricevuto un netto rifiuto ed era stato cacciato in malo modo.

Dopo dieci giorni, su proposta di Achille, si riunisce il consiglio dei capi e, nel corso della riunione, l’indovino Calcante rivela i motivi della collera di Apollo. Agamennone, seppur controvoglia, acconsente a restituire Criseide al padre per far cessare la pestilenza, ma pretende di avere in cambio la schiava preferita di Achille, Briseide.

L’ira di Achille Questa imposizione scatena l’ira di Achille, che però non può fare altro che sottomettersi alle richieste di Agamennone. Ferito nell’orgoglio e addolorato, Achille giura che non parteciperà più alla guerra, e Agamennone decide di continuare a combattere anche senza di lui.

Ritiratosi, Achille invoca l’aiuto della madre Teti: questa si reca da Zeus, suo padre, pregandolo di far sì che la guerra volga a favore dei troiani finché gli achei non si saranno riconciliati con Achille. È questo il momento peggiore per gli achei: le batta- glie si susseguono, lo stesso Agamennone viene ferito in un combattimento e i troiani, guidati dal valoroso Ettore, figlio di Priamo, riescono a incendiare le navi achee.

La morte di Patroclo e di Ettore Patroclo, grande amico di Achille, preoccupato per la sorte dei compagni, ottiene da Achille il permesso di partecipare alla battaglia indossando le sue armi. Con esse, il giovane semina il terrore tra i nemici, che lo credono Achille, ma nello scontro con Ettore viene ucciso.

Straziato per la morte dell’amico, Achille decide di riprendere a combattere e, dopo aver indossato le nuove armi che il dio Efesto (incaricato da Teti) gli ha forgiato, scende in battaglia, facendo strage tra i troiani. Priamo allora fa aprire le porte della città, affinché i suoi, in fuga, possano rifugiarvisi. Ettore, nonostante il padre lo supplichi di mettersi in salvo, decide di rimanere fuori dalla città ad affrontare il nemico, e qui viene raggiunto da Achille, che in un duello lo uccide.

La fine della vicenda Non contento e accecato dall’odio verso l’assassino del suo amico, Achille infierisce sul corpo dell’eroe troiano, trascinandolo nella polvere dopo averlo legato al proprio cocchio. Poi si ritira nel suo accampamento per i funerali di Patroclo. Qui viene raggiunto da Priamo, che gli chiede di restituirgli il corpo di Ettore per potergli dare degna sepoltura. Achille, commosso dal vecchio padre, restituisce la salma e il poema si conclude con i funerali di Ettore.

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La guerra di Troia

Un’altra questione su cui molti studiosi e appassionati hanno discusso è quella relativa alle vicende della guerra di Troia, su cui si basa l’Iliade e da cui l’Odissea prende le mosse. Si tratta di un evento realmente accaduto o è frutto della fantasia del popolo greco e dei suoi aedi? La città di Troia è davvero esistita?

Anche in questo caso sono state avanzate varie ipotesi, fino a quando si è definitivamente dimostrato che Troia è veramente esistita e che fu distrutta nel XII secolo a.C., nel corso di una guerra contro i greci.

            La scoperta della città

Il merito della scoperta di Troia è dello studioso tedesco Heinrich Schliemann, che nel 1868 portò alla luce le rovine della città leggendaria. Dopo aver studiato con attenzione sia l’Iliade sia l’Odissea, si recò prima in Grecia e poi in Asia Minore.

Scoprì che le rovine della città si trovavano sulla collina di Hissarlik e, grazie al suo contributo, furono rinvenuti ben nove strati di rovine, uno sull’altro, segno che la città era stata più volte distrutta e ricostruita.

            La storia e il mito

Le ragioni che scatenarono la guerra tra troiani e greci furono di carattere politico ed economico.La tribù degli achei si era stanziata in Grecianel Peloponneso, intorno al 2000 a.C. e qui aveva fondato diverse città. Ben presto estesero il loro dominio sui territori vicini, con l’intento di spingersi sino alle coste dell’Asia Minore per ampliare i loro commerci. La città di Troia sorgeva proprio all’imbocco dello stretto dei Dardanelli, e grazie alla sua posizione privilegiata controllava i traffici marittimi del mar Nero e del mar Egeo.

Probabilmente Troia ostacolò il commercio degli achei con l’Oriente e da qui ebbe origine la guerra. Ma prendendo spunto da questa vicenda, gli antichi narratori elaborarono una loro versione della storia, inserendovi elementi leggendari e mitici. Da qui Omero prese le mosse per la composizione dei suoi poemi.

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OMERO

I più famosi poemi epici greci a noi pervenuti sono l’Iliade e l’Odissea, che narrano rispettivamente le vicende relative alla fase finale della guerra di Troia e le peregrinazioni dell’eroe che fu il principale artefice della caduta della città, Odisseo (o Ulisse, per i latini).

Le due opere, che fin dall’antichità godettero di enorme fortuna, furono attribuite a Omero, considerato il primo e il più grande dei poeti epici dell’antica Grecia. La figura di questo poeta è sempre stata avvolta dal mistero: incerti sono l’anno e il luogo della nascita, la data di composizione delle sue opere e gli avvenimenti della sua vita. Secondo la tradizione, Omero era un aedo povero e cieco, originario di Smirne (nell’Asia Minore), che vagava di corte in corte declamando i suoi versi.

            La questione omerica

L’assenza di notizie relative al poeta Omero fece nascere già nell’antichità una serie di interrogativi:

  1. Omero è realmente esistito?
  2. L’Iliade e l’Odissea sono da attribuire a lui o sono opera di diversi 

      poeti?

  • Quando sono stati composti questi due poemi?

A partire da queste domande si è sviluppata una discussione che continuò anche nelle epoche successive e che prende il nome di questione omerica. Nel corso dei secoli gli studiosi hanno sostenuto diverse ipotesi: alcuni hanno negato l’esistenza stessa di Omero, altri hanno affermato che Omero è realmente esistito, ma che avrebbe composto solo uno dei due poemi. 

Gli studi più recenti vedono in Omero l’autore di ambedue i poemi, che sono tuttavia riferibili a epoche diverse, rispettivamente alla giovinezza (Iliade) e alla vecchiaia (Odissea) del poeta.

Le due opere, infatti, si somigliano per lo stile in cui sono state scritte, per l’uso di alcune formule del linguaggio, perché presentano la stessa struttura e per il sentimento religioso che le pervade.

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L’epica greca

         Aedi e rapsodi

Nell’antica Grecia le imprese di dèi ed eroi erano cantate con l’accompagnamento della lira o della cetra dagli aedi, cantori che vagavano di corte in corte per rallegrare feste e banchetti. Per rendere più avvincenti le loro narrazioni, gli aedi, pur prendendo spunto da vicende storiche realmente accadute, le trasformavano e idealizzavano, mescolando a esse con grande abilità elementi leggendari e mitici.

In un secondo momento i rapsodi (parola greca che significa “cucitori di canti”) diedero una struttura narrativa ai vari episodi epici, raccogliendoli insieme. In questo modo il racconto epico poté passare dalla forma orale a quella scritta, sotto forma di poemi.

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Il genere epico

Le origini del genere epico

Si definisce “epica” il genere letterario proprio di quei componimenti che raccontano le imprese leggendarie e grandiose di un popolodei suoi eroi e dei suoi dèi. Il termine, che deriva dal greco èpos (“parola”, “canto accompagnato da musica”), fa riferimento all’origine orale dei racconti epici. Solo in un secondo momento essi sono stati trascritti e hanno assunto una forma letteraria, solitamente quella del poema, una lunga opera narrativa in versi.

Il genere epico è presente in forme diverse in quasi tutte le culture: ogni popolo ha infatti sentito il bisogno di tramandare la propria memoria storica e le vicende dei propri eroi. L’epica dunque è una forma molto antica di narrazione e riveste una grande importanzain quanto ci permette di conoscere gli aspetti caratteristici di una determinata civiltà, i suoi valori morali e religiosi.

         Il poema epico nella storia

La prima opera letteraria dell’umanità è un poema epico nato in Mesopotamia nel III millennio a.C. L’Epopea di Gilgamesh è la storia del mitico re della città di Urukche compie un lungo viaggio per scoprire il segreto dell’immortalità: tornerà senza averlo scoperto, ma con un animo molto più saggio.

Solo diversi secoli più tardi nascerà la cosiddetta “epica classica”, che si riferisce ai poemi del mondo greco e romano. I più importanti sono l’Iliade e l’Odissea, composti in Grecia attorno all’VIII secolo a.C., e l’Eneidescritta dal poeta latino Virgilio nel I secolo a.C.

Nelle epoche successive l’epica continuò a essere un genere molto diffuso. Nel Medioevo servì a raccontare le imprese di audaci cavalieri: tra le opere più importanti dell’epica cavalleresca ricordiamo la Chanson de Roland e le storie di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda in Francia, la Canzone dei Nibelunghi in area germanica, il Cantar de mio Cid in Spagna. All’epocarinascimentale risalgono invece i più importanti poemi epici italianil’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto e la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Oggi il genere epico è scomparso, ma un esempio di narrazione che potrebbe essergli assimilato è quello delle saghe, cicli di romanzi che narrano lunghe vicende con uno o più protagonisti. Ambientate nella realtà come nella fantasia, appartengono a diversi generi letterari: tra le più celebri, ricordiamo le saghe fantasy del Signore degli anelli e di Harry Potter.

            La struttura dei poemi epici

La caratteristica più evidente dei poemi epici è la lunghezza: essi sono infatti composti da migliaia di versispesso divisi in libri o canti.

Per quanto riguarda la struttura, il poema epico è solitamente costituito da tre parti:

•         il proemio, che contiene l’invocazione alla Musa (la divinità protettrice della poesia) e la protasi, cioè la presentazione dell’argomento;

•         lo svolgimento, in cui sono narrati i fatti, che è la parte più ampia del poema;

•         il momento conclusivo della vicenda, che si chiude solitamente con un lieto fine.

            I temi dell’epica

I temi trattati nei poemi epici sono molto diversi, ma è possibile raggrupparli intorno a due nuclei principali: la guerra e il viaggio.

La guerra è il momento in cui si dimostra la fedeltà alla patria e si soddisfa il desiderio di compiere imprese gloriose. Al tema della guerra si legano il culto dei morti e i riti funebri: in molte tradizioni popolari i morti in battaglia dovevano ricevere degna sepoltura, soprattutto se si trattava di eroi.

Altrettanto importante è il tema del viaggio, nel corso del quale l’eroe, sorretto o ostacolato dalla volontà degli dèi, deve affrontare una serie di avventure e di pericoli. A questo tema si riallacciano quelli del ritorno in patria e dell’ospitalità, che era considerata sacra.

            Il linguaggio

Il linguaggio dei poemi epici varia, ovviamente, a seconda dell’epoca e della cultura in cui si inseriscono. L’epica classica e quella medioevale presentano solitamente un linguaggio solenne, ma anche semplice e coinvolgente, caratterizzato da:

•         presenza di epiteti, cioè espressioni usate in riferimento a un personaggio, un oggetto o un luogo per renderlo immediatamente riconoscibile. Per esempio, Achille è spesso definito “piè veloce”, Ulisse è “ingegnoso”, “accorto” ecc.;

•         uso di patronimici, cioè di appellativi per identificare la discendenza di un personaggio, ottenuti con l’aggiunta del suffisso “-ide” al nome del padre. Per esempio, “Pelìde” significa figlio di Peleo;

•         utilizzo frequente di figure retoriche come similitudini, metafore e personificazioni;

•         ripetizione di espressioni o di intere frasi;

•         presenza di descrizioni ampie e particolareggiate, per permettere agli ascoltatori o ai lettori di visualizzare facilmente le scene descritte.

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IL MITO

Mito s. m. [dal gr. Μῦϑος «parola, discorso, racconto, favola, leggenda»]. – 1. Narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore spesso religioso e comunque simbolico, di gesta compiute da figure divine o da antenati (esseri mitici) che per un popolo, una cultura o una civiltà costituisce una spiegazione sia di fenomeni naturali sia dell’esperienza trascendentale, il fondamento del sistema sociale o la giustificazione del significato sacrale che si attribuisce a fatti o a personaggi storici; con lo stesso termine si intende anche ciascuno dei temi della narrazione mitica in quanto trattati ed eventualmente rielaborati in opere letterarie o filosofiche (per Platone, rappresentazione verosimile, in forma di allegoria, di realtà inattingibili da parte della ragione): i mdella genesi del mondo e dell’uomoil crearsiil diffondersi di un m.; i mgreciromaniorientaliil mdi Prometeodi Teseo e Ariannail mdella spedizione degli Argonauti può essere interpretato come allegoria delle antiche navigazioniil mdella reincarnazione in Platone. In quanto fenomeno antropologico il mito, a partire dal sec. 19°, è stato oggetto di teorie che lo hanno interpretato, volta a volta, come espressione di una fase dello sviluppo storico della comunicazione umana, come testimonianza di esperienze e pratiche primitive ritenute comuni a tutti i popoli, o, più recentemente, come l’espressione simbolica di credenze e comportamenti tradizionali, radicati nelle strutture profonde della psiche (e dunque essenzialmente universali, al di là delle differenze di forma) oppure prodotti di condizioni socio-economiche storicamente determinate e allo stesso tempo strumenti di coesione ideologica e di conservazione sociale. 2. Estens. A. Idealizzazione di un evento o personaggio storico che assume, nella coscienza dei posteri o anche dei contemporanei, carattere e proporzione quasi leggendarî, esercitando un forte potere di attrazione sulla fantasia e sul sentimento di un popolo o di un’età.

Da Enciclopedia Treccani on line

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La Comedia

Dante iniziò la composizione della Comedia durante l’esilio, probabilmente intorno al 1307. La cronologia dell’opera è incerta, ma si ritiene che l’Inferno sia stato concluso intorno al 1308, il Purgatorio intorno al 1313, mentre il Paradiso sarebbe stato portato a termine pochi mesi prima della morte, nel 1321.
Il titolo originale è Comedìa, secondo la definizione dello stesso Dante; l’aggettivo Divina fu aggiunto dal Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante (metà del XIV sec.) e comparve per la prima volta in un’edizione del 1555 curata da Ludovico Dolce. È un poema didattico-allegorico, scritto in endecasillabi e in terza rima. Racconta il viaggio di Dante nei tre regni dell’Oltretomba, guidato dapprima dal poeta Virgilio (che lo conduce attraverso Inferno e Purgatorio) e poi da Beatrice (che lo guida nel Paradiso). L’opera si propone anzitutto di descrivere la condizione delle anime dopo la morte, ma è anche allegoria del percorso di purificazione che ogni uomo deve compiere in questa vita per ottenere la salvezza eterna e scampare alla dannazione. È anche un atto di denuncia coraggioso e sentito contro i mali del tempo di Dante, soprattutto contro la corruzione ecclesiastica e gli abusi del potere politico, in nome della giustizia.

La struttura

La Commedia  è divisa in 3 Cantiche (InfernoPurgatorioParadiso), ognuna delle quali divisa in canti: il numero è di 34 canti per l’Inferno (il primo è di introduzione generale al poema), 33 per Purgatorio e Paradiso, quindi 100 in totale.

Ogni canto è composto di versi endecasillabi raggruppati in terzine a rima concatenata (con schema ABA, BCB, CDC…), di lunghezza variabile (da un minimo di 115 a un massimo di 160 versi). In totale il poema conta 14.233 versi endecasillabi.
Nell’opera ci sono alcuni parallelismi, che rientrano nel gusto tipicamente medievale per le simmetrie: il canto VI di ogni Cantica è di argomento politico, secondo un climax ascendente (Firenze nell’Inferno, l’Italia nel Purgatorio, l’Impero nel Paradiso). Ogni Cantica termina con la parola «stelle» («e quindi uscimmo a riveder le stelle», Inf., XXXIV, 139; «puro e disposto a salire a le stelle», Purg., XXXIII,145; «l’amor che move il sole e l’altre stelle», Par., XXXIII, 145) e su tutto domina il numero 3, simbolo della Trinità.

La Commedia è il racconto di un viaggio, che ha un significato letterale e un altro allegorico. Il significato letterale è quello del viaggio di un uomo, Dante, che la notte del 7 aprile (o 25 marzo) dell’anno 1300 si smarrisce in una selva, dove incontra alcune belve feroci e viene poi soccorso dall’anima del poeta Virgilio, che lo conduce attraverso i tre regni dell’Oltretomba. Questo viaggio ha la funzione di illustrare al lettore la condizione delle anime post mortem, come Dante stesso chiarisce nell’Epistola XIII a Cangrande della Scala, e si svolge nella settimana santa dell’anno in cui papa Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo della Chiesa cristiana, cioè dall’8 al 14 aprile del 1300
Il viaggio ha però anche un significato allegorico, ovvero quello di un percorso di purificazione morale e religiosa che ogni uomo può e deve compiere in questa vita per ottenere la salvezza eterna. In questa luce i vari personaggi del poema possono avere un doppio significato, letterale (o storico) e allegorico: Dante è ad esempio il poeta fiorentino nato nel 1265 e autore della Vita nuova (senso letterale), ma è anche ogni uomo (senso allegorico); Virgilio è il poeta latino autore dell’Eneide, ma anche la ragione naturale degli antichi filosofi in grado di condurre ogni uomo alla felicità terrena; Beatrice è la donna amata da Dante e morta a Firenze nel 1290, ma è anche la teologia rivelata e la grazia divina in grado di condurre ogni uomo alla felicità eterna.
È allora evidente che Virgilio, allegoria della ragione umana, può guidare Dante solo fino al Paradiso Terrestre posto in vetta al monte del Purgatorio, che è a sua volta allegoria della felicità terrena e del possesso delle virtù cardinali (prudenza, fortezza, temperanza e giustizia), mentre sarà Beatrice a guidare Dante fino al Paradiso Celeste, allegoria della felicità eterna e del possesso delle virtù teologali (fede, speranza e carità). La lettura del poema deve tenere conto di questa interpretazione, chiamata da Auerbach «figurale», altrimenti si rischia di non comprendere buona parte del suo significato di fondo.

Il titolo Commedia si rifà alla teoria medievale degli stili e allude al fatto che il poema comincia male, con lo smarrimento angoscioso nella selva, e finisce bene, con l’ascesa all’Empireo e la visione di Dio (al contrario la tragedia inizia bene e finisce male, come chiarito da Aristotele nella Poetica, che Dante conosceva in forma indiretta). La retorica medievale distingueva inoltre tre stili, quello alto e «tragico», quello medio e «comico», quello basso ed «elegiaco» (che corrispondevano alle tre opere di Virgilio, EneideGeorgicheBucoliche). La Commedia presenta una commistione di tutti e tre gli stili, anche se c’è una certa prevalenza per quello «comico», proprio soprattutto dell’Inferno.
Quanto alla lingua, Dante si serve del volgare fiorentino già usato nelle precedenti opere, benché ricorra anche a latinismi, francesismi, provenzalismi e prestiti da varie altre lingue (c’è chi ha visto persino vocaboli di origine araba, mentre i versi 140-147 del Canto XXVI del Purgatorio sono in pura lingua d’oc). Dante ricorre talvolta a linguaggi strani e incomprensibili (le parole di Pluto, quelle di Nembrod nell’Inferno), mentre altrove conia degli arditi neologismi (specialmente nel Paradiso). Questo ha portato gli studiosi a parlare di plurilinguismo e pluristilismo della Commedia, il che differenzia Dante da Petrarca e dai poeti dell’Umanesimo e del Rinascimento, che preferiranno alla sua una lingua più «pura» e regolare.

La novità straordinaria della Commedia non è tanto la descrizione dei luoghi dell’Aldilà, già proposta da altri scrittori precedenti, quanto piuttosto il fatto che Dante non si limita a descrivere castighi e premi ma indica personaggi noti che il pubblico del tempo conosceva assai bene. L’autore indica cioè ai lettori esempi (exempla in latino) di peccati puniti o di virtù premiata che abbiano per protagonisti personaggi «pubblici» e perciò noti a tutti, perché solo così è possibile suscitare il maggior effetto possibile nell’ immaginazione (è Dante stesso a chiarirlo nel Canto XVII del Paradiso, nelle parole dell’avo Cacciaguida); ciò risponde anche a un’altra funzione, quella di usare esempi noti e spesso «scandalosi» al fine di denunciare i mali e le ingiustizie del tempo.
Questo spiega perché Dante scelga i personaggi da includere fra i dannati, i penitenti o i beati in base al criterio della notorietà, ovvero tra gli esempi più importanti e noti di quel peccato o di quella virtù, non importa se reali e storici oppure letterari e immaginari: abbiamo personaggi che appartengono alla storia antica e recente, alla cronaca «nera» del tempo di Dante (si pensi a Paolo e Francesca), al mito classico, alla letteratura, alla tradizione biblica. Dante del resto non distingue in modo scientifico e moderno tra mito e storia, perché tutto è funzionale alla rappresentazione dell’«escatologia», cioè della realtà dell’Oltretomba e del destino ultraterreno delle anime.
Allo stesso modo Dante non esita a reinterpretare in chiave cristiana personaggi e vicende del mito classico, secondo una tradizione tipica del Medioevo: lo stesso Virgilio era visto come «mago e profeta» del Cristianesimo, poiché si riteneva che avesse predetto la nascita di Cristo nella famosa Egloga IV. Analogamente molti demoni e mostri infernali sono divinità classiche degradate al rango di diavoli, mentre troviamo il poeta latino e pagano Stazio tra le anime del Purgatorio, e Rifeo e Traiano tra i beati del Paradiso. Le stesse Muse, Apollo, Giove sono immagini usate per adombrare Dio stesso.

Un’ulteriore considerazione va fatta sul duplice ruolo svolto da Dante nel poema, essendo al tempo stesso protagonista del viaggio da lui narrato (e che lui descrive come realmente e fisicamente avvenuto in un tempo storico ben preciso) e poeta chiamato a raccontare in versi l’esperienza affrontata. Dante chiarisce in più di un passo del poema che a lui è toccato un privilegio eccezionale, quello di visitare da vivo i tre regni dell’Oltretomba e di tornare sulla Terra per riferire con esattezza tutto quello che ha visto: è una missione straordinaria, cui lui è chiamato in virtù dei suoi meriti di letterato e poeta, rendendolo simile ad Enea e san Paolo già protagonisti di esperienze analoghe.
A questo proposito è importante ciò che lo stesso Dante sottolinea a più riprese nel corso del viaggio, non solo cioè l’assoluta veridicità delle cose viste e narrate, ma anche l’oggettiva difficoltà di spiegare con parole umane quel che di non umano e di ultraterreno ha visto. Per fare questo, Dante avrà bisogno dell’assistenza e dell’aiuto di Dio, perciò la Commedia è un libro «ispirato», scritto materialmente da Dante ma sotto la «dettatura» della grazia divina che lo ha incaricato di questo compito straordinario. La Commedia diventa quindi una sorta di nuova Bibbia, ed è Dante stesso a definirla poema sacrosacrato poema, al quale hanno collaborato e cielo e terra: in questo senso l’autore può ben aspettarsi la fama eterna, anche per l’assoluta novità della materia da lui trattata (nessuno prima di lui aveva toccato tali argomenti in modo così innovativo).

