Liliana Cavani:
Regista cinematografica, televisiva e teatrale, nata a Carpi (Modena) il 12 gennaio 1937. Autrice nota soprattutto per il suo primo film Francesco di Assisi (1966), e per Il portiere di notte (1974), dove ha affrontato il tema del nazismo osservato secondo un’ottica psicanalitica, per esplorare gli abissi della storia e della psiche umana.
Laureata in lettere antiche all’Università di Bologna, diplomata al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, nel 1962 fu assunta in RAI come regista nel secondo canale, dove realizzò programmi dalle tematiche forti e coinvolgenti, fra i quali Storia del Terzo Reich (1962), L’età di Stalin (1963), La casa in Italia (1964), Philippe Pétain, col quale ottenne il Leone d’oro nella sezione documentari della Mostra del cinema di Venezia nel 1965 e, nello stesso anno, La donna nella Resistenza e Gesù mio fratello. Seguono Galileo (1968) e I cannibali (1970), con al centro la figura greca di Antigone, sul potere e la rivoluzione. Dopo l’insuccesso commerciale di quest’ultimo film, la regista tornò a lavorare per la RAI, realizzando L’ospite (1972), sul tema della sofferenza psichica, e specialmente Milarepa (1974), film sull’illuminazione del sé, secondo una visione orientale della salvezza contrapposta alla visione capitalistica.
Seguì poi Il portiere di notte, un’idea maturata sin dal periodo dei programmi televisivi sul Terzo Reich, che rappresentò il grande successo della C. presso il pubblico e la critica, divisa comunque sul giudizio. Il rapporto sadomasochista tra Max e Lucia, un torturatore delle SS e una prigioniera ebrea, vissuto nuovamente dodici anni dopo la fine della guerra, fa affiorare il nucleo tematico dominante del cinema della C., cioè un’analisi del potere che conduce direttamente all’ambiguità insita nella natura umana.
In questa direzione sono confluite anche le opere successive: Al di là del bene e del male (1977); La pelle (1981), tratto dal romanzo di C. Malaparte; Oltre la porta (1982); Interno berlinese (1985), tratto da un romanzo dello scrittore giapponese Tanizaki Jun’ichirō; Francesco (1989), in cui Mickey Rourke cerca di rinnovare l’interpretazione che aveva offerto Lou Castel nel precedente Francesco di Assisi; Dove siete? Io sono qui (1993), dedicato al mondo dei sordi. La C. si è dedicata anche alla regia di opere liriche, di cui spesso ha curato la messa in onda televisiva (La traviata, 1992; Cavalleria rusticana, 1996; Manon Lescaut, 1999; Un ballo in maschera, 2001).
Il portiere di notte -ovvero- I FANTASMI DEL PASSATO
(Italia 1974, colore, 115m); regia: Liliana Cavani; produzione: Robert Gordon Edwards per Lotar; soggetto: Barbara Alberti, Amedeo Pagani, Liliana Cavani; sceneggiatura: Liliana Cavani, Italo Moscati; fotografia: Alfio Contini;montaggio: Franco Arcalli; scenografia: Nedo Azzini, Jean-Marie Simon; costumi: Piero Tosi; musica: Danièle Paris.
Interpreti e personaggi: Dirk Bogarde (Max), Charlotte Rampling (Lucia), Philippe Leroy (Klaus), Gabriele Ferzetti (Hans), Nora Ricci (frau Holler), Isa Miranda (contessa Erika Stein), Giuseppe Addobbati (Stumm), Amedeo Amodio (Bert), Marino Masé (Atherton, marito di Lucia), Ugo Cardea (Mario), Nino Bignamini (Adolph), Piero Mazzinghi (portiere di giorno), Geoffrey Copleston (Kurt), Manfred Freyberger (Dobson).
Trama e contenuto – Vienna, 1957. Dietro il bancone dell’Hotel der Oper c’è il portiere Max: silenzioso, elegante, servile come il ruolo richiede e pronto anche a soddisfare le esigenze più insolite degli ospiti. Mentre un gruppo di clienti affolla la hall dell’albergo, il suo sguardo incrocia quello di un’affascinante signora. I due si riconoscono, e un primo flashback ci tuffa nel passato di un lager dove Max l’aguzzino sceglie Lucia, ebrea all’epoca ragazzina, come vittima di un gioco erotico al massacro. Poco alla volta lo spettatore capisce che il lavoro di portiere era una copertura ed era stato procurato a Max da un’associazione di ex nazisti che si occupa di ‘ripulire’ l’identità dei carnefici di un tempo, per ridare loro una facciata di rispettabilità sociale. Max è turbato dal ritorno di quel fantasma del suo passato, così come Lucia è spaventata ma al tempo stesso nuovamente attratta verso l’uomo che l’aveva assoggettata in tutti i sensi. Il marito di Lucia, direttore d’orchestra, lascia Vienna; lei, con una scusa, sceglie di rimanere. La storia tra Lucia e Max rinasce violentemente, sotto gli occhi sempre più preoccupati degli ex nazisti che vedono nella donna un testimone oculare pericoloso e ne esigono l’eliminazione. Max, per proteggerla, lascia l’albergo e si chiude con lei nel proprio appartamento, dove di nuovo prende forma l’antico rapporto vittima-carnefice. L’appartamento diventa una trappola quando i membri dell’associazione li individuano e li isolano. Ormai stremati e affamati, in una livida alba, Max e Lucia indossano nuovamente i panni di un tempo e si incamminano nella città, dove, al ponte sul Danubio, li attende l’inevitabile ‘plotone d’esecuzione’.
