UN’ESTATE A NUORO

Racconto breve

Nuoro è una città dormiente, come i suoi abitanti, specialmente l’estate, quando …
la maggior parte della gente va al mare, sul litorale orientale. 

Chi resta, al solleone, serra i battenti e si chiude in casa.
Le vie del Corso, fino alla Solitudine, vedono correre, qua e là, solo gatti e cani randagi.

Nei pomeriggi, solo qualche anima percorre le strade deserte…

Ecco levarsi allora un vento caldo, lo Scirocco.

D’inverno è il vento freddo a levarsi: il Maestrale.

La Sardegna non è tutta uguale.

Io che l’ho visitata tutta, vivendoci per vent’anni, so bene che la Sardegna,
quella vera è, per me, solo la Barbagia.

Avrò avuto quindici o sedici anni, in questo racconto…

Le tre del pomeriggio e tanto desiderio di andare, sola, per le vie della cittadina.

Da casa mia fino alla Solitudine, a piedi, erano venti minuti di
buona camminata. Faceva sì caldo, ma non era afoso.. Io-ricordo- studiavo al ginnasio. Sarà stato luglio…non ricordo bene, ma tanto tutte le estati sono uguali a Nuoro.

Ricordo bene ogni cosa: il viale alberato, la Via Lamarmora, la Chiesa delle Grazie, il Corso Giuseppe Garibaldi, la stradina in salita fino alla Cattedrale, al bivio.
Poi iniziava lo stradone verso la Solitudine, verso la sinistra del bivio.

A destra il dirupo con un suo avvallamento brullo e si vedeva in lontananza
la strada provinciale che porta ad Oliena.

A metà della grande balaustra che dà sullo strapiombo, c’è una Madonnina con le mani giunte, ma le mani non ci sono. Qualche malnato, ogni volta che dal Comune mandano un artigiano a rifarle in gesso bianco, immancabilmente gliele àmputa.

Strano prendersela con la statua -penso-. Quel codardo non è di qua. Mi affaccio alla balaustra e vi è solo il dirupo. Se dovessi cadere, nessuno vedrebbe.

Continuo quindi fino alla Chiesetta della Solitudine. E’ chiusa. Mi spiace. Vado spesso lì a pregare e a visitare la tomba di Grazia Deledda. Poi ci sono sulle scalette dei fiori piantati, anche se sono selvatici e ne colgo uno. Appassisce subito. Penso alla vita. Anche la vita dura quanto un fiore. Lo dice la Bibbia.

Sono già le quattro e mezza. A casa i nonni dormiranno ancora e io non ho da chi andare. 

Sono venuta qui, come faccio spesso. D’inverno mi è più difficile, perché fa notte presto e non è bene che una ragazza vada sola la sera. Ma io non temo. Primo perché so che uno zio sempre mi controlla e due perché sono una ragazza forte. 

(seconda parte)

Si sentono le cicale cantare anche se non è notte.

Se guardo verso la mia sinistra c’è la strada che porta a Val Verde e se guardo davanti a me, la strada che porta al Redentore, al Monte Ortobene.

Non mi avventuro. Però mi piacerebbe andare a Val Verde.

Se però scendo verso la strada, potrei incontrare qualche mal intenzionato. La prudenza mi dice di non andare e allora resto seduta sul grande blocco di granito grigio striato e poi mi alzo e vado verso la strada che porta al Cimitero.

Non volevo andarci, nemmeno entrarci e così proseguo.

Mi ritrovo in una collina dalla quale si vede il panorama. Vorrei avere le ali per librarmi come un’aquila e spiccare il volo. Chiudo gli occhi, tanto non c’è nessuno in strada e apro le braccia come fosse un aliante. Mi immagino di salire in cielo, toccare le nubi, vedere dall’alto gli orti, le montagne brulle, le case basse dei quartieri antichi. Una ziedda, vestita di nero, come è tipico qui da noi in Sardegna, passa sgranando un rosario.

Sono le cinque e un quarto. Nonna starà in pensiero. Penserà che sia andata dall’amica Marianna, nell’edicola vicino casa, ma a quest’ora del pomeriggio, non apre.

Vado giù per la discesa che porta al Comune e vicino c’è il mio Liceo. Regio Ginnasio-Liceo G.Asproni. Bello, imponente, chiuso dentro le grate. Siamo tutti un po’ liberi e un po’ prigionieri, penso.

Una via in discesa mi riporta verso la Chiesa delle Grazie.

Preferisco prendere invece un’altra strada, quella che faccio ogni giorno da casa a scuola e da scuola a casa.

Percorro i miei passi, sento il pavimento caldo e il vento caldo. Sono quasi arrivata giù da un’altra discesa che mi porta a Via Lamarmora.

Lì c’è già qualche bar aperto ma non ho con me monete per un gelato.

Bevo dalla fontanella e mi lavo la faccia.

Mi sento una beduina nel deserto. Arsura. Calore. Io e il caldo non siamo amici.

Poi penso che a casa mi aspetta un po’ d’ombra. Ma in realtà non voglio tornare a casa. Dormono. Li sveglierei. 

La solitudine ce l’ho nell’anima, io.

Mi devo abituare, dico a me stessa: a non dipendere da nessuno, da nulla. A sedici anni sogno solo la poesia e la letteratura. Vorrei tanto diventare come Grazia. Sì, Graziedda.

Sarà vero? Forse sì, forse no. Però mi fa compagnia dentro di me, e mi sento bene se dico a Graziedda che anche oggi sono andata alla Solitudine a trovarla.

Un giorno si potrà forse anche volare. Un giorno si potrà rivedere le persone defunte. Penso a mio padre, ai miei antenati, alle storie raccontate da nonna e anche a quelle che studio a scuola. Penso a Ulisse, a Penelope, a Itaca. Per me Itaca è la Sardegna. La casa, il focolare.

Un giorno si rivedrà ciò che si è visto da bambini, si rivedrà la terra e il cielo che ti hanno visto crescere.

Ritorno verso il Viale dove da bambina andavo in bicicletta accompagnata da mio nonno.

Arrivo all’edicola e lì c’è la mia amica Marianna che mi dice:

“Hai l’aria di una venuta da un lungo cammino!”

Non le rispondo e mi fa entrare dentro. Mi siedo e mi fa un ritratto. Io sono la sua modella.

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