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OPERE di Dante Alighieri

  1. Il Fiore e Detto d’Amore
  2. Le Rime
  3. Vita Nova
  4. Convivio
  5. De vulgari eloquentia
  6. De Monarchia
  7. Commedia
  8. Le Epistole
  9. Egloghe
  10. La Quaestio de aqua et terra

Il Fiore

Il Fiore è un poemetto o corona di 232 sonetti, anonimo, da alcuni critici attribuito a Dante Alighieri. Si tratta di una riscrittura compendiosa del Roman de la Rose. Il Fiore risale a un periodo compreso tra 1283 e 1287, in concomitanza col Detto d’Amore.

Detto d’Amore

Il Detto d’Amore è un poemetto di 480 settenari attribuito a Dante Alighieri. Incentrato sull’amor cortese, il poemetto è in parte tratto dal Roman de la Rose, romanzo francese pubblicato nel 1280, di cui riprende parti non considerate dall’autore nella stesura de Il Fiore.

Vita Nova

La Vita Nova può essere considerata il “romanzo” autobiografico di Dante, in cui si celebra l’amore per Beatrice, presentata con tutte le caratteristiche proprie dello stilnovismo dantesco. Racconto della vita spirituale e della evoluzione poetica del Poeta, resa come exemplum, la Vita nova è un prosimetro (brano caratterizzato dall’alternanza tra prosa e versi) e risulta strutturata in quarantadue (o trentuno) capitoli in prosa collegati in una storia omogenea, che spiega una serie di testi poetici composti in tempi differenti, tra cui hanno particolare rilevanza la canzone-manifesto Donne ch’avete intelletto d’amore e il celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare. Secondo buona parte degli studiosi, per la forma del prosimetro, Dante si sarebbe ispirato alle razos provenzali (ovvero le “ragioni”) che servivano a spiegare le ragioni da cui scaturivano le liriche; e alla De consolatione philosophiae di Severino Boezio. L’opera è consacrata all’amore per Beatrice e fu composta probabilmente tra il 1292 e il 1293. La composizione delle rime si può far risalire, secondo la cronologia che Dante fornisce, tra il 1283 come risulta dal sonetto A ciascun alma presa e dopo il giugno del 1291, anniversario della morte di Beatrice. Per stabilire con una certa sicurezza la data della composizione del libro nel suo insieme organico, ultimamente la critica è propensa ad avvalersi del 1300, data non superabile, che corrisponde alla morte del destinatario Guido Cavalcanti: “Questo mio primo amico a cui io ciò scrivo” (Vita nova, XXX, 3).

Convivio

Il Convivio (scritta tra il 1303 e il 1308) dal latino convivium, ovvero “banchetto” (di sapienza), è la prima delle opere di Dante scritta subito dopo il forzato allontanamento di Firenze ed è il grande manifesto del fine “civile” che la letteratura deve avere nel consorzio umano. L’opera consiste in un commento a varie canzoni dottrinali poste all’incipit, una vera e propria enciclopedia dei saperi più importanti per coloro che vogliano dedicarsi all’attività pubblica e civile senza aver compiuto gli studi regolari. È pertanto scritta in volgare per essere appunto capita da chi non ha avuto la possibilità in precedenza di studiare il latino. L’incipit del Convivio fa capire chiaramente che l’autore è un grande conoscitore e seguace di Aristotele; questi, infatti, viene citato con il termine “Lo Filosofo”.

L’incipit in questo caso spiega a chi è rivolta quest’opera e a chi non è rivolta: soltanto coloro che non hanno potuto conoscere la scienza dovrebbero accedervi. Questi sono stati impediti da due tipi di ragioni:

  • interne: malformazioni fisiche, vizi e malizia;
  • esterne: cura familiare, civile e difetto di luogo di nascita.

Dante ritiene beati i pochi che possono partecipare alla mensa della scienza, dove si mangia il “pane degli angeli”, e miseri coloro che si accontentano di mangiare il cibo delle pecore. Dante non siede alla mensa, ma è fuggito da coloro che mangiano il pastume e ha raccolto quello che cade dalla mensa degli eletti per crearne un altro banchetto. L’autore allestirà un banchetto e servirà una vivanda (i componimenti in versi) accompagnata dal pane (la prosa) necessario per assimilarne l’essenza. Saranno invitati a sedersi solo coloro che erano stati impediti da cura familiare e civile, mentre i pigri sarebbero stati ai loro piedi per raccogliere le briciole.

De vulgari eloquentia

Contemporaneo al Convivio, il De vulgari eloquentia è un trattato in latino scritto da Dante tra il 1303 e il 1304. Composto da un primo libro intero e da 14 capitoli del secondo libro, era inizialmente destinato a comprendere quattro libri. Pur affrontando il tema della lingua volgare, fu scritto in latino perché gli interlocutori a cui Dante si rivolse appartenevano all’élite culturale del tempo, che forte della tradizione della letteratura classica riteneva il latino senz’altro superiore a qualsiasi volgare, ma anche per conferire alla lingua volgare una maggior dignità: il latino era infatti usato soltanto per scrivere di legge, religione e trattati internazionali, cioè argomenti della massima importanza. Dante si lanciò in un’appassionata difesa del volgare, dicendo che meritava di diventare una lingua illustre in grado di competere se non uguagliare la lingua di Virgilio, sostenendo però che per diventare una lingua in grado di trattare argomenti importanti il volgare doveva essere:

  • illustre (in quanto luminoso e quindi capace di dare lustro a chi ne fa uso nello scritto);
  • cardinale (tale che intorno a esso ruotassero come una porta intorno al cardine, i volgari regionali);
  • aulico (reso nobile dal suo uso dotto, tale da esser parlato nella reggia);
  • curiale (come linguaggio delle corti italiane, e da essere adoperato negli atti politici di un sovrano).

Con tali termini intendeva l’assoluta dignità del volgare anche come lingua letteraria, non più come lingua esclusivamente popolare. Dopo avere ammesso la grande dignità del siciliano illustre, la prima lingua letteraria assunta a dignità nazionale, passa in rassegna tutti gli altri volgari italiani trovando nell’uno alcune, nell’altro altre delle qualità che sommate dovrebbero costituire la lingua italiana. Dante vede nell’italiano la panthera redolens dei bestiari medievali, animale che attrae la sua preda (qui lo scrittore) con il suo irresistibile profumo, che Dante sente in tutti i volgari regionali, e in particolare nel siciliano, senza però riuscire mai a vederla materializzarsi: manca in effetti ancora una lingua italiana utilizzabile in tutti i suoi registri, da tutti gli strati della popolazione della penisola italica. Per farla riapparire era dunque necessario attingere alle opere dei letterati italiani finora apparsi, cercando così di delineare un canone linguistico e letterario comune.

De Monarchia

L’opera venne composta in occasione della discesa in Italia dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo tra il 1310 e il 1313. Si compone di tre libri ed è la summa del pensiero politico dantesco. Nel primo Dante afferma la necessità di un impero universale e autonomo, e riconosce questo impero come unica forma di governo capace di garantire unità e pace. Nel secondo riconosce la legittimità del diritto dell’impero da parte dei Romani. Nel terzo libro Dante dimostra che l’autorità del monarca è una volontà divina, e quindi dipende da Dio: non è soggetta all’autorità del pontefice; al contempo, però, l’imperatore deve mostrare rispetto nei confronti del pontefice, Vicario di Dio in Terra. La posizione dantesca è per più aspetti originale, poiché si oppone decisivamente alla tradizione politica narrata dalla donazione di Costantino: il De Monarchia è in contrasto tanto con i sostenitori della concezione ierocratica, quanto con i sostenitori dell’autonomia politica e religiosa dei sovrani nazionali rispetto all’imperatore e al papa.

Le Epistole

Ruolo rilevante hanno le 13 Epistole scritte da Dante durante gli anni dell’esilio. Tra le principali epistole, incentrate principalmente su questioni politiche (relative alla discesa di Arrigo VII) e religiose (lettera indirizzata ai cardinali italiani riuniti, nel 1314, per eleggere il successore di Clemente V). L’Epistola XIII a Cangrande della Scala, risalente agli anni tra il 1316 e 1320, è l’ultima e la più rilevante delle epistole attualmente conservate (benché si dubiti in parte della sua autenticità). Essa contiene la dedica del Paradiso al signore di Verona, nonché importanti indicazioni per la lettura della Commedia: il soggetto (la condizione delle anime dopo la morte), la pluralità dei sensi, il titolo (che deriva dal fatto che inizia in modo aspro e triste e si conclude con il lieto fine), la finalità dell’opera che non è solo speculativa, ma pratica poiché mira a rimuovere i viventi dallo stato di miseria per portarli alla felicità.

Egloghe

Le Egloghe sono due componimenti di carattere bucolico scritti in lingua latina tra il 1319 e il 1321 a Ravenna, facenti parte di una corrispondenza con Giovanni del Virgilio, intellettuale bolognese, i cui due componimenti finiscono sotto il titolo di Egloga I e Egloga III, mentre quelli danteschi sono l’Egloga II e Egloga IV.

La corrispondenza/tenzone fra i due nacque quando Giovanni del Virgilio rimproverò Dante di voler conquistare la corona poetica scrivendo in volgare e non in latino, critica che suscitò la reazione di Dante e la composizione delle Egloghe, visto che Giovanni del Virgilio aveva inviato a Dante tale componimento latino e che, secondo la dottrina medievale della responsio, l’interlocutore doveva rispondere con il genere usato per primo.

La Quaestio de aqua et terra

La trattazione filosofica continuò fino alla fine della vita del poeta. Il 20 gennaio 1320, Dante si recò nuovamente a Verona per discutere, nella chiesa di Sant’Elena, la struttura del cosmo secondo i cardini aristotelico-tolemaici che, in quel periodo, erano già oggetto di studio privilegiato per la composizione del Paradiso. Dante, qui, sostiene come la Terra si trovasse al centro dell’universo, circondata dal mondo sublunare (composto da terra, acqua, aria e fuoco) e di come l’acqua si trovi al di sopra della sfera terrestre. Da qui, la trattazione filosofica caratterizzata dalla disputatio con gli avversari.

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Dante Alighieri

Dell’infanzia e adolescenza dell’A. non sappiamo nulla; ma l’essere stato destinato, fin da fanciullo, al matrimonio, basterebbe ad escludere ch’egli fosse stato chiuso quale novizio nel convento francescano di S. Croce, come qualcuno vorrebbe secondo un’antica tradizione. Non si esclude, invece, che possa aver frequentato le scuole inferiori tenute dai religiosi, come pure non può escludersi che possa essere stato suo maestro quel Romano ” doctor puerorum populi Sancti Martini”, che appare in un documento del 1277.

Ma fin da giovinetto dovette studiare soprattutto da sé; e dovette assai presto apprendere “per sé medesimo l’arte del dire parole per rima” (Vita nova III, 9), se a 18 anni si sentì l’ardire di rivolgersi a “molti… famosi trovatori in quello tempo” col sonetto A ciascun’alma presa (ibid.).

Che avesse appreso l’arte del disegno risulta da un passo della Vita nova (XXXIV, 1); non si sa se anche la musica, sebbene sia certo che se ne intendesse e dilettasse assai, e che fosse amico di musicisti e cantori come Casella (Purg. II) e di artefici di strumenti come Belacqua (Purg. IV).

Il solo maestro di cui l’A. faccia menzione, con espressioni di grande affetto e gratitudine, è Brunetto Latini. Da lui dichiara solennemente d’aver appreso “ad ora ad ora… come l’uom s’eterna” (Inf. XV, vv. 84-85); ma da queste parole, prescindendo dalla controversa questione se il Latini tenne veramente pubblico insegnamento di retorica, si desume soltanto che il vecchio “dittatore”, senza impartirgli un regolare insegnamento, fu largo di occasionali ammaestramenti e incoraggiamenti verso il giovane poeta di cui aveva compreso l’altezza dell’ingegno e l’avidità di sapere e di gloria; e certamente della grande versatilità ed erudizione di Brunetto non poco dovette giovarsi, nella sua formazione, la mente enciclopedica dell’A., una delle più vaste del Medioevo.

Un sonetto (Non mi poriano) in cui è un riferimento alla “Garisenda torre”, trascritto da un notaio bolognese nei suoi memoriali del 1287, fa ragionevolmente supporre che intorno a quell’anno l’A. dovette essere a Bologna; ma ogni altra ipotesi intorno alla durata e alle ragioni del soggiorno è puramente arbitraria. Se realmente vi fu, ivi poté meglio conoscere e apprezzare la nuova lirica iniziata da Guido Guinizelli con la famosa canzone Al cor gentil; e in quel famoso Studio, dove convenivano scolari da ogni parte d’Italia, poté anche balenargli per la prima volta l’idea di un volgare illustre italico – il fiore delle varie parlate regionali -, che svilupperà più tardi nel De vulgari eloquentia. Certo è che gli studi della sua adolescenza dovettero prevalentemente essere orientati verso la poesia; e anche l’ambiente favoriva l’impulso naturale del giovinetto, giacché nella seconda metà del ‘200 in nessun’altra regione d’Italia la lirica era coltivata con tanto amore come in Toscana, e specialmente a Firenze. Ma non soltanto egli dovette cercare i poeti volgari – italiani e provenzali -, ma anche, e con tanto maggiore entusiasmo quanto più alta doveva avvertirne la perfezione artistica e maggiore l’utilità all’acquisto del “bello stilo” che doveva fargli onore, i poeti latini, specie Virgilio. I quattro latini (Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano), che con Omero e l’A. stesso formeranno nel IV canto dell’Inferno la “sesta compagnia” di grandi poeti, sono già riuniti nel cap. XXV della Vita nova in opposizione ai “grossi” rimatori volgari. C’è nell’opera dantesca una continuità di studio devoto della lingua e letteratura latina, che si deve far risalire ai primi corsi di grammatica del giovinetto. E questo debito, che non sarà soltanto di stile e di materia, verso la classicità finirà per isolare l’A. maturo dagli altri poeti della sua giovinezza, rimasti entro la tradizione e le esperienze della poesia contemporanea.

Malgrado le condizioni difficili della sua famiglia e l’esser presto rimasto orfano, l’A. poté, dunque, attendere liberamente agli studi verso cui si sentiva portato. Veramente le sue prime rime sono non più che esercitazioni di un tirocinante: il sonetto su citato, composto a diciotto anni, appartiene alla forma e al gusto delle corrispondenze poetiche, d’uso frequente allora, su questioni d’amore; e una corrispondenza poetica ebbe con Dante da Maiano, anch’essa ricalcata, nei concetti, nello stile, nella lingua, sui modelli della tradizione siculo-toscana; e a questi stessi modelli si riallacciano anche i componimenti inseriti nella Vita nova precedenti le “nuove rime”, specialmente quelli dei primi dodici paragrafi.

E tuttavia qua e là è possibile cogliere un verso, un costrutto, la collocazione di una parola, una movenza, una logica di svolgimento, che fanno presentire lo stile personalissimo dell’Alighieri. Al sonetto A ciascun’alma presa rispose, tra altri, Guido Cavalcanti: “e questo – racconta l’A. con tenerezza e compiacimento – fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato” (Vita nova III, 14). L’influsso esercitato sull’A. dal Cavalcanti, maggiore di lui di circa dieci anni, famoso come poeta e non meno ragguardevole come cittadino (era stato nel 1280, insieme con ser Brunetto, uno dei cittadini delle opposte fazioni firmatari della pace del cardinal Latino), fu certamente notevole, e non solo nei riguardi della poesia, ma anche del pensiero speculativo, e forse anche del costume. Per ciò che riguarda la poesia, sia la maniera più ariosa e leggera delle rime dantesche subentrata alla pesantezza della tradizione siculo-toscana (Guido, i’ vorrei; Per una ghirlandetta; Deh,Violetta), sia l’accento drammatico della rappresentazione di un amore doloroso e pauroso (E’ m’incresce di me; Lo doloroso amor) si richiamano, pur nell’indipendenza della realizzazione artistica, alla doppia ispirazione della poesia cavalcantiana. Quanto al costume, è noto che il Cavalcanti fu, come lo descrisse Dino Compagni, “sdegnoso e solitario e intento allo studio”; e tale – come avviene nelle amicizie tra maggiori e minori di età – egli avrebbe voluto fosse il suo più giovane amico, come attesta indubbiamente il rimprovero “Solevanti spiacer persone molte, tuttor fuggivi l’annoiosa gente”, ch’egli rivolse all’A. nel noto sonetto I’ vegno il giorno a te, quali che siano esattamente le allusioni specifiche. E forse l’esempio di Guido non si cancellò mai dalla memoria dell’A., quando gli anni, le lotte, le sventure resero anche lui, come il “primo de li suoi amici” (Vita nova III, 14), sdegnoso e solitario e solo intento allo studio, come attestano Giovanni Villani e il Boccaccio.

Ma nel periodo della piena “adolescenza”, che, secondo le sue idee, finiva a venticinque anni, egli non disprezzò affatto gli svaghi e le brigate mondane e i corteggiamenti amorosi, tutto ciò, insomma, che appartiene al costume normale di quell’età: la Vita nova, le Rime e la stessa Commedia ci aiutano a formarci un’idea abbastanza esatta di ciò; e del resto la gaiezza e gentilezza della Firenze di allora, che attiravano forestieri da tutta Italia, dovevano favorire anche nell’A. la socievolezza del costume; e a questo periodo deve probabilmente riferirsi la lode di “usanza lieta e conversazione giovanile” datagli da Leonardo Bruni nella Vita Dantis. Le donne dello “schermo” della Vita nova adombrano certo persone realmente da lui corteggiate, talvolta in modo così imprudente da dar esca al pettegolezzo cittadino. Partecipava a feste e lutti di famiglie amiche, a ritrovi mondani in genere, in città e in campagna; scriveva elegantissime rime di galanteria amorosa, e, tra queste, “una pìstola sotto forma di serventese” (Vita nova VI) in menzione di sessanta belle donne fiorentine, nella quale pose al nono posto Beatrice e al trentesimo quella che avrebbe voluto seco nel vasello del buon incantatore, insieme con gli amici Guido e Lapo Gianni e le loro amate (cfr. il sonetto su cit., Guido, i’ vorrei, v. 10); ed era conosciuto e guar-dato con curiosità e interesse dalle donne per qualche cosa di singolare che c’era in lui. Era esperto di equitazione (nella battaglia di Campaldino sarà tra i “feditori a cavallo”; e cfr. Vita nova IX, 7), ed anche di caccia (Rime LXI), specialmente – parrebbe – di quella col falcone (Inf. XVII, vv. 127-132; XXII, vv. 130-132; e quasi certamente anche Par. I, v. 51).

Le prime due cantiche della Commedia sono piene di echi e memorie di questo periodo della sua vita, che indubbiamente comprovano in lui “l’usanza lieta e conversazione giovanile”, una socievolezza che non disdegnava i contatti con nessun genere di persone, per il desiderio istintivo di “divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore”: e questo spiega e giustifica nel poema l’informazione minuta, di piccola cronaca, su tanti personaggi più o meno sconosciuti del suo tempo, che altrimenti sarebbe rimasta appunto cronaca o, peggio, pettegolezzo. Documento particolarmente notevole di questa scioltezza della sua vita giovanile sono i tre sonetti della tenzone con Forese Donati, cominciata probabilmente come scherzo, secondo certo cattivo gusto del tempo, ma trascesa a velenose offese e calunnie, delle quali l’A. volle fare esplicita ammenda in Purg. XXIII, vv. 85-93 e 115-117. Un riferimento, in uno dei sonetti di risposta di Forese, alla morte di Alaghiero come di fatto – così pare -non molto remoto, consiglia di assegnare alla tenzone una data non molto posteriore al 1283.

In mezzo a un’adesione così piena – senza le aristocratiche schifiltosità di Guido – alle varie forme della vita cittadina, fiorisce nell’intimità del cuore dell’A. l’amore per Beatrice, il fatto spirituale più importante della sua vita, perché intorno ad esso, nella singolare evoluzione ch’ebbe col tempo, si aggirerà, come intorno a fermo polo, il mondo ideale, morale e religioso dantesco. La storia di questo amore, un’esile trama – esteriormente – di pochissimi fatti, e per se stessi insignificanti, è interiormente assai complessa, né in tutto facilmente accessibile alla nostra mentalità: il che spiega i tentativi di interpretazioni varie, intese a renderla in tutto razionalmente coerente. Ma occorre farsi coevi del poeta, e seguire, con la docilità che c’insegnano gli antichi suoi biografi e commentatori della Commedia, il lavorio della sua immaginazione che trasfigura a suo modo la realtà, della sua volontà che trasfigura il sentimento: così, quel che dapprima, in quella sua storia amorosa, sembra irrazionale, apparirà nient’altro che il suo particolare modo di interpretare e rappresentare il mondo esterno e i moti interiori, non disforme dai modi della spiritualità del suo tempo. Il poeta afferma (Vita nova II, 1-2; Purg. XXX, vv. 41-42) d’aver visto per la prima volta a nove anni Beatrice, fanciulla quasi della sua stessa età, e di essere stato immediatamente soggiogato dalla potenza di un amore sovrumano. Il fatto dev’essere sostanzialmente vero; e non deve far difficoltà la precocità di un sentimento così intenso: un sentimento di eccezione in un temperamento di eccezionale ricchezza sentimentale. La fervida immaginazione – egli racconta – spingeva il precoce fanciullo spesse volte a cercare l’amata, e gliela faceva apparire “non figliuola d’uomo mortale, ma di Deo”. A diciotto anni Beatrice per la prima volta lo salutò e gli rivolse la parola: per l’A. fu la perfetta “beatitudine”. Il suo amore non cercava altro che la vista di lei e il suo saluto. Sgomento e tremore nel sentirla vicina; poi, la felicità sembrava superasse le capacità dell’anima: felicità tutta e soltanto spirituale, perché la perfetta bellezza di Beatrice aveva il potere di purificare, chi la guardasse, da ogni vizio, e ispirare ogni virtù. Qualche tempo dopo, per una leggerezza da parte dell’A., Beatrice gli tolse il saluto. Il rapporto amoroso, già così distaccato e immateriale, s’interiorizza del tutto e si sublima: prima, fonte di beatitudine, ora Beatrice diventa oggetto di venerazione: l’A. incomincia le rime della lode.

