IL NATALE DELLA MIA INFANZIA

Via Santa Barbara, 61: la casa della mia infanzia. Un appartamento di sette vani, per militari. Sobria, fredda, senza riscaldamenti. Mura spesse, finestre che davano su un viale alberato. Dalla mia camera vedevo la caserma. Quella dei pompieri. Nessuna differenza tra la caserma di mio nonno e quella. I cartelli visibili dicevano solo una cosa: “Divieto di accesso”. Dall’altro lato della cucina, un cortile freddo e senza altro che cemento. Grigio. I bambini dei militari, tra cui io, unica femmina tra maschi più piccoli, giocavamo ad acchiapparella o alla guerra. Le mamme e le nonne apparivano alla finestra delle case solo per urlare: “A casa. E’ pronto il pranzo. E’ pronta la cena”. D’inverno si rincasava presto, tenuto conto che alle cinque già era scuro. A casa si stava a studiare nella camera e quando era ora si andava a cena.

A Natale però era già diverso. Fuori le luminarie brillavano. Nel viale passavano le vetture dei militari e pochi altri. Per andare a passeggiare si poteva fino alla fine del viale e viceversa. Era la regola. Mio nonno rincasava alle sette della sera e lo sentivo che metteva nella toppa la chiave di casa. Allora si poteva uscire allo scoperto, andargli incontro. Per il resto silenzio. L’otto di dicembre avevo l’autorizzazione di fare il presepe in salotto e l’albero di Natale. Potevo scrivere in una lettera i desideri: “Caro Gesù Bambino, mi piacerebbe avere….una penna, un diario, i colori e i libri che mi hai promesso. Non mi portare bambole perchè le ho e non mi piacciono, perchè sono già grande e poi se le rompo vengo punita. Portami se puoi anche gli stivaletti, perchè c’è freddo per andare a scuola” …Poi, puntualmente arrivavano i regali il quindici di dicembre ma non si potevano aprire… stavo seduta sul tappeto a guardarli e a pensare se davvero Gesù Bambino portasse i regali indicati. Poi sì, ne portava altri oppure cose nuove e inaspettate.

Lo zio metteva la musica di Chopin in sottofondo, mentre studiavo e così faccio ancora per ricordare quegli eventi.

Poi i nonni uscivano e andavano a fare spese. Io rimanevo con lo zio che stava a preparare i suoi studi di matematica e di tecnologia, per essere ammesso a Ivrea all’Olivetti. Così fu. L’inverno del 1979 andò a lavorare lassù. Rimasi sola con i nonni. Contavo i giorni per l’arrivo della mia mamma e della mia zia. Lavoravano, ci sentivamo la domenica al telefono. Pensavo a come fosse bello averle a casa dei nonni e come fosse desiderabile che Natale durasse per sempre.

L’ atmosfera natalizia era diversa. La sera si stava davanti all’albero a parlare. Erano discorsi di famiglia, erano ricordi di mio nonno. Mia nonna, da buona sarda, ascoltava. Io facevo domande e poi sapevo già le risposte.

A scuola la maestra era severa. Maestra Ermenegilda era fascista e non amava i fronzoli. Diceva che non è normale che si esca con i fronzoli. La gente seria non li usa.

Siccome era la Maestra io le davo ragione e le do ragione ora perchè mi pare che gli addobbi siano utili solo a Natale.

La sobrietà e la ferrea disciplina non erano delle apparenze e chi non cresce così, come eravamo io ed i miei compagni di scuola, non può capire cosa significhi. Era uno stile di vita significativo.

Natale era il momento però dell’amore. Sentivo che quel Bambino che tutti noi aspettavamo era il Messia, era il Nostro Signore. Eravamo bambini essenziali.

Poi la Maestra Ermenegilda si commuoveva solo a Natale e …anche noi.

Il ventiquattro dicembre quando stava per arrivare il taxi che conduceva mia mamma e mia zia, stavo alla finestra che dava sul viale. Ecco il taxi giallo che arrivava. Il mio cuore a mille. Poi l’emozione sobria che accompagnava i loro passi verso la porta d’ingresso.

Mia madre era una donna bellissima: bionda, occhi azzurri, un’attrice. Lavorava per un grande regista di teatro. Mia zia era bruna, occhi verdi. Due bellezze e due caratteri diversi. Mia madre prendeva la scena.

I bambini del piazzale venivano a vederla, intimoriti. Io la lodavo come se fosse una dea.

La notte di Natale si andava in parrocchia e poi all’una e trenta, potevo aprire i regali.

Baci, abbracci e canti. Alle due e mezza a nanna. Abbracciavo i miei cari e sotto le coperte. I sogni erano quelli di un Gesù Bambino della mia età che mi diceva: “Brava S., hai meritato i doni e anche più. Ora dormi serena.”

Il mio Natale non lo cambierei per nulla al mondo. Ora che la mia famiglia è quasi tutta in Paradiso, sogno sempre un Natale così.

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