Siamo nell’anno 1957, che in qualche modo risente ancora della guerra. Quella messa in scena del Portiere di notte è una terra di nessuno (anche se tutto accade a Vienna e la scritta in sovrimpressione ce lo comunica con certezza), una sorta di purgatorio dove si muovono fantasmi evocati dal buio degli anni del nazismo. Anime in pena, siano esse ‘buone’ o ‘cattive’, in cerca di redenzione o di fuga verso un forse impossibile altrove. Il più grande successo commerciale e mediatico di Liliana Cavani, il film che più di ogni altro influirà sulla carriera della regista emiliana, e in qualche modo sembrerà condizionarla negli anni a venire e nelle opere successive, è questo: un’analisi più interiore che esteriore, non tanto del fenomeno storico, che è stato il nazismo, quanto del ‘nazista che è in noi’, – e qui sta lo scandalo forse inaccettabile ma vero!-dove il termine nazismo si dilata fino a coincidere con un allargato concetto di male.
Accompagnato dallo scandalo d’epoca, Il portiere di notte compie un lungo viaggio dentro la notte della psiche umana, dove i concetti definitivi che piacciono ai manichei, vengono infranti con violenza, dove le linee di confine si confondono e le catalogazioni risultano impossibili. L’ex nazista Max, ora portiere di notte in un decadente albergo (riconoscibile, già nell’atmosfera e nel décor, la traccia viscontiana), e Lucia, sofisticata moglie di un direttore d’orchestra ma un tempo vittima bambina di Max in un campo di concentramento, sono destinati (dalla Storia e da questa storia) a incontrarsi ancora.
Lui, in divisa con la croce uncinata, l’aveva filmata e studiata, poi violentata. Lei aveva subito come un agnello sacrificale. Ma la spirale vittima-carnefice era stata sconvolta e interrotta da un evento imprevisto e imprevedibile come l’amore. Poi le macerie della caduta del Reich, la caotica rinascita, fino al nuovo incontro nei nuovi ruoli d’una normalità (e d’una diversa gerarchia) borghese. In anni successivi gli psicologi avrebbero definito ‘sindrome di Stoccolma’ (da un caso di cronaca nera accaduto proprio nella capitale svedese) il rapporto morboso che può venirsi a creare fra i sequestrati e i loro sequestratori, rapporto non basato sull’odio e sul senso di ribellione, ma su una totale e quasi morbosa sudditanza delle vittime. La ‘sindrome di Vienna’ descritta da Liliana Cavani è tuttavia differente, attinge a sfere più profonde della psiche per confondere ogni ruolo e spiegare come dentro ognuno di noi ci sia una parte di vittima e una di carnefice, una tensione sadica e una tensione masochista che rispondono a uno stesso cuore e a uno stesso cervello, come gemelli siamesi che un semplice bisturi non può separare. Si può anche tentare l’operazione, ma è più facile che alla fine entrambi soccombano. Come accade fatalmente nel finale, livido, sul ponte.
Il film è calato in un’atmosfera irrealistica, in una città che ha i colori dell’aldilà, rarefatta, immersa in una zona franca spazio-temporale. Il cammino di Max e Lucia ha una sola via d’uscita e tutta la costruzione drammaturgica del film è tesa verso questa inevitabile ‘soluzione finale’, tra l’esplicito teatro psicoanalitico (le sedute effettuate dal ‘tribunale’ degli ex nazisti) e le esplosioni di autodistruzione e distruzione reciproca (in particolare nei flashback, tagliente arma narrativa che riporta lo spettatore agli eventi accaduti nel lager), in sequenze che sconvolsero il pubblico e seppero imporsi nell’immaginario degli anni 70 e oltre, fino a noi: basti pensare all’immagine di Charlotte Rampling, con il cappello della divisa nazista, il torso nudo e le bretelle a coprire-scoprire il seno, mentre canta per gli aguzzini.
Se la fonte d’ispirazione più diretta per il film resta probabilmente La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti, Il portiere di notte ha involontariamente generato un numero spropositato di film che nulla hanno a che fare con l’originale e con le intenzioni della regista.
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