La morte precoce della giovane donna (8 giugno 1290) compie il suo processo d’idealizzazione nel cuore del Poeta: viva, pareva cosa venuta “di cielo in terra a miracol mostrare”; morta, egli la vede splendente, fatta segno di onore nell’Empireo, una beata. Questa – schematicamente – la storia del suo amore, secondo il racconto della Vita nova: l’accompagnano, insieme con episodi di vita reale (la morte di un’amica e poi del padre di Beatrice, la scena del “gabbo”), visioni, incubi, sogni presaghi, deliri, che, anche a volerli considerare soltanto come abbellimenti poetici, rivelano un aspetto dell’immaginazione giovanile dell’A., la sua trepidante mobilità fra il reale e l’irreale, che aiuta a comprendere la singolarità di un amore ai confini fra la vita e il sogno, fra il terrestre e

il trascendentale. L’idea o, meglio, il sentimento della donna-angelo ha anzitutto (troppo spesso il dato storico fa dimenticare il lato umano) un fondamento universale nella trasfigurazione delle doti della persona amata che l’illusione amorosa opera nel cuore, specialmente dei giovani innamorati; storicamente, poi, era un dato acquisito, attraverso due secoli circa di elaborazione, dalla spiritualità del tempo in cui sorse e fiorì l’amore di Dante. Già lo spirito cavalleresco, divulgato dai romanzi d’amore, aveva fatto della donna del cuore l’ispiratrice delle imprese gloriose e della virtù; e il culto di Maria, per l’impulso dato ad esso specialmente da Bernardo di Chiaravalle e dai cisterciensi, aveva proposto al sentimento – oltre la sfera religiosa – l’ideale della donna piena di virtù, mediatrice tra il cielo e la terra. La poesia provenzale, pur legata all’ambiente delle corti feudali e al cerimoniale dell’amoroso vassallaggio, era talvolta giunta al concetto del “fino amore”, che dai sensi si eleva alla contemplazione pura, disinteressata, della virtuosa bellezza femminile, e a una devozione che ha qualcosa di religioso. Poi la poesia siciliana e, in maggior misura, quella tosco-guittoniana si erano interessate del problema di amore, e ne avevano avvertito anche il lato spirituale e morale, Quando l’A., intorno ai diciott’anni (la data precisa potrà essere stata aggiustata per adattamento alla simbologia del 9), è per la prima volta salutato da Beatrice, era già da parecchi anni apparsa, e probabilmente aveva già avuto i suoi echi a Firenze, nelle rime di Monte Andrea e Chiaro Davanzati, e dello stesso Guido Cavalcanti, la canzone del Guinizelli Al cor gentil, che segna la data ufficiale di nascita, nella letteratura, della donna angelicata, ispiratrice e rivelatrice, per effetto della sua bellezza, dei più alti sensi in un cuore nobile di amante, miracolosa parvenza di Dio sulla terra, tale addirittura, – come lo stesso Guinizelli afferma nel Sonetto Voglio del ver la mia donna laudare – da convertire l’eretico alla fede cristiana, col suo semplice saluto. Nell’interpretazione guinizelliana della bellezza femminile l’A. trovò la rivelazione delle ragioni e dell’essenza del suo amore: una chiarificazione intellettuale e sentimentale, che consacrava il suo amore e lo sublimava. Sicché il processo di angelicazione e beatificazione di Beatrice, quale si svolse nello spirito dell’A. secondo il racconto della Vita nova, è non solo un documento del suo temperamento personale (meglio, di un aspetto del suo temperamento – quello fortemente idealistico -), ma insieme anche un’espressione del clima spirituale del suo tempo. Ma quel processo non si arrestò al punto di arrivo del racconto dell'”amoroso libello”: in questo Beatrice beata è ancora la giovane donna fiorentina che il poeta aveva veduta e amata dalla puerizia alla morte, una creatura mortale salita al cielo: non si esce ancora, concettualmente, dalla sfera dell’insegnamento guinizelliano e della poesia che l’A. riconobbe trarre origine da esso e chiamò “dolce stil novo”. L’ultimo stadio del suo processo evolutivo si attuerà nella Commedia, dove la donna mortale diventerà addirittura simbolo della teologia. Forse a una trasfigurazione di questo genere l’A. pensava già quando conchiudeva il racconto della Vita nova con la dichiarazione di non voler più dire di Beatrice, finché non potesse “più degnamente trattare di lei”; ma certo Beatrice come simbolo nacque insieme con l’idea della Commedia. E in questa trasfigurazione conclusiva non operò più, o non tanto, il sentimento, quanto piuttosto la volontà. La Beatrice della Vita nova, nella sua perfezione, aveva solo un valore personale: il poeta volle che avesse valore universale. Ne aveva già fatto una beata: volle darle una funzione di fondamentale importanza. Altri avevano glorificato la loro donna angelicata: l‘A. volle “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. E se si tiene presente il concetto della donna-angelo e la sua missione catartica e edificante, sia in senso morale sia in senso religioso, non deve parer strano che il Poeta abbia fatto della sua Beatrice, per glorificarla massimamente, la più sapiente mediatrice tra l’uomo e Dio, la maestra delle cose divine, appunto la teologia. È l’estremo punto di arrivo della strada iniziata dal Guinizelli; e non se ne vede altra più naturale, più logicamente coerente. Questa fu la novità dell’A.; e nello stesso tempo la conclusione – certo assai pesante per il nostro gusto – di un processo così interessante della spiritualità medievale in materia d’amore. Ma chi non segua con la necessaria docilità, sulla scorta del poeta stesso e nella temperie spirituale dell’epoca, l’evoluzione di Beatrice, da fanciulla non ancora novenne a simbolo della teologia, crederà di poter meglio risolvere quel che d’irrazionale, a prima vista, appare nella trasformazione di persona viva in un’astrazione, negando l’esistenza reale della persona stessa, e interpretando Beatrice come un mero simbolo fin dall’inizio. I dubbi sulla storicità di Beatrice cominciarono col Filelfo nel ‘400; ma nessuno dei molteplici tentativi di un’interpretazione simbolica è riuscito a risolvere senza gravi e inaccettabili arbitri tutti i problemi ad essa attinenti. Troppi sono, invece, gli argomenti in favore dell’esistenza storica di Beatrice, troppi gli elementi realistici della storia amorosa narrata dall’A.: e basterebbe il familiare accorciativo “Bice”, che appare nel sonetto Io mi senti’ svegliar, in Vita nova XXIV, incompatibile con la dignità e il valore di un simbolo. L’esistenza terrena di Beatrice si afferma imperiosamente persino nella Commedia, dove ideologicamente essa dovrebbe essere soltanto puro simbolo, e appare, invece, non diversamente da Virgilio, insieme simbolo e persona storica. Che poi sia stata, come vuole una tradizione non priva di fondamenti, Bice Portinari, figlia di messer Folco, molto ragguardevole cittadino, che abitava poco distante dalle case degli Alighieri, è questione secondaria. Bice Portinari andò sposa, giovanissima, a Simone di Geri de’ Bardi; ma ciò non farebbe difficoltà: secondo le teorie del tempo, il matrimonio non costituiva impedimento all’amore estraneo: in sostanza, il “valore” che si celebrava nella donna era qualcosa di assoluto, fuori di ogni rapporto e condizione sociale; e Beatrice, chiunque sia stata, fu per l’A. più un’immagine ideale di bellezza femminile, proiezione del suo sentimento di amore e della sua religiosità, che non la donna che realmente fu. E appunto per ciò, anche dopo morta, anche allo spegnersi dei palpiti giovanili nel cuore dell’A., la memoria di quella bellezza santa, accompagnata da ineffabile gratitudine per le dolcezze di Paradiso gustate per essa, restò inalterati nel suo antico amatore, un punto fermo nella coscienza del poeta, attraverso il mutare delle sue esperienze di vita pratica e spirituale. E quel che di vivo ci sarà nella teologale Beatrice della Commedia sarà appunto il riflesso sentimentale, che illumina la sua figura, di questa costante memoria e gratitudine del poeta maturo.

Per completare il quadro degl’interessi, sentimenti, occupazioni di questo periodo della sua vita, quale abbiamo tracciato sulla scorta degli elementi forniti direttamente dalle sue opere, dobbiamo aggiungere che ben presto – sebbene a questo riguardo gli elementi diretti ci manchino egli dovette interessarsi, e vivamente, della vita pubblica della sua città.

Come si è detto, il padre, Alaghiero, era rimasto appartato da essa; ma vi partecipavano ancora certamente gli zii Brunetto (Piattoli, 44) e Geri e Cione del Bello (Piattoli, 44, 45, 46, 61, 62, 70); avrà avuto pressappoco la sua età il cugino Cione di Brunetto, che nel 1306 compare tra i ghibellini tassati per la guerra condotta dal Comune contro di essi a Montaccenico (Piattoli, 97); suoi amici erano Brunetto Latini e Guido Cavalcanti, entrambi ragguardevoli rappresentanti della vita politica fiorentina del tempo, e il primo non solo ufficiale del Comune, ma anche attento trattatista di scienza politica, proclamata da lui “la plus noble et haute science”, nell’ultimo libro del suo Trésor.

Né è possibile prescindere dall’ambiente cittadino, tutto saturo di fermenti politici. L’A era prossimo ai quindici anni quando, con solenne e spettacolare cerimonia, in piazza di S. Maria Novella, fu giurata la pace, lungamente e tenacemente preparata dal cardinale Latino Malabranca, nipote di Niccolò III Orsini, tra i guelfi e i ghibellini di Firenze (18 febbr. 1280).

La pace durò poco, e i ghibellini, oppressi dalla maggioranza guelfa che manteneva la Signoria, uscirono dalla città. Il Comune rinnovò allora le sue istituzioni. Nell’82 furono creati i priori, scelti, uno per ogni sesto, fra i cittadini più ragguardevoli delle Arti maggiori: la loro sede, dalla quale non dovevano muoversi per tutto il bimestre del loro ufficio, fu dapprima presso le case degli Alighieri, nella torre della Castagna; e tra i primi priori fu Folco Portinari. Tra l’82 e l’83 era stato capitano del Comune un nobile e gentile signore di Romagna, Paolo Malatesta. Nell’84 Firenze strinse alleanza con Genova e Lucca per abbattere Pisa; ma il conte Ugolino, ch’era podestà di questa, seppe abilmente farla staccare dalla lega, cedendo alcuni castelli (1285). La morte di Carlo I d’Angiò (1285) e la prigionia del suo successore, liberato soltanto quattro anni dopo, facevano intanto decadere il prestigio degli Angioini e risorgere la parte ghibellina. Firenze, anima della lega guelfa, n’era preoccupata. Arezzo, venuta nelle mani dei ghibellini, diventava minacciosa: nell’86 toglieva a Siena Poggio a Santa Cecilia, e Firenze si affrettava ad aiutare i Senesi a riacquistarlo. Si preparava la guerra. Ma anche a Pisa trionfava la parte ghibellina con l’arcivescovo Ruggieni Ubaldini, che dapprima aveva inimicato tra loro il conte Ugolino e suo nipote Nino Visconti, già dal conte associato nel governo, provocando così la cacciata di Nino, poi, il 1º luglio 1288, aveva a tradimento imprigionato il conte stesso con tre figliuoli e due nipoti, facendoli, dopo otto mesi, morire di fame. Nino, accolto ospitalmente a Firenze, era divenuto uno degli organizzatori della guerra ch’essa doveva fare anche contro Pisa. Intanto il 2 maggio dell’89, reduce dalla prigionia, era di nuovo passato per Firenze, per rientrare nel suo regno, Carlo II d’Angiò, accolto con feste grandiose, perché il risorgere degli Angioini dava sicurezza alla città; e vi aveva lasciato come capitano per la guerra un giovane cavaliere dal nome leggendario, Amerigo di Narbona. Una battaglia campale decisiva era desiderata sia dai guelfi grandi fiorentini, che speravano di trarne vantaggi politici, sia dagli Aretini, che avevano con loro il fiore dei ghibellini fuorusciti. E si venne alla battaglia di Campaldino. Sono fatti e personaggi contemporanei all'”adolescenza” dell’A., che rivivono nel mondo della Commedia, come rivivono sia “l’ovra e li onorati nomi” dei Fiorentini dell’età anteriore, da lui ricercati e appresi ad amare e a riverire (Inf. XVI, vv. 58-60), sia l’eco di ricordi ancora più remoti, evidentemente già scoloriti nella memoria stessa dei suoi informatori. E che l’A. dovette molto presto interessarsi alla storia e alla vita politica della sua città, crediamo anche per un’altra ragione, più profonda dell’influenza che poterono esercitare su lui parentele, amicizie, ambiente, avvenimenti: ed è che la passione politica fu congeniale col suo temperamento, una necessità della sua coscienza, non chiusa nell’ambito e nella coltivazione del proprio io, ma aperta a tutte le forme della vita associata, sollecita delle sorti di tutta l’umanità. Le lotte di parte, nelle quali, come vedremo, fu trascinato per qualche tempo, e l’esilio non giustificherebbero abbastanza la natura della sua passione politica, che in lui, superando il fatto personale, assunse la forma pura e disinteressata di una missione universale e l’ardore dei profeti e dei riformatori. Comunque, la prima notizia sicura della sua partecipazione alla vita del Comune si riferisce al suo intervento appunto alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289).

La notizia è tramandata da Leonardo Bruni sia nelle sue Historie di Firenze, sia nella Vita Dantis. Il Bruni, segretario della Repubblica fiorentina, trovò nell’archivio del Comune un’epistola dell’A., per noi perduta, nella quale il poeta rammentava, dall’esilio, d’aver preso parte a quella battaglia combattendo a cavallo nella prima schiera, con gravissimo pericolo, avendo avuto dapprima “temenza molta, e nella fine grandissima allegrezza”.

La “temenza” dovrà riferirsi al fatto che all’inizio della battaglia “i feditori degli Aretini si mossono con grande baldanza a sproni battuti a fedire sopra l’oste de’ Fiorentini”, “e fu sì forte la percossa che i più de’ feditori de’ Fiorentini furono scavallati” (G. Villani, VII, 131). Ma i cavalieri aretini, incuneatisi tra le schiere nemiche che rinculavano, rimasero isolati dal resto dei loro: frattanto le due ali della lega guelfa avanzarono, si mosse anche audacemente Corso Donati, che, contravvenendo all’ordine precedentemente ricevuto di non muoversi, coi suoi 200 cavalieri pistoiesi (era allora podestà di Pistoia) assalì i nemici di fianco, e l’iniziale successo degli Aretini si trasformò in una tremenda sconfitta, che segnò il definitivo e assoluto trionfo della parte guelfa in Firenze. Perirono nella battaglia quasi tutti i capi ghibellini, tra i quali il comandante dell’esercito, Buonconte da Montefeltro. Di questo, nella raccolta dei cadaveri per la sepoltura, non si trovò il corpo: e al ricordo delle vane ricerche fatte sul campo evidentemente è legato il noto episodio del Purgatorio (V, vv. 91-129), come pure un ricordo vivo è certamente il racconto del violento temporale seguito alla battaglia (ibid.). Dopo la quale si fecero scorrerie nel territorio aretino, senza risultato positivo; si riprese anche la guerra contro Pisa, e il 16 agosto dello stesso ’89 fu costretto alla resa il castello pisano di Caprona. A tutti questi fatti d’arme partecipò sicuramente anche l’A. (Inf. XXII, vv. 4-5; XXI, vv. 94-96). Comandava l’esercito della lega guelfa a Caprona Nino Visconti: la cordialità dell’incontro fra Nino e il poeta, nella valletta dei principi (Purg. VIII, vv. 52-55), non può non riflettere una reale cordialità di rapporti stabilitasi fra i due, verosimilmente in quella circostanza.

Dalla morte di Beatrice, avvenuta, come si è detto, l’8 giugno 1290, al soggiorno di Carlo Martello a Firenze nel marzo 1294, non si hanno notizie attinenti alla vita pratica del poeta, fuorché quella insignificante della sua presenza quale testimone in un atto notarile del 1291. Anni importantissimi, invece, per la sua vita intellettuale, stando al racconto del Convivio, perché durante questi anni avvenne un ampliamento degl’interessi culturali, quasi un mutamento d’indirizzo nei suoi studi, che ora, dalla poesia, si volgono alla filosofia e alle scienze. Comunque, si può convenire che tra il ’91 e il ’95 l’A. dovette dedicarsi, con tutto l’ardore del suo temperamento avido di sempre nuove esperienze intellettuali, ad estendere e approfondire la sua cultura filosofico-scientifica.

Scuole di religiosi famose a Firenze erano allora specialmente quella dei francescani a Santa Croce e lo Studium solemne, poi generale, dei domenicani a S. Maria Novella: nella prima si “leggevano” specialmente s. Agostino, i mistici, s. Bonaventura: vi aveva insegnato dal 1287 al 1289 Pietro di Giovanni Olivi, ardente propugnatore della povertà francescana, del quale era discepolo Ubertino da Casale, che fu capo dei francescani spirituali, allora considerato quasi un profeta e riformatore, ma sfavorevolmente giudicato dall’A. (Par. XII, vv. 124-126); nel secondo s’illustravano le opere di s. Tommaso e di Alberto Magno; vi era stato lettore e vi era poi tornato come predicatore, con grande successo, fra Remigio Girolami, discepolo di s. Tommaso. Quanto alle “disputazioni de li fliosofanti”, l’A. alluderà probabilmente a conferenze e dibattiti che si saranno tenuti anche a Firenze, come risulta si tenessero altrove, su questioni scientifiche e filosofiche, e forse anche alle conversazioni e dispute amichevoli tra uomini di scienza, tra i quali ci sarà stato Brunetto Latini, se non anche il solitario e sdegnoso Guido Cavalvanti. Certo è che da quell’epoca l’esigenza speculativa diventò in lui non meno, anzi talvolta più profonda e urgente dell’istinto poetico, che ne rimase non di rado soffocato. Il che non vuol dire che da questi studi e da questa esigenza speculativa sia venuto fuori un pensatore originale, un autentico filosofo o scienziato, paragonabile, magari alla lontana, per grandezza, al poeta. Lo riconosce l’A. stesso, che in Convivio I, 1, 7 e 10, dichiara modestamente di non essere di “quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli [cioè, la sapienza] si manuca”, ma di raccogliere “a’ piedi di coloro che seggiono di quello che da loro cade”. E il maggior merito che si deve riconoscere alla sua speculazione e dottrina è ch’esse suggerirono alla sua fantasia e al suo sentimento originali e suggestivi motivi di poesia. Comunque, dagli studi intrapresi e perseguiti con tanto ardore egli venne in possesso di un sapere enciclopedico immenso; e, nei riguardi di questo sapere, si può con sicurezza affermare ch’egli non fu un ripetitore pedissequo del pensiero altrui, e tanto meno di un solo maestro, fosse pure grandissimo come s. Tommaso o Aristotele.

Questi due, specie il secondo, esaltato in tutta l’opera dantesca come “il maestro di color che sanno”, furono di fatto i suoi maggiori maestri; ma sul saldo tronco aristotelico-tomistico egli ammise innesti di altre dottrine, e persino di opinioni contrarie ai due maestri, perché egli cercò il possesso della verità per tutte le vie, attraverso tutte le dottrine di cui venne a conoscenza, non escluse quelle che rischiavano di allontanarlo dalla stretta ortodossia religiosa. La sua potente personalità, l’ingegno altrettanto potente e di carattere universale, l’immensa avidità di sapere, e anche il modo stesso della sua formazione intellettuale, indipendente da ogni scuola e maestro, diedero al suo intelletto la massima libertà di assorbimento dalle varie fonti della sua cultura, e fecero di lui un pensatore eclettico.

Non abbiamo elementi sufficienti per seguire ordinatamente il progresso dei suoi studi. Agli anni di cui stiamo parlando (1291-95) appartiene la composizione della Vita nova; e in questa egli cita esplicitamente la Metafisica di Aristotele (XLI, 6), Tolomeo (XXIX, 2), e parecchie volte la Bibbia; e ancora, oltre ai quattro grandi poeti latini, Omero (II, 8; XXV, 9).

Così, in tutta la sua opera filosofico-scientifica egli non cita di s. Tommaso (e l’esaltazione fattane nei canti X, XI, XIII, XIV del Paradiso è la prova più eloquente del particolare studio e amore dedicato all’opera sua) se non il commento all’Etica aristotelica e la Summa contra gentiles; ma tutta l’opera stessa dimostra – secondo gli studi più attendibili -ch’egli conobbe assai bene sia l’altra Summa, quella theologica, sia gli altri commenti e ad Aristotele e ai libri della Bibbia, sia opuscoli quali il De regimine principum. Di Alberto Magno, il maestro di Tommaso, cita il commento alle Meteore, i libri De la natura de’ luoghi, De le proprietadi de li elementi, De lo intelletto; ma, scrive il Nardi (La filosofia di Dante, in Grande antologia filosofica, IV, Milano 1954, p. 1156) “egli conosce sicuramente anche altri scritti e segnatamente il commento al De somno et vigilia, e il De natura et origine animae, come appare da raffronti sicuri ed evidenti“; e dai commenti aristotelici di Alberto lo stesso studioso crede “derivino quasi tutte le citazioni ch’egli fa di filosofi arabi, e particolarmente quella di Alpetragio” (ibid., p. 1157: dei filosofi e scienziati arabi l’A. cita – oltre Alpetragio – Algazel, Albumasar, Avicenna, Averroè). Ma il filosofo che l’A. cita incomparabilmente più spesso di ogni altro, si può dire continuamente, è Aristotele, e non soltanto dall’Etica e dalla Fisica, che in Inferno XI, vv. 80 e 101, egli proclama addirittura “sue”, ma da quasi tutte le altre opere, delle quali esistevano almeno due traduzioni latine; e se si aggiungono le altissime lodi che l’A. fece di lui, chiamandolo non solo “il maestro di color che sanno”, ma anche “il mio maestro”, il “maestro e duca de la ragione umana” e “de la nostra vita”, e definendo la sua dottrina “quasi cattolica opinione”, si può affermare che Aristotele fu per l’A. nella sfera del sapere quello che Virgilio fu nella sfera della poesia. Di Platone, invece, non pare avesse conoscenza diretta, fuorché del Timeo. Notissimo gli fu il Liber de causis, già attribuito ad Aristotele (ma non mai dall’A.), riassunto dell’Elementatio theologica del neoplatonico Proclo. Di Cicerone, oltre all'”Amistade” nel luogo su riferito del Convivio, cita il De finibus, il De inventione, il De officiis, i Paradoxa, il De senectute. Di Seneca cita il De benefficiis e le epistole a Ludilio, e a lui attribuisce, come tutti al suo tempo, due opere, De quatuor virtutibus Remedia fortuitorum, che appartengono, invece, a Martino Dumiense (l’A. non pare conoscesse se non il “Seneca morale”: il Seneca tragico è noto invece all’autore dell’epistola a Cangrande). Sono citati, per la scienza medica, i Tegni (cioè la Τέχνή ἰατρική) di Galeno e gli Aforismi di Ippocrate. Degli scrittori ecclesiastici più antichi cita Dionisio Areopagita, s. Agostino, s. Girolamo; degli scolastici, oltre all’Aquinate e ad Alberto Magno, cita Gilberto Porretano e Pietro Lombardo. Da notare l’assenza di citazioni dai mistici (s. Bernardo, Ugo e Riccardo da S. Vittore – quest’ultimo, però, citato nell’epistola a Cangrande Gioacchino da Fiore, s. Bonaventura), autori che senza dubbio dovette conoscere direttamente, e, almeno al tempo della composizione del Paradiso, avere particolarmente familiari. Questa, approssimativamente, la ricostruzione della biblioteca filosofico-scientifica, e questi gli autori sui quali si formò il mondo dottrinale di Dante. Innanzi ai quali (non sembri superfluo ricordarlo) è da porre la Bibbia – fondamento, guida suprema e norma inderogabile non solo del pensiero teologico, ma di ogni filosofia e di ogni scienza nel Medioevo -, che l’A. possedette interamente come pochi, facendo di essa senza dubbio il nutrimento più sostanziale e del suo intelletto e del suo sentimento.

Ma nel processo formativo del suo mondo dottrinale ci fu un momento, non esattamente precisabile nel tempo, né nei suoi elementi e termini spirituali, in cui la speculazione filosofica rischiò di far deviare l’A. dalla stretta ortodossia religiosa, fino al punto da sembrare, più tardi, al Poeta, rievocando quel periodo, d’essere stato sulla soglia della morte eterna dell’anima. A questa crisi d’ordine intellettuale e religioso sono legati l’allegoria fondamentale della Commedia (smarrimento del poeta nella selva oscura, donde la necessità del viaggio di espiazione e ammaestramento nell’oltremondo) e i rimproveri di Beatrice sulla vetta del Purgatorio.

Vi sono nell’opera dantesca troppi e troppo gravi indizi per poter mettere in dubbio l’esistenza di un traviamento intellettuale dell’A. in senso religioso, quale che ne sia stata la durata e la gravità; a cominciare dal fondamentale dato strutturale del poema per cui Beatrice è guida necessaria alla redenzione dell’A. dagli errori appunto filosofico-religiosi in cui egli era caduto, come Virgilio nei riguardi delle colpe morali. E’ lecito, penetrando nel vivo del pensiero filosofico dell’A., precisare intorno a quali problemi metafisici e religiosi si affaticasse la sua mente con un’insistenza e un’inquietudine tali da far vacillare per alcun tempo in lui la fede dogmatica. Uno è quello relativo alla giustizia divina, che – secondo l’ortodossia cattolica – condanna all’Inferno chi, senza colpa, anzi anche osservando tutte le virtù cardinali, non ebbe la fede cristiana perché materialmente non ne ebbe conoscenza (Monarchia II, vii, 4-5; Par. XIX, vv. 67-84). Un altro problema, che dovette essere per l’A. fonte di dubbi insistenti, come dimostrano i molti luoghi in cui egli ne tratta (Conv. IV, xxii, 4-10; Monarchia I, xii, 1-6; Purg. XVI, vv. 67-81, XVII, vv. 91-102, XVIII, vv. 40-75; Par. V, vv. 19-24), è quello del libero arbitrio, fondamento del giudizio morale, e, quindi, della legittimità del premio e castigo nell’oltretomba. Ancora un altro grave e pericoloso problema, che poteva condurre alla negazione dell’immortalità dell’anima individuale, e, quindi, dell’oltretomba, dovette non poco affaticare la mente di Dante: quello sulla natura e funzione dell’intelletto possibile. Infine, un altro problema sappiamo aver profondamente turbato la sua mente: quello “se la prima materia de li elementi era da Dio intesa”. Perfino più tardi, scrivendo il Paradiso, quei problemi gli si presenteranno ancora nella loro palpitante drammaticità, anche se egli chinerà la fronte in un atto di fede nella imperscrutabile bontà, sapienza e giustizia di Dio. È questo il periodo della sua “follia”, per la quale fu sì presso alla morte spirituale che “molto poco tempo a volger era”, il periodo in cui “tanto giù cadde, che tutti argomenti alla salute sua eran già corti”, come affermano concordemente Virgilio e Beatrice (Purg. I, vv. 59-60; XXX,vv. 136-137). Il suo inizio e la sua durata, come, d’altra parte, il modo del ravvedimento, sono il segreto della vita interiore di Dante. Ma, se si tien conto della confessione del suo smarrimento nella valle, ch’egli fa a Brunetto Latini, morto nel 1294, e della data dell’immaginario viaggio oltre-mondano (1300), sembra giusto collocare la sua crisi filosofico-religiosa entro queste due date.

Sarà da ritenere, piuttosto, che la crisi non dovette durare a lungo, e che dovette risolversi in un’epoca più vicina al 1294 che non al 1300. Insieme con quell’insaziabile avidità di sapere, che non lo faceva arrestare davanti ai dubbi più pericolosi, c’era nell’A. un’esigenza non meno ardente di verità assolute e incrollabili: ed egli doveva necessariamente presto riconoscere che solo nella fede era possibile trovarle, non nella scienza mondana, con le sue soluzioni insufficienti e contraddittorie. E forse appunto perché conquistata attraverso il dubbio e la delusione, la sua fede religiosa trasse il carattere di assoluta necessità razionale e di suprema pacificatrice dell’intelletto. Il che non fece affatto dell’A, un mistico, ma solo un credente di granitica fede: il convinto riconoscimento, da parte del credente, dei limiti della ragione a risolvere i problemi ultimi non avvilì mai, agli occhi del pensatore, la nobiltà della mente umana, “fine e preziosissima parte de l’anima che è deitade” (Conv. III, ii, 19). Perfino scrivendo il Paradiso esalterà la potenza dell’umano intelletto, affermando, con la stessa baldanza del Convivio, che, attraverso il dubbio rampollante dalle verità acquisite, l’impulso naturale “al sommo pinge noi di collo in collo”, cioè alla vetta del sapere. Tutta, del resto, la Commedia, che dovrebbe riflettere, secondo alcuni critici, l’atteggiamento mistico assunto dall’A. dopo l’esperienza razionalistica, prova, al contrario, ch’egli non rinnegò mai il valore altissimo e l’uso continuo della “più nobile parte” dell’uomo, la ragione, dalla quale chi “si parte… non vive uomo, ma vive bestia” (Conv. II, vii, 3-4). Virgilio, che nel poema simboleggia la ragione umana e la filosofia, è sollecitato da Beatrice a soccorrere Dante, e lo guida per i due terzi del suo viaggio oltremondano.

Al tempo in cui con maggior fervore l’A. attendeva agli studi filosofici, giunse a Firenze, nel marzo 1294, Carlo Martello, figlio e luogotenente di Carlo II d’Angiò, per attendervi il padre che tornava di Provenza; e vi “stette più di venti dì,… e da’ Fiorentini gli fu fatto grande onore, ed egli mostrò grande amore a’ Fiorentini, ond’ebbe molto la grazia di tutti” (Villani, VIII, 13). Probabilmente l’A. fu tra i cavalieri messi dal Comune a disposizione del principe; comunque, Carlo lo conobbe e dovette mostrargli viva simpatia e fargli promesse, e specialmente apprezzarlo come poeta, tanto che nel Paradiso, dove l’A. lo incontrerà, si compiacerà di ricordare una delle sue più originali canzoni d’amore (Voi ch’intendendo). Nell’ottobre dello stesso ’94 fu inviata dal Comune a Napoli un’ambasceria per fare omaggio al nuovo pontefice, Celestino V, ospite ivi di Carlo II: che l’A. facesse parte di essa è congettura che non ha nulla d’inverosimile, e potrebbe spiegare, invece, sia il riconoscimento, nell’Antinferno, dell'”ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto” (Inf. III, vv. 59-60), sia la citazione fatta, a titolo di onore, della famiglia “Piscitelli da Napoli” iConv. IV, xxix, 3.

La Vita nova è  la prima grande prosa d’arte italiana, pausata e clausolata musicalmente (talvolta con troppa e compiaciuta mollezza), in una lingua scelta, nobile, armoniosa.

Contemporaneo a questa definitiva sistemazione spirituale è l’inizio della sua partecipazione alla vita politica del Comune: è l’ultimo lustro del ‘200, durante il quale, “tolta donna, e vivendo civilmente ed onesta e studiosa vita, fu adoperato nella repubblica assai”, come scrisse Leonardo Bruni. Veramente, quando si effettuasse il matrimonio dell’A. con Gemma Donati, combinato, come si è già detto, dai rispettivi genitori nel 1277, non si sa. Se fosse certo che quel Giovanni, figlio Dantis Alagherii de Florentia, che compare come testimone in un atto notarile lucchese del 21 ott. 1308 (Piattoli, Appendice II,1), fosse figlio dell’A. (bandito da Firenze, come figlio di ribelle, secondo una dura disposizione del giugno 1302, ribadita e aggravata da un’altra del gennaio 1303, appena raggiunti i 14 anni), si potrebbe stabilire che nel 1294 il poeta era già padre. Al riguardo, sappiamo solo che prima dell’esilio egli aveva certamente tre figli, Pietro, Iacopo, Antonia; giacché sembra che quest’ultima si debba identificare con quella suor Beatrice del monastero di S. Stefano degli Ulivi a Ravenna, alla quale il Boccaccio portò nel 1350 dieci fiorini d’oro per incarico della Compagnia d’Orsanmichele (Piattoli, 196). È probabile che la sua partecipazione alle cariche comunali avesse inizio in conseguenza di una provvisione (così si chiamavano le deliberazioni degli organi legislativi del Comune) del luglio 1295, con la quale erano ammessi ad esse tutti coloro che fossero iscritti “in libro seu matricula alicuius artis civitatis Florentie”, anche se di fatto non esercitavano. La provvisione era una limitata concessione fatta ai cittadini dopo la caduta, nel febbraio di quell’anno, di Giano della Bella, il principale promotore dei severi Ordinamenti di giustizia emanati il 15 genn. 1293 in difesa del popolo e del Comune, contro i soprusi e i misfatti dei grandi o magnati, che venivano esclusi dal governo. Gli Alighieri non erano dei grandi, ma appartenevano alla nobiltà, che le corporazioni, in cui era raccolto il popolo che lavorava e produceva, dai banchieri agli artigiani, e nelle cui mani era il governo, avevano cura di tener lontana dalla cosa pubblica: sembra, infatti, che non bastasse essere immatricolati nelle arti, per adire le cariche, ma si dovesse esercitarle. Non sappiamo se l’A. fosse già iscritto, o si iscrivesse in seguito a quella provvisione, alla sesta delle arti maggiori, quella dei medici e speziali, probabilmente da lui scelta per l’affinità allora esistente tra gli studi di medicina e quelli di filosofia. Comunque, egli risulta consigliere nel Consiglio speciale del capitano del popolo per il semestre 1 nov. -30 apr. 1296; e il 14 dicembre prese parte, certo in qualità di “savio”, al Consiglio delle capitudini (consoli) delle dodici arti maggiori e dei savi di ciascun sesto, convocato per stabilire le modalità per l’elezione dei futuri priori. Dalla fine di maggio alla fine di settembre del ’96 appartenne al Consiglio dei Cento, subentrando a un consigliere mancante, giacché il semestre di carica di questo Consiglio aveva inizio il 1º aprile, quando egli era ancora nel Consiglio speciale del capitano del popolo, né si poteva nello stesso tempo appartenere a due Consigli. Il fatto d’esser stato assunto nel Consiglio dei Cento, che doveva essere composto “de melioribus et fidelioribus artificibus aliisque plebeis sextuum civitatis”, – appena uscito di carica dall’altro Consiglio, è prova della stima e fiducia di cui doveva godere. Sappiamo che durante questa carica intervenne alla discussione su alcune proposte di legge presentate nella seduta del 5 giugno, due delle quali particolarmente importanti: l’A. ne sostenne l’approvazione.

L’una riguardava i banditi del Comune di Pistoia, i quali si rifugiavano a Firenze, dove trovavano facile ospitalità tra i grandi, il che doveva sembrare al governo un pericolo per la quiete pubblica, aumentando la tensione e le rivalità esistenti tra le famiglie cittadine: il Consiglio deliberò ch’essi non fossero accolti né nella città né nel contado. L’altra proposta dava piena autorità ai priori e al gonfaloniere di giustizia di provvedere contro chiunque, “et maxime magnates”, offendesse un popolano per atti da lui compiuti nell’esercizio di qualche ufficio del Comune.

Sempre torbida e funestata da fatti di sangue era stata la vita di Firenze, specialmente dopo la divisione delle famiglie in guelfi e ghibellini a causa dell’uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti (1216). L’alterno prevalere ora degli uni ora degli altri, con le uccisioni, le distruzioni di case, le confische dei beni, gli esili che ne seguivano, avevano profondamente diviso la cittadinanza. Né la pacificazione tentata dal cardinal Latino, né la definitiva vittoria della parte guelfa dopo Campaldino erano valse a instaurare la concordia e dar pace alla città. Il rapido arricchirsi di “gente nova”, venuta dal contado, dedita alle industrie e ai commerci, aveva provocato la progressiva decadenza dei nobili, esclusi a mano a mano dal governo, tenuto dalle arti. Invidia e rancore spingevano perciò i nobili a continue prepotenze, e l’intervento dell’autorità contro di essi dava luogo, a sua volta, alle vendette del popolo, che, a un cenno del podestà, correva a guastare disfare, come si diceva, le loro case, quando erano mandati in bando. Ambizioni e rivalità dividevano tra loro anche i nobili stessi e le loro consorterie, e perfino i membri di una stessa famiglia; gli odi personali erano rinfocolati dal diffuso malcostume della maldicenza cittadina e giullaresca; rigorosamente osservata, pena l’infamia pubblica, la legge della vendetta privata, diritto e dovere di tutta la parentela dell’offeso. Ma in quegli anni la situazione generale si era venuta aggravando per l’inimicizia determinatasi tra le due potenti famiglie dei Cerchi e dei Donati, intorno alle quali finirono col dividersi quasi tutti i grandi e il popolo stesso; perfino, scrive il Compagni (I 22), “i religiosi non si poterono difendere che con l’animo non si dessero alle dette parti, chi a una chi a un’altra.. Più vasta di aderenze, ben vista dal popolo, la famiglia dei Cerchi, che, venuta dalla canipagna, aveva accumulato grandi ricchezze col banco e coi commerci; ma il suo capo, Vieri, era pavido, esitante e di corte vedute. Minore di fortune e clientele, ma audace e violenta, la famiglia dei Donati, di antica nobiltà; capo era quel Corso, che a Dino Compagni (II, 20) sembrava somigliante a “Catellina romano, ma più crudele di lui…, con l’animo sempre intento a mal fare, col quale molti masnadieri si raunavano, e gran séguito avea”. L’inimicizia tra le due famiglie si era talmente inasprita, dopo la morte di una dei Cerchi, moglie di Corso, che si disse anche da lui avvelenata, che il 16 dicembre di quell’anno 1296, stando i Donati e i Cerchi seduti per terra, come era usanza, a un mortorio, gli uni di fronte agli altri, essendosi uno di essi alzato per una ragione banale, gli altri, per sospetto di essere aggrediti, si alzarono tutti mettendo mano alle spade.

Quale la sua partecipazione politica in questo periodo non sappiamo, per la mancanza delle consulte, cioè dei verbali delle sedute, del primo semestre del ’97 e di quelle dal luglio del ’98 al febbraio del 1301. Sappiamo, però, che nel ’97 arringò in uno dei Consigli (non risulta quale); ma è verosimile che la sua attività non subisse interruzioni per il prestigio che gli dovevano conferire la sua dottrina e la sua rettitudine: lo provano l’ambasceria a San Gimignano e la sua elezione al priorato, entrambe del 1300. A San Gimignano fu inviato per sollecitare quel Comune ad inviare sindaci in un’adunanza di tutti i Comuni della Taglia o lega guelfa di Toscana per l’elezione del capitano di essa. Firenze si preoccupava in quel momento di rinsaldare la lega per la sua e la comune indipendenza dalle mire ormai scoperte di Bonifazio VIII. Salito al soglio pontificio dopo la rinunzia di Celestino V, Bonifazio meditava di estendere alla Toscana il dominio della Chiesa. Già nel ’96, sollecitato dai grandi, aveva scritto alla Signoria di Firenze minacciando la scomunica, ove fosse avvenuto il richiamo di Giano della Bella, da molti desiderato. Nel ’97 vi aveva mandato il cardinale Matteo d’Acquasparta per ottenere aiuti nella crociata contro la famiglia Colonna, potente e prepotente in Roma e nel Lazio, sua nemica. Nel ’98, eletto imperatore Alberto d’Asburgo, aveva da lui preteso la rinunzia ai suoi diritti sulla Toscana, “ad ius et proprietatem Ecclesiae”. Avutone un rifiuto, non aveva riconosciuto la sua elezione e, considerando vacante l’Impero, se ne era arrogato il vicariato e la piena podestà sulla Toscana. Nell’aprile del 1300 un’ambasceria fiorentina inviata a Roma aveva scoperto una congiura per consegnare Firenze al papa. La denunzia e l’immediata condanna dei congiurati (18 aprile) aveva provocato l’ira di Bonifazio, che esigeva l’annullamento della condanna stessa. Cade in questo delicato momento (7 maggio) l’ambasceria dell’A., che viene perciò ad acquistare maggiore importanza che non avrebbe per sé stessa. La Signoria, intanto, senza lasciarsi intimidire, si opponeva apertamente, con una provvisione, all’ingerenza pontificia nella giurisdizione cittadina. Il 14 giugno l’A. era eletto tra i nuovi priori per il bimestre 16 giugno – 15 agosto; “e poiché volta per volta si stabiliva come dovesse farsi l’elezione di quell’ufficio, è certo che tutto fu predisposto perché riuscissero quelle persone che il bisogno richiedeva” (Barbi, Dante, p. 18). Pochi giorni prima (verosimilmente in previsione dell’elezione e per provvedere ai bisogni della famiglia, giacché i priori non potevano lasciare né notte né giorno la dimora dell’ufficio, che ora era il palazzo della Signoria), l’11 giugno, l’A. aveva contratto un debito verso il fratello Francesco di 90 fiorini d’oro, che veniva ad aggiungersi ad un altro di 125, contratto, sempre verso il fratello, il 14 marzo (Piattoli, 71 e 75). La partecipazione alla cosa pubblica evidentemente non fruttava all’A. vantaggi economici. D’altra parte, le condizioni economiche degli Alighieri dovevano aver subito, negli ultimi anni, un peggioramento, se Dante e il fratello Francesco, il 23 dic. 1297, erano stati costretti a contrarre un grosso debito di 480 fiorini d’oro, dopo un altro di 227 dell’11 aprile dello stesso anno, a meno che quello posteriore non fosse anche servito al saldo del precedente (Piattoli, 57 e 58). Francesco (così parrebbe) aveva potuto presto migliorare le sue condizioni, se tre anni dopo era in grado di fare un notevole prestito al fratello; non così Dante,quali che ne fossero le cagioni. Il giorno stesso in cui i nuovi priori assunsero la carica, presero atto della condanna dei congiurati firmata dalla precedente Signoria: era la dimostrazione ch’essi intendevano continuare l’opposizione all’intromissione del papa e la difesa dell’indipendenza del Comune, tanto più che Bonifazio aveva di nuovo mandato, come suo legato, a Firenze, col pretesto di metter pace tra i Cerchi e i Donati, ma in realtà per attuare i suoi intenti, appoggiandosi ai Donati, il fido cardinale d’Acquasparta. Bonifazio aveva cercato in un primo tempo di trarre a sè i Cerchi, e aveva mandato a chiamare Vieri, invitandolo a far pace con Corso Donati e la sua parte, e “promettendogli di metter lui e’ suoi in grande e buono stato, e di fargli grazie spirituali, come sapesse domandare”; ma Vieri aveva rifiutato le offerte del papa, dicendo “che non aveva guerre con niuno; onde si tornò in Firenze, e il papa rimase molto sdegnato contro a lui e contro a sua parte” (Villani, VIII, 39); e Bonifazio si volse ai Donati, non volendo “perdere gli uomini per le femminelle” (Compagni, II, 11). Pochi giorni dopo l’inizio del nuovo priorato, il 23 giugno, la vigilia di S. Giovanni, andando, come d’uso, i consoli delle arti a recare l’offerta al santo patrono, furono malmenati da alcuni dei grandi di parte nera, i quali rinfacciavano loro: “Noi siamo quelli che demmo la sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi dagli uffici e onori della nostra città” (Compagni, I, 21). L’altra parte, per reazione, corse ad armarsi. La Signoria volle dimostrare la sua imparzialità e autorità, condannando al confino otto dei caporioni di ambo le parti. Tra quelli di parte bianca era Guido Cavalcanti, che, al confino di Sarzana nella Lunigiana, s’ammalò di malaria, e richiamato dalla nuova Signoria, insieme con gli altri di parte bianca, nella seconda metà di agosto, fece appena in tempo a tornare a Firenze per morirvi. Il 27 giugno il cardinale chiese la balìa, cioè i pieni poteri, per pacificare la città: la Signoria rispose eludendo la richiesta, pur assicurandogli tutto il suo appoggio nell’opera di pacificazione. Irritato da questa resistenza, Bonifazio in una lettera del 22 luglio sollecitava il cardinale ad agire contro tutti i reggitori, scomunicandoli, sospendendoli dagli uffici, confiscandone i beni; ma solo alla fine di settembre il cardinale, sdegnato di non riuscire a ottenere nulla di positivo, lanciò l’interdetto e lasciò la città. L’A. era uscito di carica il 15 agosto. La Signoria, della quale era stato il membro più autorevole, aveva assolto il suo difficile compito con grande abilità e con grande fermezza, tutelando insieme la giustizia e l’indipendenza del Comune. Più tardi, dall’esilio, in una lettera, per noi perduta, dirà, come attesta Leonardo Bruni, che ne tramandò, tradotto, il passo relativo: “Tutti li mali e tutti l’inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono cagione e principio”. E Brunetto Latini gli dirà nell’Inferno che l’ingrato popolo fiorentino “gli si farà, per suo ben far, nimico”. Nel novembre una solenne ambasceria fu mandata da Firenze al papa per implorarlo di togliere, l’interdetto. Non è improbabile che di quell’ambasceria facesse parte anche l’A.; comunque, è certo che in quell’anno, “l’anno del giubileo” solennemente istituito da Bonifazio, egli fu a Roma: lo attesta inequivocabilmente il ricordo preciso del modo escogitato dai Romani, che gli dovette parere utile e ingegnoso, per disciplinare il passaggio del ponte di Castel S. Angelo, data la moltitudine di pellegrini che si recavano 

alla basilica di S. Pietro e ne tornavano (Inf. XVIII, vv. 28-33).

Quali sentimenti dovette provare visitando la città, può immaginare chiunque sappia che cosa rappresentasse nella fantasia e nella coscienza anche dell’uomo comune del Medioevo Roma antica e cristiana: un immenso, sacro reliquiario di gloria, di grandezza, di fede religiosa. L’A. dirà nel Convivio (IV, v, 20): “certo di ferma sono oppinione che le pietre che ne le mura sue stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov’ella siede sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e approvato”.

Nulla sappiamo della sua attività pubblica dalla fine del priorato all’aprile dell’anno seguente, per la mancanza, come si è detto, delle consulte. Il 2 marzo 1301 compare, insieme col fratello Francesco e altra persona (Piattoli, 78), mallevadore di un mutuo di 50 fiorini contratto dal giudice Durante degli Abati (suo probabile avo), ch’era stato, a sua volta, uno dei mallevadori del debito contratto dai due fratelli il 23 dic. 1297. È da ritenere che la malleveria dell’A., più che altro, avesse valore morale, anche come contraccambio di quella a lui precedentemente data, accanto a quella, più solida, del fratello e dell’altro mallevadore, non già che sia indice di mutate condizioni che gli conferissero credito economico. Per il semestre 1 aprile – 30 settembre appartenne ancora al Consiglio dei Cento. Durante quest’ufficio ebbe anche altri incarichi: il 14 aprile fu chiamato nel Consiglio delle capitudini delle dodici arti maggiori e dei savi per fissare il modo dell’elezione dei nuovi priori e quello del nuovo gonfaloniere: interloquì su entrambi, e per l’elezione del gonfaloniere fu il solo a parlare (Piattoli, 81 e 82). “Una delle proposte avanzate dal legato pontificio era che fossero eletti a sorte fra i designati delle due parti; e l’interesse della città esigeva invece che non potessero esser nominati uomini di dubbia fede o favorevoli alla politica della curia romana” (Barbi, Dante, p. 20). Si stabilì che il Consiglio facesse i nomi – quattro per ciascun sesto per i priori, uno per il gonfaloniere – e indi si sorteggiasse, secondo la proposta dell’A.: il che prova ancora una volta l’autorità di cui godeva. Il 28 aprile fu eletto incaricato e soprastante, “officialis et superstes”, con l’assistenza di un notaio, ai lavori di rettificazione e sistemazione della via di S. Procolo, che si stendeva verso il borgo della Piagentina fino al torrente Affrico, dei quali s’indicava l’opportunità nel fatto che la via “est multum utilis et necessaria hominibus et personis civitatis Florentie, maxime propter vittualium copiam habendam, et maxime eo quod populares comitatus absque strepitu et briga magnatum et potentum possunt secure venire per eandem ad dominos priores et vexilliferum iustitie, cum expedit. (Piattoli, 80). Sebbene l’A. avesse interesse alla sistemazione della strada per avere terreni da quelle parti, la sua designazione era una prova di fiducia nella sua accortezza e onestà. L’incarico era dato “sine aliquo salario”, e doveva durare due mesi. Ma ben altra importanza ha il suo intervento alle discussioni del 19 giugno, prima nell’assemblea riunita del Consiglio dei Cento, di quello generale e speciale del capitano, di quello delle capitudini, poi nel solo Consiglio dei Cento. Nell’assemblea riunita, il capitano lesse la lettera del cardinale d’Acquasparta, ch’era stato rimandato da Bonifazio a Firenze dopo aver tolto l’interdetto, nella quale si chiedeva che fosse prolungato il servizio dei cento soldati inviati due mesi prima dal Comune nella guerra che Bonifazio aveva ingaggiato in Maremma, per togliere a Margherita Aldobrandeschi i suoi feudi, a favore dei suoi nipoti Caetani. Dei quattro consiglieri che presero la parola, due proposero l’accoglimento; Dante “consuluit quod de servitio faciendo domino pape nichil fiat”; il quarto propose che si sospendesse la deliberazione (Piattoli, 83). Fu approvata la proposta di sospensiva. Nello stesso giorno la questione fu portata al ristretto Consiglio dei Cento. Qui i priori proposero l’accoglimento della richiesta del papa, con la clausola che il servizio non dovesse prolungarsi oltre il 1° settembre: benché presentata in questa nuova forma, l’A. si pronunciò ancora contro la richiesta papale (la consulta riassunse il discorso dell’A, con la stessa formula di quello precedente), un altro consigliere in favore (Piattoli, 84). Fatta la votazione segreta, la proposta fu approvata con 49 voti favorevoli, 32 contrari: era prevalso il partito di non disgustarsi di nuovo il pontefice, ma esisteva una forte minoranza di opposizione, della quale evidentemente l’A. era esponente autorevole. Poiché le consulte sono schematici appunti delle conclusioni essenziali, non sappiamo quali fossero le ragioni da lui addotte: ma certo egli pensava che non fosse il momento di distogliere armi e danaro per favorire il papa, quando stava per giungere in Italia Carlo di Valois, chiamato da Bonifazio per sistemare le cose di Toscana (oltre che per riconquistare la Sicilia), e i Neri, che già avevano tentato d’impadronirsi della città con la recentissima congiura di S. Trinita (e Leonardo Bruni, fondandosi su una lettera del poeta, attribuisce all’A, una parte importante nella sollevazione del popolo contro i congiurati), ne aspettavano l’arrivo. Il 13 settembre, quando già il Valois, giunto il 2 ad Anagni, era stato proclamato da Bonifazio ufficialmente “paciaro” di Toscana, in un’adunanza generale di tutti i Consigli (“una di quelle adunanze che si solevano fare quando alla città sovrastavano gravi avvenimenti ed era necessario dar pieni poteri alla Signoria”, Barbi, Dante, p. 21), il podestà chiese “quid sit providendum et faciendum super conservatione ordinamentorum iustitie et statutorum populi”. La solennità della richiesta rispecchiava la gravità della situazione politica. Primo parlò l’A.; ma il notaio della consulta lasciò in bianco, quale che ne sia stata la ragione, lo spazio di tre righe che doveva accogliere il parere da lui espresso. Il secondo e ultimo oratore propose che tutti i provvedimenti suggeriti dall’A. (“predicta omnia”) rimanessero a cura e giudizio degli uomini del governo (Piattoli, 86). Il 20 settembre l’A. parlò a favore del permesso di transito delle granaglie, chiesto dai Bolognesi, dalla marina di Pisa attraverso il territorio fiorentino: i legami tra Firenze e Bologna erano stati sempre buoni e si erano rinsaldati negli ultimi anni con l’appoggio dato da Firenze a Bologna nella lotta contro Azzo VIII d’Este; e nel novembre dell’anno precedente ambasciatori bolognesi si erano uniti ai Fiorentini nel supplicare Bonifazio di liberare Firenze dall’interdetto. Alla vigilia della cessazione della carica, il 28 settembre, l’A. parlò per l’ultima volta nel Consiglio dei Cento (Piattoli, 88), sostenendo alcuni provvedimenti eccezionali proposti per estendere i poteri discrezionali dei priori e del podestà, l’assoldamento di cento “berrovieri” a servizio dei priori e del gonfaloniere, un risarcimento in favore di Neri di Gherardino Diodati, il quale, sfuggito con la fuga alla condanna a morte pronunziata nel ’98 dal podestà Cante de’ Gabrielli da Gubbio per compiacere ai Donati, era stato poi riconosciuto innocente. Ma ormai il “paciaro” Valois era ai confini della Toscana e, mentre protestava a tutti i Comuni il rispetto della loro libertà, raccoglieva milizie, trescando a Castel della Pieve con i Neri fiorentini, ch’erano lì confinati. Il governo, che evidentemente non si sentiva abbastanza forte per sostenere un’eventuale opposizione armata (tra l’altro, il 15 ottobre dovevano subentrare i nuovi priori), deliberò d’inviare un’ambasceria a Bonifazio per cercare di esplorarne le intenzioni, chiedendo, anche questa volta, l’appoggio dei Bolognesi. Questi ne accolsero volentieri, anche per il proprio interesse, la richiesta, e inviarono i loro ambasciatori a Firenze per procedere, insieme con i colleghi fiorentini, verso Roma. I messi fiorentini erano Maso Minerbetti, Corazza Ubaldini e l’A. (Compagni, II, 4, 11, 25). In quell’occasione, secondo il Boccaccio, restando l’A. perplesso alla notizia della sua nomina, richiestone della ragione, avrebbe risposto: “Penso: se io vo, chi rimane?, e se io rimango, chi va?” (Vita XXV, Compendio XXI, ediz. Guerri). L’ambasceria si mosse da Firenze circa la seconda metà di ottobre, e non approdò a nulla. Bonifazio, che doveva essere ad Anagni, rimandò gli altri due messi fiorentini con l’incarico di assicurare i concittadini ch’egli non aveva “altra intenzione che di loro pace” (Compagni, II, 4) e trattenne Dante. Perché lo trattenesse è uno dei punti più oscuri della vita dell’A.; ma qualcosa di preciso dovette esserci, per cui l’A. si formò la convinzione di essere stato oggetto di una particolare animosità del papa contro di lui personalmente: espliciti sono a questo riguardo i vv. 46-51 di Par. XVII. Intanto a Firenze la Signoria, di cui era magna pars l’onesto, ma troppo ingenuo e alquanto vano Dino Compagni, chieste e ottenute dal Valois “lettere bollate” (Compagni, II, 7) di non abbattere le magistrature della città e non offendere le leggi municipali, il 1° novembre lasciava entrare in Firenze il novello Giuda (cfr. Purg. XX, vv. 73-75). La dappocaggine dei Bianchi, che pure tenevano il governo, la viltà dei Cerchi, rintanati nelle loro case, l’audacia dei Neri fecero il resto. Rientrarono trionfanti Corso Donati e gli altri Neri banditi; e per alcuni giorni, nella città e nel contado, si abbandonarono a saccheggi e incendi, a uccisioni e a ogni altra sorta di violenze, quali poteva dettare l’odio e la sete di vendetta. La casa dell’A. fu devastata. Il 7 novembre furono deposti i recenti, imbelli priori bianchi, ed eletti i nuovi di parte nera; tornarono al governo i magnati, tornò come podestà Cante de’ Gabrielli. Racconta Dino che il “mal fare durò sei giorni”: dopo di che la vendetta di parte assunse, come suole avvenire in simili casi, la farsesca ipocrisia delle forme legali. Una legge speciale diede al podestà l’incarico di riaprire un ‘inchiesta sull’operato dei priori degli anni 1300 e 1301 – gli anni in cui il governo era stato nelle mani dei Bianchi e aveva ostacolato le mire del papa -, sebbene essi fossero stati già assolti nell’inchiesta che per legge si faceva a carico di essi, appena cessavano dall’ufficio. L’A. verosimilmente non era rientrato a Firenze dall’ambasceria a Bonifazio: la notizia del trionfo dei Neri lo aveva raggiunto probabilmente mentre tornava da Roma e aveva dovuto sconsigliarlo di metter piede nel territorio fiorentino. Secondo il Bruni, a Siena intese “più chiaramente la sua calamità”, cioè la propria condanna. Nella prima metà del gennaio 1302 egli era stato citato a comparire davanti al podestà, entro tempo determinato, per difendersi e scusarsi delle accuse mossegli dalla curia podestarile; e poiché non si era presentato, il 27 dello stesso mese, ritenuto confesso per la sua contumacia, fu condannato a 5.000 fiorini piccoli da pagare entro tre giorni, pena l’espropriazione, il guasto e l’incameramento dei beni da parte del Comune, a due anni di confino, all’esclusione perpetua da qualunque ufficio.

Secondo Leonardo Bruni, in una lettera in cui giustificava il suo operato, l’A. si diceva “uomo senza parte”: e tale realmente si era dimostrato durante la sua attività politica, almeno per quello che ne sappiamo: aveva servito semplicemente la patria, aveva difeso quelli che a lui sembravano gl’interessi del Comune, non di una fazione. Appartenente alla nobiltà, amico di magnati, quale Guido Cavalcanti, aveva difeso il popolo contro le soperchierie dei grandi. Guelfo e di famiglia e tradizioni guelfe non mai rinnegate, si era opposto alle ingerenze del papa, secondo la più schietta tradizione guelfa italiana, ch’era sempre stata di cura gelosa dell’indipendenza cittadina, pur nell’ossequio alla somma autorità della Chiesa. Nella scissione della città era stato con la parte dei Cerchi, forse perché più umani, alieni da prepotenze e ingiurie (Compagni, I, 20), sebbene, peraltro, non avesse, dei membri della famiglia, alcuna stima (cfr. Par. XVI, vv. 65 e 94-96). Priore, aveva sottoscritto l’invio al confino del suo amico Guido Cavalcanti. Quell’ideale, che animerà e illuminerà la Commedia, di una vita civile ordinata e saggia, fondata sulla giustizia e sui valori morali, intesa al bene comune e alle belle opere di pace, era già ben chiaro e saldo nella sua coscienza, almeno fin dal tempo delle rime morali e allegoriche, di cui si è detto più su, contemporanee alla sua partecipazione alla vita politica; e l’uomo politico non smentì il poeta. Già fin d’allora la politica era per lui un fatto morale. Piuttosto dovremmo domandarci s’egli possedesse le doti per fare il politico militante: vogliamo dire intuito politico, non la mera abilità di destreggiarsi del politicante. Anche qui non abbiamo elementi per un giudizio sufficientemente fondato, anche perché non pochi sono i punti controversi della caotica situazione di Firenze in quel periodo. Quel che tuttavia sembra potersi fondatamente affermare è che, senza contare la destrezza e fermezza del suo priorato, la stessa coraggiosa politica di opposizione a Bonifazio e al Valois era nello stesso tempo lungiminante e non inattuabile: la prova della possibilità di una resistenza vittoriosa fu data da Pistoia, che, rimasta in potere dei Bianchi, fu invano cinta d’assedio per un mese dal Valois, primo della serie degli insuccessi di quel principe.

L’esilio accomunò i Bianchi con i ghibellini fuorusciti, nel tentativo di rientrare in Firenze con le armi. Quell’anno stesso (sembra l’8 giugno) l’A. compare insieme con altri diciassette Fiorentini, bianchi (tra gli altri, tre dei Cerchi) e ghibellini (quattro degli Uberti, ecc.), convenuti nella chiesa di S. Godenzo nel Mugello, per dar garanzie agli Ubaldini di risarcirli dei danni che potessero venir loro dalla guerra in corso o da farsi nelle loro terre contro Firenze. Sembra ch’egli allora fosse uno dei dodici consiglieri (L. Bruni) dell'”Università della parte dei Bianchi della città e del contado di Firenze”, presto costituitasi tra i banditi. Nell’agosto dello stesso anno (1302) si combatté al castello di Monte Accianico, possesso degli Ubaldini, tra Neri e Bianchi, con la vittoria di questi ultimi: non sappiamo se a questo fatto d’arme prendesse parte anche l’Alighieri. Ma nel settembre Moroello Malaspina, al comando dei Neri, costringeva alla resa, dopo 4 mesi di assedio, la fortezza di Serravalle nell’agro pistoiese, che si diceva Campo Piceno: molto probabilmente l’A. partecipò alla difesa di essa, se a questa sconfitta dei Bianchi, per opera del Malaspina, allude la predizione di Vanni Fucci (Inf. XXIV, vv. 145-150), come ci sembra preferibile ritenere. Vero è, infatti, che il Malaspina continuò la guerra contro Pistoia fino alla resa della città nell’aprile del 1306, il che segnò la definitiva catastrofe dei Bianchi: e a questo fatto – certo più importante – altri credono debba riferirsi l’allusione di Vanni. Senonché in quell’epoca l’A., come vedremo, si era da un pezzo staccato sdegnosamente dagli altri fuorusciti; anzi, nell’ottobre dello stesso 1306, sarà ospite appunto dei Malaspina: e poiché la profezia di Vanni è intesa a procurare un vivo dolore all’A., essa si riferirà a un fatto in cui egli doveva essere personalmente, direttamente impegnato, e quindi piuttosto all’epoca in cui era ancora nella mischia e si faceva illusioni sulle possibilità di vittoria della parte in cui militava. Nel 1303 egli era a Forlì, presso Scarpetta Ordelaffi, ch’era stato nominato capitano dei Bianchi: ch’egli aiutasse il suo segretario, Peregrino Calvi, a dettar le lettere, secondo l’attestazione di Flavio Biondo (Decades II, 9), è possibile, ma non certo (dovremo riparlare del Calvi per una sicura mistificazione); e forse da Forlì si recò per la prima volta a Verona presso Bartolomeo della Scala, per chiederne l’aiuto. E quivi è molto probabile che si fermasse fino alla morte di quel signore (7 marzo 1304), per le ragioni che diremo tra poco. Nel marzo del 1303 l’Ordelaffi, entrato nel Mugello, si spinse fino a Castel Puliciano, a otto chilometri da Firenze, e lo espugnò; ma la sua vittoria si trasformò in una sanguinosa sconfitta per il sopraggiungere immediato del podestà di Firenze, il terribile Fulcieri da Calboli (cfr. Purg. XIV, vv. 58-66): l’Ordelaffi dovette ritirarsi; molti i morti e i prigionieri: di questi, condotti a Firenze, alcuni furono esposti al ludibrio del popolo e impiccati. In seguito a questa grave disfatta “i Bianchi e i Ghibellini usciti rimasero rotti e sciarrati” (Villani, VIII, 60): la guerra dei Bianchi si dimostrava tutto un seguito di errori e d’insuccessi: come avviene in questi casi, gli uni avranno addossato la colpa agli altri; e forse ha inizio da questo momento il contrasto tra l’A. e i suoi compagni di esilio. Il 12 ott. 1303, poco dopo l’oltraggio di Anagni, era morto Bonifazio VIII. Il nuovo pontefice, Benedetto XI, uomo di santa vita e di pie intenzioni, sinceramente desideroso di metter pace nella travagliatissima città, mandò a Firenze come paciere, il 10 marzo del 1304, il cardinale Niccolò da Prato. Il 26 aprile la pace fu giurata in piazza S. Maria Novella: effimera pace, che durò un mese. I Neri, e in specie Corso Donati, non potevano rinunciare al loro predominio: provocarono tumulti e combattimenti; uno spaventoso incendio, appiccato alle case dei Cavalcanti, distrusse il centro della città.

Il 10 giugno il cardinale fu costretto a fuggire; il 7 luglio moriva improvvisamente – si disse, avvelenato – Benedetto XI, a Perugia, il giorno dopo l’arrivo di Corso Donati, ch’egli aveva chiamato a scusarsi; e i Bianchi ripresero le armi. Il 20 luglio si venne alla giornata della Lastra, che, per la disorganizzazione dell’esercito, benché una schiera isolata fosse già penetrata in Firenze, si risolse in una completa disfatta.

Dove fosse l’A. durante questi avvenimenti, tra il marzo e il luglio 1304, non sappiamo. Un documento del 13 maggio prova che il fratello Francesco, anch’egli esiliato (quando non si sa; ma nel 1309 risulta già rientrato a Firenze), era ad Arezzo (Piattoli, 94), dove contraeva un mutuo di 12 fiorini: ma ciò non prova che fosse con lui Dante; anzi, la relativa esiguità del mutuo farebbe pensare ch’esso servisse alle necessità del solo Francesco. D’altra parte, i vv. 61-69 di Par. XVII, nei quali l’A. accenna al suo dissenso con gli altri sbanditi, all’essere stati gli altri, e non lui, danneggiati dagli errori commessi, sicché per lui era stato bello aversi fatta parte per sé stesso, sembrano piuttosto alludere a una rottura molto presto determinatasi tra lui e “la compagnia malvagia e scempia” fattasi tutta ingrata, tutta matta ed empia contro di lui: così presto ch’egli non restò coinvolto nelle successive “bestialità” dei Bianchi. Sappiamo solo che l’animosità dei Bianchi contro di lui, quali che fossero precisamente le colpe che gl’imputavano, fu così violenta da volerne addirittura la morte, non meno dei Neri: Brunetto Latini gli predirà che l’una parte e l’altra avrà fame di lui, ma egli si salverà tenendosi lontano da esse (Inf. XV, vv. 70-72). E poiché egli ci fa sapere che il suo “primo refugio, il primo ostello”, fu presso uno Scaligero, di cui tesse alte lodi, e questo non può essere se non Bartolomeo, che morì il 7 marzo 1304, giacché del successore Alboino, in. Conv. IV, xvi, 6, egli dà un giudizio sprezzante, parrebbe doversi concludere che la rottura tra l’A. e i suoi compagni di sventura fosse già avvenuta prima della fine del 1303: e questo porterebbe ad escludere l’attribuzione a lui dell’epistola al cardinal da Prato.

Dalla prima dimora veronese (1303-marzo 1304) all’ottobre 1306 non sappiamo nulla di preciso delle sue peregrinazioni. È da credere che dopo la morte di Bartolomeo l’A. lasciasse Verona; ed è probabile che passasse a Padova, dove Giotto lavorava (1304-05) nella cappella degli Scrovegni, e dove poté ritrovare Ildebrandino Mezzabati, già capitano del popolo a Firenze nel 1291-92, ch’egli ricorda in De vulgari eloquentia I, xiv, 7 come l’unico poeta tra i Veneti che cercasse di allontanarsi dal volgare materno e tendesse a quello curiale, e col quale scambiò il sonetto allegorico di Lisetta respinta nella sua pretesa di amore (Per quella via che la bellezza corre). Certo fu in questo tempo a Treviso, presso Gherardo da Camino, che morì nel marzo del 1306, del quale egli esalta la grande nobiltà in Conv. IV, xiv, 12 (cfr. anche Purg. XVI, vv. 121-124); e forse di lì a Venezia, di cui ricordò più tardi l’operosità dell’arsenale in Inf. XXI, vv. 7 ss. E potrebbe essere stato allora anche a Reggio presso Guido da Castello, anch’egli lodato in Purg. XVI, vv. 125-126. Sono questi gli anni in cui egli andò “per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, …mostrando contro sua voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata”, come “legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade”, apparendo “a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma lo aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente la sua persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera sì già fatta, come quella che fosse a fare. (Conv. I, iii, 4-5). Sono gli anni in cui, appunto perché il nome suo ancora non sonava molto, più amaramente provò “come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”, e più di una volta, forse “si condusse a tremar per ogni vena”, costretto a mendicare l’ospitalità altrui (cfr. Par. XVII, vv. 58-60; Purg. XI, vv. 138-141). E sono anche gli anni in cui, come attesta il Bruni, “ridussesi tutto umiltà, cercando con le buone opere e con buoni portamenti riacquistar la grazia di poter tornare in Firenze per ispontanea revocazione di chi reggeva la terra; e sopra questa parte s’affaticò assai, e scrisse più volte non solamente a privati cittadini del reggimento, ma anche al popolo, ed intra l’altre una epistola assai lunga, la quale comincia Popule mee, quid feci tibi? Ma un’esplicita domanda di perdono abbiamo nel secondo congedo della Canzone della Drittura, Tre donne intorno al cor mi son venute: in esso il poeta esorta la canzone, che è, sì, la canzone di un bianco, un'”uccella con le bianche penne”, ad accompagnarsi “con li neri veltri”, che, egli dice, “fuggir mi convenne, ma far mi poterian di pace dono. Però nol fan che non san quel che sono: camera di perdon savio uom non serra, ché ‘l perdonare è bel vincer di guerra”. Alle quali parole rispondono le altre del Convivio I, iii, 4, scritte certamente durante questo stesso periodo di tempo, e dettategli da questo stesso stato d’animo: “Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno, nel quale nato e nudrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato…”. E per dimostrare alla patria chi fosse il figlio ch’essa aveva bandito, non meno che per riscattare agli occhi dei signori che l’ospitavano la sua umiliante condizione di peregrino e mendico, egli mise mano a due opere di alto impegno, ilConvivio, appunto, e il De vulgari eloquentia.

Cecco Angiolieri, che, al tempo della Vita nova, aveva mostrato verso il poeta di Beatrice un certo riguardo (Dante Allaghier, Cecco, ‘l tu’ servo e amico), non ne dimostra nessuno e lo tratta con arroganza provocatoria, giudicandolo alla sua stessa stregua, all’epoca in cui l’A. peregrinava per le corti lombarde, attribuendo la comune sorte di servire in case altrui non solo a “sventura”, ma anche a “poco senno” (Dante Alighier, s’i’ son bon begolardo).

Vero è che non dovettero mancare all’A., anche in questo periodo della sua maggior miseria, attestazioni di stima e di simpatia. Al grossolano sonetto ora citato di Cecco rispose messer Guelfo Taviani di Pisa, trattandolo da matto a voler contendere con l’A., di cui esaltava l’ingegno e il sapere filosofico. Ma non poco dovette confortarlo, più che ogni altra, l’amicizia, contratta molto probabilmente al tempo della Vita nova, con Cino da Pistoia (cfr. la canzone consolatoria di Cino per la morte di Beatrice, Avegna ched el m’aggia), il quale, cacciato in esilio, come nero, nell’estate del 1301, al tempo del predominio dei Bianchi nella sua travagliata patria, si era recato a Bologna a ultimare gli studi di legge, conseguendone, intorno al 1304, il relativo grado accademico. E poiché l’esilio di Cino finì con la caduta di Pistoia in mano dei Neri (aprile 1306), entro questi termini sorse l’amicizia tra i due poeti e si svolse la loro corrispondenza epistolare e poetica. Sebbene di parte avversa, erano entrambi superiori alle parti, alle quali avevano aderito per motivi contingenti, entrambi disgustati delle lotte faziose. Non è tutto esercizio di letterati la corrispondenza tra i due amici poeti: ci sono, nei sonetti di Cino all’A., espressioni che attestano un affetto e una stima sinceri, quasi da discepolo a maestro. Cino propone questioni di amore, e l’A. risponde da conoscitore provetto della materia. Nè è improbabile, stante l’amicizia del pistoiese con Moroello Malaspina, che sia stato proprio Cino a introdurre l’A. presso quella nobile famiglia. Quando con precisione si recasse presso i Malaspina, non sappiamo; ma doveva già da qualche tempo essere ospite di Franceschino, cugino di Moroello, in Lunigiana, se il 6 ott. 1306 il marchese lo costituì “suum legitimum procuratorem, actorem, factorem et nuncium specialem” per stipulare la pace, le cui trattative – verosimilmente con la partecipazione dell’A. – dovevano essere state precedentemente avviate e condotte a termine, con il vescovo conte di Luni: il trattato di pace, che chiudeva un lungo periodo di guerre, rapine, incendi, violenze d’ogni sorta dall’una e dall’altra parte, fu firmato lo stesso giorno “in ora tercia”. Questa nomina è di per sé dimostrazione della stima che l’A. godette presso la famiglia: e verosimilmente ne sperimentò per un periodo non di pochi mesi la cortesia e liberalità, passando dalla corte di uno a quella di un altro dei membri della nobile casa. Certo, oltre che presso Franceschino, fu anche presso lo stesso Moroello, come provano un sonetto (Degno fa voi trovare ogni tesoro), scritto dall’A, a nome del marchese in risposta ad altro di Cina, e una letterina con la quale accompagnava l’invio a Moroello della canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia.

Pur peregrinando da una regione all’altra e di corte in corte, l’A. attendeva, in questo periodo, tra il 1304 ed il 1307, alle due opere che avrebbero dovuto, per l’ingegno e la dottrina in esse profusi, innalzarlo agli occhi di coloro presso i quali era costretto a cercare ospitalità. Poiché il I libro del De vulgari eloquentia fu scritto prima della morte di Giovanni I, marchese di Monferrato (febbraio 1305), a cui si accenna (cap. XII, 5) come a vivente, l’inizio del Convivio dovrà porsi nei primi mesi del 1304 (ad anticiparlo alla fine del 1303 si oppone la sua dichiarazione, per quanto certamente esagerata, al principio stesso del libro, di aver già peregrinato per quasi tutte le parti d’Italia), e l’inizio del De vulgari eloquentia qualche mese dopo quello del Convivio e comunque non più tardi della fine del 1304.

Il trattatello retorico costituì una breve parentesi nella stesura del Convivio: scritti di getto, come pare, il primo libro e il principio del secondo, esaurita, cioè, la parte generale e teorica, più ampiamente speculativa, quando, col cap. V del II libro, l’A. passò alla parte propriamente retorica e normativa, è probabile che fosse preso dal fastidio di una trattazione troppo angusta; e s’interruppe al cap. XIV: tra l’inizio e l’interruzione non dovettero trascorrere che pochi mesi. Il trattato fu concepito “come una organica arte del dire in volgare, fondata su principî di filosofia, di poetica e di retorica universali, tali da valere anche per una lingua di popolo che assurga ad espressione d’arte. La stessa ricerca ch’egli fa di una lingua “illustre, cardinale, aulica, curiale”.

Appaiono anche notevoli, nel trattato, la chiarezza del concetto della naturale evoluzione delle lingue; il tentativo dì aggruppamento delle lingue europee in tre grandi famiglie – nordica, sud-orientale, sud-occidentale -, l’ultima delle quali egli vedeva suddivisa in un “ydioma trifarium”, cioè nelle tre lingue romanze d’oc, d’oïl e di , di cui intuiva esattamente l’unità, ma non la genesi; la divisione delle regioni linguistiche d’Italia segnata dallo spartiacque appenninico; l’ideale di una superiore unità linguistica d’Italia, accompagnato dal sentimento della potenziale unità spirituale d’Italia, ove fosse esistita un’aula e una curia, cioè una reggia e un senato, in cui si sarebbero raccolti i più eccellenti degli Italiani. Il resto, quasi tutta la parte filosofica e biblica (differenza tra gli angeli e gli uomini nel comunicare tra loro; la lingua ebraica data da Dio ad Adamo rimasta inalterata [opinione che rettificherà in Par. XXVI, vv. 124-127]; l’origine della diversità dei linguaggi dalla confusione babelica; l’invenzione delle lingue “grammatiche”, inalterabili per diversità di tempi e di luoghi) è cosa morta con le idee e cognizioni del tempo.

Interrotto il De vulgari eloquentia, l’A. tornò al Convivio; ma anche questo interruppe, certamente dopo il marzo 1306. L’A. afferma di essere stato mosso a scrivere il Convivio da due ragioni: il proposito di purgarsi della “infamia”, cioè del biasimo di “levezza d’animo” per aver cantato con passione altri amori dopo la morte di Beatrice, e il “desiderio di dottrina dare”. La prima di queste due ragioni gli suggerì la forma esterna dell’opera: un commento alle stesse canzoni amorose, col quale avrebbe mostrato “che non passione ma virtù” era stata l’ispiratrice di esse, spiegandone “la vera sentenza… nascosta sotto figura di allegoria”. E, riallacciandosi al racconto della Vita nova, del suo “consentire ” all’amore per la “donna gentile” così si giustifica: “la donna di cu’ io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia”. Vita nova Convivio vengono così ad integrarsi, dimostrando che l’unico amore terreno del poeta era stato ed era ancora Beatrice (“quella Beatrice beata che vive in cielo con li angeli, e in terra con la mia anima”, Conv. II, ii, 1).

Dopo l’ospitalità dei Malaspina, e, probabilmente, dei conti Guidi nel Casentino, si suppone ch’egli passasse a Lucca. A un suo soggiorno in questa città accenna l’A. stesso; e ci fa sapere che gli riuscì gradito per la cortesia di una gentildonna di nome Gentucca (si pensa a una Morla o a una Fondora di questo nome, che nel 1300 dovevano essere giovanissime, e quindi non portavano “ancor benda”: cfr. Purg. XXIV, vv. 37-45). Sappiamo anche di lagnanze dei Fiorentini per l’ospitalità che in essa trovavano, tra il 1308 e il 1309, esuli e sbanditi dalla nuova guerra civile scoppiata in Firenze tra i Neri stessi, nella quale perì Corso Donati, tanto che il Comune di Lucca si decise a interdire ad essi il soggiorno, con un editto del 31 marzo 1309. E già si è detto del documento lucchese del 21 ott. 1308, in cui compare un “Iohannes filius Dantis Alagherii de Florentia“. Sicché è molto probabile che appunto al 1308 debba assegnarsi la dimora dell’A. nella città di Gentucca. Sulle sue peregrinazioni tra la fine del 1308 e la fine del 1310 non abbiamo elementi neppure per formulare qualche congettura. C’è, però, l’affermazione di Giovanni Villani, ripetuta insistentemente dal Boccaccio, di un viaggio dell’A. a Parigi, per studiare in quella celebre università, donde sarebbe tornato dopo la discesa in Italia di Arrigo VII. Dirigendosi oltralpe, secondo il Boccaccio, si sarebbe fermato al monastero di S. Croce del Corvo, presso Lerici; e qui, secondo la lettera di un frate Ilario, trascritta dal Boccaccio stesso nel suo Zibaldone dantesco (cod. Laurenz. XXIX, 8), egli avrebbe dato al frate una copia dell’Inferno con sue chiose, invitandolo ad aggiungervi le proprie, e inviare poi l’opera a Uguccione della Faggiuola. Ma la lettera è tutta un’assurdità, e pertanto non prova nulla. Né valore probativo hanno gl’indizi indiretti di un viaggio in Francia, che si son voluti trovare nella Commedia, dei quali i più rilevanti sarebbero la menzione (in Par. X, v. 137) del ” vico delli strami”, la parigina Rue de Fouarre, dove erano le scuole di filosofia, e la descrizione dell’esame del baccelliere in Par. XXIV, vv. 46-48, giacché il vicus straminum era ben noto per fama, e a esami del genere l’A. certo avrà assistito negli Studi di Firenze e di Bologna. E infine, aveva l’A. la possibilità di mantenersi a Parigi? o di chi sarebbe stato ospite?

Frattanto si preparavano eventi, che dovevano lasciare nel cuore e nell’opera dell’A. impronte indelebili. Il 27 nov. 1308 era stato eletto Imperatore Arrigo VII, conte di Lussemburgo; e il 20 luglio del 1309 papa Clemente V, il “guasco”, successo nel 1305 a Benedetto XI, da Avignone, dove aveva trasferito la Curia papale, comunicava con un’enciclica alla cristianità di averlo riconosciuto re dei Romani (“carissimum fllium nostrum Henricum,… denunciavimus et declaravimus regem Romanorum”), promettendo d’incoronarlo nella basilica di S. Pietro. I rapporti tra le due supreme autorità erano ottimi: Clemente nel 1307 aveva nominato Baldovino, fratello di Arrigo, arcivescovo di Treviri, per cui questi era diventato uno dei grandi elettori tedeschi; e di Arrigo aveva favorito l’elezione. Arrigo, da parte sua, nel chiedere al pontefice la consacrazione, lo aveva riconosciuto come “luminare maius”, aveva proclamato il suo amore della pace e la volontà d’instaurarla, aveva affermato il proposito di liberare il Santo Sepolcro: tutto ciò che stava a cuore al pontefice. La terra dell’Impero dove bisognava imporre la pace era l’Italia. Fuorusciti, ghibellini, e guelfi fattisi ghibellini, mandavano all’imperatore ambascerie, invocandone l’intervento, con doni e assicurazioni di aiuti. Nell’agosto del 1309, a Spira, la spedizione in Italia fu decisa; e intanto, tra la primavera e l’estate del 1310, ambasciatori imperiali furono inviati alle città italiane, per richiedere l’omaggio all’imperatore e la sospensione delle guerre in corso. Tra la generale riguardosa accoglienza che ad essi venne fatta, Firenze fece sentire una nota meno rispettosa. Narra il Compagni (III, 35) che nel Consiglio in cui i messi esposero i mandati imperiali, si levò primo a parlare Betto Brunelleschi, affermando “che mai per niuno signore i Fiorentini non inchinarono le corna”. Secondo Flavio Biondo, l’A. avrebbe dimorato allora (luglio 1310) a Forlì presso Scarpetta Ordelaffi, e avrebbe scritto, a questo riguardo, una lettera a Cangrande, a nome della parte bianca degli esuli e suo, deplorando la cecità dei Fiorentini. Il Biondo aveva sott’occhio la lettera, lasciata scritta da Peregrino Calvi, il segretario dell’Ordelaffi, di cui già si è detto, e vi prestò fede; ma essa era certamente una mistificazione del Calvi, a provar la quale basta il fatto che l’A. da molti anni aveva troncato ogni rapporto coi Bianchi (Barbi, Sulla dimora di D. a Forlì, in Problemi s. 1 [1934], pp. 189-195). Finalmente, attraverso gli stati del conte Amedeo di Savoia, suo cognato, il 23 ott. 1310 Arrigo entrò in Italia a Susa, con piccolo esercito. Ne aveva preannunziata la venuta Clemente V, il 1º settembre, con una calorosa epistola in cui lo proclamava il “re pacifico innalzato fra le genti dalla grazia divina…, frutto di questa grazia”, che avrebbe restaurato la giustizia senza parteggiare per gli uni o per gli altri, e invitava tutti ad accoglierlo con onore. Questa amorevole concordia delle due supreme autorità del mondo cattolico, da secoli in lotta tra loro, per attuare così alto programma di pace e di giustizia, dovette sembrare un miracolo. Non poche, infatti, sono le testimonianze della commozione che si diffuse in Italia, quasi si aprisse una nuova era. S’erano perfino visti presagi celesti della venuta di Arrigo: una notte era apparso in aria “uno grandissimo fuoco.., correndo dalla parte d’Aquilone verso il meriggio con grande chiarore, sicché quasi per tutta Italia fu veduto, e fu tenuto a grande maraviglia; e per gli più si disse che fu segno della venuta dello ‘mperadore” (Villani, VIII, 109). Entrato Arrigo in Italia, da Torino a Milano fu quasi tutto un trionfo: egli aveva dichiarato di aborrire le parti, e guelfi e ghibellini s’inchinavano a lui parimenti; gli esuli tornavano nelle città, dove vicari imperiali erano posti a garantire l’imparzialità della giustizia; città rivali giuravano tra loro pace. Parve un miracolo il passaggio del Ticino, avvenuto senza bisogno di navi.

Bisogna tener presente l’atmosfera di fervore quasi religioso, che sembrava avesse invaso gli animi lacerati dalle passate discordie, per meglio comprendere e giustificare il tono dell’epistola che l’A. rivolse a tutti i regnanti, i signori, i Comuni d’Italia e i senatori di Roma, quando l’imperatore stava per passare le Alpi. Poiché nella chiusa di questa epistola l’A. si riferisce esplicitamente all’enciclica di Clemente del 1º settembre, e, poco dopo il principio, dice, rivolgendosi all’Italia, “sponsus tuus, mundi solatium et gloria plebis tue, clementissimus Henricus, divus et Augustus et Cesar, ad nuptias properat”, è evidente che essa fu scritta dopo che l’enciclica fu conosciuta e prima dell’entrata in Italia dell’imperatore. Dove fu scritta non sappiamo: alcuni pensano a Forlì, dando, in questo, parziale credito alla notizia, più su riferita, di Flavio Biondo. L’epistola comincia con le squillanti parole di Paolo ai Corinzi (II, vi, 2) “Ecce nunc tempus acceptabile”, ed è tutta intessuta di espressioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, non, però, senza qualche eco di Virgilio e qualche riferimento alla storia di Roma, l’altro Testamento della fede politica dell’Alighieri. Arrigo è detto un altro Mosè che strapperà il suo popolo dalla servitù degli Egiziani, il pastore discendente da Ettore, il predestinato da Dio a portare consolazione e pace alla misera Italia, il sole che farà di nuovo risplendere la giustizia. Tutti s’inchinino a lui: egli punirà gli empi e i malvagi, ma avrà misericordia di quelli che si saranno pentiti, perché la sua autorità sgorga da Dio, fonte di pietà. E perciò gli oppressori si liberino dalla barbarie longobardica da essi acquisita, e non resistano a lui, che varrebbe quanto resistere a Dio; e gli oppressi, coloro che, come l’A., sono stati ingiustamente colpiti, riprendano animo, e perdonino a loro volta. Dio ha mandato l’imperatore, e il vicario di Dio esorta ad onorarlo. È questo, di tutti gli scritti danteschi di politica militante, quello in cui più alto, più puro si manifesta il suo sentimento: uno scritto, si direbbe, religioso più che politico, perché la sua ispirazione fondamentale è l’immensa fiducia dell’A, nella provvidenza divina; la polemica generale e personale è tutta disciolta in questo sentimento della presenza di Dio nello straordinario evento: Arrigo, più che l’imperatore, è il Messia, e l’A. si sente il suo profeta. Due concetti in essa crediamo opportuno segnalare, sebbene si tratti di un semplice accenno: uno, che da Dio “velut a puncto biffurcatur Petri Cesarisque potestas”; l’altro, che i sudditi dell’imperatore sono non solo riservati al suo comando, ma, come uomini liberi, al governo da lui regolato (“non solum sibi ad imperium, sed, ut liberi, ad regimen reservati”): sono due concetti importantissimi, che verranno sviluppati rispettivamente nel III e I libro della Monarchia.

Ignoriamo dove e quando l’A. rese il suo omaggio all’imperatore: probabilmente egli non dovette tardare a corrergli incontro; forse ancor prima che cingesse la corona di ferro a Milano (epifania 1311). Comunque, al fatto accenna nella lettera, di cui diremo tra poco, all’imperatore stesso, del 17 aprile, nella quale ricorda il giorno memorabile in cui lo vide e lo udì, e gli si prostrò ai piedi: “Tunc – egli dice addirittura coi testi sacri (Luca I, 47; Giovanni I, 29) – exultavit in te spiritus meus cum tacitus dixi mecum `Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi’”: nessuna meraviglia che alla esaltazione del momento l’A. non trovasse espressione adeguata se non nelle parole del Precursore al Messia. Ma all’impresa pacificatrice di Arrigo, così felicemente iniziata, sorsero ben presto i primi ostacoli: le paci si rivelarono effimero frutto di una momentanea generale commozione, non di convinzione e di buona volontà, come tante altre volte era avvenuto, in seguito all’intervento di papi o alla predicazione di religiosi e di santi, nella storia del nostro Medioevo. Una situazione così tesa e così complessa qual’era quella allora dei Comuni e delle larvate Signorie d’Italia non poteva essere appianata d’un tratto, senza provocare prima o poi la reazione dei potenti, menomati nei loro interessi particolari dall’intervento dell’imperatore. Anche il ritorno dei fuorusciti, provvedimento – teoricamente – di somma giustizia, non sempre risultava politicamente opportuno o senza pericoli. Né la forza militare dell’imperatore era tale da tenere a freno e intimidire i più irrequieti e i più decisi. La scintilla della rivolta fu data da Guido Della Torre, ch’era stato signore di Milano, e che aveva dapprima accolto senza resistenza il monarca nella città; la rivolta fu soffocata nel sangue e le truppe si abbandonarono al saccheggio. L’astro del re pacifico si oscurava. Rifugiatosi a Cremona, il Della Torre sollevò anche questa città contro l’imperatore. Seguì la ribellione di Brescia, caduta in mano dei guelfi: minori focolai di rivolta si accendevano per tutta la Lombardia. Firenze intanto apertamente si preparava in tutti i modi alla lotta: costruiva alacremente mura, fossi, steccati intorno alla città; stringeva una lega fra le città guelfe toscane, alla quale aderì Bologna; aiutava col denaro le città ribelli lombarde, sollecitava l’appoggio del re Roberto di Napoli, tramava contro Arrigo alla corte di Avignone. All’A. tutto ciò sembrò follia ed empietà a un tempo; e il 31 marzo 1311 si rivolse direttamente “agli scelleratissimi Fiorentini di dentro”, con un’epistola in cui lo sdegno è senza dubbio assai più forte della carità di figlio che, prevedendo la rovina sicura della patria, cerchi persuadere i suoi concittadini ad evitarla.

Quasi certamente l’A. era ospite del conte Guido di Battifolle nel castello di Poppi, nel Casentino. Quanto tempo egli dimorasse ancora nel Casentino non sappiamo; ma vi era ancora il 18 maggio, e precisamente nel castello di Poppi, come indica la data della terza delle tre letterine, che a buon diritto si ritengono scritte da lui a nome della contessa toscana palatina G[herardesca] di Battifolle, moglie del conte Guido, e indirizzate all’imperatrice. Sono tre ornatissime letterine di ringraziamento e di ossequio, e di auguri per la felice riuscita dell’impresa di Arrigo, in risposta alle lettere dell’imperatrice; ma s’insinua in esse così evidente la personalità dell’A., con i suoi concetti e i suoi sentimenti (il principe unico voluto dalla provvidenza per il consorzio umano; la speranza che Arrigo riformi in meglio la società traviata), che non parrebbe giustificato il dubbio sulla loro attribuzione all’Alighieri. Il 15 giugno Arrigo prese finalmente Cremona, e pose subito l’assedio a Brescia; ma la città non si arrese che nel settembre; e nei quattro mesi di assedio le perdite dell’esercito imperiale, anche per il flagello della peste, furono tali che Arrigo, prima di recarsi a Roma per l’incoronazione, decise di sostare a Genova per raccogliere nuove forze (ottobre 1311-febbraio 1312). Qui il 10 dic. 1311, dopo aver invano mandato a Firenze nuovi ambasciatori, i quali furono addirittura costretti a fuggire, mise Firenze al bando dell’Impero, dopo regolare processo, al quale furono chiamati molti testimoni. Non sappiamo se l’A. fosse tra questi; ma non è improbabile che, allontanatosi dal conte Guido, quando questi cominciava a tergiversare tra l’ossequio dato all’imperatore e le ingiunzioni di Firenze, alle quali infine, come si è detto, ubbidì, l’A. passasse a Genova al seguito dell’imperatore. Il 2 sett. 1311 egli era stato escluso dall’amnistia concessa da Firenze a molti dei guelfi cacciati in bando, con la cosiddetta Riforma di Baldo d’Aguglione. Era questi il principale dei priori allora in carica, abilissimo e disonesto uomo di leggi, verso cui l’A. non nascose il suo disprezzo (Par. XVI, vv. 55-57), già condannato per aver raso da un atto notarile una testimonianza sfavorevole a un suo cliente (Purg. XII, v. 105). Ma la Riforma era atto di grande avvedutezza. Il nome dell’A. appare tra gli esclusi del sesto di Porta S. Pietro, insieme con i figli di messer Cione del Bello, suoi cugini (Piattoli, 106). Da Genova Arrigo sbarcò a Pisa il 6 marzo 1312; e potrebbe darsi che vi fosse anche l’A., se in questo periodo (marzo-aprile 1312) avvenne l’incontro tra lui e Francesco Petrarca bambino, che a Pisa aveva compiuto il suo settimo anno (Famil. XXI, xv, 7; I, 1, 24). Da Pisa Arrigo il 19 aprile mosse verso Roma. Qui le milizie di Roberto d’Angiò, insieme con quelle inviate da Filippo il Bello, al comando del fratello Giovanni, avevano occupato il Campidoglio, il Vaticano e Castel Sant’Angelo; ed erano dalla loro parte le famiglie degli Orsini e dei Caetani. Dalla parte dell’imperatore si schierarono i Colonna. Il papa, che aveva mandato cardinali legati per incoronare l’imperatore in sua vece, ormai schiavo della volontà del re di Francia, non si mosse in suo favore, dimostrando di tollerare l’opposizione angioina. Arrigo s’insediò in Laterano, mentre per le vie si combatteva. Nella confusione della situazione, espugnato con le armi il Campidoglio, Arrigo vi convocò il popolo di Roma; e questo impose al cardinal legato Niccolò da Prato l’incoronazione dell’imperatore. La quale avvenne solennemente nella festa dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno 1312, nella basilica di S. Giovanni in Laterano, e non in quella di S. Pietro, come in luogo più sicuro. Ma non era passato un mese dall’incoronazione, che a Tivoli, dove stava passando l’estate, gli giunsero lettere di Clemente V, che gl’imponeva di uscire dalle terre della Chiesa, e di far tregua con Roberto d’Angiò. Rispose l’imperatore il 6 agosto, affermando l’indipendenza dell’autorità imperiale da quella del pontefice, e il diritto di risiedere nella capitale dell’Impero. Poco dopo lasciò effettivamente lo Stato della Chiesa, e, raccogliendo milizie attraverso l’Umbria e la Toscana, giunse il 19 settembre davanti a Firenze. L’assedio, che durò quaranta giorni, fu del tutto vano: l’imperatore era malato; le truppe imperiali, inferiori di numero, non riuscivano neppure a cingere per intero la città; nessun fatto d’arme di qualche rilievo; solo esso diede occasione ad ogni sorta di violenze, da parte di ghibellini e guelfi fuorusciti, assetati di vendetta. L’A., che un anno e mezzo prima aveva sollecitato Arrigo ad estirpare Firenze, radice dei mali, non fu con lui nell’assedio. Il suo nome, infatti, non compare nella condanna emanata da Firenze il 7 marzo del 1313 contro i fuorusciti presenti nel campo dell’imperatore. Questi il 1º novembre tolse l’assedio della città e passò l’inverno a Poggibonsi in attesa dell’esercito che aveva mandato a raccogliere in Germania. La sua intenzione era di muover guerra a re Roberto, che, citato a comparire al suo giudizio, il 26 apr. 1313 fu processato in contumacia e messo al bando dell’Impero. Re Roberto, a sua volta, si appellava al papa, dichiarando decaduto l’Impero e reclamando i diritti della sua Casa, mentre i suoi giuristi affermavano che, con la donazione di Costantino, tutti i diritti imperiali erano stati trasferiti al pontefice. Il 12 giugno Clemente V lanciava la minaccia di scomunica all’imperatore, se fosse entrato nel Regno di Napoli: ormai era palese l’inganno del Guasco (Par. XVII, v. 82), che prima aveva caldeggiato l’intervento di Arrigo nelle cose d’Italia, ed ora serviva gl’interessi franco-angioini. Riteniamo che in questo periodo, tra le prime ostilità del papa, subito dopo l’incoronazione, e la minaccia della scomunica, l’A. debba aver posto mano alla composizione della Monarchia.

Scrivendo la Monarchia, l’A. scendeva anch’egli in campo a sostenere la causa di Arrigo, ma senza mescolarsi con la trista compagnia dei fuorusciti, animati solo da rancori personali, nel modo più confacente alla sua qualità di uomo di studio, al suo carattere, alla superiore idealità delle sue convinzioni.

Frattanto Arrigo, benché malato, senza aspettare l’arrivo dell’esercito già raccolto in Germania, e senza tener conto della scomunica minacciata, ai primi d’agosto si mosse da Pisa per la guerra contro re Roberto. Già si cantava la vittoria dell’imperatore, e tanto era il timore della parte guelfa che Firenze, che aveva tanto lottato per la sua indipendenza, accettò la signoria dell’Angioino, esercitatavi mediante un suo vicario. Ma il 24 ag. 1313 a Buonconvento, non lontano da Siena, Arrigo morì. Corse voce che fosse stato avvelenato dal suo confessore con l’ostia consacrata; ma il male di Arrigo era cominciato all’assedio di Brescia; e l’A., che raccolse la voce dell’avvelenamento di s. Tommaso per mandato di Carlo I d’Angiò (Purg. XX, v. 69), non raccolse questa, riconoscendola falsa. Grande e sincero fu il compianto, e non soltanto da parte dei suoi fautori, perché grande era stata la fama delle sue virtù, che lo avevano posto al di sopra delle parti: Cino da Pistoia, guelfo nero, ma suo sostenitore, in una delle due canzoni scritte in quell’occasione, così ne pianse la morte: “L’ha Dio chiamato, perché ‘l vide degno d’esser cogli altri nel beato regno”. L’A., come pare, tacque: conosciamo la sua esultanza e le sue speranze nella venuta di Arrigo, non il dolore per la sua fine; ma gli preparava un seggio in Paradiso, e la vendetta contro il papa che l’aveva tradito (Par. XXX, vv. 133-148). L’impresa di “drizzare l’Italia” era fallita; ma l’A. non perdette la speranza che un giorno qualcuno l’avrebbe felicemente compiuta. Arrigo, secondo lui, era venuto prima che Italia fosse a ciò disposta: era stato il Precursore, sarebbe venuto il Redentore: l’A. non poteva dubitarne, come non dubitava dell’occulta provvidenza di Dio.

Otto mesi dopo la morte di Arrigo, il 20 apr. 1314 morì Clemente V, vituperato e condannato da tutti. Probabilmente sull’inizio del lungo conclave, terminato solo il 7 ag. 1316 con l’elezione del “caorsino” Giovanni XXII, e prima del tentativo di uccisione dei cardinali italiani, da parte dei guasconi, a Carpentras (24 luglio 1314), l’A. indirizzò un’epistola ai cardinali e in particolare a quelli italiani: il titolo conservatoci nello Zibaldone del Boccaccio in cui essa si trova, “Cardinali-bus ytalicis D. de Florentia etc.”, è un’abbreviazione forse inesatta, giacché l’epistola solo verso la fine si rivolge espressamente a questi ultimi.

Dove fosse A. in questo tempo non sappiamo; potrebbe essere rimasto in Toscana presso Moroello Malaspina, che non aveva tradito Arrigo VII, e che morì nel 1315; o potrebbe essersi recato alla corte di Cangrande, e aver seguita da vicino la sanguinosa sconfitta che questi inflisse sotto Vicenza ai Padovani nel dicembre del ’14, e che il poeta volle ricordare, – come crediamo preferibile intendere – in Par. IX, vv. 46-48.

Era signore di Ravenna, col titolo di podestà, dall’ottobre del 1316, Guido Novello da Polenta, figlio di Ostasio, uno dei fratelli di Francesca; ed era non solo signore prudente e valoroso, ma anche poeta gentile, come dimostrano alcune ballate che di lui ci rimangono. Politicamente guelfo, ma non nemico di Cangrande; e nel 1314 aveva difeso Cesena, dove era podestà, da un vicario di re Roberto; e che non fosse ligio alla politica papale dimostra il fatto che nel 1322 gli fu tolto da un cugino il potere, con l’assenso del vicario del papa, sicché fu costretto ad andare in esilio. All’A. la sua corte dovette sembrare, rispetto alla dinamica ed eterogenea corte scaligera, oasi di pace, ove avrebbe potuto terminare quel che gli restava da scrivere del Paradiso; e accettò l’invito del signore di trattenersi a Ravenna. Probabilmente, almeno per qualche tempo, furono con lui anche i figli: c’era quasi certamente la figlia che si rese monaca – non sappiamo se prima o dopo la morte del padre -, col nome di suor Beatrice, appunto nel monastero ravennate di S. Stefano degli Ulivi, dove morì dopo il 1350; e Pietro risulta rettore di due chiese ravennati, che ora non esistono più, in un documento del 4 genn. 1321, in cui dal vicario arcivescovile è citato a pagare, sotto minaccia di scomunica, insieme con alcuni ecclesiastici parimenti morosi, l’imposta di procurazione dovuta al cardinale legato Bertrando del Poggetto. Nessuna congettura, invece,. possiamo fare circa la presenza della moglie Gemma. La dimora dell’A. a Ravenna non dovette interrompere i suoi buoni rapporti con Cangrande: da lui Pietro e Iacopo avevano avuto i mezzi per studiare; Pietro, laureatosi in legge, si stabilì a Verona, dove esercitò l’ufficio di giudice; Iacopo ebbe a Verona un canonicato ed altri benefici in terre veronesi, conservati anche dopo essersi stabilito a Firenze.

Che l’A. tenesse a Ravenna pubblico insegnamento è opinione di parecchi studiosi, ma non c’è in proposito alcun indizio veramente attendibile.

Nell’agosto del 1321 era avvenuta la rottura dei rapporti – sempre tesi, a cagione delle saline e della navigazione costiera – tra Venezia e Ravenna, in seguito alla cattura di navi veneziane, probabilmente per rappresaglia, da parte dei Ravennati; e si profilava la minaccia di una guerra. Fu allora mandata dal signore di Ravenna un’ambasceria a Venezia per tentare un accordo. Di questa ambasceria sembra facesse parte l’A., secondo la notizia tramandata da Giovanni Villani (“nel detto anno 1321… morì Dante Alighieri… nella città di Ravenna…, essendo tornato di ambasceria da Venezia in servizio dei signori da Polenta, con cui dimorava”, IX, 136), e ampliata con molti fronzoli da Filippo Villani. Di essa, però, non parlano né il Boccaccio né Leonardo Bruni; e inoltre, gli ambasciatori erano ancora a Venezia il 20 ott. 1321; sicché dovrebbe supporsi che l’A., ammalatosi nel viaggio, fosse tornato prima degli altri a Ravenna; e sarebbe morto pochi giorni dopo il ritorno.

La data della morte oscilla fra il 13 e il 14 settembre: il Boccaccio dà la data del “dì che la esaltazione della Santa Croce si celebra dalla Chiesa”, cioè il 14; ma i due epitaffi latini, di Giovanni del Virgilio (“Theologus Dantes, nullius dogmatis expers”) e di Menghino Mezzani, ravennate amico e studioso dell’A. (“Inclita fama cuius universum penetrat orbem”), danno quella delle idi di settembre, cioè il 13.

L’onore che il signore da Polenta avrebbe voluto rendere al poeta vivo, certamente rese, e in maniera grandiosa, alla salma; e se ne dovette spargere la fama, se l’autore dell’Ottimo commento, al v. 94 del XVII del Paradiso, parla addirittura di “singulare onore a nullo fatto più da Ottaviano Cesare in qua“. Vestito “in abito di poeta e di grande filosofo” (Villani, loc. cit.), accompagnato da una “moltitudine di dottori di scienza” (Ottimo, loc.cit.), portato “sopra gli omeri dei cittadini più solenni infino al luogo dei frati minori di Ravenna” (Boccaccio, Vita XV), fu quivi sepolto in un’arca “lapidea” (Boccaccio), posta in una cappelletta esterna, addossata al muro del convento, in un portico laterale a sinistra della chiesa di S. Pier Maggiore, poi detta di S. Francesco. Narra il Boccaccio (loc.cit.) che Guido Novello, dopo la sepoltura, tornato nella casa dell’A., “esso medesimo, sì a commendazione dell’alta scienza e della virtù del defunto, e sì a consolazione de’ suoi amici, i quali aveva in amarissima vita lasciati, fece uno ornato e lungo sermone”. Guido aveva in animo di erigergli un mausoleo; l’esilio, cui fu costretto nell’anno seguente, glielo impedì. Nel 1483 Bernardo Bembo, padre di Pietro, pretore in Ravenna della Repubblica veneta, sotto il cui dominio fin dal 1441 la città era passata, grande ammiratore dell’A., trovò il sepolcro in tale stato di abbandono e squallore, che fece ricostruire la cappelletta (a sue spese, come tenne a far sapere in una lapide apposta a una parete) dall’architetto Pietro Lombardi.

Dell’aspetto esteriore dell’A. è celebre la descrizione lasciataci dal Boccaccio (Comp. XVI): “Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e.il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso”.

Il ritratto del suo io interiore ha lasciato invece egli stesso, tale che non potremmo desiderarlo più vivo, preciso, completo, sincero, nell’insieme delle sue opere successive all’adolescenza, ma specialmente nella Commedia, cui davvero, sotto questo aspetto, meglio calzerebbe l’appellativo datole di “Danteide”. Tutti i tratti personali, in parte desumibili anche dalle opere minori e dalle poche notizie biografiche certe, nella Commedia si dispiegano, infatti, nella loro interezza, e si compongono in una figura tra le più definite, persuasive, e immediatamente accessibili. Questa immediata accessibilità e comunicatività deriva dall’assoluta sincerità con cui il poeta si è descritto, e che, a sua volta, risponde all’assoluta schiettezza della sua natura, non soffocata o deformata dai casi della vita e dalla cultura, senza ombre ambigue, senza capziosità o sovrastrutture di nessun genere, senza infingimenti volontari o inconsapevoli, complessa per la grande ricchezza di motivi umani, ma non complicata o contorta, e, nella complessità dei motivi, sostanzialmente limpida e lineare. È per questo che i lineamenti più caratteristici della fisionomia dantesca emergono dalla Commedia a prima vista: in breve, una straordinaria energia nel volere e nel sentire, e una coscienza straordinariamente austera ed elevata, dalla sfera affettiva a quella etica, intellettuale, religiosa. L’aggettivo dell’uso comune “dantesco” compendia ed isola appunto questi lineamenti energici e solenni, che appaiono essenziali dell’io interiore dell’Alighieri. Il poeta stesso si fa proclamare da Virgilio “alma sdegnosa”: sdegnosa di tutta la viltà e corruzione e stoltezza di cui è pieno il mondo. Ma lo sdegno esprime solo la pugnace reazione del poeta al disordine generale dell’umanità: la sostanza della sua anima è eroica. Come il suo Ulisse, egli sentì il dovere categorico di seguire, con tutte le sue forze, “virtute e conoscenza”, lottando, con incrollabile volontà e indomito cuore, contro ogni impedimento della natura, contro ogni avversità della vita, mirando costantemente a quella totale perfezione dell’essere, che egli credette fermissimamente potersi raggiungere dall’uomo per le mirabili doti largitegli da Dio, e per la quale l’uomo diviene – diremo con parole sue – “quasi un altro Iddio incarnato”. Questi i lineamenti eroici dell’anima dell’A., quali sono nettamente scolpiti nella Commedia; è questa la concezione eroica della vita umana, in cui consiste l’altissimo valore ideologico del poema, la sublime parola di fede nelle forze ideali e nel destino dell’umanità, che l’A. ha trasmesso alle età successive. Né si creda che la sua salda fede religiosa limiti o condizioni la sostanza eroica della sua anima e della sua concezione della vita. Per l’A., quel Dio che mandò in terra il suo Figliuolo per far conoscere all’uomo la Verità, non solo non umilia e non limita l’individuo per affermare la propria onnipotenza, ma, al contrario, sollecita la piena estrinsecazione, il massimo potenziamento di tutte le sue forze morali e intellettuali, lo stimola alla conquista del Cielo, fa di lui non uno schiavo, ma un titano. E sarebbe parimenti errore considerare l’anelito dell’A. alla conquista di Dio, come estrema perfezione, limitato dai termini dogmatico cattolici in cui formalmente il suo Dio si concreta: quell’anelito risponde a una posizione dello spirito eterna, universale e incoercibile, la posizione da cui promanano i grandi sistemi di filosofia spiritualistica e le più alte religioni storicamente costituite, e che trascende i termini contingenti in cui a volta a volta si configura il concetto dell’Essere assoluto e perfetto. Se ci fermassimo alle forme dogmatiche in cui si concreta il Dio dell’A., ci sfuggirebbe il senso sublime e universale di quel suo anelito alla conquista di Dio, quel senso titanico-religioso che costituisce l’afflato e l’essenza della Commedia. L’aspetto fondamentale della fisionomia dantesca è, dunque, di apostolo ed eroe dell’ideale elevazione umana.

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Marco Polo

Nacque a Venezia nel 1254. 

Suo padre, Nicolò di Andrea, del quale non si conosce la data di nascita, esercitò per lungo tempo la mercatura a Costantinopoli, assieme al fratello Matteo. Risiedeva, in Venezia, probabilmente nella contrada di San Severo; non è noto il nome della moglie. Il padre e lo zio di Marco si trasferirono verso la fine degli anni Cinquanta a Soldaia, nell’attuale Crimea, donde partirono, probabilmente nel 1260 o 1261, per un viaggio attraverso l’Ucraina alla volta dell’Oriente sino alla corte di Kubilai, il Gran Khan dei Mongoli, il cui impero si estendeva dalla Cina al Volga.

Il viaggio si protrasse per più di otto anni, per cui solo nel 1269 essi riuscirono a tornare a Venezia. Essendo nel frattempo morta la prima moglie, Nicolò si risposò con Fiordelise Trevisan, dalla quale ebbe Matteo. Tuttavia né lui né il fratello Matteo (che aveva sposato una certa Marta, dalla quale non ebbe figli) sarebbero rimasti a lungo nella loro città: il fascino dell’Oriente costituiva un richiamo fortissimo, e inoltre essi avevano assunto l’impegno di tornare alla corte di Kubilai accompagnati da esperti teologi e con l’olio delle lampade del Santo Sepolcro per farne dono alla madre dell’imperatore, cristiana di rito nestoriano. Kubilai infatti aveva mostrato interesse per la cultura occidentale e ai Polo sembravano dischiudersi suggestive prospettive di stabilire contatti con un mondo pressoché sconosciuto e, quel che più conta, ricchissimo.

Decisero pertanto di ripartire portando con loro il diciassettenne Marco (vissuto, sino ad allora, nella casa avita, dapprima con la madre e successivamente da solo). Aveva così inizio un’avventura straordinaria che avrebbe assunto, e ancor oggi conserva, i tratti della leggenda. 

Marco Polo, il padre e lo zio lasciarono Venezia nella primavera del 1271 alla volta di Acri, in Palestina, dove ottennero udienza dal legato apostolico Tebaldo Visconti, cui esposero le richieste di Kubilai che non avevano potuto inoltrare al papa, in quanto la S. Sede era vacante da tempo. Raggiunta Laiazzo, sul golfo di Alessandretta, i Polo vennero a sapere che nel frattempo proprio Visconti era stato eletto papa; pertanto tornarono ad Acri, dove Gregorio X non solo approvò il progetto, ma affidò loro due suoi inviati con lettere e doni per Kubilai. I veneziani ripartirono dunque per Laiazzo, dove però i due religiosi li abbandonarono, ritenendo troppo pericolosa l’impresa. 

L’attivismo sin lì dimostrato dai Polo appare la necessaria premessa per il grande balzo che si accingevano a compiere verso un mondo praticamente ignoto. Alla loro energia vanno però sommate altre doti: innanzitutto il coraggio, poi il desiderio di conoscere e la disponibilità all’approccio con il diverso, ad allacciare positivi rapporti con etnie, religioni e culture differenti, talora lontanissime da quelle europee e levantine che essi conoscevano. Di questa eccezionale impresa, che si sarebbe protratta per ventiquattro anni, l’unica fonte a disposizione degli studiosi è il Milione, il resoconto lasciato da Marco Polo. Una testimonianza insostituibile e quindi preziosa, ma nella quale – va detto subito – è impossibile distinguere la realtà dalla fantasia, che certo dovette rappresentare una forte tentazione per l’uomo che molti anni dopo, in un carcere genovese, ne avrebbe affidato il racconto alla penna di un compagno di prigionia. 

Lasciata la Cilicia, i Polo iniziarono il lungo cammino ripercorrendo regioni che Nicolò e Matteo avevano già visitato nell’ultimo tratto della loro precedente avventura, inoltrandosi nell’Anatolia. Ovviamente l’itinerario che percorsero non fu il più breve, ma il più sicuro, attraverso strade praticate dai mercanti locali; ecco perché piegarono a sinistra portandosi a Iconio (Konya), già sede di un sultanato turco e allora frequentata soprattutto da mercanti genovesi; di lì giunsero a Cesarea (Kayseri), dove per la prima volta Marco Polo incontrò l’etnia selgiuchida, nomadi semplici e rudi, che diversamente dai cugini ottomani avevano conservato gli antichi costumi. 

Il Milione è avaro di date, così come di riflessioni personali o indicazioni concernenti il padre e lo zio: l’attenzione di Marco Polo è tutta rivolta a descrivere i Paesi e i popoli che incontra, in particolar modo i prodotti e le ricchezze di quelle genti; pertanto è impossibile ricostruire la cronologia del suo itinerario, se non a grandi linee. – 

Fu probabilmente nel 1272 che i veneziani, aggirato il lago di Van, si inoltrarono nelle alte terre della Grande Armenia, sovrastata dal monte Ararat, dove la tradizione biblica diceva essersi posata l’arca di Noè. 

L’interesse di Marco, tuttavia, non guarda al passato, non più di tanto almeno; lo attrae soprattutto il succedersi della realtà che scorre davanti ai suoi occhi: anche se non si dedicherà mai al commercio, il suo spirito è pur sempre quello del mercante. Esemplare, a questo riguardo, la stringata notizia che fornisce riguardo a una sorgente che non lontano da Baku, nell’attuale Azerbaigian, versa un liquido oleoso «in tanta abbondanza che se ne possono caricare cento navi alla volta: olio non usabile come alimento, ma buono per ardere» (Milione, cap. 21 della versione Bertolucci Pizzorusso): è il petrolio, che quelle popolazioni, così come altrove, nei deserti persiani, i pastori nomadi usavano la sera per scaldarsi, e che Polo consegna alla cultura occidentale ricorrendo all’immagine, a essa familiare, delle navi mercantili. Di qui deriva, quale necessario corollario, la sua costante attenzione a descrivere la geografia dei luoghi; di qui, anche, il rilievo dato alla presenza cristiana in terre tanto lontane, nelle diverse forme delle eresie praticate dai nestoriani e dai monofisiti, oppure nei riti siriaci, mandei e armeni. 

A leggere il Milione si rimane colpiti dalla diffusa permanenza di questi nuclei in regioni così remote e circondate da popolazioni islamiche e buddiste, ma non si può escludere che Marco Polo ne abbia enfatizzato la presenza per fornire ai futuri viaggiatori un messaggio rassicurante. 

Da Cesarea la carovaniera volgeva a sud, fino a Erzerum e di lì a Tabriz, in Persia, importante snodo dove confluivano le mercanzie provenienti dall’India, e poi a Qazvin, non lontano dall’attuale Teheran. Erano le terre ov’erano fiorite le civiltà più antiche, dai sumeri agli assiri, ai persiani sino alla straordinaria impresa di Alessandro Magno. Marco, si è detto, non ebbe una cultura storica, ma la sua innata curiosità lo spinse ad ascoltare, e riferire, brandelli dei racconti più o meno fantasiosi che gli vennero narrati, per poi soffermarsi su quella che non era ormai se non l’immagine sbiadita di una grande capitale: Baghdad, in decadenza dopo la conquista mongola del 1258. Eppure per il veneziano essa era ancora una grande e illustre città; una forzatura forse causata dal ricordo di un centro che aveva visto fiorire gli studi di astronomia, negromanzia, geometria e, a un tempo, dalla suggestione delle storie romanzesche contenute nelle Mille e una notte, che fin da piccolo aveva udito nei racconti dei mercanti veneziani reduci dalla Siria. 

I Polo proseguirono il loro cammino nel nord dell’Iran fino a Saveh, scorrendo ai piedi della catena montuosa che separa i deserti persiani dal mar Caspio; percorsero così la vallata dello Shah Rud, sopra la quale si erge l’Alamut, l’impervia rupe dove la leggenda collocava la sede del ‘grande veglio della montagna’. 

Nella trasposizione fornita da Marco, era costui, da quasi due secoli, il capo degli Ismailiti, una delle tante derivazioni scismatiche dell’Islam che aveva dato vita a una setta gerarchicamente organizzata, retta da un capo che otteneva dai suoi affiliati obbedienza assoluta tramite la somministrazione di sostanze stupefacenti. Si trattava dell’hashish, donde il nome di ‘assassini’ con cui i seguaci del ‘veglio’ sono definiti nel Milione

La suggestione di miti e credenze nate in quei luoghi si rinnova a Saveh, dove Marco Polo racconta di aver visto la tomba dei tre Re Magi Melchiorre, Baldassarre e Gasparosecondo una tradizione forse alimentata da una precedente religione, quella di Zarathustra (Zoroastro), che presentava non poche affinità con quella cristiana. 

Il ricordo delle antiche civiltà e la forza dei loro precetti religiosi risultano tuttavia quantomeno sfumati nel comportamento degli attuali abitanti, che il veneziano descrive come crudeli, inclini alla violenza e dediti al taglieggiamento dei mercanti che percorrono le loro terre, eccitati a far ciò, oltre che dalle droghe, dal vino che consumano bollito, pensando in tal modo di aggirare un fondamentale precetto islamico.

I pericoli (della fatica Marco non parla mai) non fermarono comunque il cammino dei Polo, che da Saveh proseguì sino a Kerman e di lì a Bam, oasi suggestiva e bellissima isolata nel deserto. Allora i veneziani piegarono a sud; il motivo di questa diversione da un itinerario che in linea retta li avrebbe portati verso la Cina, sta nella scelta di raggiungere Hormuz, il porto sull’oceano Indiano fra il golfo Persico e quello di Oman, onde continuare il viaggio per mare. Qui però trovarono un clima infernale, con temperature che toccavano i 50 gradi e un vento fortissimo da cui le donne si riparavano ponendosi sul viso una maschera di cuoio rigida e dal naso allungato sino a coprire la bocca, assai simile alla bauta così diffusa a Venezia nei secoli successivi; soprattutto però fu la cattiva condizione delle navi a scoraggiarli. Inoltre qui appresero che i porti della Cina non erano sotto il controllo di Kubilai, per cui decisero di riprendere l’itinerario terrestre. Dopo quasi un mese, accodandosi probabilmente a qualche carovana di mercanti, erano di nuovo a Kerman; proseguendo in direzione nord-est entrarono nell’Afghanistan, piegando poi più decisamente a nord fino a Sheberghan, non lontano dal Turkmenistan e dall’Uzbekistan, dove i tre viaggiatori ebbero modo di ritemprarsi gustando i meloni più buoni del mondo, come annota Marco. Quindi toccarono quella che oggi conosciamo come Mazar-i-Sharif, dove si trova il ricostruito mausoleo del califfo Alì, del quale però Marco Polo non fa parola, essendo stato distrutto qualche decennio prima da Gengis Khan. Erano giunti ormai nelle terre alte dell’Asia, segnate da catene montuose disposte in senso orizzontale, il che rendeva il percorso ancora più impegnativo; quelle montagne si susseguivano ininterrotte, digradando dal tetto del mondo, i massicci del Karakorum e, più a est, dell’Himalaya. Dopo aver raggiunto Balkh, l’antica Battriana dove Alessandro aveva sposato Rossane, che allora non conservava altro se non le vestigia diroccate della prospera città distrutta dai mongoli di Gengis Khan mezzo secolo prima, i veneziani si inoltrarono ancora a nord, fino a Samarcanda. 

Vi giunsero dopo un lungo cammino in lande poverissime, dominate da un pronipote di Gengis Khan, Khaidu, che alimentava la guerriglia contro i mongoli di Kubilai, il cui impero era minato dalle spinte centripete di vari regni formalmente vassalli, ma riottosi a riconoscere l’effettiva autorità del governo centrale. Fu questo, da allora e per molto tempo, il principale pericolo che rese insicuro il viaggio dei veneziani e che venne a sommarsi con le abituali fatiche del percorso. Da Samarcanda si apriva però, per buona sorte dei Polo, la fertile valle dell’Amu-Darja, al termine della quale si inoltrarono nel Badakhstan, regione di cui Marco elogia l’aria purissima, l’abbondanza di carni e frutta, il carattere socievole degli abitanti. L’attenta descrizione, ricca di dettagli, che egli lascia di quei luoghi si deve al fatto che i tre viaggiatori vi sostarono per un anno intero, a causa di una non precisata malattia del giovane Polo. 

Estremamente parco di notizie riguardanti sé stesso, il padre e lo zio, egli non fornisce dettagli sul male che lo colpì; è probabile che si trattasse di febbri dovute agli strapazzi della spossante attraversata dei deserti persiani e delle montagne afghane; neppure si sa in quale arco cronologico collocare la lunga sosta forzata, forse nel 1273 o 1274, poiché il Milione riporta pochissime date e senza ordine progressivo, sicché non resta che ricavarle approssimativamente dal contesto generale del viaggio. 

L’itinerario compiuto dai veneziani è incerto, dopo che essi ebbero lasciato alle loro spalle i luoghi che avevano percorso i macedoni di Alessandro, poiché le denominazioni geografiche attuali sono ben diverse da quelle che si trovano nel Milione; è probabile peraltro che i Polo siano passati attraverso il Turkestan cinese e poi l’altopiano del Pamir, a nord del Karakorum; quindi la terribile attraversata del deserto di Gobi, che richiese varie settimane, dopo di che giunsero finalmente nei domini del Gran Khan, presso la catena degli Altai, dove venivano seppelliti i sovrani mongoli. Toccata Xining, i viaggiatori erano arrivati alle propaggini della Grande Muraglia, cui però Marco Polo non dedica una sola parola. 

Questo silenzio potrebbe apparire sconcertante ai nostri occhi, se non tenessimo presente che, sino all’avvento al potere dei Ming (1368), non esisteva un’unica struttura del futuro complesso architettonico, ma solo alcune linee fortificate di modeste dimensioni. Si aggiunga a ciò la scarsa sensibilità del veneziano per i monumenti e le vestigia del passato, eccettuate quelle legate al mondo classico o alla tradizione religiosa cristiana e musulmana. 

I Polo arrivarono alla corte di Kubilai, nella sua residenza estiva di Shangdu (la Ciandu del Milione), a nord di Pechino (Cambaluc), nel maggio o giugno 1275, dopo un viaggio durato tre anni e mezzo.

I due fratelli gli consegnarono le lettere pontificie e l’olio santo per la madre, scusandosi per non aver potuto presentargli i sacerdoti e i teologi richiesti. Il Gran Khan rivide volentieri i veneziani; era nel pieno della maturità e Marco poteva avere allora ventun anni; quel giovanotto entrò presto nelle simpatie dell’imperatore, che ebbe modo di ammirarne la predisposizione per le lingue e l’abilità nel trattare con le persone. Pertanto Kubilai gli affidò qualche incarico, dapprima di scarsa importanza, poi di sempre maggior rilievo, quale fu la missione nello Yunnan, non lontano dall’Indocina, attorno al 1277; il ritorno avvenne attraverso lo Shan-si, di cui Marco loda l’ottimo vino, dono del Fiume Giallo. 

La regione non distava molto dalla costa del Mar della Cina, e infatti egli riporta notizie sulla grande isola che sorgeva oltre quel mare; è Cipangu, il Giappone invano ambito da Kubilai, che per due volte ne tentò l’invasione. Il lungo itinerario di Marco Polo nella via del ritorno lo portò a lasciare il bacino del Fiume Giallo per giungere in quello del Fiume Azzurro (Yang-tse-kiang); per far ciò dovette superare le catene montuose disposte parallelamente che segnano il paesaggio cinese, condizionandone in parte la storia: ogni vallata, infatti, porta al mare e per passare dall’una all’altra è necessario valicare dei monti, sicché ognuna si presenta come una realtà diversa e autonoma. Questo percorso richiese parecchio tempo, e questo diede modo a Marco di descrivere, indulgendo a una salace digressione, il singolare comportamento degli abitanti, soliti offrire le loro donne al forestiero, convinti di ingraziarsi in tal modo gli dei. Ancora, il Milione offre una quantità di notizie, sulle pagliuzze d’oro presenti nei fiumi, sui prodotti della terra e dell’allevamento, sulle monete, talune delle quali stampate su pani di sale. 

Probabilmente era il 1280 quando Marco poté far ritorno a Pechino e riferire a Kubilai le informazioni che attendeva sui Paesi di recente sottomessi, ossia quello che sino allora era stato l’impero Sung.

Il veneziano sapeva ben poco della Cina e poteva avere venticinque anni: vien da chiedersi allora come abbia potuto conquistarsi la stima e la fiducia di Kubilai. Poiché il Milione non fornisce spiegazioni, si può supporre che l’imperatore abbia voluto attingere a una fonte diversa da quelle abituali, onde avere un quadro più completo del suo regno; a questo proposito va inoltre osservato che gli incarichi appoggiati a Marco Polo riguardavano soprattutto l’economia piuttosto che la politica: o meglio, l’economia e il fisco, ossia i dazi, le risorse naturali o indotte, con particolare attenzione al monopolio del sale, un settore commerciale che – non si dimentichi – aveva fatto, e faceva, la fortuna di Venezia; e qui egli poteva valersi dell’esperienza del padre e dello zio. 

Ancora, per comprendere meglio l’interesse di Kubilai a raccogliere informazioni sul settore meridionale dei suoi domini, non ben consolidati, occorre tener presente il contesto: nell’aprile 1279 era morto l’ultimo imperatore cinese della dinastia Sung, che regnava sul Paese detto Mangi (a sud del Catai), per cui non vi erano più ostacoli all’affermarsi del potere mongolo; l’anno seguente (1280) Kubilai tentava nuovamente, invano, di invadere il Giappone; infine nel 1281-82 scoppiavano dei tumulti nella stessa Pechino. 

Negli anni successivi la pressione mongola si esercitò soprattutto in Cambogia e nel Vietnam, e probabilmente nel 1284 Marco Polo venne aggregato a un’ambasceria inviata nell’isola di Ceylon, famosa per le gemme che in essa si trovavano, in particolar modo le perle; in seguito (probabilmente nel 1285 e 1288) il veneziano fu in Indocina, su cui, come pure nella vicina Birmania, si appuntavano le mire di Kubilai; fu anche per tre anni governatore della città di Jangiu (oggi Yang Zhou), ultima roccaforte Sung, che i Polo avevano contribuito a conquistare nel 1283 (Milione, cap. 142 nella versione Bertolucci Pizzorusso); egli però non precisa in quale periodo ricoprì tale carica, mentre lascia largo spazio alle continue guerre e rivolte che rendevano instabile l’impero. 

Frammezzo a queste vicende i Polo avevano trovato modo di arricchirsi, e molto a detta di Marco; inoltre Kubilai era ormai vecchio (era nato nel 1215), per cui la sua eventuale morte avrebbe reso difficile il ritorno in patria dei veneziani, una volta privi del lasciapassare imperiale. La loro permanenza in Cina durava ormai da diciassette anni: l’occasione per rimpatriare si presentò nel 1290, quando in Persia l’ilkhan (il re mongolo, vassallo dell’impero) Arghun, che era rimasto vedovo, chiese al cugino Kubilai di fornirgli una moglie; si trattava di rinsaldare un’alleanza politica e la scelta dell’imperatore cadde su una bellissima diciassettenne, la Cocacin del Milione. Poiché il lungo viaggio doveva svolgersi per mare, i Polo ottennero di aggregarsi all’ambasceria nuziale, tanto più che Marco era appena tornato da una missione in India, pertanto doveva conoscere il porto più adatto dove imbarcarsi alla volta di Hormuz. 

La spedizione partì dall’attuale Quan Zhou quasi certamente all’inizio del 1292; tre mesi dopo le quattordici grandi giunche che accompagnavano la principessa toccarono le isole della Sonda e poi Sumatra. I veneziani erano muniti delle tavole d’oro che imponevano ai sudditi di Kubilai di prestare aiuto a chi le esibisse; inoltre l’imperatore aveva affidato loro lettere per i principali monarchi cristiani e, soprattutto, per il papa. Ciononostante il viaggio di ritorno si sarebbe rivelato tormentato, protraendosi per più di tre anni. 

A Sumatra, anzitutto, la spedizione fu costretta a fermarsi sei mesi, a causa dei monsoni; poi fece rotta per Ceylon, quindi toccò la costa del Malabar, nell’India occidentale e infine Hormuz, probabilmente alla fine del 1293. La scorta della principessa che giungeva nello scalo persiano era però poca cosa rispetto all’imponente convoglio che aveva lasciato Quan Zhou; come non bastasse, a Hormuz i veneziani trovarono cattive notizie: Arghun era morto e la successione al trono si presentava difficile, tanto più che era morto anche Kubilai: la principessa Cocacin finì pertanto per andare sposa al figlio maggiore di Arghun, Gaikhatu. 

A questo punto la missione dei veneziani poteva dirsi conclusa ed essi ripresero il cammino percorrendo in parte l’itinerario dell’andata; da Hormuz si portarono a Tabriz, quindi, attraverso l’Armenia e la Georgia, giunsero a Trebisonda, capitale dell’impero greco dei Comneno ed emporio ben frequentato dai mercanti italiani.

Benché il Milione non faccia parola sul deplorevole evento, è noto dal testamento di Matteo (1310) che buona parte delle ricchezze dei Polo finì nelle mani dei funzionari di Giovanni II Comneno; dopo di che i veneziani ebbero il permesso di imbarcarsi alla volta di Venezia, via Costantinopoli e Negroponte. 

Rividero la loro città nel 1295, dopo ventiquattro anni di assenza.

Sul rientro, sulle accoglienze che i familiari e i compatrioti riservarono loro si è molto esercitata la fantasia degli storici; quel che è certo, è che i Polo si servirono delle superstiti ricchezze per acquistare una grande casa a S. Giovanni Grisostomo, non lontano da Rialto, ancor oggi in parte visibile in quella che si chiama Corte del Milion. 

Furono anni intensi, e non sempre facili, quelli che seguirono il loro arrivo a Venezia: nel 1294 era scoppiata la seconda guerra con Genova, nel 1297-98 ci fu la serrata del Maggior Consiglio; l’8 settembre 1298 la squadra di Lamba Doria inflisse una dura sconfitta ai veneziani, nelle acque di Curzola, e fra i prigionieri che furono condotti a Genova ci fu anche Marco Polo.

È probabile che questi fosse imbarcato come sopracomito (comandante) in una galera forse armata dagli stessi Polo, il che spiegherebbe perché la prigionia del veneziano non risultasse troppo severa; fu anche breve, visto che i prigionieri vennero rimessi in libertà il 28 agosto 1299. 

La tradizione vuole che in carcere Marco dettasse a un compagno di prigionia, Rustichello da Pisa, i ricordi della sua impresa (sembra certo trattarsi di ricordi, benché non siano mancati studiosi, cfr. la Bibliografia sotto riportata, che hanno posto in dubbio il fatto che Marco si sia recato davvero in Estremo Oriente, data l’assenza del suo nome fra gli annali della dinastia Yuan e nella stessa letteratura cinese). Rustichello non era un grande scrittore, si dedicava soprattutto al rifacimento di romanzi cavallereschi in lingua d’oïl, donde i titoli con i quali venne inizialmente conosciuto il MilioneLe devisement du monde e Le livre des merveilles.

Su quest’opera, che conobbe subito una straordinaria fortuna soprattutto presso i mercanti, i viaggiatori, i geografi (ma non solo: nel 1307 Thibauld de Cepoy, inviato di Carlo di Valois, figlio del re di Francia, ricevette in dono a Venezia – pare dallo stesso Marco – una copia del Milione), la bibliografia è a dir poco nutrita, anche perché i centoquaranta codici che riportano l’opera presentano varianti notevolmente difformi, non di rado inclini a innovare, potenziando quegli elementi fantastici che facilmente potevano far presa sul lettore. Ma anche a voler far la tara a immotivate digressioni, non si dimentichi che Marco Polo fu il primo europeo a percorrere in tutta la sua estensione il continente asiatico, per cui molti importanti mappamondi riportano i dati da lui narrati, a cominciare da quelli veneziani, e conservati presso la Biblioteca nazionale Marciana, di Andrea Bianco (1436) e di fra Mauro (1459), che seguono fedelmente gli itinerari e la toponomastica dei Polo, per giungere un secolo dopo alle grandi mappe presenti nella sala dello Scudo del Palazzo ducale di Venezia, disegnate da Giacomo Gastaldi dietro i suggerimenti di Giovan Battista Ramusio. Pertanto il Milione, con la descrizione delle favolose ricchezze dell’Oriente, colpì l’immaginario collettivo delle popolazioni europee e mediterranee e fu alla base della politica di esplorazioni attuata dai portoghesi nei secoli XV e XVI, per divenire poi libro di curiosità e svago, piuttosto che guida geografica, dopo la scoperta dell’America, che rappresentò un’alternativa nuova, e vincente, rispetto a quella che per secoli era stata la ‘via della seta’. 

Quanto alla natura del libro, v’è chi ha ragionevolmente ipotizzato (Borlandi, valendosi della versione di Luigi Foscolo Benedetto) che Marco intendesse scrivere un manuale a uso dei mercanti, visto che solo i primi diciotto capitoletti dell’opera (per un totale di una decina di pagine) raccontano, per sommi capi, i viaggi dei Polo del 1261-69 e del 1271-95, mentre i restanti 216 capitoli descrivono i Paesi, i regni, le civiltà con le quali i veneziani vennero a contatto o delle quali ebbero notizia. Ancora, ben 109 dei 234 capitoletti complessivi seguono uno schema che ricalca da vicino la struttura dei testi di mercatura, badando soprattutto a indicare le distanze dei luoghi, le notizie etnografiche, le condizioni di sicurezza, la tipologia dei prodotti, il loro valore, la provenienza: il resto, ossia l’elemento fantasioso, i particolari sulla vita di Kubilai e della sua corte, sarebbe frutto della penna di Rustichello. Quanto al titolo Milione, sembrerebbe assodato trattarsi di un soprannome della famiglia, preesistente al libro; forse una corruzione da Vilione, cognome attestato in vari documenti coevi. 

Se poco o nulla è noto di Marco Polo prima del viaggio in Oriente, qualche notizia in più riguarda gli ultimi anni trascorsi a Venezia. Sicuramente non entrò a far parte del patriziato: una grazia ottenuta nel 1302 per mancato adempimento fiscale lo definisce providus vir, titolo che si dava ai mercanti che godevano di buona reputazione, e infatti non ebbe cariche politiche. 

Fra i tre protagonisti dell’impresa, il solo Matteo prese parte, sia pure in piccola misura, alla vita pubblica della sua città: il primo ottobre 1296 egli venne eletto fra i membri del Maggior Consiglio per il sestiere di Cannaregio (Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I, a cura di R. Cessi, Bologna 1950, p. 360): non si era ancora verificata la cosiddetta ‘serrata’ del massimo organo costituzionale veneziano, che si sarebbe avuta poco più di un anno dopo, per cui tale elezione avrebbe potuto costituire il presupposto per un inserimento della famiglia Polo nei ranghi del patriziato, cosa che però non avvenne a causa della mancanza di figli maschi; né si ha notizia di ulteriori cariche pubbliche di Matteo. 

Nel 1300, ormai quarantacinquenne, Marco contrasse matrimonio con la nobildonna Donata Badoer di Vitale, del ramo a S. Paternian, che gli portò in dote alcuni stabili nella vicina contrada di S. Salvador.

Dalla moglie ebbe solo femmine, tutte sposate a dei patrizi: Fantina a Marco Bragadin, Bellela a Bertuccio Querini, Moreta a Ranuccio Dolfin e in secondi voti a Tommaso Gradenigo. Diversamente dal padre e dallo zio (che nonostante l’età non più giovanissima e l’agiatezza verosimilmente conseguita, all’inizio del 1300 erano a Creta, dove con distinte operazioni e con soci diversi noleggiavano tre galere per commerciare a Cipro e nei porti siriaci), Marco Polo non esercitò direttamente la mercatura, limitandosi a finanziare talune iniziative dei familiari, quali il fratellastro Matteo e i due fratelli naturali Giovanni e Stefano. Nicolò li aveva avuti da una donna di nome Maria e vissero con lui in famiglia assieme ai figli legittimi, come Matteo ricorda nel testamento dettato il 31 agosto 1300, quando stava per recarsi a Creta probabilmente per continuare l’attività paterna. Abbastanza numerosi, infine, sono i dati concernenti la casa acquistata dai Polo a S. Giovanni Grisostomo, di cui Marco possedeva la parte rivolta verso S. Cancian per 10 carati su un complesso di 24; le notizie in proposito si desumono da una serie di liti che seguirono la sua morte. 

Qui egli morì l’8 gennaio 1324, all’età di settant’anni; nel testamento, redatto quando non mancavano che poche ore alla fine, nominò commissari la moglie e le figlie, dispose di molti lasciti pii, liberò lo schiavo tartaro Pietro, lasciò eredi le figlie e dispose di essere sepolto nel monastero di S. Lorenzo. La tomba e i suoi resti, che furono posti nella cappella di S. Sebastiano, andarono distrutti in età napoleonica.

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